Cari mamma e papa`,

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Carlo Greco, L’ESPERIENZA RELIGIOSA. Essenza, valore, verità (San Paolo 2004)
Prefazione
“La filosofia della religione è come un ellisse: essa si muove tra due fuochi – la filosofia e la
religione – e quanto più il suo pensiero si avvicina a uno dei due fuochi, tanto più dista dall’altro”
(Heschel).
La prima sezione dell’opera, con il metodo fenomenologico (MF), intende rilevare l’essenza della
religione mediante l’analisi delle sue oggettivazioni.
La seconda sezione indaga invece il valore della religione, presentando il panorama delle
ermeneutiche demistificatrici e instauratrici, dal quale emerge la forte dialettica tra
interpretazioni diverse.
Da qui scaturisce l’esigenza di interrogarsi sulla verità dell’esperienza religiosa (ER): è il
momento critico-veritativo della terza sezione. Si tratta accertare le condizioni di possibilità
antropologiche, epistemologiche e ontologiche dell’ER, senza ricadere nella pretesa razionalistica
della ragione oggettivante, né nell’autoreferenzialità fideistica. Per giungere a confermare la
fondatezza della verità ontologica dell’ER.
Introduzione (// cap. I dispense) - Lo statuto della filosofia della religione (FdR)
Il dibattito sullo statuto della FdR è ancora aperto, fin dalla sua nascita con Tractatus di Spinoza
(1670): è momento di una filosofia prima (Hegel) o solo filosofia seconda? Il suo oggetto è la
religione “naturale” o l’insieme delle religioni storiche positive?
Finché dominava la teologia filosofica, la FdR restava marginale. Ma dopo la critica kantiana alla
teologia razionale, la FdR riemerge, rinunciando a fondare l’oggetto divino e riducendo la religione
in senso antropologico.
Incisivo in tal senso fu il pensiero di Schleiermacher che afferma l’autonomia della R dalla
filosofia e dalla morale, identificandola con l’immediato sentire, sottraendola così alla riflessione
razionale. Per Schl. nell’atto religioso non si conosce Dio, bensì il sentimento di assoluta
dipendenza: la R è un mero fatto antropologico. Nel XIX e XX secolo molti esponenti della FdR
si concentrano dunque sulla coscienza e non sull’oggetto divino.
È una svolta che si afferma dopo la dissoluzione del sistema hegeliano, allorché la R stessa
“passa” alla filosofia, per lasciare poi spazio a critiche radicali: Marx, Nietzsche, Freud negano
l’oggetto religioso (il divino) e quindi affermano la falsità ontologica della R.
Ritenuta una semplice produzione dell’uomo, il riferimento al divino della R viene messo tra
parentesi. La reazione nel Novecento è venuta tramite un’ermeneutica recuperatrice del senso e
della verità dei simboli del divino (Scheler, Eliade, Ricoeur).
Il dibattito nasce dalla difficoltà di distinguere Teologia Filosofica (TF) e FdR qualora entrambe
assumano come oggetto la religione.
Una strada per distinguere TF e FdR sta nel ricondurre la prima al discorso su Dio esclusivamente
filosofico e interpretare la seconda come studio di un atteggiamento umano, cioè di un evento
soggettivo. Se così fosse, alla FdR verrebbe preclusa ogni via di accesso al divino.
È così necessario integrare le due prospettive, realizzando una TF che, muovendo come ogni FdR
dalla religione stessa, sia in grado di fondarne la verità, intendendo il re-ligare del finito con
l’infinito radicato non nella coscienza umana bensì sull’assoluto stesso. La R, in questo senso, non è
solo faccenda di uomini ma anzitutto azione di Dio. Senza una seria riflessione sull’oggetto della
religione (Dio), non si può rispondere alla critica di Feuerbach.
La TF condividerebbe dunque con la FdR l’oggetto e il punto di partenza, ma indagherebbe in senso
esclusivamente critico e razionale. La FdR, a sua volta, sarebbe invece pensiero filosofico che si
interroga sull’essere della realtà della religione. Intendendo la R come relazione dell’uomo con Dio
o con la sfera del divino. Anche nella FdR si dovrebbe dunque partire dall’iniziativa del divino e
parlare di Dio, senza limitarsi a indagine fenomenologica o ermeneutica antropologica, bensì
puntando a studiare la consistenza ontologica e veritativa dell’oggetto divino.
Una possibile aporia: se la FdR vuol essere filosofia in senso forte, dovrebbe restringere la R
nell’ambito della pura ragione, con ciò stesso eliminandola; se invece vuol salvare la R, sconfina
nell’irrazionale e nel fideismo.
Occorre trovare una via per riunire F e R, diverse e irriducibili tra loro.
Si può interpretare il fenomeno religioso a partire da un dato sistema filosofico (a) come fa Kant,
che riconduce la R alla sua concezione di ragione umana; oppure si può scegliere di partire dalla R
(b) intesa come realtà religiosa che si dà nell’esperienza e nella storia.
Il diverso punto di partenza conduce a esiti diversi:
- La filosofia intesa come religione (Spinoza, Kant, Hegel)
- La F separata nettamente dalla R (Kierkegaard, Barth)
- La R autonoma e indagabile fenomenologicamente (Schleiermacher, Otto, Scheler.
Oggi si è abbastanza concordi nel considerare la FdR come una filosofia seconda. Mentre il
metodo oscilla tra quello fenom-trascendentale e quello fenom-ermeneutico.
Si tratta di filosofia seconda perché l’oggetto “R” precede il pensiero su di essa. Quindi la FdR
assegna al genitivo “di” un valore oggettivo, salvaguardando la diversità e autonomia tra F e R.
L’oggetto della FdR non è immediatamente Dio, bensì la relazione dell’uomo con Dio. Tale
oggetto è un fatto storico, oggettivabile (simboli, miti, riti) in varie forme, e al tempo stesso ha una
dimensione soggettiva imprescindibile perché si tratta sempre di sacro-vissuto. Per cui la FdR parte
dalle manifestazioni storiche dell’ER per risalire poi alla coscienza.
D’altra parte, la FdR non può arrestarsi a una indagine antropologica ma deve rimandare oltre se
stessa, precisando se il suo oggetto siano le diverse religioni storiche o una religiosità astratta,
puntando piuttosto ad accertare ciò che è essenziale nell’esperienza universale del divino,
identificando una forma (eidos) o struttura essenziale dell’ER.
Il METODO passa attraverso tre momenti.
(1) Il momento fenomenologico ci riporta ai fatti stessi, raccogliendo in una unità intelligibile le
diverse manifestazioni del fenomeno religioso, senza pronunciarsi sulla validità di tali
rappresentazioni (simbolo, mito, rito).
(2) Il dato religioso esige di essere interpretato, scoprendone il valore e questo è il compito del
momento ermeneutico, con diverse opzioni: ermeneutiche demistificatrici, instauratrici immanenti
e instauratrici trascendenti.
(3) Il conflitto a livello ermeneutico tra diverse interpretazioni sollecita l’esigenza di esaminare la
verità della R nel momento critico-veritativo. Sia come verità antropologica (che utilità per
l’uomo?), sia come verità ontologica (esistono quel divino?). Senza voler sostituire l’evidenza
razionale alla certezza della coscienza, occorre poter mostrare che è sostenibile razionalmente
l’affermazione della esistenza dell’oggetto divino intenzionato dalla stessa coscienza, giungendo a
un giudizio di verità nel senso non di incontrovertibilità bensì di ragionevolezza.
I – IL MOMENTO FENOMENOLOGICO DELLA FILOSOFIA DELLA RELIGIONE
Lo scopo del MF è indagare la natura della religione e accertarne l’essenza, indagando la varietà
concreta delle forme di religione storicamente date per ricercare un nucleo essenziale a esse
comune.
La Fenomenologia è uno stile filosofico, un ritornare alle cose stesse, liberandole dai pregiudizi,
puntando al fenomeno auto-manifestantesi. L’oggetto è significativo per l’uomo in quanto colto
all’interno di una situazione esperienziale, di una relazione vissuta. È fenomeno proprio in quanto si
dà alla coscienza che lo intenziona. La coscienza è sempre coscienza “di qualcosa”.
Il MF opera tramite due momenti. Dapprima fa epoché, cioè mette tra parentesi quello che passa
per verità evidente per vedere con intuizione immediata il “dato” nella sua originarietà. Un lavoro
che mira a cogliere la “datità” del fenomeno, come una archeologia fenomenologica che ricerca le
radici delle diverse espressioni culturali.
Non è descrizione in senso banale, né interpretazione, bensì ricerca del senso delle cose.
La Fenomenologia è il luogo dialogico delle scienze umane e come fenomenologia della religione
nasce all’inizio del XX secolo come esigenza di recuperare una comprensione globale del fenomeno
religioso. Se è fenom. filosofica della religione, indaga maggiormente l’atto religioso; se invece si
pone come fenom. storica della religione, descrive e compara le diverse religioni storiche (Eliade,
Van der Leeuw). In entrambi i casi, la fenomenologia riconosce che il fenomeno religioso non è
separabile dai significati iscritti nella coscienza, in quanto essi costituiscono le modalità portanti
secondo le quali il mondo della vita religiosa appare.
I limiti del MF. Anzitutto esclude l’accertamento della verità ontologica del fenomeno religioso.
Problema che non può essere però rimosso.
Poi, se fare fenomenologia è parlare di ciò che si mostra, pare strano farlo con la religione, laddove
il divino resta nascosto per definizione. Diciamo che la fenomenologia deve scoprire la tracce della
trascendenza e lì arrestarsi, interrogativa.
Se il MF vuol andare oltre la mera descrizione, fino a cogliere l’essenza della R, questa va intesa
come esperienza religiosa. Ma a partire dalla molteplicità delle religioni storiche, cercando di
individuare una struttura essenziale (eidos) tipica di ciò che è autenticamente religioso. In un
percorso che correlerà l’oggetto divino all’homo religiosus che lo percepisce.
II – LA RELIGIONE COME ESPERIENZA
Esperienza è una forma particolare di conoscenza che scaturisce dall’incontro vivo e diretto con
qualcuno o qualcosa.
Non può ridursi a mera sensazione, né puro atto di ragione, né esclusivamente sentimento.
L’oggetto dell’esperienza è al concretezza del reale.
L’esperienza coinvolge l’intera persona, dilata il pensiero; la sua struttura comprende
discernimento (sono attendibili?), interpretazione (quale valore in questo contesto storicoculturale?), espressione (come il linguaggio la plasma per la comunità), memoria (si esprime per
essere conservata). L’esperienza offre il dato oggettivo, il soggetto percipiente e il rapporto con
l’altro (le cose, io, gli altri): dove si trova lo spazio del totalmente Altro?
L’ER è ambigua: quale esperienza di Dio, se Dio trascende l’esperienza?
La R è esperienza perché possiede rilevanza storica. Ma possiede caratteristiche sue proprie.
Anzitutto in quanto a oggettivazioni che, secondo Wach, sono essenzialmente tre: dottrina, culto,
comunità. Ma queste tre dipendono dal linguaggio che le comunica e le plasma, dunque il
linguaggio è la prima oggettivazione.
III – IL LINGUAGGIO DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
Il SIMBOLO è la prima oggettivazione dell’ER. Di simboli è intessuto il racconto del mito, come
pure i simboli costituiscono l’impalcatura del rito.
SYMBOLON è la tavoletta o il coccio frantumato che testimonia l’alleanza tra i (due) possessori
delle parti ricomponibili. Il simbolo attua dunque un evento d’incontro, una relazione. Non solo tra
uomini, ma tra l’uomo e il cosmo, con il Sacro, intrecciando relazioni non concettuali ma intuitive,
affettive.
Il simbolo è linguaggio con cui l’uomo “sente” prima di comprendere. Nasce dall’esperienza
vissuta, come pensiero semi-incarnato. Si lega all’esperienza vissuta ma indirizza immediatamente
all’ordine del senso.
La sua prima funzione è evocativa (indica l’ordine del senso); la seconda funzione è operativa o
performativa (trasforma, induce emozioni): prima dà da pensare, poi dà da fare. Originato
dall’esperienza, il simbolo genera a sua volta esperienza.
A differenza del segno, il simbolo rende presente la realtà significata. Ma non è una relazione
simbolica automatica, poiché il simbolo ri-vela.
Questo è tanto più vero per il simbolo religioso, poiché ciò che è simboleggiato resta sempre
“oltre”, per un’inesauribile alterità del divino.
Sorgente del simbolismo religioso è la IEROFANIA in cui qualcosa di sacro ci si mostra (Eliade). Il
sacro non si presenta mai in se stesso, ma sempre con la mediazione di qualcosa (oggetti, fenomeni
naturali, persone) di questo mondo. Per il cristiano, ierofania suprema di Dio è Gesù Cristo.
Eliade parla di tre elementi: oggetto naturale, realtà invisibile e trascendente, oggetto mediatore o
rivestito di sacralità. Quest’ultimo è il più importante: in esso il “tutt’altro” si incarna, mostrando
l’infinito nel finito.
Il simbolo religioso si costituisce secondo la via oggettivo-rivelativa (iniziativa del divino) o quella
soggettivo-comunicativa (per iniziativa umana) poiché l’uomo è pur sempre animal symbolicum.
Ma sono due facce della stessa medaglia, poiché il sacro prende l’iniziativa di manifestarsi e suscita
la risposta umana.
È il MITO che apporta ordine, significazione e struttura al mondo del simbolo religioso. Il simbolo
è l’esegesi del mito. Il mito si origina da un simbolo, ma diventa poi “pensiero della totalità”,
narrando una vicenda che si pone in un tempo delle origini, al di fuori del tempo storico, veicolando
un significato che è sentito prima che compreso.
È un elemento presente in tutte le religioni antiche e primitive.
Il RITO è risposta consapevole alla misteriosa azione del sacro. Il mito è al centro del rito, ne
costituisce la trama; il rito è un mito in azione. Se il mito è modello perfetto, il rito lo attualizza,
riconducendo il quotidiano al senso originario contenuto nel mito. Questo è il senso del calendario,
delle feste liturgiche, delle ricorrenze che esprimono in forma simbolica la corrispondenza
dell’umano e del divino, riproducendo l’agire potente del divino e riportando il tempo storico alla
dimensione delle origini (perfezione ciclica).
IV – L’OGGETTO DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
Si tratta del polo oggettivo della relazione religiosa. Che si esprime in due alternative: (a) l’Assoluto
personale e provvidente della fede monoteistica o (b) il “sé” anonimo e indifferenziato della
cosmobiologia.
A prescindere dal nome, il divino si rivela anzitutto come presenza, un diverso che sorprende; se ne
sperimenta la potenza, entro uno spazio vitale dotato di centro (villaggio, chiesa); una potenza
salvifica che dà ordine al tempo, nell’alternanza vita-morte-vita che si riflette nel ciclo lunare e
delle stagioni, in un succedersi che porta la morte a essere una tappa della vicenda divina, fino alla
resurrezione di Gesù.
Il divino è poi fondamento assoluto della realtà (alfa e omega).
È onnisciente: conosce non tanto “tutto”, quanto “tutte le azioni umane” e quindi giudica l’uomo.
È Padre, Signore e Creatore, come espresso in molti miti di creazione che, parlando del mondo,
parlano in realtà di Dio: essendo Creatore, è anche Signore universale (riti delle primizie), ma
legandosi all’uomo come Padre che detta norme di comportamento.
In ogni religione c’è o un dio etico o un dio cosmico, ma trascendenza e immanenza, dimensione
etica o cosmica, sono spesso intrecciate.
V – IL SOGGETTO DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
L’homo religiosus è colui (soggetto) che è stato toccato dalla sacra potenza (oggetto). Non è mera
passività ma libera accoglienza, intreccio di recettività e attività.
La dimensione è intima & comunitaria. Non c’è alcuna R che dia spazio all’individualismo. Il
senso e la pratica sono condivisi, tuttavia la risposta e la decisione sono individuali. Il
rappresentante – sacerdote o stregone – è solo la mano di cui si serve la potenza, tramite
dell’incontro col divino, ma egli stesso chiamato individualmente.
La prima dimensione di recettività è quella emozionale e affettiva: il sentimento di Otto, nella
tradizione luterana che vuole il divino non concettualizzabile. All’onnipotenza del divino fa
riscontro il sentire creaturale del soggetto (tu tutto, io nulla): il mysterium si rivela tremendum
(potente) et fascinans (attrae).
La gioia debordante si unisce al senso struggente della mancanza, in una coincidenza di opposti che
alimenta il senso della obbligazione morale. Non che la morale coincida con l’ER, ma dinanzi al
divino ci si sente chiamati a rispondere della propria condotta. Come conseguenza di una santità
ontologica percepita nel Mysterium.
La seconda dimensione è quella intellettivo-comunicativa: si cerca di discernere quanto
sperimentato, per esprimerlo e interpretarlo.
Infine, al terza dimensione è quella attivo-responsoriale: il soggetto reagisce nella preghiera, nel
culto, nella conversione come “nuova nascita”. Non è l’uomo che si converte, bensì Dio che lo
converte.
Si tratta di una trasformazione che investe la persona in modo totalizzante, per cui non si può
privilegiare un ambito di facoltà su un altro, senza ridurre l’ER che non è solo dell’intelletto, né
solo del sentimento. La relazione col divino è vissuta nel centro della persona, dove le diverse
facoltà umane si toccano. È un’esperienza di incontro unificante il soggetto, ma l’oggetto resta pur
sempre totalmente Altro. Determinando un sentimento creaturale nell’homo religiosus.
VI – LA RELAZIONE TRA SOGGETTO E OGGETTO NELL’ATTO RELIGIOSO
L’ER non resta chiusa nell’interiorità della persona, ma esige di manifestarsi all’esterno con atti e
movimenti espressivi. L’atto religioso è dunque l’atto fondamentale in cui l’uomo assume il divino
come reale e vi reagisce. Ogni azione o gesto, quindi, può essere “religioso”.
Ma è soprattutto nel culto che si esteriorizza il rapporto col divino: ci si inginocchia, si tendono le
braccia, si piega il capo… Nelle religioni primitive, ogni agire diventa cultuale.
La preghiera è l’atto religioso più immediato e universale in cui si esprime l’esperienza umana del
sacro. Pare originarsi nell’uomo, ma è risposta umana all’iniziativa divina.
Si hanno preghiera del silenzio (si ammutolisce dinanzi alla maestà divina), preghiera del
linguaggio (espressione di sé nel parlare con Dio) ed effusione del cuore, preghiera cultuale (parole
e gesti ritualizzati, in risposta al divino, dunque soprattutto dossologia).
Nella preghiera si invoca il “nome” di Dio che ne precisa attributi e identità.
Se nella preghiera individuale il singolo parla a Dio, nell’atto cultuale è tutta la comunità che a Lui
si relaziona.
Il sacrificio è meno frequente della preghiera ma più universalmente diffuso.
Widengren distingue sacrifici di ringraziamento, espiatori e di comunione, a seconda della
intenzionalità dominante. Chi sacrifica, sacrifica se stesso, in una dinamica di dono e relazione che
crea un vincolo indissolubile. Il sacrificio forma comunione perché è esso stesso comunione, col
divino e tra i partecipanti della comunità.
Secondo SCHELER, l’atto religioso si distingue da ogni altro atto perché (1) è irriducibile al
livello meramente psicologico: non è un evento psichico, ma è diretto a un oggetto altro; (2)
possiede una specifica logica che unifica differenti fenomeni elementari (sentimento, interesse,
giudizio) in una unità di intenzione (verso Dio); (3) esprime la trascendenza sul mondo come
totalità; (4) non dipende esclusivamente dalle situazioni esperienziali in cui sorge; (5) è aperto a una
risposta che non dipende dall’uomo (rivelazione).
VII – LE CARATTERISTICHE ESSENZIALI DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
Il divino è una presenza che trasforma e interpella, una potenza che salva. Il soggetto si pone invece
come intreccio di recettività e attività. L’ER appare profondamente recettiva e al tempo stesso
relazionale (benché asimmetrica).
VIII – LA PROBLEMATICA ERMENEUTICA DELLA RELIGIONE
La coerenza di senso dell’ER emersa con indagine fenomenologica esige ora di essere interpretata
nel suo valore. Non c’è simbolo che non richieda un lavoro di interpretazione critico e appassionato.
Se la fenomenologia rischiava di trascurare il problema della verità, l’ermeneutica rischia di partire
da un’auto-comprensione e di perdersi nel simbolo come “regione del senso duplice” (Ricoeur) in
cui si danno più letture possibili e alternative. Occorre dunque una interpretazione che sappia (1)
fare epoché di eventuali pre-comprensioni e (2) valutare la correttezza delle varianti di senso
proposte. Due le alternative: ermeneutiche demistificatrici ed instauratrici.
IX – L’ERMENEUTICA DEMISTIFICATRICE
La coscienza religiosa – secondo tale ermeneutica – è un’illusione inconsapevole oggettivamente
falsa: Dio non sarebbe che una proiezione umana e la R ricadrebbe interamente nell’orizzonte
antropologico. Duplice non verità: dell’oggetto (Dio) e del soggetto (alienato).
FEUERBACH è il padre dell’ateismo filosofico moderno. Intento umanistico: permettere all’uomo
di riappropriarsi della sua essenza (Essenza del cristianesimo, 1841), scoprendo che gli attributi di
Dio - amore, sapienza, libertà – sono in realtà qualità dell’umanità che il soggetto proietta fuori di
sé. La religione è dunque coscienza non del divino ma dell’Umano, cioè dell’umanità come genere.
Il motivo della alienazione sta nella (mancata) distinzione tra individuo e specie. Per cui la teologia
è un’antropologia capovolta.
L’uomo non è consapevole di questo illusorio processo di coscienza. Ma la R ha anche una valenza
positiva: è la prima forma di coscienza che l’uomo ha della propria natura. È l’infanzia dell’umanità
(// Comte). Non più “Dio è amore”, bensì: “L’amore è dio”.
Contraddizione dell’argomento: l’essenza generica che oscilla tra individuo e specie pare fondarsi
su uno slittamento dal piano logico a quello ontologico.
Tre le dinamiche di alienazione religiosa: (1) proiezione delle qualità della specie umana in Dio; (2)
attribuzione ai fenomeni naturali inspiegabili la natura di “dèi”; (3) proiezione dei desideri infiniti
del cuore dell’uomo.
MARX critica gradualmente la religione: prima come impostura, poi come alienazione sociale ed
economica, infine come ideologia. Fa sua la teoria di Feuerbach, ma non ritiene l’alienazione un
processo di coscienza, bensì il prodotto della storia economica.
La R è oppio del popolo perché lo mantiene nella disuguaglianza prospettando un’uguaglianza
illusoria dinanzi a Dio (adesso) e in paradiso (domani). Invece l’uomo deve essere liberato da
questa menzogna per poter agire liberamente nella storia.
L’uomo sperimenta una quadruplice alienazione sociale (rispetto a: prodotto, essenza, lavoro, altri).
Per porvi rimedio bisogna (1) affermare l’ateismo e (2) sopprimere la proprietà privata. Il
comunismo, instaurando una società senza classi, permetterà una uguaglianza tale da rendere
superflua la religione. Che come sovrastruttura dipende dalla struttura che la produce: abbattuto il
capitalismo, anche la religione verrà meno.
Critica: l’alienazione economica potrebbe altrettanto bene causare secolarizzazione (XX secolo, in
Occidente) e la stessa religione potrebbe essere una presa di coscienza contro l’alienazione.
NIETZSCHE riconduce la nascita della religione all’incapacità dell’uomo debole di accettare il
mondo per quello che è, rifugiandosi nell’iperuranio platonico o nel paradiso cristiano. Il debole
considera il mondo concreto come illusorio e lo condanna (nichilismo malato), rifugiandosi in una
patria celeste illusoria. Per tale dinamica, N. giudica la religione come malattia, frutto della paura
umana per le passioni dell’uomo stesso.
Ma se si vuol davvero condannare la menzogna, bisogna cominciare con lo smascherarne il
fondamento che è la menzogna stessa di Dio. La morte di Dio (Gaia Scienza, 1882) prelude al
crollo di tutti i valori tradizionali e alla loro trasvalutazione (nichilismo sano, completo e attivo) e
all’arrivo del Superuomo che, con estrema volontà di potenza, recupererà i valori originari della
terra.
FREUD intende la religione come forma di nevrosi collettiva. È una malattia psichica dannosa e da
curarsi. Divieti e impedimenti sorgerebbero dalla rimozione inconscia della pulsione e dal suo
essere trasfigurata nella “azione sacra”. Si compiono sacrifici e rinunce dal valore religioso per
posporre quei desideri che sarebbero socialmente sconvenienti.
In “Totem e tabù” (1912), Freud colloca l’origine della religione nella rimozione di un fatto
traumatico: l’assassinio del padre da parte degli uomini del clan, irritati dalla paterna tirannia
sessuale. Per liberarsi dal senso di colpa, hanno poi sublimato l’immagine paterna nella figura del
totem; la cerimonia del pasto totemico (mangiano l’animale sacrificato) è atto con cui ognuno si
identifica col padre idealizzato e magnificato.
In “L’avvenire di un’illusione” (1927) la religione è bollata come illusoria, alla pari di ogni
credenza motivata dalla realizzazione di un desiderio. Le credenze religiose non sono dimostrabili e
costituiscono forme infantili di supporto e di comprensione.
Limite: la figura del padre – tiranno, senza alcuna possibilità di dialogo – pare arbitraria ed
equivoca. Il padre ha anche funzione positiva. Come molte religioni stanno analogamente a
sostenere.
Merito dei maestri del sospetto è aver smascherato gli idoli e alcuni moventi “troppo umani” del
credere. Ma il limite è aver ridotto l’ER al campo antropologico, eliminando arbitrariamente la
trascendenza. Però l’indagine fenomenologica ha mostrato che l’ER non è originata dall’uomo ma
da un Altro. Come pure che il senso del peccato è conseguente alla relazione col divino. Che non
svilisce ma anzi esalta l’uomo cui si rapporta (benché in asimmetria).
X – L’ERMENEUTICA INSTAURATRICE IN CHIAVE DI IMMANENZA
Non si considera la R a priori coma falsa o illusoria, ma se ne valuta esclusivamente la funzione o
utilità psicologica e sociale.
Il funzionalismo antropologico (Malinowski) e l’antropologia sociale (Evans-Pritchard)
intendono la religione come insieme di risposte di secondo grado ai bisogni della vita.
Per l’approccio sociologico, la R permette l’adattamento dell’uomo agli aspetti aleatori e frustranti
dell’esistenza. Prospettiva accentuata dalla “religione invisibile” di Luckmann.
L’approccio psicologico consta di tre correnti: introspezionista, psicopatologica, psicologicosociale. Merito di tale orizzonte è valutare la religione (non è illusione né menzogna) ma assumendo
un “ateismo” metodologico, cioè decidendo a priori di non dar credito alla fede. Fino al paradosso
per cui solo chi è ateo sarebbe in grado di capire veramente la religione.
XI – PER UN’ERMENEUTICA INSTAURATRICE IN CHIAVE DI TRASCENDENZA
È necessario che l’ermeneutica possieda una volontà di ascolto, facendo valere nel processo
interpretativo un atteggiamento di epoché ed empatia, mirando a restaurare il senso dell’ER.
RICOEUR rilegge Marx, Nietzsche e Freud come maestri del sospetto. La coscienza non è
sorgente. Il simbolo è luogo di incontro tra archeologia e teleologia, regressione e progressione.
Un’ermeneutica dei simboli deve saper percorrere entrambe le direzioni: verso l’arché e verso il
télos.
Il simbolo religioso non offre un sapere assoluto, ma promette una tensione escatologica. Annuncia
una pienezza di senso che non è prodotta dal soggetto ma gli è donata come novità assoluta. Per cui
tra archeologia del soggetto (Freud) e teleologia della coscienza (Hegel), si giunge a un’ER che
interpella il soggetto storico essendo oltre/altro rispetto alla storia.
PAREYSON indica nel mito la via per riappropriarsi di quel senso che, dinanzi al problema del
male, sfugge drammaticamente alla filosofia come concettualizzazione propria della ragione.
Occorre dunque un pensiero ermeneutico che interroghi incessantemente il mito, come possesso
della verità nell’unico modo in cui si lascia catturare, vale a dire il nascondimento rivelativo.
Il simbolo rivela dunque la trascendenza, ma altresì la sua ineffabilità.
Compito ermeneutico della filosofia è dunque una riflessione sulla ER che operi in essa ed emerga
da essa.
LEVINAS pensa al rapporto uomo-Dio come una relazione capace di salvaguardare rapporto e
alterità. Non bisogna scadere nell’appiattimento né nell’idolatria della trascendenza. Si tratta di una
relazione non concettuale ma etica, un’alterità libera, un desiderio metafisico di bene.
Il merito di un simile approccio è l’atteggiamento “comprendente” nei confronti del fenomeno
religioso, una sim-patia che non si riduce però a immedesimazione. Si ammettono diverse
interpretazioni, ma proprio questo ventaglio di possibilità rende ineludibile la domanda sulla verità
ontologica della religione: esiste dunque un criterio per individuare la migliore delle ermeneutiche?
XII – IL PASSAGGIO AL MOMENTO CRITICO-VERITATIVO.
La distinzione metodologica nei momenti fenomenologico ed ermeneutico non significa
separazione ma sviluppo.
Se il MF fa emergere l’esperienza religiosa come portatrice di un logos essenziale per l’uomo (il
simbolo e i suoi derivati), esso però non si pronuncia sull’esistenza in sé dell’oggetto divino (Dio).
È una sorta di autolimitazione legata al metodo stesso imperniato sulla scelta dell’epoché e sulla
ricerca della “datità” pura.
Superata l’epoché del MF, si entra nell’interpretazione del ME, che però ha portato a una
molteplicità conflittuale di interpretazioni, divise proprio sull’esistenza o meno dell’oggetto.
Da qui l’esigenza di un momento critico-veritativo che indaghi la verità ontologica della
religione, poiché l’ER è per se stessa relazione costitutiva con la verità.
Per evitare di cadere nelle pretese razionalistiche della ragione oggettivante o nell’autoreferenzialità
del fideismo, bisogna precisare il procedimento filosofico di questo terzo momento.
Poiché l’ER è l’offerta di un senso ultimo della realtà che coinvolge la totalità della persona, essa si
colloca a livello di certezza soterica (coscienza) ma non epistemica (ragione critica). La ragione
filosofica non può accoglierne a priori la fondatezza né pretendere di sostituire le proprie
argomentazioni all’evidenza della coscienza religiosa, bensì deve mostrare che la verità che essa
indica è giustificabile razionalmente, esplicitandone le condizioni di possibilità e di pensabilità. Si
tratta di verificare la fondatezza delle persuasioni intellettuali legate all’ER, individuando delle
ragioni che, benché non incontrovertibili a motivo dello stesso statuto della conoscenza del
trascendente (oggetto di fede, non di dimostrazione), siano però serie e fondate. È quanto si fa nei
tre successivi capitoli.
XIII – IL PRESUPPOSTO ANTROPOLOGICO DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
La diffusione universale dell’ER porta a chiedersi se non sia data nell’uomo in quanto tale una
disposizione antropologica quale condizione di possibilità del fenomeno religioso.
SCHLEIERMACHER è convinto che la religione faccia parte dell’essenza dell’umano: sebbene si
attui in una esperienza vissuta, le sue condizioni a priori di possibilità stanno nel sentimento di
assoluta dipendenza. Nei rapporti con mondo/natura/società l’uomo sperimenta la mancanza di una
libertà assoluta come pure di una dipendenza assoluta. Invece, nell’incontro col divino, l’uomo
sperimenta una dipendenza assoluta che precede ogni funzione di coscienza e che rinvia all’origine
(woher) del nostro esserci.
Il sentimento di assoluta dipendenza esprime la nostra radicale creaturalità, per cui l’ER si radica
nella struttura originaria dell’autocoscienza umana.
Il rischio è però ridurre l’ER all’orizzonte della coscienza umana, perdendo di vista il rapporto con
il fondamento veritativo “Altro”.
R. OTTO e la fenomenologia della religione affermano egualmente la predisposizione dell’uomo
all’ER, opponendosi alla critica positivista dell’Ottocento. Nel numinoso abbiamo dunque a che
fare con un momento conoscitivo puramente “a priori”: senz’altro sono necessarie esperienze
esteriori, ma che da esse emerga il sentimento del numinoso dipende da una disposizione
categoriale dell’anima umana.
Si tratta di un apriori di natura emozionale che si lega all’ER vissuta e si esprime come sentimento
creaturale di dipendenza assoluta in relazione al Mysterium tremendum et fascinans.
Anche ELIADE afferma che il sacro “non è uno stadio della storia della coscienza, è un elemento
nella struttura di tale coscienza”.
Il rischio di queste letture è di non riuscire a tenere ben distinti il numinoso trascendente che si
imporrebbe dal di fuori della coscienza e l’affermazione dell’ER come apriori strutturale della
coscienza umana. SCHELER cerca di intervenire su questo punto, affermando che la religione
appartiene originariamente allo spirito umano, in quanto gli atti religiosi sono gli atti più immediati
e profondi della persona: l’uomo è per essenza “teomorfo”, orientato costitutivamente verso Dio.
Ma solo un essere reale con il carattere essenziale del divino – afferma Scheler – può essere
l’origine dell’inclinazione religiosa dell’uomo.
Ma ridurre l’ER all’originale predisposizione religiosa dell’uomo significherebbe non poter
obiettare a Feuerbach che essa sia l’unica causa dell’ER.
Occorre andare oltre. E rilevare una problematica di natura ontologica: il contrasto tra la finitezza
dell’ER e l’assoluto di cui essa è portatrice. Contrasto dal quale deriva che l’ER non può esser solo
una disposizione contingente della trascendenza umana, bensì forma che ne attualizza la struttura
essenziale. Esiste insomma una predisposizione antropologica previa alla manifestazione del sacro e
questa è costitutiva dell’uomo stesso: “L’uomo non ha una religione, piuttosto è una religione”
(Zubiri). Il rapporto dell’uomo con il suo fondamento trascendente si chiama creaturalità ed è
sperimentato nell’evento stesso della manifestazione del divino.
Il presupposto ontologico di ogni rivelazione è l’ontologica “religazione” dell’uomo al proprio
fondamento trascendente. Non si tratta di individuare il volto di Dio così come ce lo danno le
religioni positive, ma almeno di aprirsi al divino come realtà fondante la propria esistenza. Solo
nell’incontro storico col divino l’uomo diventa anche consapevole di esser costituito come partner
della relazione col divino.
XIV – LA CONOSCENZA DEL DIVINO NELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
La manifestazione del divino è dunque sorgente dell’ER. Mentre nella realtà delle cose del mondo,
queste si conoscono meglio quanto più si impara a prenderne distanza, l’esperienza (conoscenza) di
Dio avviene quanto più si perde distanza, cioè ci si abbandona alla potenza del trascendente che,
come tale, non può esser ridotto a oggetto di pensiero.
Si tratta di una ER fondata sulla mutua compenetrazione, pur in condizione di asimmetria, che
suscita un triplice indice percettivo: la percezione della sua infinita differenza qualitativa, del suo
sommo valore e della sua santità. L’uomo prende coscienza della propria differenza da Dio. Si tratta
di una differenza non psicologica, bensì ontologico-esistenziale, espressa a livello simbolico.
La rivelazione, iniziativa del divino, in quanto relazione con l’uomo deve poter essere percepita e
riconosciuta dall’uomo stesso, come percezione finita delle tracce dell’infinito.
La conoscenza del divino in sé si presenta come aporia: come si può accogliere la rivelazione di
Dio infinito, senza ridurla al piano finito di ogni altra conoscenza umana?
Già Husserl afferma che il fenomeno è semplicemente ciò che si dà alla coscienza. Ora, ogni
fenomeno religioso, in quanto si sa alla coscienza, possiede la realtà di fenomeno (ciò che appare, è
in quanto si dà). Fenomenalità non significa oggettività: tanta parvenza, tanto essere. Per cui
Heidegger giunge ad indicare il fenomeno come “ciò che si mostra da sé”, affermando (“Essere e
tempo”) che anche l’invisibile può essere considerato un fenomeno autentico, purché mostri se
stesso a partire da se stesso.
La rivelazione divina può così entrare nell’ambito della fenomenalità (Marion) ma il ricettore della
rivelazione non conserva alcuna misura comune con quella che la rivelazione gli comunica: le
condizioni fenomenologiche della manifestazione – la riduzione all’io – sembrano contraddire la
libera possibilità della rivelazione (il trascendente non è riducibile all’io).
Marion risolve l’aporia parlando del fenomeno come donazione. Se tutto ciò che si mostra, si dona,
è vero però che non tutto si dona allo stesso modo. Il “fenomeno saturato” – che si dona senza
ridursi all’io – per quanto paradossale, non è l’eccezione ai fenomeni bensì il loro archetipo. Esso è
paradigma della fenomenicità e si esprime in quattro casi (l’avvenimento storico, la carne, l’idolo,
l’icona) che si riassumono nella rivelazione. Il compito di individuare il donatore che si cela dietro
al dono spetta poi alla teologia rivelata.
La rivelazione diviene dunque dono senza reciprocità. A meno di andare oltre questo limite
metodologico (epoché fenomenologica): la donazione in sé rappresenta già una forma di
trascendenza rispetto alla coscienza intenzionante. Ma la trascendenza fenomenologica
presuppone quella ontologica (se il fenomeno sorprende la coscienza, quasi la precede, è perché ci
deve essere una origine autonoma di esso, cioè un Trascendente che si rivela in modo trascendente
alla coscienza).
La conoscenza del divino in una fenomenologia dell’invisibile apre all’orizzonte simbolico: gli
indizi dell’invisibile non sono infatti che simboli, mediazioni ierofaniche di cui occorre indagare il
valore conoscitivo.
Il simbolo deve portare a intuire qualcosa che supera l’intuizione. Questo è possibile a seconda di
come si intenda la funzione mediatrice del simbolo.
Se il simbolo ha referenza puramente metaforica e rimanda ad altro da sé, esso è in realtà SEGNO
(come un segnale stradale). Oppure, lo si può intendere come SEGNO indicatore di altro da sé in
funzione di una illuminazione divina che dà compimento alla struttura intenzionale dello spirito.
In entrambi i casi, resta un dualismo tra il simbolo (segno) e la realtà significata. A meno di
intendere il simbolo come tale, come medium che non solo rinvia ma porta in sé la realtà divina
che ri-vela (mostra e cela). Con una apparente contraddizione: la materia pare ostacolo alla
mediazione della realtà simboleggiata, eppure questa dialettica tra fisicità e trascendenza va
mantenuta (Pareyson). Accanto alla dialettica, vi è un momento positivo: il medium è occasione di
incontro, poiché senza simboli il divino non si rivela.
Per quanto detto sopra, il simbolo religioso possiede certamente una sua valenza conoscitiva, non
tanto sul versante intellettivo quanto su quello relazionale: stimola a stabilire una relazione col
sacro. Il simbolo mostra così di possedere una capacità noetica che è diversa dall’analogia
(derivante dal concetto e di cui non possiede la potenza epistemica; “Dio è buono”) sia dalla
metafora che deriva dall’immagine. La sua valenza conoscitiva è invece ANA-FORICA: la sua
energia proiettiva si incontra e coniuga con l’intenzionalità rivelativa del sacro. È un circolo
ermeneutico: solo attraverso i simboli è dischiusa la conoscenza della realtà simboleggiata e d’altra
parte solo alla luce di quest’ultima gli stessi simboli sono percepiti come tali.
Poiché il simbolo è reale (reale simbolico, diverso dal reale materiale, in quanto attraverso la
materia rimanda ad altro da sé che pure in sé è presente), la relazione simbolica appartiene alle
relazioni ontologiche, che cioè hanno il loro fondamento nell’oggetto e non in una operazione del
soggetto: è l’oggetto stesso che annuncia e rende presente il divino trascendente. Come Scheler
osserva, l’origine degli atti religiosi è il loro stesso oggetto (il divino): quanto si conosce su Dio, lo
si sa necessariamente per mezzo di Dio stesso.
La connessione tra atto religioso e fondamento divino non è di tipo deduttivo ma intuitivo, come
il rapporto tra un’opera d’arte e il suo autore. La ragione filosofica, esplicitando la valenza
ontologica degli atti religiosi, può perciò concludere legittimamente all’esistenza del loro
fondamento trascendente.
La caratteristica della conoscenza simbolico-religiosa sta nella capacità di aprire a un’alterità che in
nessun modo può esser contenuta nell’orizzonte dell’umana comprensione. È questa la modalità
conoscitiva più adeguata per salvaguardare trascendente alterità del divino e sua immanenza
rivelativa. Se la conoscenza simbolica apre a tale alterità (per via intuitiva e non deduttiva), allora
essa possiede una valenza conoscitiva fondata. La conoscenza simbolica è reale.
XV – IL FONDAMENTO TRASCENDENTE DELL’ESPERIENZA RELIGIOSA
La critica dell’ermeneutica mistificatrice si fonda sull’indicare la realtà del divino come dipendente
dalla coscienza religiosa che lo pone. A essa non si può rispondere con la sola ermeneutica
instauratrice, poiché la categoria del “totalmente altro” è pur sempre correlata al finito di cui si fa
esperienza e Dio può, ancora una volta, rivelarsi solo una proiezione umana.
Solo nell’ER si danno le condizioni per salvaguardare la realtà del divino, in quanto in essa il
trascendente si manifesta prima di ogni riflessione critica e dunque a prescindere dalle operazioni
del soggetto. La totale alterità e trascendenza del divino, una volta sperimentate, possono essere
predicate senza apparire un prodotto delle nostre mani.
Ma prima occorre accertare in modo critico la possibilità ontologica della sua apparizione
nell’immanenza del mondo dell’uomo. Pare infatti che il divino non possa esserci presente come
tale, salvo ridursi a realtà finita accanto alle altre. L’infinito, per mostrarsi nel contesto della
finitezza, deve iscriversi nelle condizioni della finitezza. Ma in tal modo non è più infinito e Altro.
Com’è cioè possibile che il totalmente Altro si riveli nella finitezza (del mondo umano) senza
perdere nell’immanenza alterità e trascendenza?
Occorre precisare che la trascendenza non va intesa come impossibilità di relazione, bensì come
modalità di relazione mantenendo la distinzione.
D’altra parte, il sacro non può che relazionarsi manifestandosi in modo mediato o finito,
diversamente si ridurrebbe esso stesso a finito.
Se il divino si manifesta all’uomo, rivelandosi, lo fa sul presupposto di una relazione ontologica
tra i due termini della relazione, per cui la rivelazione è continuazione della creazione. Così si
evitano le contraddizioni del dualismo (Dio chiuso in se stesso, e inaccessibile all’uomo, si
opporrebbe a un altro “chiuso in se stesso” che ne minerebbe l’assolutezza) e del panteismo (se Dio
è immanente, l’uomo non è più autonomo dal divino, perdendosi così la possibilità di una autentica
relazione).
La soluzione sta nel pensare l’assoluto come essere in sé autodifferenziato e relazionale.
Se Dio si manifesta già eternamente a un altro da sé (il Padre al Figlio), esso può comunicare se
stesso anche a un altro radicalmente diverso da se stesso (uomo). Una manifestazione-rivelazione
che si pone come liberamente-necessaria, in quanto contestualizzata nella contingenza del tempo e
rivolta a un destinatario finito.
Nel divino si salvaguardano così distinzione e relazione (Creatore e creatura).
Heschel: “Anche se non sappiamo che cosa egli è, sappiamo però dove egli è. Nessuna lingua è in
grado di descrivere la sua essenza, ma ogni anima può partecipare alla sua presenza e sentire
l’angoscia della sua terribile assenza”.
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