INTRODUZIONE AL CORSO DI FILOSOFIA della RELIGIONE Se è vero – come scrive Nicola Abbagnano nella prefazione alla prima edizione (1946) della sua famosissima Storia della filosofia – che “nulla di ciò che è umano è estraneo alla filosofia e che anzi questa è l’uomo stesso che si fa problema a se stesso e cerca le ragioni e il fondamento dell’essere che è suo”, è allora inevitabile che il pensiero filosofico, nel corso del suo plurimillenario cammino, si sia occupato costantemente di un’esperienza così profondamente radicata nella psiche e nella vita dell’uomo quale è quella del sacro. Ma che cosa s’intende precisamente per fdr? Quale è il suo statuto epistemologico? Quale il suo oggetto e il suo metodo? Prima di inoltrarci nella risposta a queste domande (che, ovviamente, noi riteniamo assolutamente sensate) facciamo un cenno alla posizione radicale di quanti ritengono la fdr un non senso. Se la religione è priva di qualsiasi valore oggettivo o addirittura è frutto dell’ignoranza, della superstizione, della paura o di altri bassi ed inconfessabili istinti primordiali, allora non si capisce perché di essa ci si debba occupare in termini conoscitivi. Una religione che è impostura/alienazione/ideologia può interessare caso mai la sociologia, la psicologia, la storia o la scienza politica, ma non certo la filosofia che si deve occupare della verità e delle condizioni per ricercarla. Al limite la filosofia può porsi nei confronti della religione soltanto in modo critico, per dichiararla falsa, infondata, illusoria. Di questa critica della religione che attraversa l’intera storia del pensiero occidentale, dall’età greca al mondo d’oggi, ci occuperemo subito all’inizio del corso, prima di passare alla parte fondativa (che ne costituisce il centro), che invece riguarda il tentativo compiuto dalla filosofia per cercare una fondazione razionale dell’esperienza religiosa dell’uomo. Accettiamo perciò come punto di partenza l’idea che l’esperienza religiosa sia un’esperienza valida ed importante, addirittura vera e positiva, della vita umana, di cui la ragione deve perciò necessariamente occuparsi, per interpretarla, per ricercarne il significato, per scandagliarne la dimensione razionale e per rapportarla organicamente al complesso della conoscenza umana. La fdr è allora – come dice il Dumery (1957) – “l’insieme delle riflessioni del filosofo in quanto filosofo sul dato religioso”. Essa quindi – come scrive la prof.ssa Francesca Brezzi (in Filosofia e filosofia di, a cura di E. Agazzi, La Scuola Brescia, 1992, p.125) – “succede alla religione già costituita, si trova di fronte il dato religioso e vuole essere un’indagine sul sacro o divino, rilevamento delle condizioni di possibilità di esso o dell’esperienza religiosa; da qui la differenza con altre discipline, 1 come la teologia naturale, che dimostra l’esistenza di Dio, o la teologia riflessiva, che vive all’interno del vissuto religioso”. Dicendo che l’oggetto della fdr è il dato religioso, la religione, apriamo un’altra serie di problemi collegati alla domanda: che cos’è la religione? Intanto c’è incertezza sulla stessa origine etimologica della parola (religio). Secondo alcuni essa va ricondotta al verbo relegere nel senso di raccogliere ordinatamente il complesso delle narrazioni, delle credenze , dei culti e delle norme etiche che esprimono, nelle varie epoche della storia umana, il rapporto dell’individuo e della società con il mondo divino. E’ in sostanza quanto afferma Cicerone (De natura deorum, n° 28): “considerare diligentemente le cose che concernono il culto degli dei”. Altri, sulla scorta dell’autore cristiano Lattanzio (Divinae istitutiones, IV, 28), che fa invece derivare il termine dal verbo religare per esprimere “il vincolo di pietà che ci unisce a Dio”, sottolineano il legame forte ed obbligante che, appunto attraverso l’esperienza religiosa, stringe l’uomo al divino e unisce la terra al cielo. Altri ancora – seppure in modo minoritario – fanno riferimento al verbo relegare che significa separare, allontanare. Il dato religioso assumerebbe così il senso del mistero, della separatezza e della inaccessibilità delle cose divine rispetto al mondo dell’uomo. Naturalmente non è problematico essere d’accordo sulla definizione generale che si può trovare in un qualsiasi dizionario. Per esempio, nella Enciclopedia Garzanti di filosofia si definisce la religione come “il complesso di credenze e atti di culto che esprime il rapporto dell’uomo con il sacro e con la divinità”. Ma quando si entra nello specifico e si affronta il quid della religione il discorso cambia completamente e bisogna prendere atto che è impossibile partire da una definizione aprioristicamente stabilita e condivisa e che ogni autore, secondo la propria pre-comprensione , ha la propria visione e definizione. Ad esempio: per Kant la religione si identifica con la morale, per Hegel con la filosofia, per Herder, Schelling e Schiller con l’esperienza estetica, per Schleiermacher con l’intuizione e il sentimento dell’infinito… Rimane comunque il fatto che l’esperienza religiosa riguarda la percezione di un mistero, di un assoluto, di un a priori divino, vissuto dentro la condizione umana, sperimentato nella concretezza dell’esistenza individuale e sociale, e di conseguenza soggetto ai condizionamenti propri dell’antropologia (storicità, linguaggio, psicologia, inclinazioni individuali, status sociale ecc.). Infine la questione del metodo. Anche qui è di casa il pluralismo, e non si può dire che esista un metodo univoco e legittimo per affrontare filosoficamente la questione religiosa. Deduzione razionale o induzione positiva, fenomenologia descrittiva o analisi trascendentale, ermeneutica del significato o indagine critica delle manifestazioni storiche della religione: ciascuno di questi approcci ha una sua validità e fornisce un contributo positivo alla conoscenza dell’esperienza religiosa, senza tuttavia poter 2 sciogliere fino in fondo il nodo segreto della religione, che rimane sempre da scoprire e da analizzare. Anche perché si deve tener conto degli indispensabili contributi delle altre scienze, in particolare di quelle umane (sociologia, psicologia, antropologia, storia, scienza politica, ecc.), che sono tuttora in grande evoluzione e guadagnano sempre più spazi e territori all’interno del conoscere umano. Va comunque sottolineata la particolare e feconda efficacia di due atteggiamenti metodologici contemporanei: a) la fenomenologia; b) l’ermeneutica. La fenomenologia, grazie soprattutto all’apporto specifico di autori come Rudolf Otto o Max Scheler, ha dimostrato che l’esperienza religiosa non è riconducibile ad alcuna delle categorie proprie delle scienze empiriche positive (psicologia, sociologia, storia, diritto, ecc.) e neppure a una forma logica o ad un imperativo etico della coscienza, ma è qualcosa di originario, appreso intuitivamente dalla nostra coscienza e vissuto come un dato interiore autentico. Per conoscere tale dato è necessario allora lasciargli tutto lo spazio necessario per un pieno e libero disvelamento, rimuovendo però tutto ciò che può ostacolare tale rivelazione: sovrastrutture, interpretazioni, precomprensioni, travisamenti… L’ermeneutica, grazie all’apporto di autori come Hans Gadamer, Paul Ricoeur ed il nostro Italo Mancini , riafferma il primato del dato religioso, così come ne ha detto la fenomenologia, ma ne approfondisce la connotazione linguistica insistendo sulla necessità della re-interpretazione del significato profondo che la rivelazione divina ha affidato all’esperienza umana. 3