L’uomo nell’infinito: Bruno (da Le Ragioni della Filosofia – Ed. Le Monnier) La vita e le opere Giordano Bruno nacque nel 1548 a Noia, in Campania, e venne battezzato con il nome di Filippo. Nel 1562 si trasferì a Napoli per continuare gli studi: qui seguì dapprima lezioni private di dialettica e di logica, quindi, nel 1565, entrò come novizio nel convento domenicano di San Domenico Maggiore, assumendo il nome di Giordano. Ordinato sacerdote nel 1572 e licenziato in teologia nel 1575, assunse presto atteggiamenti ribelli e posizioni difficilmente conciliabili con l’ortodossia cattolica, che portarono all’apertura di un procedimento disciplinare nel 1575 e quindi alla fuga a Roma l’anno successivo. Abbandonato l’abito domenicano, Bruno cominciò così una vita errabonda attraverso l’Europa, che durò fino alla morte, alla continua ricerca di una sistemazione che gli consentisse di proseguire liberamente i suoi studi e, allo stesso tempo, di trovare un ambiente capace di accogliere il messaggio di rinnovamento di cui si sentiva portatore. Dopo essersi fermato in nume£ rose città dell’Italia settentrionale, nel maggio 1578 giunse a Ginevra, dove entrò ben presto in attrito con le locali autorità calviniste. Si recò a Tolosa e nel 1581 giunse a Parigi, dove riuscì a interessare alla sua arte della memoria il re Enrico III e a ottenere l’incarico di «lettore reale», ovvero di docente stipendiato dal re. Nel 1582 Bruno dedicò proprio al re il De umbris idearum («Le ombre delle idee»). Nell’aprile 1583 lasciò Parigi per l’Inghilterra, al seguito dell’ambasciatore francese Michel de Castelnau. Nei primi mesi del soggiorno inglese fu impegnato nel tentativo di affermarsi nell’ambiente accademico di Oxford. Le sue lezioni non incontrarono però il successo sperato, anzi suscitarono la violenta reazione dell’ambiente universitario, che giunse ad accusarlo di plagio. In Inghilterrà pubblicò la Cena de le Ceneri, il primo dialogo in italiano, nel 1584. A questo stesso periodo inglese appartengono anche gli al tri grandi dialoghi filosofici scritti in italiano, di argomento cosmologico-teologico (oltre alla Cena, il De l’infinito universo e mondi), ontologico (De la causa, principio et uno), politico-religioso (Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo Pegaseo), antropologico-gnoseologico (De gli eroici furori). Tornato a Parigi nell’ottobre 1585, Bruno fu costretto ben presto a lasciare la città in seguito a un suo violento attacco pubblico contro gli aristòtelici. Scelse allora di raggiungere la Germania: visse prima a Marburg, quindi a Wittenberg, dove insegnò per due anni, dal 1587 al 1583. Costretto a lasciare anche questa città per l’egemonia qui esercitata dai calvinisti, si rifugiò a Praga, presso la corte di Rodolfo 11, poi a Helmstädt, dove nel1589 lo colpì la scomunica anche da parte della Chiesa luterana. In questo periodo Bruno si impegnò nella composizione di una serie di trattati di argomento magico, destinati a rimanere inediti fino alla fine dell’Ottocento. Nel 1591, mentre era a Francoforte per stampare i suoi notevoli poemi latini di ispirazione lucreziana — De triplici minimo et mensura («I tre tipi dì minimo e la misura»), De monade, numero et figura («La monade, il numero e la figura»), De immenso et innumerabilibus («l’immenso e gli innumerabili») — venne raggiunto dall’invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che desiderava apprendere da lui i segreti dell’arte della memoria. Convinto che Venezia, per la sua lunga tradizione tolleranza, potesse garantire la sicurezza anche di un pensatore come lui, così lontano dall’ortodossia, Bruno accettò di tornare in Italia. A partire dall’agosto-settembre 1591 visse per qualche mese tra Venezia e Padova e dall’aprile del 1592 si trasferì a Palazzo Mocenigo: ma il giovane patrizio, deluso dall’insegnamento mnemotecnico di Bruno, e insieme turbato dal contenuto eterodosso delle sue idee, lo denunciò all’Inquisizione. Il processo, che vide Bruno imputato di eresia, fu lungo, complesso e articolato in due principali fasi: quella veneta e quella romana. Nel corso del processo veneto Bruno da un lato sottolineò e difese la portata essenzialmente filosofica del suo insegnamento; dall’altra, si dichiarò disposto ad ammettere i suoi eventuali errori di carattere teologico e dottrinale. Ottenuta l’avocazione del processo da parte dell’Inquisizione romana, nel febbraio 1593 Bruno venne trasferito a Roma e rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio, dove passò i suoi ultimi anni di vita. Nel gennaio 1599, su istanza del cardinale Roberto Bellarmino, gli vennero sottoposte otto proposizioni eretiche, perché egli le abiurasse. Bruno, mantenendo la linea di autodifesa adottata a Venezia, si dichiarò disposto alla confessione. Tuttavia, continuò a formulare una serie di distinguo sulle proposizioni incriminate, finché il tribunale, irrigidendosi, gli intimò di riconoscere i suoi errori entro quaranta giorni. Il 21 dicembre 1599 Bruno, evidentemente non disponibile a rinnegare aspetti fondamentali del suo pensiero, abbandonò ogni ricerca di compromesso e rifiutò di ritrattare. Condannato come eretico «impenitente» e «pertinace», venne arso vivo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Nel 1891 sono stati editi per la prima volta un gruppo di scritti, composti e rielaborati durante la permanenza in Germania tra il 1587 e il 1591, indicati come ‘trattati magici’: De magia mathemaiica («La magia matematica»), De magia naturali («La magia naturale»), Theses de magia («Articoli sulla magia»), De vinculis in genere («I vincoli in generale»), De rerum principiis et elementts et causis («I principi, gli elementi e le cause delle cose»), Medicina Lulliana partim ex mathematicis partim ex physicis principiis educta ( «Medicina Lulliana, tratta in parte da principi matematici, in parte da principi fisici»), Lampas triginta statuarum («La lampada delle trenta statue»). Ruolo personale di Bruno nel processo di riforma culturale e civile Il programma di Bruno non solo investe tutti i campi della riflessione filosofica, ma propone una riforma complessiva del sapere e della vita civile. Inoltre, si tratta di una prospettiva filosofica segnata da una forte componente personale, autobiografica: teorico di una concezione vicissitudinale (per la nozione di «vicissitudìne» vedi sotto, p. 51) del sapere, ossia di una visione ciclica della storia della conoscenza umana, al cui interno la verità è periodicamente soggetta a una lunga fase di oblio, dalla quale viene fatta rinascere grazie all’opera dei filosofi, Bruno pensa se stesso come il messaggero di una nuova età di giustizia e di pienezza, destinato dagli dèi a illuminare gli altri uomini, riportando in luce le dottrine dell’«antiqua vera filosofia», occultata e dimenticata soprattutto a opera di Aristotele e dei suoi interpreti e seguaci. Importanza e modernità di Bruno La personalità filosofica di Giordano Brnno, così come la sua drammatica vicenda biografica, è notevolmente complessa. Nella storia della filosofia del Rinascimento, egli si caratterizza per una serie di posizioni di dirompente novità sul piano metafisico come su quello cosmologico, etico e religioso. La modernità di Bruno nasce, da un lato, dalla densità di una posizione filosofica profondamente radicata nel suo tempo, come dimostrano le importanti suggestioni che egli recupera dalle dottrine di Ficino e Cusano; dall’altro, da un confronto serrato e assai consapevole con la tradizione filosofica classica: i presocratici, Platone e il neoplatonismo, ma anche Aristotele, la tradizione peripatetica e Tommaso d’Aquino. 1. La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi I dialoghi italiani Autore di numerose e importanti opere latine, a Londra, in due anni di lavoro intensissimo, Bruno pubblica fra 1584 e 1585 i suoi dialoghi italiani, che costituiscono un vero e proprio concentrato delle sue posizioni filosofiche più qualificanti. Questi sei dialoghi vengono tradizionalmente distinti in due gruppi, in base ai temi affrontati: dialoghi cosmologici e dialoghi morali. I «dialoghi cosmologici»: innovazione cosmologica e ontologica I cosiddetti «dialoghi cosmologici» — la Cena de le Ceneri, il De l’infinito universo e mondi, il De la causa, principio e! uno — sono tutti pubblicati nel 1584. Questi testi presentano — in una prospettiva fortemente critica sia dell’aristotelismo dominante che degli ambienti accademici inglesi, pervasi dalla rigidità, dal letteralismo, ossia dall’interpretazione letterale della Scrittura, e dalla diffidenza per 1 le novità dei professori puritani (seguaci dell’ala più radicale del protestantesimo inglese) — una cosmologia e una ontologia profondamente innovative e, insieme, decisamente eversive sia sul piano fisico che su quello metafisico. La piena adesione al copernicanesimo eliocentrico Nella Cena de le Ceneri, Bruno prende apertamente posizione a favore del sistema cosmologico eliocentrico presentato dall’astronomo polacco Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium («Le rivoluzioni — ossia i moti attorno a un centro gravitazionale — dei corpi celesti»), pubblicato nel 1543. Difendendo con energia tale dottrina dalle interpretazioni in chiave probabilistica (vedi Unità 2, p. 72 ss.), Bruno afferma la verità fisica e cosmologica dell’elio-centrismo. Copernico come segno della rinascita della verità Agli occhi di Bruno, peraltro, Copernico non è un matematico come tanti, ma un momento importante della rinascita della verità dopo secoli di tenebre. Riproponendo e rinnovando l’antichissima concezione del moto della Terra — ormai disprezzata o addirittura dimenticata —‘ egli ha infatti aperto la strada alla liberazione dell’umanità dall’ignoranza e dall’impostura. Per definire il suo rapporto con Copernico, Bruno fa ricorso alla metafora del giorno: sotto questo profilo, l’astronomo rappresenta l’aurora, mentre Bruno incarna il sole della verità che torna nuovamente a illuminare gli uomini. Il limite di Copernico: mancanza di prospettiva filosofica Tuttavia, accanto a questo merito, Bruno riconosce anche il limite fondamentale di Copernico: egli ha svolto un discorso più «matematico» che «naturale», si èmosso da astronomo, non da filosofo. Rimanendo prigioniero delle osservazioni e dei calcoli, ma privo di prospettiva filosofica, non è riuscito a produrre, oltre che una nuova cosmologia, anche una nuova filosofia, che gli consentisse di «profondare», di calarsi in profondità dentro la struttura del mondo naturale. Bruno abolisce l’immagine di un universo chiuso Bruno si assume il compito di portare alle estreme conseguenze la ‘scoperta’ di Copernico, oltrepassando ampiamente la sua prospettiva per sviluppare il modello eliocentrico in chiave infinitistica. Se nel De revolutionibus l’universo —finito e limitato dal cielo delle stelle fisse — mantiene come suo centro fisso e immobile il Sole, intorno al quale ruotano le orbite circolari dei pianeti, Bruno non si limita a sostituire alla posizione della Terra la nuova centralità del Sole, ma abolisce l’immagine di un universo chiuso e dissolve la nozione di centro assoluto Un universo attualmente infinito Infrangendo una tradizione secolare, egli afferma infatti che l’universo è attualmente (cioè, di fatto) infinito; in quanto infinito, è privo di centro e di circonferenza, ed è costituito da infiniti mondi, da infiniti sistemi solari. Esistono innumerevoli soli e innumerevoli terre, che girano loro intorno, mosse da un principio vitale interiore, da un’anima, ricevendone luce e calore. Abolizione della distinzione tra sfera celeste e sfera terrestre Soli, terre, mondi non si distinguono dal punto di vista della sostanza che li costituisce, che è unica e identica per tutte le cose. Si dissolve così un altro principio della cosmologia aristotelico-tolemaica: l’idea di una gerarchia del mondo naturale, suddiviso in una regione celeste incorruttibile e in una terrestre, dove si svolgono i processi di generazione e corruzione. Facendo coincidere materia del mondo sublunare e materia del mondo celeste, Bruno mostra l’inconsistenza della scala naturale, che, secondo i peripatetici, ordina tutti gli enti secondo gradi maggiori o minori di perfezione Un universo privo di distinzioni gerarchiche Intrecciando adesione al copernicanesimo, motivi di ispirazione cusaniana ed -elementi lucreziani, Bruno delinea così un modello di universo privo di distirì zioni gerarchiche, infinito in estensione, composto da infiniti mondi di identica -natura e tutti abitati da innumerevoli individui. La Terra, da centro dell’universo, si trasforma in uno degli infiniti mondi sparsi nel cosmo; l’uomo, concepito no a quel momento come apice del creato, viene immesso nell’infinità, perdendo ogni primato e ogni centralitàL’uomo nell’infinito Alla proporzione, similitudine, unione et identità de l’infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo: per che a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica, e però nell’infinito queste cose sono indifferenti; e quello che dico di queste, intendo di tutte l’altre cose di sussistenza particulare. (G. Bruno, De la causa, principio et uno) Profondamente convinto della radicale novità del suo pensiero, Bruno celebra la sua scoperta dell’infinito con toni accesi ed entusiasti, senza temere di istituire addirittura un paragone fra la sua ‘rivelazione’ e quella di Cristo. La rivelazione dell’universo finito Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime, et altre che vi s’avesser potute aggiongere sfere per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari. Cossì al cospetto d’ogni senso et raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura: ha donati gli occhi a le talpe, 2 illuminati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno. Sciolta la lingua a muti, che non sapeano et non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti; risaldati i zoppi che non volean far quel progresso col spirto, che non può far l’ignobile e dissolubile composto: le rende non men presenti, che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna et altri nomati astri. G.Bruno, Cena de le Ceneri L’universo infinito come immagine e manifestazione dell’infinità divina Nella Cena la polemica di Bruno si indirizza prevalentemente contro le premesse filosofiche del geocentrismo e le rigidità e le contraddizioni presenti nella fisica e nella cosmologia peripatetica. Diversamente, nel De l’infinito egli — come farà poi nel poema filosofico latino De immenso e! innumerabilibus, pubblicato nel 1591 —sostiene la sua concezione dell’infinito anche sulla base di un argomento di natura metafisica e teologica. L’universo infinito è effetto, manifestazione e immagine di Dio, ed è legato a lui da un rapporto di specularità: negare l’infinità comporterebbe quindi negare anche l’infinità della sua causa divina, con il risultato —inaccettabile — di porre un limite all’onnipotenza e alla perfezione stessa di Dio. 2. L’ontologia: materia, anima, vicissitudine La definizione della sostanza dell’universo Nella Cena e nel De l’infinito il problema di determinare la sostanza che costituisce l’universo e dalla quale hanno origine gli individui e i mondi innumerevoli rimane sullo sfondo. Per illustrare i fondamenti ontologici che sono alla base della sua cosmologia, Bruno scrive il De la causa, principio e! uno, il più denso, complesso e difficile dei dialoghi italiani. Qui il filosofo affronta in modo specifico la questione di quale sia il fondamento della vita di tutti gli enti, di quale sia la sostanza prima e universale Una duplice strategia definitoria E lo fa seguendo una duplice strategia: 1) in primo luogo, lascia sfumare il problema tradizionale di Dio e della causa prima — estranei all’orizzonte speculativo dell’uomo —, per prendere invece in esame i caratteri dell’universo, interpretato come «ombra», ritratto, explicatio (in senso cusaniano)della divinità 2) in secondo luogo, questa analisi si sviluppa attraverso un confronto serrato con la tradizione, soprattutto aristotelica, facendo ricorso a termini come «materia» e «forma», «potenza» e «atto», «principio» e «causa», «sostanza» e «accidente», ma modificandone in profondità il significato, fino a trasfigurarlo La materia come energia e vita . Se la tradizione filosofica aveva concordemente identificato la materia con la potenza pura e ‘nuda’, fondamento inerte e privo di qualsiasi caratterizzazione, quel che interessa a Bruno è ripensare in termini nuovi questo concetto, trasformando la -materia da prope nihil, «quasi nulla», a principio inesauribile di energia e di vita. La critica dell’ontologia aristotelica Questo significa, inevitabilmente, istituire una polemica frontale in primo luogo con l’ontologia di Aristotele. Secondo Bruno, Aristotele è colpevole di aver infranto la visione unitaria e vitale dell’essere propria dei filosofi presocratici e soprattutto di Parmenide, sovrapponendo ad essa, per spiegare la natura, un astratto apparato di categorie logiche, che hanno avuto il risultato di far perdere di vista l’unità fondamentale della sostanza. Aristotele e i suoi interpreti medievali non sono riusciti a pensare la sostanza come ente unico ed eterno, sfondo immobile e im-mutabile di ogni movimento e cambiamento, ma l’hanno identificata nei singoli individui, attribuendole quindi una dimensione inevitabilmente dissolubile e corruttibile, e perdendo di vista la fonte unica da cui scaturisce la vita universale. La materia come principio attivo,infinito, eterno e universale A fondamento di tutti gli infiniti enti — i mondi, le specie, gli individui — di cui l’universo è costituito, Bruno pone al contrario una sostanza unica, che è il principio del dinamismo della vita naturale. Questa sostanza è una materia infinita, eterna, universale, una materia che è infinita energia formatrice, perché possiede in sé la vita. A differenza di quanto pensava Aristotele, che individuava nella materia il substrato passivo e meramente potenziale cui solo le forme sostanziali possono attribuire atto, virtù e perfezione, per Bruno la materia è principio attivo. La materia come madre Le forme non trascendono, ma sono immanenti alla materia, che le produce continuamente dal suo grembo. Questo è possibile, perché il principio materiale è compenetrato dall’anima del mondo e possiede quindi in sé anche il principio formale. Possiamo dire che la materia è priva di forma — scrive Bruno nel De la causa, principio et uno — solo nello stesso sènso in cui diciamo che una donna incinta è priva di prole, nel senso che non l’ha ancora partorita, ma la possiede già in sé: «[la materia] la dico privata de le forme e senza quelle, non come il ghiaccio e senza calore, il profondo è privato 3 di luce: ma come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé; e come in questo emispero la terra la notte è senza luce, la quale con il suo scuotersi è potente di racquistare.» Coincidenza di materia e forma Nella sostanza bruniana, dunque, forma e materia coincidono. Ma non basta, perché in essa coincidono anche atto e potenza, principio e causa. Ripensando in profondità il concetto di materia e sottraendolo — grazie alla ripresa di motivi tratti da Plotino — a una connotazione puramente corporea, Bruno individua infatti una materia unica che si pone come fondamento sia del mondo intelligibile che del mondo sensibile, mettendo in comunicazione piani diversi dell’essere. Il rapporto tra Dio e l’universo In quanto si identifica con la vita infinita che percorre l’universo, questa sostanza finisce per diventare «uno essere divino nelle cose», coincidendo, in ultima analisi, con Dio, anche se Dio mantiene un margine di trascendenza rispetto ad essa (vedi sotto, p. 51). Dall’infinito, scrive Bruno, «sempre nova copia di materia sottonasce». La potenza infinita della vita universale si produce infatti secondo un ritmo infinito, inesauribile, dominato dalla tensione fra contrari, dando continuamente origine a nuovi enti. Ed è sullo sfondo di questa materia che si stagliano le varie configurazioni e le infinite sort dei composti, dei singoli enti. Gli enti accidentali come espressione temporanea dell’unico essere. Il movimento, il cambiamento non incide sulla inalterabilità e immobilità della sostanza, ma coinvolge l’ente solo nei suoi aspetti accidentali, in quello che Bruno definisce il suo «volto». Gli individui che continuamente scaturiscono dalla sostanza sono soltanto forme accidentali della sua apparizione, realtà del tutto contingenti, espressioni temporanee, transitorie e corruttibili di questo unico essere. Una volta compiuto il proprio ciclo vitale, queste momentanee aggregazioni di parti si dissolvono, tornando nuovamente nella sostanza universale. Un universo in continuo mutamento A Bruno risultano, così, estranei sia il concetto di creazione che quelli di nascita e morte, a cui sostituisce quello di cambiamento, o meglio, di «mutazione». Il suo è un universo dominato dal tempo, dove non si dà nulla di perpetuo e stabile, ma tutto è in movimento. Questo movimento — va ribadito — investe solo gli accidenti e consente il continuo trasformarsi delle cose — il modificarsi del «volto» —, lasciando inalterata la sostanza. Per questo Bruno accoglie la tesi di Salomone, «che dice non esser cosa nova sotto il sole: ma quel che è, fu già prima». La «vicissitudine» come legge della natura Su questo principio si fonda il concetto — fondamentale nella filosofia bruniana —di «vicissitudine». La vicissitudine è il principio che, all’interno della natura infinita, governa il movimento delle singole nature finite, sottoponendole a un continuo processo di mutazione e metamorfosi, di generazione e dissoluzione. La vicissitudine è la legge più generale e più profonda della natura. Le manifestazioni della «vicissitudine» Essa è riscontrabile ovunque: nelle vicende della Terra e degli altri astri come nell’esistenza dell’uomo, sia sul piano individuale che su quello collettivo e storico. In quanto legge naturale e provvidenza divina, essa è lo strumento attraverso il quale l’universo raggiunge infine la sua perfezione: «la quale è che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale esistenza: nel quale fine tanto si deletta e si compiace l’intelletto [l’anima del mondo], che mai si stanca suscitando tutte sorte di forme da la materia». In effetti, se l’universo è necessariamente infinito in quanto explicatio della potenza e bontà coimplicate nell’unità di Dio, questo dispiegarsi non si dà solo sul piano spaziale, ma fa sì che in ogni parte dell’universo infinito diventino attuali, per quanto possibile, tutte le forme. Necessità e inesauribilità del mutamento Tuttavia, dato che la presenza di una forma esclude la simultanea presenza di altre, la materia può accettarle solo successivamente, sostituendo la forma precedente con una nuova. E questo processo che spiega la mutazione vicissitudinale del tutto: il succedersi delle forme al suo interno testimonia il desiderio inesausto della materia di farsi tutto e diventare tutto, per uguagliare l’infinità di Dio. Immanenza e trascendenza di Dio Pur partecipando dei suoi attributi, l’universo non coincide infatti del tutto con Dio, che rispetto all’universo mantiene un complesso rapporto di immanenza e trascendenza, collocandosi contemporaneamente dentro e fuori di esso. Questa attualizzazione di tutto in tutto attraverso la vicissitudine esclude però la dimensione della ripetitività, il riproporsi degli stessi cicli: nell’infinito tutto si trasforma, in un movimento senza fine, ma niente torna mai uguale. L’uomo come ente uguale agli altri, sola natura Da qui la consapevolezza della transitorietà di ogni composizione, compreso l’uomo, che per Bruno è — non diversamente da tutti gli altri esseri — accidente finito tra infiniti accidenti finiti. La materia e l’anima che lo costituiscono sono le stesse di tutti gli altri esseri viventi, degli animali e perfino «delle cose stimate senz’anima». Ente fra gli enti, egli non possiede né uno statuto, né una dignità particolare. Bruno riduce l’uomo a sola natura, immergendo totalmente la sua esistenza nel flusso della 4 vicissitudine ed eliminando ogni prospettiva di carattere trascendente. In tal modo, l’unione con la divinità è raggiungibile dall’uomo solo come contemplazione della natura infinita. 3. L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore Nuovi valori etici L’etica di Bruno, come abbiamo appena visto, è strettamente connessa al tema dell’infinito. Se la fondazione di un universo senza limiti e gerarchie dissolve radicalmente tutti i presupposti tradizionali, compresi quelli che definivano il ruolo, la dignità e la moralità dell’uomo, al tempo stesso pone le premesse per una riconfigurazione e per un rinnovamento dei valori. Questi temi trovano espressione nei cosiddetti «dialoghi morali»: lo Spaccio de la bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegaseo e De gli eroici furori. Caratteri e virtù per il rinnovamento morale Lo Spaccio — costruito come il resoconto di un concilio degli dèi convocato da Giove per liberare il cielo dalle «bestie», cioè dai vizi — illustra i caratteri e le virtù che devono essere posti a base del rinnovamento morale, religioso e civile cui sono ormai chiamati gli uomini. Valorizzando concetti quali la Verità, la Sofia («Sapienza»), la Legge, e le virtù che sono a fondamento della convivenza umana, quali la Prudenza, la Fatica, la Sollecitudine, lo Studio, l’Industria, la Filantropia, la Magnanimità, Bruno sottolinea che l’uomo — pur sottoposto, come tutti gli altri enti, al ciclo infinito della vicissitudine — può tuttavia lasciare un segno della sua presenza nel mondo. E può farlo, grazie a un uso laborioso e consapevole degli organi che lo caratterizzano: l’intelletto e la mano. L’operosità dell’uomo L’operosità consente all’uomo di farsi «dio de la terra», affiancandosi in certo modo a Dio nella trasformazione della natura. Se l’eccellenza dell’uomo scaturisce dalla sinergia fra azione e contemplazione, l’ozio e la passività ne costituiscono al contrario i vizi più gravi, e tali da assimilarlo a una condizione ferina. Questi sono i vizi che devono essere allontanati dal mondo, se è vero che la stessa legge divina guarda in primo luogo ai frutti delle azioni degli uomini La metempsicosi e il giudizio sulle azioni Per Bruno — che rielabora nello Spaccio la dottrina pitagorica della metempsicosi (trasmigrazione delle anime)- il castigo di chi, vivendo oziosamente, ha rinnegato e mortificato la propria umanità è quello di vedersi imprigionato, nella successiva incarnazione, in un corpo inferiore e bestiale. In questo modo, il divenire della realtà, la vicissitudine delle infinite trasformazioni cui dà luogo l’esplicarsi 5 della sostanza si configura anche come espressione di una provvidenza divina, trasformandosi da ciclo cieco e casuale a opera di giustizia, volta a ricompensare o punire ciascuno per quanto ha meritato nel corso dell’esistenza. Il rifiuto della dottrina luterana della giustificazione Ogni tentativo di svincolare la giustizia dalla responsabilità e dal merito umano è destinato a produrre frutti perversi, come è accaduto con Lutero, che ha voluto ignorare i comportamenti dei singoli per proclamare l’uguaglianza uniforme di tutti gli uomini nel peccato. Ed è proprio a partire dal concetto di giustizia che Bruno nello Spaccio attacca con grande durezza la dottrina luterana della salvezza per sola fede, mettendone in discussione sia il valore teologico che la portata etica, e affermando con forza che «le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna». Lutero, presentando una religione che riconduce premi e punizioni ultraterrene al dono gratuito e casuale della grazia, ha infatti predicato una morale dell’ozio e dell’attesa passiva della salvezza divina, che è antitetica al ruolo proprio dell’uomo. Civiltà egizia come culla della vera giustizia Mostrando le radici teologiche e religiose della decadenza universale già denunciata, Bruno afferma dunque che la «vecchiaia» del mondo si è determinata quando la predicazione di Lutero ha affermato che non può esistere rapporto tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini. Al contrario, nella civiltà dell’Egitto, reinterpretata anche sulla base dell’ermetismo, Bruno individua l’epoca della «giovinezza» del mondo, una stagione positiva e prospera della civiltà. Armonia tra Dio, uomo e natura Allora non regnava la falsa giustizia di Lutero, ma la giustizia vera, quella che nasce dalla corrispondenza e dalla concordia fra Dio, natura e uomo. Così, nell’ultima parte dello Spaccio, Bruno celebra le arti magiche dei sacerdoti egizi, i quali, da profondi conoscitori delle forze che agiscono nel mondo naturale, avevano elaborato un raffinato cerimoniale magico per comunicare con gli dèi. Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani […] vedo come que’ sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi familiari e domestici gli dèi che per voci che mandavano da le statue gli donavano consegli, dottrine, divinazioni et instituzioni sopraumane: onde con magici e divini riti per la medesima scala di natura salevano a l’alto della divinità, per la quale la divinità descende sino alle cose minime per la comunicazione di se stessa. Ma quel che mi par da deplorare, è che veggio alcuni insensati e stolti idolatri li quali, non più che l’ombra s’avicina alla nobilità del corpo, imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte et inanimate. Da lo Spaccio de la bestia trionfante La critica radicale del cristianesimo Ma Bruno nella Cabala del cavallo Pegaseo — una delle sue opere più radicali —si spinge ancora oltre. Sottoponendo il cristianesimo a una critica e a una dissoluzione totale, egli afferma che la decadenza luterana non è che il frutto inevitabile dei germi di corruzione contenuti già all’origine nella predicazione di Cristo e di Paolo, tesa ad esaltare come valori assoluti la passività e l’ignoranza, creando così una società intimamente malata. Su questo punto si consuma anche il ram porto di Bruno con Erasmo: diversamente da quest’ultimo, Bruno non attribuisce al ritorno alle origini cristiane alcuna possibilità di rigenerazione e di riscatto. Il cristianesimo è fin dall’inizio una cattiva religione e un’etica della decadenza, perché non invita i propri fedeli all’amore per la conoscenza e a compiere imprese utili per il benessere della comunità civile, ma impone loro la disciplina ‘asinina’ della rassegnazione, dell’ascolto, dell’attesa della beatitudine ultraterrena. Una possibilità per l’uomo di raggiungere l’unità con l’essere infinito Se nello Spaccio vengono tracciate le linee-guida di una necessaria riforma dell’umanità, e oggetto privilegiato di riflessione è l’agire etico-civile, negli Eroici furori, l’ultima opera pubblicata da Bruno a Londra, l’eccellenza dell’uomo che, pur muovendo dalla sua insuperabile condizione di «accidente finito», riesce a entrare in contatto con la verità infinita, è esaltata in un’altra prospettiva. Il discorso si sposta ora sul piano esistenziale, per illustrare l’esperienza interiore attraverso la quale l’individuo può oltrepassare l’amore naturale — radicato nella bellezza ingannevole dei corpi — per protendersi verso l’oggetto supremo della conoscenza intellettuale: la bellezza divina, l’unità dell’essere infinito. «Furore eroico» come esperienza intellettuale Sul problema del rapporto tra finito e infinito Bruno si interroga fin dagli anni trascorsi a Napoli in convento e già da allora, aderendo a posizioni teologiche anti-trinitarie, dimostra con chiarezza di non credere alla possibilità che finito e infinito possano entrare in relazione attraverso la figura mediatrice di Cristo. Intorno a questo problema cruciale continua però a interrogarsi in modo costante sia1 nelle opere latine che in quelle volgari, mantenendo fermo un punto, che per lui è irrinunciabile: la distanza incommensurabile tra finito e infinito non può essere colmata attraverso un ‘salto’ di tipo mistico. E anche il «furore eroico» è tutt’altro che un’esperienza irrazionale: anzi, potenzia in massimo grado le facoltà propriamente umane — in primo luogo, l’intelletto e la volontà. 6 «Furore» come affinamento interiore Questi furori de quali noi raggioniamo [...] non sono oblio, ma una memoria; non sono negligenze dì se stesso, ma amori e brame del bello e del buono con cui sì procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un rapta mento sotto le leggi d’un fato indegno [...]: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce, a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. (G Bruno De gli eroici furori) Impossibilità per l’uomo di cogliere Dio L’itinerario del «furioso», per le difficoltà di cui è costellato, non può essere porta to a termine da tutti, ma è un processo di affinamento interiore assai raro e impervio. E questo perché il «furioso», dal punto di vista dell’ontologia bruniana, tentai davvero l’impossibile: lo sforzo di arrivare a contemplare l’unità del reale implica infatti il tentativo di sottrarsi a ogni ordine e necessità della natura, fino al punto da incrinare, insieme, il ritmo della realtà e l’unità strutturale della sua persona. Ma c’è un altro motivo che spiega perché Bruno insista con tanta forza sui limiti che comunque circoscrivono la vicenda del «furioso»: l’uomo non può arrivare, in nessun modo, a cogliere direttamente l’unità superessenziale, a ‘vedere’ e’ a comprendere Dio. Come è impossibile che Dio si possa incarnare, così è altrettanto impossibile che la sostanza corruttibile del «furioso» riesca a identificarsi perfettamente nell’immutabile sostanza divina. La visione dell’unità del reale E tuttavia il «furioso» consegue infine un risultato straordinario: al termine de li suo percorso, egli, pur senza poter penetrare la verità assoluta, Dio, riesce a vedere di fronte a sé — proiettandosi per un brevissimo istante oltre la sua natura —tutta la realtà concentrata e risolta in unità, al di là di ogni successiva distinzione. Non vede, certo, la luce prima e assoluta, ma la sua «genitura», la sua «immagine», la sua «monade», che è la natura. E tuttavia, pur rimanendo creatura finita e «cosa dell’universo», si misura in qualche modo con l’infinito ponendosi dal punto di vista dell’intero universo. 4. La religione: dalla «nuova filosofia» alla riforma del mondo Le false promesse di salvezza del cristianesimo Negli ultimi anni, la critica ha molto lavorato sulla polemica anticristiana di Bruno, insistendo soprattutto sulla nettezza e la durezza del suo giudizio verso il sistema di valori filosofici ed etico-civili incarnati storicamente dal cristianesimo, con le sue false promesse di salvezza fondate sul rovesciamento del corretto rapporto Dio-natura-uomo. Il cristianesimo costituisce infatti il consapevole fraintendimento di quella comunione con la divinità che l’uomo può attingere solo attraverso il «vivo simulacro» di Dio: il mondo naturale, l’universo infinito. Cristo, cosciente di tutto questo, ha corrotto e stravolto in mera superstizione i tratti dell’antico linguaggio magico, cancellando di fatto la consapevolezza della legge naturale propria in passato dell’umanità, e ponendosi come unico intermediario fra uomo e Dio. I ‘trattati magici’ e il progetto di riforma politica Bruno è fermamente convinto che una società non possa vivere senza religione e senza legge: ma non è nel cristianesimo che è possibile individuare il fondamento del «ben vivere» civile. È in un’altra direzione che bisogna cercare: nel rapporto organico tra conoscenza del mondo naturale, operazioni magiche e «civile conversazione». E negli ultimi scritti del filosofo — quei trattati di carattere magico pubblicati soltanto alla fine dell’Ottocento — viene presentata una figura di mago come depositario di un sapere efficace e fecondo, anche sul piano politico. «Buona magia» e rinascita dell’umanità La magia correttamente compresa e applicata insegna infatti ad aprirsi all’altro, a rispecchiarsi in lui, per individuare, nel confronto degli affetti e delle passioni, gli elementi di continuità che consentono di mettere in comunicazione individui diversi, indirizzandoli alla reciprocità e alla vita comune. Questa «buona magia» costituisce, secondo Bruno, un possibile antidoto alla decadenza, uno strumento concreto e potente per riannodare i fili fra Dio e uomo spezzati dal cristianesimo, riformando l’umanità e guidandola fuori dalla crisi del «secolo infelice». Riforma religiosa oltre che politica La riforma cui guarda Bruno in questi anni contempla anche l’idea di un vinco- lo di carattere religioso, nel quale possano riconoscersi e coesistere tutte le confessioni cristiane, attraverso una riduzione, drastica fino a dissolverli nella semplice idea filosofica di Dio, dei principi della fede; ma che, di fatto, non può coincidere con nessuna confessione particolare, e nemmeno con quella cristianocattolica. Il nuovo modello etico-politico individuato da Bruno è fondato piuttosto sul primato della pace e del bene pubblico, sul consenso, sulla reciprocità del rapporto governante-governato; ed è direttamente contrapposto sia all’esperienza luterana che a quella controriformistica, entrambe radicate nel principio della forza come espressione di potere e pratica di governo. 7 8