CARLO MOLLINO A OCCHIO NUDO L’OPERA FOTOGRAFICA 1934 -1973 IL MESSAGGIO “Chiunque non sia un bruto, cioè abbia coscienza e dignità di essere umano, il più povero essere umano che non abbia rinnegato la propria individualità, sentirà questo bisogno: di essere cioè «incantato» e incantare”. Un po’ semplificando, questo sembra essere il ‘motore’ ultimo dell’opera di Mollino. Semplificando... perché risaltare ‘l’incanto’ rischia di mettere in ombra il lato ‘tecnico’ del suo lavoro, si tratti di tecnica sciistica, tecnica delle costruzioni, tecnica fotografica, Mollino dimostra di essere professionista competente. Semplificando… perché è luogo comune associare all’incanto uno stato di vaghezza da sogno. Niente di più distante dall’attitudine di Mollino, uomo colto e soprattutto ben informato, capace di collocare lucidamente le proprie azioni in un contesto storico, e ben determinato ad influire su questo contesto. Se l’intento è quello di incantare, con piacevolezza leggiamo e guardiamo le sue imprese, perché Mollino non ha niente da insegnare, nessuna politica da difendere. Piuttosto è interessato ad aprire un mondo di possibilità, un mondo pauroso per chi si aspetta verità solidificate. Non a caso due qualità sostanziali – e molto moderne – del suo operare sono il ‘movimento’ e l’eclettismo. Ritroviamo il movimento nel dinamismo delle forme dei suoi mobili e della sua architettura, anche lo spazio dei suoi interni è progettato per il mutamento, come una casa giapponese dotata di quinte scorrevoli. Altro risvolto del movimento è la versatilità della sua biografia che lo ha portato a cambiare sempre, ad occuparsi di una quantità di attività diverse, alimentate da una curiosità tecnica che lo ha spinto, ad esempio, tra i primissimi a far uso della Polaroid accantonando Leica e Rolleiflex. L’eclettismo che Mollino teorizza non ha nulla a che vedere con quello esteriormente sincretistico dell’Ottocento bensì prevede l’inevitabilità – per via dei media e della facilità dei trasporti – della conoscenza e della considerazione di altre culture oltre alla nostra, e la formazione di un’idea non più mitica ma scientificamente precisa della storia. “Tutto è permesso” è il suo celebre motto, foggiato per la prima volta proprio a proposito di fotografia. Tutto è permesso fatta salva l’onestà e la fantasia, è l’irrinunciabile postilla al suo operare. Per introdursi al mondo molliniano, Il Messaggio dalla Camera Oscura è lettura imprescindibile. Il volume è progettato da Mollino nel 1942, scritto nel 1943 e stampato nel 1949. È il primo compiuto saggio di estetica fotografica pubblicato in Italia – con l’introduzione di una breve storia della fotografia– è la più completa riflessione di Mollino sull’arte. Senza pregiudizi e con intelligenza pratica delle cose, vi sono illustrate la fotografia di reportage e di cronaca, la fotografia di moda e pubblicitaria, la fotografia scientifica, di sport, la fotografia ‘d’arte’, la fotografia ‘oggettiva’. Si affronta il dilemma, per nulla chiarito in quegli anni, se la fotografia possa dirsi arte, e si appunta quindi l’attenzione sulla potenzialità espressiva, ossia sulla possibilità concreta per la fotografia di divenire poesia. L’edizione è lussuosa: 444 pagine in quarto, 323 fotografie di cui quindici tavole a colori incollate a mano. L’anno, val la pena di rammentarlo, è il 1949, non proprio un momento di prosperità. I recensori dell’epoca concordano nel lodare la preponderanza di fotografi stranieri, perlopiù sconosciuti al giro delle associazioni fotografiche italiane1. Un maligno giudica eccessiva la quantità di nudi pubblicata. Nessuno manca di lodare l’intelligenza raffinata dell’autore e la sua cultura umanistica. Oggi la prosa molliniana potrebbe apparire un poco solenne in qualche sua parte, eppur sempre affinata e precisa. “Ogni istante dell’ingegnoso operare umano può essere pretesto di nascita del gusto per un nuovo e inopinato linguaggio e insieme di una ennesima musa. Anche se le altre nove muse, tradizionali e primigenie, scrutano ostili dall’Elicona l’occhio di vetro e la cassetta nera sospetta di troppo gratuiti prodigi, Venere sorride e ancora sorride all’ultima nata la madre comune Mnemosine, dea del ricordo: le vie della poesia sono infinite”. In tono persuasivo Mollino procede a respingere l’idea che la fotografia sia mera riproduzione meccanica della realtà: “Dall’opera della camera oscura pare che a causa di quel limite che è l’eccesso di obiettività, meccanica e non pilotabile, sia escluso il medio della personalità e perciò del sentimento [...] la cieca realtà dei sensi, come otticamente è apparsa, riapparirà intatta, lentamente evocata dal rivelatore: esumazione e non risurrezione. Così pare. Questo apparecchio minuscolo e pur così pesante e denso di grazia meccanica e acuta, quasi vivente di una sua logica indipendente dal suo pilota, è e rimarrà sempre invece un pessimo registratore al quale auguratamente non basta lasciar fare per attenderci, come promette, le più gratuite meraviglie. A dispetto dell’apposizione del più puntiglioso apparecchio alle più collaudate bellezze, possono nascere angeli o mostri, nuovi prati, creature e moti insospettati o peggio, e ben sovente, insipide e irriconoscibili larve: con quel movimento quasi impercettibile di premere un docile pulsante non abbiamo per nulla scatenato un minuscolo fato”. L’opera fotografica non è imparziale e neutra: “Documento è «pezza d’appoggio» atta alla dimostrazione di un fenomeno, di una realtà che si vuole presentare nella sua luce di verità oggettiva, escluso ogni patrocinio del sentimento. In sede estetica, cioè in caso di opera concreta e raggiunta, si tratterà quindi sempre di una fotografia che è falso documento, più o meno consciamente fabbricato e scelto con fini tendenziosi e personali, truccato ad arte con elisioni, accostamenti, selezioni trasfiguratrici, insomma di un documento colto in modo tale che dell’oggettività avrà solo l’apparenza”. In particolare, il valore di trasfigurazione della realtà è accresciuto esponenzialmente dalla somma dei processi che successivamente allo scatto conducono alla stampa finale: “Vi sono istanti o giorni propizi alle più meccanicamente registrabili trasfigurazioni, alla scelta di agguato per le più precise coincidenze di frammenti del quotidiano con la realtà del nostro sentimento. Questa intuizione selettiva, a volte inconscia, può già essere attiva nella determinazione di mettere il cappello o il casco nell’uscire dal nostro rifugio e nel guidare i nostri spostamenti tra il disordine o l’ordine occulto del creato. Ma questo momento poetico di scoperta e di azione può intervenire in qualsiasi altro tempo: precedere o coincidere con lo scatto, agire intermittente, trovarsi latente ancora o in pieno fulgore quando ritiriamo quel foglio sgusciante e gocciolante dalla bacinella dopo una serie trepida di operazioni lungo le quali una fotografia può essere ancora scattata infinite volte. Serie di operazioni solo apparentemente meccaniche ma che possono divenire ognuna, tutte, o in parte, squisitamente soggettive e tali da rendere irriconoscibile quella natura che fu dato emotivo iniziale o pretesto”. Tutto è permesso, e Mollino mette in pratica senza timori: preparazione e costruzione accurata del set fotografico, uso di trucchi e artifici, ritocco del negativo, riquadratura dell’immagine, fotomontaggio, ritocchi della stampa finale: “Da una selezione di tempo o spazio, meccanica ottica o chimica, eseguita prima durante o dopo lo scatto, scaturiscono gli infiniti modi che singoli, combinati o interdipendenti operano la coincidenza trasfiguratrice del modello naturale con la nostra realtà poetica”. Ammesso che ci sia questa realtà poetica, avverte Mollino. Altrimenti ogni intervento sull’immagine si riduce a un tecnicismo deteriore. E di questa realtà poetica si può ‘discutere’, come si è sempre fatto in passato, solamente con lo strumento dell’arte, non con la logica o i trattati. “Da un senso d’amore nasce appunto questa macchina idillica e spietata, da quell’amore per il «doppio» che attraverso l’illusione fortunosa di una pratica di «mimesi» ha perpetuato per secoli a fianco, interferente o alterna con quella astratta dell’arabesco, la poesia nelle arti figurative non solo, ma in tutte le infinite forme scelte e inventate dall’uomo al fine dell’espressione. Amore per il famoso «bello della natura» che ci pervade e circonda, aspirazione di armonia e partecipazione ai comuni ritmi vitali, amore infine per il bello in tutte le sue accezioni extraestetiche, edonistiche o economiche che sovente tra loro intrecciate e anteposte furono occasione di più o meno conscia poesia in uno con l’imitazione della natura. E fu storia travagliata il districare tanti e validi pretesti da questa poesia che pur sempre, tra il braccare implacabile delle estetiche [...], quasi caccia all’uomo tra quanto di più squisito è in lui, di continuo si ritrae fra le nebbie della dialettica: solo un atto d’amore, una intuizione, ce la fa trovare alfine, reale, tra le braccia […] Invece di «forma bella», diremo quindi: «forma espressiva», a costo di ridondanza; bella o brutta, in quel senso, non c’interessa”. Una considerazione che, pronunciata da un maestro di eleganza e cultore della forma perfetta, acquista ancora maggior significato. Con la consapevolezza, vissuta sulla propria pelle, della mortalità umana. “È una leggenda che una mostra d’arte, una galleria, contenga sempre opere d’arte; in casi felici si tratterà quasi sempre di ottime o mediocri esercitazioni del gusto; e questa osservazione vale tanto per la fotografia quanto per la pittura, la scultura ecc. Per contro non è che sciocco e molto diffuso snobismo quello di chi usa schifare come brutte opere che non sono ancora arte. E ancora: troppo sovente quelle che costoro reputano opere d’arte altro non sono appunto che ottima letteratura, coincidente con un loro gusto personale o ancora opere veramente brutte, ma che per quell’intrusione di un irrisolto, e perciò solo dichiarato, programma poetico, soddisfano l’istanza solo intellettualistica del loro gusto. Letteratura non solo è humus, condizione del fiorire straordinario dell’opera d’arte, ma ancora è offerta umana di quel bello che, se pur ancora non è arte, reca in sé, oltre ogni legittima seduzione, un valore di civiltà che non dovremmo mai rifiutare”. Per temperamento, Mollino sceglie la fotografia come forma espressiva. Talentuoso disegnatore, capace di usare entrambe le mani contemporaneamente, mette queste sue eccezionali doti al servizio esclusivo del mestiere di architetto. La figura del fotografo, più dinamica e tecnicamente più moderna di quella del pittore, appaga meglio il suo gusto. La visione incisa e tridimensionale dello spazio, la resa prospettica della fotografia, soddisfano il suo genio e finiscono per influire sul suo stesso modo di disegnare. Un’anima di architetto perfezionista sovrintende comunque ad ogni cosa: l’atto del fotografare corrisponde a quello del progettare, del dominus. È un procedimento laborioso, in senso artigianale e creativo. Se volessimo muovere un appunto a Mollino sarebbe proprio che la spontaneità fragile e l’ingenuità di certa maniera di vivere non siano previsti nel suo mondo controllato. Per cui, allineate in bell’ordine tutte le sue fotografie, ne scaturisce il ritratto enigmatico di un uomo diabolicamente indefinibile, un’ombra fluttuante al lume di candela. Come ha scritto Giovanni Arpino: “uno degli ultimi «creatori costruttori» che Torino, città di frontiera, metropoli segreta, laboratorio continuo, ha messo al mondo in questo secolo [...] Accanito come solo sanno essere i veri studiosi, aristocratico come i veri solitari, maniacale devoto alle proprie liturgie” con “una disposizione al nuovo che è segno decisivo per chi precede il tempo sonnacchioso altrui”. Napoleone Ferrari