Natoli (scaricabile rtf)

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Progetto, ovvero la configurazione del tempo
Progetto, ovvero la configurazione del tempo ................................................................................. 1
Télos ............................................................................................................................................. 1
Skopós .......................................................................................................................................... 2
Éschaton ....................................................................................................................................... 3
Progetto utopico e progetto rivoluzionario .................................................................................. 5
Come si presentano le visioni del futuro nell’urbanistica moderna?
Quale è la volontà di potenza che le anima?
Assumiamo che qualsiasi progetto – non solo quelli nel campo dell’architettura e dell’urbanistica e
pur nella varietà degli scopi specifici che li differenziano – presuppone una certa configurazione del
tempo in base alla quale si vuol conferire un determinato senso all’edificazione di città e territori,
ossia una certa qualità del progetto in qualche modo riconducibile a come il tempo è stato
“plasmato” dalla cultura dell’epoca.
[lat. figura(m) (da fìngere ‘plasmare’), coi der. figurare, figurativu(m) (lat. tardo) e figuratione(m)].
Il principale testo di riferimento per questa indagine è: S. Natoli, Télos, skopós, éschaton. Tre figure
della storicità, in Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia, Feltrinelli,
Milano 1991, pp. 9-54; vedi anche dello stesso autore Progresso e catastrofe. Dinamiche della
modernità, Christian Martinetti, Milano 1999.
p. 14 “l’intera cultura dell’Occidente, ha pensato il tempo per figure […]. Ma cos’è propriamente
una figura del tempo? Essa è (p. 16) “quell’unità ideale entro cui viene rappresentata la temporalità
dell’epoca e insieme viene raffigurata la totalità del tempo entro cui ogni epoca sorge e svanisce
[…]. (p. 17) Esistono figure del caso e figure dello scopo” le “figure che cadono sotto il segno della
finalità” sono: “télos, skopós, èschaton”. Ci occuperemo di queste ultime.
Télos
p. 18 § 2. “Il télos come autoregolatività della phýsis: tempo ciclico”
“La radice del termine télos è esplicativa della natura del concetto. Il vocabolo deriva dalla redice tel,
che originariamente significa girare intorno: la parola esprime il significato di svolta, inversione su
di sé […]. Considerata a partire dalla sua radice originaria, la nozione di télos è inequivocabilmente
una nozione ciclica.
Come è possibile dunque che da una valenza ciclica si giunga a una determinazione del télos come
fine, meta? Tanto più che la rotazione e il ciclo si svolgono secondo un tempo infinito […].
La migrazione del termine télos dalla sua origine ciclica alla sua configurazione finalistica è
determinabile in forza del fatto che l’inversione e la svolta si dà in quel punto in cui non è più
possibile una progressione lineare, cioè a dire nel punto in cui è impossibile concepire una
progressione infinita: ebbene, in (p. 19) questo punto la linea ritorna su se stessa, ossia riprende
infinitamente la sua finitezza. In altri termini, in una concezione ciclica del mondo, non può darsi
altra idea di infinità che non sia l’eterna ripresa del finito. Solo il finito è concepibile: solo il finito,
infatti, è perfectum […].
L’infinito è horror vacui: l’infinito appartiene all’ordine della finitezza come posizione e ripetizione
della stessa forma, assolutamente intesa. Sotto quest’aspetto, il ciclo è imparentato ab origine al fine,
non tanto come ciò che è da perseguire, ma come ciò che immodificabilmente è, e perciò stesso
ritorna”.
p. 21 “nella progressiva generazione degli individui ciò che ritorna è l’identità della forma: i singoli
periscono. In questa circostanza, è reperibile un moto rettilineo, e perciò indefinito, che deriva dalla
perfetta ripetizione degli individui nel ciclo e quindi produce un’asimmetria del ciclo stesso: è questa
la contingenza. In tal caso e in forza della contingenza medesima, il télos può essere concepito
altrimenti dal ciclo stesso e si configura quindi come fine o meta nel senso di ciò che è da
raggiungere, ma perciò stesso può essere anche mancato”.
p. 22 “all’ente individuale tocca la contingenza poiché esiste senza necessità, ma dal momento che
esiste, esiste secondo la necessità della phýsis. In tal senso, necessario è il télos della cosa, e no la
cosa stessa.
Il télos aristotelico stabilizza il processo lasciando spazio alla contingenza […]. Esiste un ambito del
movimento che può in un certo senso sottrarsi al compimento, ossia mancare il fine; esiste viceversa
un ambito che si sottrae al movimento ed è il fine in se stesso, è l’assolutamente compiuto: Dio”
p. 23 “In sostanza, il finalismo aristotelico è inscritto in una cosmologia ciclica ed è contenuto entro
un’ontologia della forme. Ciò vuol dire che il fine non è tanto oggetto di un’intenzione, né discende
da una decisione, ma è da intendere come l’autoregolatività della natura […] il télos è da
interpretare come l’incessante movimento della phýsis in se stessa e nei limiti delle sue proprie
forme”.
p. 24 “Il télos si configura […] come una temporalità uniforme, il cui carattere distintivo è dato dalla
continuità. Il tempo è continuo come il movimento che lo misura: ciò esclude di per sé l’evenienza di
qualcosa di assolutamente nuovo. La teleologia, nel suo significato originario, esclude un
compimento totale, che, in quanto estremo, sia anche l’assolutamente ultimo e perciò
l’assolutamente nuovo: l’irripetibile. La figura del télos esclude quindi dal sentimento del divenire, e
perciò (p. 25) della storia, ogni catastrofe e ogni attesa […]. La temporalità del télos significa allora
regolarità del ciclo: nulla può accadere che, in un certo senso, non sia già avvenuto e, d’altra parte,
nulla avviene se non conformandosi al già accaduto. In tale concezione il tempo si svolge
principalmente al passato, il futuro, per converso, è breve”.
p. 27 “la filosofia del télos esige unicamente che si attenda ciò che può tornare; e ciò che torna è la
continuità della pýsis. La temporalità classica allarga il passato, contrae il futuro, valorizza
soprattutto il presente […] (p. 28) Ecco perché nel mondo greco la sapienza è épos, la verità
memoria, la menzogna oblio”.
p. 28 “ciò a cui bisogna attendere è che la natura si sveli, e a questo bisogna disporsi. Specularmene
rovesciato rispetto al piano della contemplazione sta quello della decisione. Tanto la contemplazione
è disciolta dalla immediatezza dell’azione, quanto la decisione è stretta nei limiti della situazione”.
Skopós
p. 29 § 3. “Lo skopós come struttura della decisione: tempo umano”
“tanto il télos è caratterizzato dal passato […] quanto lo skopós è caratterizzato dall’intentio
soggettiva […]. Skopós significa fine, ma questa volta nel senso di bersaglio, meta. In senso stretto,
lo scopo è quel fine che cessa nel momento stesso in cui è stato raggiunto”.
Inoltre lo scopo è contraddistinto dal fatto che “esso non è un che di dato, ma un qualcosa di scelto, è
cioè frutto di un’indagine, termine di un’intenzione, oggetto di un’elezione”.
“Skopós […] si collega direttamente con sképtomai, che significa mi guardo intorno, considero, spio,
ricerco […]. Infine skopós stesso, nel suo (p. 30) significato concreto e non astratto, vuol dire
esploratore, osservatore, sentinella, vedetta”.
p. 30 “Nella posizione del fine, così interpretato, divengono determinanti due situazioni temporali: il
presente e il futuro. Il presente è decisivo, poiché è proprio l’indagine intorno alla situazione presente
che consente di eleggere in modo corretto il fine; il futuro è altrettanto decisivo, poiché costituisce
l’intervallo necessario tra elezione e realizzazione, e quindi dispone all’interno di sé tutte quelle
decisioni atte a portare a compimento il fine, una volta che lo si è scelto.
In questo senso, è vero che lo scopo coniuga il tempo al futuro, ma a un futuro relativo e non
assoluto, a un futuro cioè strettamente vincolato alla situazione presente […]. A titolo
esemplificativo vale la pena di ricordare come nel momento in cui l’elemento terminale dello scopo
si staccherà dalle condizioni iniziali della scelta, proiettandosi verso un fine che sarà tutta la natura,
sorgerà lo spirito dell’Utopia, che è lo spirito della borghesia”.
“da tener fermo è la stretta implicazione tra termine futuro e situazione presente nella costituzione
dello scopo. Lo scopo si struttura secondo una determinazione temporale, che vincola strettamente al
presente ogni situazione futura […]. La temporalità propria dello skopós non può essere altro che il
kairós: il tempo opportuno”.
Quale è il rapporto tra télos e skopós, sempre nel pensiero antico?
(p. 32) Il fine, inteso quale télos, non può – come abbiamo visto – che essere assunto; “si delibera,
invece, intorno allo scopo (skopós) rispetto al quale si discerne ciò che è utile. Lo skopós dunque non
è altro che il télos ridotto alla possibilità dell’azione, ossia il fine in quanto controllabile da noi […].
L’universo dei fini, inteso come insieme delle possibilità, costituisce l’orizzonte del télos; il télos poi
si specifica come skopós, ossia come obiettivo, solo quando è incluso nell’ambito del
proponimento”.
Lo skopós quindi è certamente télos in quanto esige un compimento, ma tale compimento rientra
nella determinazione dello skopós qualora sia considerato in relazione ai mezzi che consentono di
attuarlo. La nozione di scopo è quindi interamente costruita all’interno della dinamica mezzo-fine.
La deliberazione calcola l’impiego dei mezzi rispetto al fine e determina il fine possibile in base ai
mezzi; la deliberazione calcola anche l’intervallo di tempo che intercorre tra la decisione e la
realizzazione, e quindi tutte le opportunità che il tempo concede. Molto prima di Weber, Aristotele
aveva individuato la struttura della decisione e il tempo che costitutivamente le compete: il kairós”.
p. 33 “Il carattere peculiare dello scopo è quello di commisurare il fine alle condizioni date […].
Come […] la scienza [intesa nel senso forte del pensiero greco, cioè incontrovertibile] è sapere
dell’immutabile (enti astratti e teologia), oppure sapere dell’immutabile che diviene (fisica), così la
saggezza (phrónesis) è sapere di ciò che è mutevole, ossia è un’opinione ben fondata in base a
consolidate esperienze: è perciò quantificazione di ciò che, di volta in volta, è possibile scegliere.
Allo stesso titolo, come la filosofia del télos ha quale scansione del tempo il ciclo, così la
determinazione dello scopo ha come scansione del tempo il kairós. Il kairós designa una temporalità
complessa e qualitativa. La radice indoeuropea della krr raffigura un’idea di unione, di armonia: il
kairós quindi è accordo: perciò stesso è tempo qualitativo, poiché rinvia alla qualità dell’accordo, ed
è tempo complesso poiché l’accordo è una relazione. Non bisogna poi dimenticare la versione
spaziale dello stesso termine, kairós, che significa luogo opportuno e che si dice in generale dei
luoghi propri o, ad esempio, delle parti vitali del corpo”.
“Questa temporalità è perfettamente congruente con lo skopós, poiché essa caratterizza il tempo
come opportunità, come capacità di cogliere il meglio nella situazione data (p. 34) in vista di ciò che
è più utile. Il kairós è, quindi una determinazione complessa quanto lo skopós: come lo skopós
raffigura una selezione tra una serie di possibilità date in vista dell’utilità e della realizzabilità di
essa, e, a ogni modo, in vista di una bene”.
“Così, il kairós gli corrisponde in quanto presenta delle possibilità che sono date quali frutto del
relativo passato e sono articolate con un futuro, ossia con una proiezione breve, ma sufficientemente
determinata per consentire una relazione e un accordo: in una parola per con/figurare un rapporto:
appunto lo scopo”.
p. 35 “lo scopo non appartiene all’ordine della phýsis, come naturalità del ciclo, ma è garantito
unicamente dal proponimento e dall’intenzione. Ma, l’intenzione può essere umana e perciò limitata
e finita, sia nella posizione degli obiettivi che nella determinazione dei mezzi […]. Ma, se la volontà
che vuole è onnipotente, senza limite è il suo skopós: esso raggiunge i confini della natura e ne
determina il télos e il destino. A questo punto, lo skopós coincide con l’éschaton, con la volontà di
Dio”.
Éschaton
p. 35 § 4. “L’éschaton come esplicazione radicale del mondo e della storia: tempo divino”.
L’éschaton è figura del tempo “allo stesso titolo e per le stesse ragioni delle precedenti, poiché allude
a uno svolgimento temprale pensato nell’ordine della qualità e dell’essenza”. È il tempo di Dio, ma
pure il tempo del mondo “pesato dal punto di vista di Dio. L’éschaton è dunque l’assoluto futuro, ma
proprio per questo è anche l’assoluto inizio: l’éschaton è allora (p. 36) tutto il tempo”.
“éschaton significa fine sia nell’ordine dello spazio che del tempo. L’aggettivo éskchatos è una
forma superlativa da ek, ex, e indica colui che si trova fuori, il più lontano di tutti. Éschaton pertanto
significa l’ultimo, l’estremo, il più remoto; allo stesso modo in cui la parola eschatiá significa la
parte estrema, l’estremità, l’estremo limite. Éschaton è dunque la fine dello spazio e del tempo nel
senso della estrema ultimità. A differenza del télos, l’ultimità dell’éschaton non significa
compimento e insieme ritorno: essa esclude il ciclo poiché designa un limite fisso rispetto al quale
non è possibile avanzare né arretrare. L’éschaton consente di pensare, unicamente, a un nuovo inizio;
seppur si mantiene nella figura del cerchio in essa si dà una congiunzione unica e definitiva
dell’inizio con la fine. In tal caso, non è dato ritorno, ma al contrario le sezioni del cerchio divengono
leggibili, dall’inizio alla fine, secondo un decorso unico e irripetibile.
L’éschaton dei greci è una nozione prevalentemente spaziale, che designa l’estremo limite del
mondo o del cielo, e, in generale, di qualsiasi spazio. Questo carattere estremo è esteso al tempo, che
guadagna così un significato ultimativo. Al contrario, nella Bibbia l’éschaton possiede già
originariamente un significato temporale”.
“le formule “la fine dei giorni”, “gli ultimi giorni sono spesso impiegate nella letteratura profetica e
più ancora in quella apocalittica”.
[Vc. dotta, lat. tardo apocalypsi(m), dal gr. apokálypsis ‘rivelazione’ (col der. apokalyptikós): der. di apokalýptein
‘svelare’, comp. di apó ‘da’ (indica allontanamento, perdita) e kalýptein ‘coprire’ (di orig. indeur.)]
“il tempo della fine viene poi a coincidere con la pienezza dei tempi: l’éschaton significa il tempo
della fine in quanto c’è un intervento di Dio che pone fine, ma anche porta definitivamente a
compimento quanto da sempre è da compiersi. Dio realizza nella fine l’istanza del principio.
Creazione e apocalisse sono una cosa sola”.
p. 37 “Gli ultimi giorni, i tempi ultimi realizzano la fine adempiendo il fine. C’è dunque una stretta
coordinazione tra la fine come conclusione definitiva e il fine come adempimento di ciò che fin
dall’inizio era voluto. L’éschaton, come adempimento del télos, dispiega quanto era già contenuto
nell’origine, poiché ab inizio tutto era già posto nella luce del disvelamento finale” [ossia
l’apocalisse].
“chiaro è […] il concetto: l’éschaton è il tempo della fine e perciò stesso è un tempo apocalittico, in
quanto momento della manifestazione totale del senso del mondo e della storia. Apocalisse è, infatti,
rivelazione o, più propriamente, svelamento da apo-kalýpto: dis/occulto, scopro il celato. Il verbo
kalýpto, infatti, risale alla radice indoeuropea kel da cui il celo latino, che significa appunto occulto,
copro, nascondo. L’apocalisse svela: in tal senso essa è compimento e fine poiché non concede
ulteriorità, non c’è un dopo, non c’è più nulla da sapere o altra da aggiungere. Ecco perché
l’éschaton, in quanto tempo ultimo, è anche compimento del tempo”.
(p. 38) “Il tempo presente deve essere superato perché è tempo di caduta e di miseria, tempo di
punizione e di dolore. La fine di questo tempo è promessa e garantita: l’éschaton si fonda su di una
rivelazione che promette e garantisce salvezza”.
“Il punto di vista dell’éschaton inaugura il punto di vista della fine e perciò dell’assoluto futuro: un
futuro che non dipende dall’uomo o, quanto meno, non è deciso da lui. Se questo è vero, l’uomo
deve in ogni suo attimo vivere nel punto di vista della fine, poiché solo il punto di vista della fine dà
conto dell’intero decorso del tempo e perciò del significato del mondo e della storia”.
“Nella prospettiva dell’éschaton, lo svolgimento del tempo non può più intendersi come la pura e
semplice realizzazione del ciclo, ma, al contrario, il tempo svolgendosi conduce a (p. 39)
maturazione un progetto, porta a compimento e adempie l’intenzione di una assoluta volontà:
l’éschaton poi inaugura soprattutto un tempo nuovo. Proprio per questo le fasi del tempo non
possono essere semplicemente passato, presente e futuro, ma ogni fase dello scorrere del tempo deve
essere concepita come epoca del mondo. Il secolo presente deve finire poiché è un tempo
qualitativamente negativo, è segnato dalla caduta, dal peccato e dal male. Ciò presuppone un tempo
precedente alla caduta, un tempo lontano senza peccato, un tempo perduto”. Nel tempo presente “si
svolge un conflitto tra bene e male […]. Nell’éschaton, negli ultimi giorni, si scatenerà la lotta finale,
in cui il male sarà radicalmente annientato e il bene trionferà definitivamente: vi saranno nuovi cieli
e nuove terre e, soprattutto, inizierà un tempo nuovo e senza fine”.
(p. 39) “È certo comunque questo: la prospettiva escatologica in quanto costitutivamente qualitativa,
periodizza il tempo più che ogni altra prospettiva: essa esclude l’uniformità del tempo ciclico e del
télos della phýsis per un diverso télos, ossia per una diversa idea di compimento. Nella prospettiva
escatologica, il télos della natura e della storia si rivela oggetto dello skopós di una volontà
onnipotente che garantisce da sempre la positività dell’esito”.
(p. 40) “L’éschaton riconduce il tempo storico al tempo divino”.
(p. 41) Vi sono molte configurazioni dell’éschaton, in quella fondamentale il télos è coniugato con lo
skopós, “ma in questa congiunzione i significati originari dei due termini sono totalmente ribaltati.
La composizione di télos e skopós si compie a partire dall’unicità e dall’onnipotenza di Dio, ma
soprattutto per un precisa e originaria intenzione divina […]. Dio vuole il mondo e lo pensa ab
origine secondo il suo disegno […]. Ciò significa che il télos del mondo è mantenuto in questo
disegno e secondo questo piano deve compiersi. C’è dunque un télos di tutta la natura […], ma tale
télos intanto esiste perché è posto da Dio, ed è sicura che giungerà a compimento poiché la stessa
volontà che lo pone, lo garantisce. Il télos della natura e della storia, e in generale di tutto ciò che è, è
inscritto in uno skopós assoluto, ossia è prodotto da una intenzione onnipotente che domina su ogni
cosa e non è vincolata (p. 42) da alcunché, nella sua azione, tranne che se stessa […]. Inoltre, la
volontà divina non deve rinvenire, per investigazione e ricerca, mezzi opportuni per il
raggiungimento del fine: essa con il fine pone insieme i mezzi atti a raggiungerlo”.
(p. 42) “In questa configurazione del tutto nuova e originale il télos perde il suo carattere di
svolgimento ciclico e uniforme della natura, e lo skopós perde il suo carattere di proponimento, ossia
di scelta di mezzi opportuni per fini altrettanto relativi”.
(p. 43) Nell’éschaton vengono in contatto tempo umano e tempo divino, ma perciò stesso l’umano è
assorbito dal divino; in questo punto la storia si consuma e il mondo così com’è finisce: il mondo
deve finire. L’éschaton è la fine del mondo. Questa configurazione del fine ribalta il télos dei greci e
conferisce allo skopós una sicurezza dell’esito, che nessuno scopo umano avrebbe mai potuto
guadagnare […]. L’Europa moderna resta segnata dall’escatologia. Nessuna idea di rivoluzione
sarebbe mai nata se non fosse entrata nel mondo la configurazione del tempo come tempo
escatologico”.
Progetto utopico e progetto rivoluzionario
p. 43 § 5. Qualità del tempo e sentimento dell’epoca
p. 45 Anche “la scienza produce immagini”. Nel tempo presente “l’immagine del mondo è composta
essenzialmente nella figura della scientificità […]. L’immagine scientifica del mondo costituisce una
filosofia della storia, poiché la scienza contrassegna in ogni caso l’epoca presente, sia quando essa è
invocata in termini di invenzione e di progetto, sia quanto è indicata come estremo (p. 46) pericolo o
incombente destino […]. La scienza produce essa stessa figure […]: ancora una volta un sentimento
dell’epoca diviene qualità del tempo: l’età della tecnica”.
p. 47 “Abbiamo esposto il significato di télos, skopós, éschaton e le loro rispettive temporalità,
mostrando le radici filosofiche del loro sorgere e del loro istituirsi. Varrebbe la pena, ora, analizzare
alcuni casi del loro comporsi […]. A puro titolo esemplificativo […] vale la pena segnalare alcuni
slittamenti fondamentali dell’una figura sull’altra e che hanno dato diversi esiti concettuali. Basti qui
far riferimento all’idea di Utopia e a quella di Rivoluzione”.
Utopia
“Utopia. Questo concetto risulta dallo slittamento della nozione di skopós su quella di télos. Infatti,
essa nasce nel momento in cui l’uomo, o più propriamente l’umanità espressa dall’Europa moderna,
si pone come obiettivo la trasformazione del mondo secondo un’idea generale di razionalità. Il
mondo è considerato ciò che deve essere messo a disposizione dell’uomo e, per converso, l’uomo
diviene sempre più soggetto del mondo. La scienza moderna porta a compimento l’umanesimo per la
semplice ragione che il punto di vista dell’umanesimo si viene progressivamente laicizzando nella
scienza. No più Dio, né natura; non più Dio, poiché il divino diviene sempre meno accessibile alla
ragione ed è sempre più confinato nella fede; non più natura, poiché la natura esiste sempre di più
nella rappresentazione del soggetto legislatore”. L’esito è: il trionfo della ragione senza Dio ma che,
in quanto erede di Dio, si erge al posto di Dio. Questo punto di vista tende a togliere legittimità
all’éschaton, ma, nel contempo, fa slittare lo skopós umano sul télos. Oggetto del volere umano è il
dominio su tutta la natura.
Le utopie di Moro e Campanella, seppur permeate di cristianesimo, sono più vicine di quanto non si
pensi al motto di Bacone: scientia est potentia. In ogni caso si è già nello spirito dell’utopia.
Conoscere significa adeguare, adeguare per dominare. In questa assunzione preliminare, oggetto
dello skopós, ossia dell’intelligenza umana, diviene il télos, cioè a dire la generalità della natura. Nel
momento in cui lo skopós slitta sul télos, la natura perde la sua autonomia, cessa si essere
l’immodificabile divenire della phýsis, che bisogna (p. 48) semplicemente contemplare, per essere
investita da una progetto; e il progetto cessa di essere orientazione verso un obiettivo finito per
divenire compito illimitato. La natura non è semplicemente da seguire, ma da perfezionare e da
correggere […]. La scienza deve liberare dal bisogno, dalla malattia, dal dolore. In quest’opera è
coinvolta la totalità della natura nella sua totalità poiché essa è pensata interamente all’interno di uno
scopo umano e in vista dell’umana riuscita.
In questa circostanza, era troppa la distanza tra i mezzi dati e i fini, tra la posizione dello scopo e al
realizzazione dell’obiettivo perché si potesse in qualche modo rinvenire o realizzare una situazione
storica che adempisse il modello. Non c’era nessun luogo sulla terra in cui tale progetto di dominio
fosse perfettamente adempiuto. Il progetto poteva esistere e vivere soltanto in un non-luogo,
nell’utopia. La pre/assunzione del télos nell’ordine dello skopós comportava una destinazione del
télos e una proiezione infinita dello skopós: il non-luogo come l’estrema possibilità”.
L’utopia esiste in questa convinzione: “nella possibilità di emanciparsi dalla necessità; e in questa
considerazione: concepire tutto il mondo alla luce del progetto umano. Non di questo o quel
progetto, ma del progettare come tale, cioè a dire della capacità di costruire. Il non-luogo è
l’obiettivo. Solo quando il razionalismo moderno compone lo skopós con il télos nasce l’Utopia,
come intentio della volontà su tutta la natura”.
L’Utopia è possibile all’interno “di un tempo misurabile solo attraverso la progettualità umana […].
Per questo, l’uomo moderno ha bisogno di futuro, di tanto futuro. Al non-luogo deve corrispondere
un non-tempo, ossia un tempo che non abbia a che fare con le realizzazioni oggettive, ma con la
realizzabilità in quanto tale; questo tempo è il lungo futuro, l’avvenire. Negli antichi, la temporalità
dello skopós era il kairós, il tempo breve, perché l’uomo nulla poteva proporsi rispetto alla necessità
del télos. Nei moderni, lo slittamento dello skopós sul télos compiva un’alterazione del télos, tramite
la scientificizzazione della natura, e una (p. 49) alterazione dello skopós, che, in quanto erede e
sostituto della volontà di Dio, differisce l’attualità della potenza divina nell’infinita e progressiva
realizzazione degli effetti. Nel tempo dell’Utopia c’è la radice di ogni illuminismo; perché essa possa
nascer è necessaria un’esclusione dell’éschaton (laicizzazione e ateismo), una divinizzazione dello
skopós, per il fatto stesso che si assume come campo degli effetti tutto il télos. Senza l’esclusione
dell’éschaton e senza la collusione delle altre due figure non vi sarebbe Utopia. Lo spirito
dell’Utopia non vuol liberare l’umanità dal peccato, ma dall’imperfezione e dal difetto: in questa
prospettiva il passato diverrà malattia, la redenzione scienza, la salvezza progresso. Lo spirito
dell’Utopia guarda a un futuro lungo, ma continuo, a progetti fallibili e revocabili, ma tuttavia
sempre riproponibili”.
“In questa prospettiva, l’etica dei moderni è un’etica terapeutica […]. L’Utopia dei moderni consiste
nel essenzialmente nella capacità di progettare mondi: essa […] è quindi una filosofia dello spirito
scientifico e insieme dell’avvenire: in una parola de rischio e del progresso”.
Rivoluzione
p. 49 “Rivoluzione. Quest’ottica è antica almeno quanto quella di Utopia […].L’idea di rivoluzione
consiste essenzialmente in una (p. 50) scolarizzazione dell’éschaton. Detto altrimenti, sull’idea di
futuro si impianta la corrispondenza ma anche la differenza tra spirito dell’Utopia e spirito
rivoluzionario”.
p. 50 “L’idea di rivoluzione è radicalmente modellata sulla figura escatologica della fine come
ribaltamento, ossia passaggio dal dominio del male a quello del bene e da questo tempo a un altro
tempo. L’idea di rivoluzione, a differenza di ogni altra Utopia (perché essa sotto certi aspetti è anche
un’Utopia), non bisogno di tanto futuro, ma di un altro futuro. Al futuro lungo, e relativamente
continuo dell’Utopia, corrisponde, nello spirito rivoluzionari0o, l’attesa di un altro tempo: la
rivoluzione costituisce più propriamente la temperie degli ultimi giorni. Lo spirito rivoluzionario è
permeato dal carattere apocalittico dell’éschaton. Lo spirito dell’Utopia ha carattere progressivo sia
nell’ordine del tempo che nella determinazione degli scopi. Non si tratta di estirpare il male quanto
di limitarne il danno, di controllarne gli effetti. Lo spirito rivoluzionario, al contrario, considera lo
sviluppo del tempo come movimento accelerato verso la fine e considera la fine come esplosionedissoluzione del male. Tutti i movimenti di tipo apocalittico-rivoluzionario hanno vissuto il tempo
della fine come fase massima di estensione del male e, nel contempo, come occasione propizia per
l’irruzione dell’evento salvifico e risolutore”.
“Laicizzare l’éschaton significa, in buona sostanza, pensare un tempo della fine senza Dio come
garante: il che non è poco, né tanto meno è variazione di secondo momento”.
p. 51 “In un’escatologia teologica, l’umanità poteva solo attendere o preparare nell’attesa il momento
della fine, che, però, poteva essere, deciso solo da Dio; in un’escatologia laicizzata il tempo della
fine non può essere semplicemente atteso, o nell’attesa preparato, ma deve essere assolutamente
voluto, prodotto. L’umanità storica quindi si fa interprete e arbitra radicale del tempo in quanto
decide il kairós del suo ribaltamento”.
“La modificazione atea dell’éschaton dà luogo ad almeno due diverse e opposte tendenze: da un lato
essa è caratterizzata da uno spirito radicale di liberazione, dall’altro si svolge come spirito
demoniaco nel senso del male e della menzogna”.
“L’idea di rivoluzione eredita dall’éschaton la certezza della salvezza”. Ma “lo scopo umano non
può garantire l’éschaton, non è onnipotente; può tuttavia muoversi nella direzione del télos del
mondo, che viene assunto, o a ogni modo creduto, (p. 52) come possibilità di salvezza. Questa
posizione prende atto dell’impossibilità di una sintesi assoluta tra scopo e télos, così come era
mantenuta nell’éschaton teologico […]. La laicizzazione dell’éschaton s’imparenta indirettamente
con lo spirito dell’Utopia, come sentimento della distanza.
Dall’altro lato, c’è però lo svolgimento demoniaco dell’éschaton. Lo spirito rivoluzionario diviene
spirito demoniaco […] nel momento in cui la pretesa di eliminare radicalmente il male, senza
disporre dell’onnipotenza e della santità di Dio che lo consente, si identifica in quello stesso male
che pretende di togliere. In più con la pretesa di averlo tolto”.
“Per altro verso, lo spirito rivoluzionario diviene credibile per le masse solo se si presenta capace di
produrre la salvezza che promette, salvezza che di fatto non produce, ma che tuttavia deve esibire. Le
rivoluzioni si legittimano quando danno di sé l’immagine di eventi liberatori: in quanto immagini
sono però anche idoli”.
Alcuni appunti da G. Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Laterza, Roma-Bari 1992.
p. 55 “Il tempo si situa al crocevia della relazione tra l’esperienza quotidiana e la sua
rappresentazione”.
p. 56 “All’esperienza propriamente moderna […] inerisce una specifica patogenesi della temporalità
[…]: quella derivante dalla divaricazione tra la ricchezza di possibilità dischiuse al singolo dal
progetto tecnico-scientifico di dominio sulla natura (oltre che di razionalizzazione dei processi
evolutivi sociali) e povertà della sua esperienza. Si produce così quel fenomeno dell’accelerazione
per cui il tempo si scinde in una proiezione incessante verso il futuro e in una atrofizzazione e
museificazione del passato, che sottrae progressivamente al presente lo spazio della sua esistenza. (p.
57) La forbice temporale che si apre tra esperienza e aspettativa, finitezza del tempo e infinità del
desiderio, descrive anche l’impossibilità di far coincidere vita individuale e corso temporale del
mondo: sia perché quest’ultimo la precede e le sopravvive mostrando l’ineluttabilità dello scarto tra
esistenza e progetto, sia perché all’interno del Tempo Storico si danno inevitabili “asincronie”, tempi
e ritmi di vita diversi a seconda degli ambiti e delle sfere d’azione”.
p. 81 “È vero […] che noi facciamo esperienza del tempo presentificando la successione del flusso,
nel continuum della durata; che “passato” e “futuro” non sono che fantasmi capaci di animarsi e
prender vita solo dentro la durata reale del presente; che – quindi – ogni durata è […] una epoché,
cioè una pausa, una “sosta” in cui gli eventi vengono rielaborati e raccolti […]. Solo chela
presentificazione può intanto sottrarsi alla prigionia del “tempo ordinario”, di istanti-ora che
inesorabilmente sfuggono dissolvendosi nel nulla, in quanto l’esserci è in grado di ‘darsi tempo’
precorrendo il futuro, anticipando l’evento. Ma in che forma si dà l’anticipazione dell’evento? […]
Lo possiamo anticipare perché lo assimiliamo al già noto, (p. 82) perché neutralizziamo l’imprevisto
e l’inquietudine del futuro immaginandolo simile al passato, agli eventi da mio già elaborati e riposti
nel ricettacolo del ricordo. Il “precorrimento” finisce così per risolversi in un rigonfiamento del
bagaglio della memoria.
Ma se la temporalità autentica […] consiste in questo perenne cortocircuito tra l’anticipazione del
non-ancora e il non più, ne consegue che la nostra esperienza del tempo viene sempre a trovarsi
fuori-asse rispetto al momento presente. Ne consegue cioè che la nostra esperienza del tempo è –
paradossalmente – in tanto autentica in quanto fuori del tempo che effettivamente viviamo”.
(p. 83) Ciò dimostra “come la nostra esperienza sia dominata da una ipertrofia dell’aspettativa”.
“La patologia non risiede nella semplice presenza della forma infuturante del tempo. Tale forma si
dà infatti, in misura diversa, in tutte le culture: nessuna civiltà può fare a meno di darsi un
coefficiente, sia pure limitato o minimo, di predittività, allo stesso modo in cui non può interamente
prescindere dalla ripetitività e dalla ciclicità. La patologia non sta dunque nel fatto, ma nel modo e
nel grado di quella presenza. La patologia è dovuta alla circostanza che solo in Occidente(per
riprendere un’espressione cara a Max Weber) l’anticipazione progettuale è stata estrapolata come
forma ‘autentica’, come figura specifica e dominante dell’esperienza del tempo: l’uomo occidentale
diceva James Joyce, vive come se ogni istante fosse il prossimo. Per questa ragione, proprio in
Occidente, la stessa ‘normalità’ e la stessa esperienza ‘ordinaria’ vengono ad assumere le singolari
sembianze di un paradosso”.
p. 84 Si ha così il “fenomeno di una neutralizzazione del nuovo indotta attraverso la
temporalizzazione crescente delle forme di vita: di una neutralizzazione della ‘novità’ che – sta qui
tutto il paradosso del “Moderno” – procede di pari passo con la sua enfatizzazione ideale e
progettuale”.
p. 86 “l’ossessione dell’aspettativa che, nell’esperienza occidentale del tempo, spiazza
continuamente il presente neutralizzando il ‘nuovo’ e lasciandolo fagocitare da un futuro
costantemente reclinato verso il passato, ha il suo nucleo patogeno in un ritardo di senso sull’evento.
In Occidente il suggello del Senso è destinato ad arrivare sempre dopo”.
p. 93 “La filosofia, in particolare la filosofia moderna – nonostante gli strenui sforzi di Hume e di
Kant – non è mai riuscita ad educare al limite il progetto razionale”.
p. 94 “In altri termini: è possibile forzare i confini solo a patto di riconoscerli come tali; e, per
converso, è possibili rigorizzare il dicibile solo a condizione di sapere che non tutto è dicibile”.
“per rendere visibili le implicazioni […] vorrei adesso indicare […] due declinazioni del limite”.
“La prima declinazione del limite […]: l’esigenza di una riabilitazione dello spazio”. Con ciò si
intende “segnalare una teorema di impossibilità […]. Ogni volta che proviamo a percepire il tempo
‘in presa diretta’, ci rendiamo conto che non possiamo esperire alcun evento senza collocarlo
all’interno di una scena. Nessuna percezione del divenire è innocente, poiché (p. 95) nessuna
percezione può prescindere da una struttura originaria che la precondiziona e al contamina
spazialmente. Vi è dunque uno spazio simbolico originario, presupposto della stessa misurazione,
che pregiudica apriori qualsivoglia pretesa di ‘autenticità’. […] come potremmo fare esperienza degli
eventi della nostra vita se non li collocassimo, non solo nel ricordo o nell’anticipazione ma anche nel
momento che ci accadono, all’interno di una scena? Se non fossimo capaci – non solo in stato di
sonno ma anche in stato di vaglia – di ‘sognarli’?”.
p. 96 Cita dal racconto Eleonora di Edgar Allan Poe: “Coloro che sognano ad occhi aperti sanno
molte cose che sfuggono a quelli che sognano soltanto di notte”.
p. 97 Cita poi W. R. Bion, Apprendere dall’esperienza, (Roma 1972 ) “Ogni uomo, deve poter
‘sognare’ un’esperienza mentre gli capita, sia che gli capiti nel sonno sia che gli capita sveglio”.
“La seconda declinazione del limite si connette, invece, all’esigenza di una nuova concezione del
ritaglio evolutivo del nostro universo, all’interno del quale le forme viventi e la nostra stessa
esistenza nel mondo trovano il loro tempo debito. Ma cosa deve intendersi per “tempo debito”? In
cosa consiste esattamente il “nostro” tempo, il debito del tempo? Come si colloca la sua dimensione
rispetto allo spaesante spazio-temporale che lo circonda e lo sovrasta?”.
p. 98 “È necessari tornare a riflette sul linguaggio […]: il mistero delle origini del latino tempus”.
“La tesi di Emile Benveniste […] è la seguente: la difficoltà di scoprire l’etimologia di tempus deriva
dal fatto che i composti di questo termine sono in realtà più antichi della parola “tempo” (p. 99) e
recano dunque in sé tracce molto più arcaiche dello stesso sostantivo. Il sostantivo tempus nasce
pertanto dall’astrattizzazione di termini come tempestus, tempestas, temperare, e dunque
temperatura, temperatio ecc. La parola tempus segnalerebbe così, quasi a sorpresa, la saggezza
iscritta nel codice genetico di una lingua capace di consacrare una sola parola per due fenomeni cha
abbiamo finito per considerare distanti o addirittura eterogenei. È come se l’unicità del termine
recasse in sé la consapevolezza che ciò che chiamiamo “tempo” non è che un punto d’incrocio tra
elementi diversi, da cui ha origine la realtà evolutiva: una ‘miscela’ (tagliare non ha forse il
significato di mescolare?) che fa del tempus qualcosa di assai prossimo a quello che i greci
chiamavano kairós: il tempo debito, il tempo opportuno […]. Il corrispettivo di tempus non è
chronos, bensì kairós. […] Benveniste associa il termine kairós (derivante dalla redice indoeuropea
*krr-) al significato del verbo keránnymi, “mescolare”, “temperare””.
p. 100 Dunque questi termini designano “una figura oltremodo complessa della temporalità: figura
che rinvia alla “qualità dell’accordo” e della mescolanza opportuna di elementi diversi […]. Nella
sua versione spaziale, d’altronde, la stessa parola sta ad indicare i luoghi (p. 101) propri, le parti
vitali di un organismo ‘in forma’, ossia equilibrato e temprato nelle sue componenti.
Forse proprio l’idea del tempus-kairós, del tempo opportuno della ‘temperanza’, della ‘miscela
propizia’, è in grado di restituirci il senso del nostro ritaglio evolutivo e – con esso – della nostra
stessa esistenza […]. L’immagine del ritaglio ci spinge adesso a riconsiderare sotto una nuova luce
le relazioni che intercorrono non solo tra tempus e il suo ‘gemello’ greco, ma tra il termine tempus e
il suo alter ego latino spatiium. Non si tratta di una parola semplice, ma composta. Deriva, infatti,
dalla radice pat-, ed è pertanto associata al verbo pateo, patere, che significa “essere aperto”,
“evidente” (da cui l’aggettivo italiano ‘patente’ = “manifesto”). Senonché in s-patium la “s” ha la
funzione di un prefisso, e nella fattispecie di un prefisso profondamente incisivo e separante: come in
se-cernere, se-parare, se-lectio ecc. Il termine contiene così, per l’appunto, un rimando al senso del
“ritaglio” nell’ambito di un’apertura”.
p. 102 “Il rilievo sta […] nel paradossale gioco delle parti che esso viene a istituire con tempus. […]
Il tempus, in quanto “temperanza”, congiunzione di elementi, diviene relazione e struttura di
accoglienza delle forme di vita, mentre lo spatium, in quanto ritaglio, viene ad indicare la costitutiva
precarietà e instabilità di ogni ‘dimora’”.
p. 103 “Il nostro tempo – ci dice quell’antica sapienza – è il tempo della forma vivente, il tempo del
mondo che si evolve, proprio perché originariamente propiziato da un kairós. Noi possiamo vivere
soltanto la dimensione del tempo debito, del tempo kairologico, indipendentemente dalla natura dello
spaesante che lo delimita”.
p. 104 “Sarà […] un serio giocare i nostri giochi, nei limiti in cui siamo in grado di giocarli. Sarà un
serio forzare i limiti, dopo averli rigorosamente declinati”.
p. 105 “Il nostro ‘vissuto’ quotidiano non è più ingenuamente originario, ma permeato dai simboli,
dalle immagini, dalle metafore che ci vengono trasmessi dalla scienza e dall’arte: messaggi che
costantemente sospingono e rielaborano l’esperienza del limite, trasformandola sempre più in
esperienza-limite”.
*
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Appunti da U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999.
U. Galimberti sostiene che oggi “il potere dell’uomo sulla natura inquieta l’uomo stesso, perché il
suo potere di “fare” è enormemente superiore al suo potere di “prevedere” e di “governare” la
propria storia” (da Giordano Bruno. La divina follia contrapposta alla scienza, sulle pagine culturali
di “Repubblica”, 11 febbraio 2001, è la recensione a Giordano Bruno, Opere magiche, Adelphi,
Milano 2001, con testo a fronte).
In Psiche e techne alle pp. 460-461 “Ispirata dai più antichi sogni dell’umanità, l’utopia era innocua
finché la tecnica non ha reso disponibili i mezzi per la sua realizzazione, ma proprio allora la
divaricazione tra il sogno dell’uomo e i mezzi per realizzarlo s’è fatta totale perché il mezzo, resosi
autonomo dal sogno, ha inseguito se stesso, riducendo l’uomo a funzionario della sua
autorealizzazione.
Subordinato non più alla natura, ma al potere conseguito dall’uomo per dominarla, oggi l’uomo non
può pensare di contenere la tecnica con l’etica che la tradizione filosofica gli ha consegnato, perché
questa etica, se è capace di regolare l’agire fra gli uomini, non è in grado, per questo suo limite
antropocentrico, di esprimere le norme regolative di un sapere e di un potere che (p. 461) si
estendono oltre lo spazio delimitato dalle dimensioni del globo, e oltre il tempo circoscrivibile della
previsione umana.
Il futuro, infatti, che la tecnica dispiega, non solo rende inutile qualsiasi riferimento al passato per
desumere qualche criterio di decifrazione, ma addirittura crea uno iato tra le possibilità che la tecnica
ha reso disponibili e le capacità revisionali che, per essere all’altezza di quelle possibilità,
dovrebbero oltrepassare di molto ciò che finora l’uomo ha conosciuto come limite della sua
percezione e intuizione. Il fare ha di gran lunga sopravanzato l’agire, e questa è la ragione per cui
l’etica, che presiede l’agire, non è in grado di regolare la tecnica da cui procede il fare”.
Importante è tutto il capitolo 44. La tecnica e l’impotenza dell’etica, pp. 457-473. “L’agire, come
scelta di fini, cede al fare come produzione di risultati. In questo senso la tecnica celebra l’impotenza
dell’etica, al definitiva subordinazione dell’agire al fare”.
[Forse lo si dovrà trattare a proposito della terza dimensione: la tecnica].
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