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La ricostruzione di una politica nazionale nella Capitale
Claudio Pavone?
Com'è noto, l'Italia unita non è mai stata uno Stato accentrato come la Francia,
dalla quale pur aveva tratto il modello di ordinamento di eredità napoleonica. Roma
capitale non aveva mai avuto una posizione centrale, da tutti i punti di vista, nella vita
della nazione come la ha secolarmente avuta Parigi. La mediazione fra Stato e società
civile, di cui la capitale è insieme il luogo e il simbolo, non era avvenuta
esclusivamente a Roma. Tuttavia l'Italia, come apparve subito chiaro al conte di
Cavour, non avrebbe potuto avere una capitale diversa; e man mano che lo Stato
unitario si rafforzava e veniva aumentando i suoi campi di intervento, la presenza
della capitale nel paese acquistava maggiore peso, ma suscitava anche maggiori
sospetti e diffidenze, talvolta anche in chi sollecitava una maggiore iniziativa dall'alto.
Questi sospetti e diffidenze vennero poi esasperati dalle grossolane esaltazioni di
Roma imperiale operate dal fascismo. Milano dal canto suo ambiva ad essere
riconosciuta come capitale morale, ma non era mai davvero riuscita ad avere un
prestigio tale da moralizzare l'intero paese. Questa era, a grandi linee, la situazione al
momento della esplosione della crisi del 1943.
E' pertanto un problema di grande rilievo civile e storiografico cercare di
comprendere il ruolo che Roma svolse quando fu di fatto privata della sua funzione di
capitale, essendo questa trasmigrata nel sud a Brindisi e poi a Salerno, e venendo nel
nord sparpagliata dalla Repubblica Sociale fra Salò e altre città, fra le quali
Milano venne sempre più emergendo. Quando, dopo il 4 giugno 1944, Roma fu
reintegrata nel suo ruolo di Capitale, essa da una parte era sottoposta al controllo
alleato mentre molte province liberate non erano ancora state restituite alla
amministrazione italiana, dall'altra non esercitava la sua giurisdizione sulla parte più
ampia e più ricca del paese, ancora occupata dai tedeschi e dalla RSI. E' dunque sul
periodo che corre dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, con la cesura interna del 4
giugno 1944, che è opportuno concentrare qui l'attenzione.
L'8 settembre ebbe a Roma caratteri di peculiare drammaticità perché fu
particolarmente evidente la dissoluzione dell'apparato statale, militare e civile. Un re e
un governo che abbandonano il campo, considerando il proprio salvataggio più
importante della salvezza del paese, sono percepiti dalla popolazione della capitale, con
maggiore intensità che da altri, quali ingloriosi fuggiaschi che lasciano dietro di sè il
caos e il terreno libero alle forze nemiche.
All'inizio della occupazione tedesca e della Resistenza Roma appariva dunque una
città allo sbando, privata della unica qualificazione che le dava un volto e un ruolo di
fronte al resto del paese. In verità, Roma fu la città che maggiormente tentò, nei giorni
successivi all'armistizio, di opporsi all'alleato divenuto prevedibilissimo nemico. Alla
Montagnola, a Porta San Paolo, alla Magliana e altrove vi furono combattimenti nei
quali si ebbe come un tardivo barlume di quella saldatura fra esercito e paese che
invano i partiti antifascisti avevano invocato durante i quarantacinque giorni di
Badoglio. Questi episodi, da considerare l'inizio della Resistenza armata sul piano
nazionale, furono allora poco conosciuti nel resto d'Italia.
L'ambigua condizione di città aperta, proclamata già da Badoglio e formalmente
riconfermata nelle trattative che il generale Calvi di Bergolo condusse con il Comando
?
Università di Pisa.
tedesco per la resa della città, non sarà rispettata nè dai tedeschi nè dai ricomparsi
fascisti e nemmeno dagli Alleati che continuarono a bombardare i quartieri periferici.
Per di più, quella dichiarazione, motivata con il rispetto dovuto al centro della
cristianità, aveva irritato l'opinione pubblica protestante della Gran Bretagna e degli
Stati Uniti, ed era apparsa agli abitanti delle città italane più colpite dai bombardamenti
alleati un indebito privilegio, che rafforzava gli spiriti antiromani serpeggianti nel
paese. E', ad esempio, del dicembre la "dichiarazione di Chivasso" dei rappresentanti
delle popolazioni alpine che con asprezza condannavano "il motto brutale e fanfarone
di Roma doma".
All'inizio dunque della occupazione tedesca e della Resistenza, Roma, divenuta
città di retrovia, si trovava al fondo di una china particolarmente difficile da risalire.
Tutti gli italiani furono posti dallo sfascio dell' 8 settembre di fronte a scelte decisive,
dalle quali avrebbe preso le mosse la ricostruzione democratica di una patria umiliata
e offesa dalla tirannia fascista e dalla sua disatrosa guerra, ma non scomparsa dalla
coscienza dei cittadini. La lezione della storia, espressione abusata e ridotta spesso a
formula retorica, fu in quei drammatici frangenti accettata dalla maggioranza degli
italiani, e le interpretazioni, ideali e pratiche, che se ne diedero furono molteplici.
La capitale, ormai città periferica, ebbe le sue. Possiamo qui, schematizzando
al massimo, indicare due percorsi di risalita, distinti ma ricchi di reciproci rinvii. Il
primo riguarda la popolazione stessa della città, nelle sue dinamiche interne, nelle sue
aspirazioni di fondo, nella risorgente memoria delle lotte democratiche e socialiste,
nell' impegno per la sopravvivenza resa vieppiù difficile dalla situazione bellica gestita
dai tedeschi e dai fascisti, lasciati questi ultimi liberi, entro certi limiti, di impazzare a
loro piacimento. Di questo percorso è naturalmente parte decisiva la Resistenza armata,
della quale non mi occupo qui, ma che ha molti eroi ancora poco o per nulla conosciuti
(si veda ad esempio il Quaderno della Resistenza. Garbatella-Ostiense, a cura di "Cara
Garbatella", 2004). Mi limito dunque a poche osservazioni.
La prima è che è stata di recente chiamata "zona grigia", con un misto di
disprezzo e di nascosto compiacimento, la parte della popolazione che né imbracciò il
fucile contro i fascisti e gli occupanti, né collaborò apertamente con loro. Sembra
talvolta che oggi si ami coprire l'Italia, che attraversava il periodo più doloroso, intenso
e ricco di futuro dei tempi recenti, con una spessa coltre di grigiore. Si trascurano così
l'ampiezza della Resistenza civile avutasi anche a Roma e i molteplici modi in cui
questa poteva manifestarsi. Si trascura altresì la necessità di più analitiche distinzioni,
che sfuggano sia ad una rassicurante retorica resistenziale sia ad una sbrigativa
liquidazione incapace di intendere l'etica profonda che animava tante donne e tanti
uomini, anche nei comportamenti quotidiani. L'assistenza che gran parte della
popolazione romana diede agli ebrei sfuggiti alla razzia del 16 ottobre è la riprova
della esistenza di uno spirito resistenziale tanto diffuso quanto difficile da quantificare.
La seconda osservazione, sempre interna al primo percorso, riguarda il periodo
successivo alla liberazione della città. Questa vide la sua popolazione registrare un
forte incremento per l'afflusso di profughi decisi a rimanervi. Fu teatro di grandi atti
innovativi di valore nazionale e di immediata ripercussione popolare, quale il Patto,
appunto di Roma, fra le correnti comunista, socialista e cattolica che portò alla
costituzione della Confederazione generale italiana del lavoro. Per un altro verso,
con il ritorno del governo la città ospitò nei suoi vecchi palazzi ministeriali la
ricomposizione di un apparato burocratico garante della continuità dello Stato, apparato
che vedrà poi nella caduta del governo Parri - come nell'Orologio Carlo Levi
racconta di aver letto nello sguardo di un usciere del Viminale - l'uscita di scena degli
intrusi. Peraltro, la posizione di capitale dimezzata favorì anche una vivacità
culturale e popolare, che alimentò, ad esempio, la pubblicazione di numerose riviste,
da "La Nuova Europa" a "Mercurio", e di molti quotidiani
fra cui quelli degli eredi
dei gruppi minori che avevano valorosamente agito nella Resistenza, come il
Movimento comunista d'Italia ("Bandiera Rossa" era il suo giornale), e insieme quelli
continuatori dei fogli clandestini legittimisti e monarchici, nei quali si leggono
posizioni prequalunquiste. L'antifascismo cattolico non era ancora politicamente
riassorbito tutto dalla Democrazia Cristiana o sparpagliato nei partiti laici: il
Movimento Cristiano Sociale e quello della Sinistra Cristiana (nuovo nome dei
comunisti cattolici) facevano sentire la loro presenza. Nella società cittadina si
manifestavano arricchimenti fugaci e insofferenti povertà. L'effervescenza si scontrava
con desideri di normalità forieri di nuovi e vecchi conformismi. Insomma, la
sonnacchiosa capitale burocratica appariva agitata da una insospettata vitalità che si
intrecciava con antiche vischiosità. A Roma, scrisse ancora Carlo Levi, la notte si
sentivano ruggire i leoni.
Il secondo percorso, su cui soprattutto mi soffermerò, fu quello politico e
istituzionale che condusse Roma a riacquistare pienamente un suo rinnovato ruolo di
capitale. Mi riferisco alla presenza in Roma del Comitato centrale di liberazione
nazionale, costituito il 9 settembre 1943 dai principali partiti antifascisti, già riuniti nel
Comitato delle opposizioni: Partito Liberale Italiano, Democrazia Cristiana,
Democrazia del Lavoro, Partito d'Azione, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria,
Partito Comunista Italiano. La presenza nella città del Comitato centrale tenne peraltro
nell'ombra il Comitato romano, che infatti in alcuni documenti è denominato "CLN.
Sezione di Roma" (un poco come la prefettura di Roma risulta offuscata dal troppo
vicino ministero dell'Interno).
La "Dichiarazione costitutiva" del CCLN chiamava il popolo italiano "alla
lotta e alla resistenza e per riconquistare all'Italia il posto che le compete nel consesso
delle libere nazioni". L'atto principale emanato in quella fase iniziale fu l'ordine del
giorno del 16 ottobre (redatto da Giovanni Gronchi). Si condannava innanzi tutto il
fascismo repubblicano che voleva resuscitare gli orrori della guerra civile; e si
affermava che la guerra di liberazione esigeva una "sincera ed operante unità spirituale
del paese", che non poteva essere assicurata dal re e dal governo Badoglio. Era perciò
necessario un governo straordinario, espressione delle forze politiche antifasciste che
già si erano opposte alla entrata in guerra a fianco della Germania nazista. Questo
governo doveva "assumere tutti i poteri costituzionali dello Stato" e impegnarsi a
"convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale
dello Stato". Se si ricorda che Badoglio il 2 agosto precedente, aveva annunciato la
elezione della Camera dei deputati, a norma dello Statuto albertino e delle leggi
elettorali prefasciste, quattro mesi dopo la fine della guerra, si può valutare quale
rottura rispetto al vecchio ordinamento rappresentasse l'ordine del giorno del 16 ottobre,
che interpretava lo spirito diffuso in tutti i CLN. Con esso era stato gettato il seme che
porterà alla Costituente. Sull'assunzione di tutti i poteri costituzionali da parte del
governo straordinario, cioè anche di quelli della monarchia, l'ordine del giorno rimarrà
lettera morta, anche se i rappresentanti del Comitato centrale nel congresso di Bari dei
CLN (gennaio 1944) ebbero il mandato di sostenerlo. Ma a Bari la formula fu
edulcorata in quella dei "pieni poteri", senza l'aggettivo "costituzionali". I risultati del
congresso suscitarono una crisi nel Comitato centrale: il suo presidente Bonomi della
Democrazia del lavoro, che insieme ai liberali e ai democristiani e contro le sinistre
dava una interpretazione riduttiva dell'ordine del giorno del 16 ottobre, si dimise e il
Comitato tornerà pienamente attivo solo a partire dal 5 maggio.
Il centro dell'azione politica si era trasferito fra aprile e maggio a Napoli e a
Salerno in seguito alla iniziativa di Togliatti che fece cadere la pregiudiziale
antimonarchica e portò alla costituzione del primo governo di unità nazionale, ancora
sotto la presidenza di Badoglio. Il Comitato centrale il 5 maggio ne prese atto, non
senza tensioni interne. Nel governo di Salerno erano rappresentati tutti i partiti presenti
nei CLN (i socialisti e gli azionisti vi erano in realtà entrati con notevole reticenza); ma
sarebbe inesatto dire che si trattasse di un governo dei CLN. Fu invece proprio a
Roma, dopo la liberazione della città e in conseguenza del compromesso istituzionale
stipulato nel Mezzogiorno che portò al ritiro di Vittorio Emanuele e alla nomina del
principe Umberto a luogotenente non del re, ma del regno, fu allora che il CCLN
acquistò piena legittimità e autorità quale organo che aveva il potere di designare il
governo, alla cui testa fu posto il presidente del Comitato stesso. Ben potè parlarsi
allora di governo del CLN. La liberazione della capitale acquistò così il valore anche
di una svolta istituzionale.
A Roma si manifestò con chiarezza un problema cruciale del processo di
ricostruzione democratica del paese: il
rapporto fra i CLN e i partiti che li
componevano e davano vita ad un governo di coalizione. Sappiamo che vi erano nel
partito d'azione e in quello socialista, sia pur con motivazioni parzialmente diverse basterà qui ricordare i nomi di Vittorio Foa e di Rodolfo Morandi -, notevoli tendenze a
vedere nei comitati di liberazione gli embrioni di nuovi organi di potere popolare,
integrativi, anche se non sostitutivi, della tradizionale democrazia rappresentativa.
Erano posizioni che discendevano dalla riflessione che fra le due guerre si era avuta,
non soltanto in Italia, sulle debolezze di un sistema rappresentativo che non aveva
impedito l'avvento al potere del fascismo e del nazionalsocialismo, e che in Francia
aveva posto a rischio l'ordine democratico alla fine travolto dalla sconfitta del 1940. In
Italia agiva anche la memoria dei consigli di fabbrica del biennio rosso, idealizzati da
Gramsci e da Gobetti. Ed agiva altresì una richiesta di autonomia contro
l'accentramento romano. In una corrispondenza da Firenze, la prima città liberatasi
senza attendere l'arrivo degli Alleati e della quale il CLN aveva assunto il governo, il
"Times" del 25 ottobre 1944 scrisse che "in Italia si diffonde sempre più l'impressione
che il Governo del Paese può essere ricostruito soltanto così, su fondamenta locali".
E' evidente come il Comitato centrale fosse, fra tutti i comitati, quello che
meno poteva venire incontro ad aspettative tanto radicali. Esso recepiva certo le
istanze autonomistiche che sarebbero poi passate nella Costituzione, ma le recepiva
tramite i partiti, organismi per eccellenza unitari, mediatori e nazionali. Quando il
Partito d'Azione settentrionale, inviando il 2O novembre 1944 una lettera agli altri
quattro partiti del CLNAI (nel quale non era presente la Democrazia del Lavoro) si fece
promotore della iniziativa, centrata proprio sul ruolo innovativo dei comitati di
:liberazione nazionale, che Roberto Battaglia ha consacrato alla storia come "polemica
delle cinque lettere", le tardive risposte dei democristiani e dei liberali, redatte a Roma,
come del resto anche quella del PSIUP, insistevano con fermezza sulla natura dei
comitati quali coalizioni temporanee di partiti diversi, uniti solo per raggiungere il
comune, alto e prioritario obiettivo di liberare l'Italia dai tedeschi e dai fascisti e
avviarla a un nuovo assetto democratico, in cui ogni partito avrebbe ripreso la sua
libertà di azione secondo i propri fondamenti ideali e i suoi programmi. La lettera della
Democrazia Cristiana prendeva netta posizione contro la trasformazione del CLN in
una sorta di partito unico, che sarebbe stato fatalmente incline ad assumere caratteri
"totalitari". La storia ha dimostrato che, al di là delle polemiche coeve, questa era la
visione più realistica della natura e dei compiti dei CLN, che infatti non
sopravviveranno alla liberazione del paese; ma non va trascurato il fatto che le istanze
allora lasciate cadere esprimevano, sia pure in formule istituzionalmente
approssimative, un'aspirazione ad andare oltre non solo al fascismo ma anche alle
forme politiche e istituzionali prefasciste.
Nel governo Bonomi i partiti del Comitato centrale operarono una mediazione
di alto livello quando elaborarono, nella forma del decreto del 25 giugno 1944, quella
che Piero Calamandrei chiamò poi la "costituzione provvisoria dello Stato, che doveva
reggere, e resse, l'Italia fino alla convocazione della Assemblea costituente", e che
aveva creato "un ordinamento nuovo, che aveva ormai rotto ogni continuità
costituzionale col regime precedente". Il decreto stabiliva che la scelta delle "forme
istituzionali" fosse demandata al popolo italiano attraverso l'elezione, a guerra finita, di
una assemblea costituente; che fino a quel momento dovesse essere attuata la cosidetta
tregua istituzionale; che il potere legislativo fosse esercitato dal consiglio dei ministri
fino alla formazione del nuovo parlamento; che i ministri non giurassero nelle mani
del re o del luogotenente, ma "sul loro onore, di esercitare la loro funzione nell'interesse
supremo della nazione".
Si ripresenterà rispetto a questo testo, come già a quello del 16 ottobre 1943, la
contrapposizione fra una interpretazione radicale (socialisti e azionisti) e una moderata
( democrtistiani, liberali e lo stesso Bonomi), mentre i comunisti preferirono di non
farsi troppo invisvchiare in dispute prevalentemente istituzionali che in quel momento
non apparivano loro essenziali. Non possiamo qui seguire in modo analitico i
momenti, le occasioni, gli oggetti specifici in cui si manifestò la contrapposizione,
nascosta dalla regola della unanimità, ormai indagati in molteplici studi. Qui possiamo
soltanto soffermarci brevemente su pochi punti.
Innanzi tutto, va ricordato che, pur fra ambiguità, indecisioni, contrasti e veti
contrapposti, i due governi Bonomi legiferarono su molti punti essenziali di interesse
nazionale, e basti qui ricordare il decreto sul voto alle donne approvato dal Consiglio
dei ministri il 31 gennaio 1945.
Governo e Comitato centrale di liberazione si trovarono a gestire due
ineludibili e complessi problemi politici, resi più difficili dai poteri di controllo che gli
Alleati esercitavano in base al regime armistiziale: le sanzioni contro il fascismo e i
rapporti con l'Italia settentrionale, dove il movimento di Resistenza si andava
rafforzando militarmente e politicamente.
Il primo problema non solo era gravido di conseguenze per il presente e
l'immediato futuro di migliaia di cittadini, prossimi elettori, ma implicava nel fondo il
giudizio da dare sul rapporto fra il popolo italiano e il fascismo, sia quello del
ventennio che quello ancora in vita della Repubblica sociale. Il desiderio di giustizia
era da tutti avvertito sul piano morale, ma era difficile trasformarlo in norme, sia perché
è sempre arduo dare veste giuridica ai sentimenti e ai valori, sia perchè le norme,
necessariamente frutto di mediazioni politiche, era facile apparissero o troppo severe o
troppo blande. Già il governo Badoglio aveva emanato sulla epurazione alcune
frammentarie disposizioni che avevano trovato nel Regno del Sud stentata applicazione;
ma il testo fondamentale in questa materia fu il decreto emanato dal governo Bonomi il
27 luglio 1944. A questo provvedimento, e alle sue numerose successive modificazioni,
sono state attribuite molte responsabilità per il sostanziale fallimento della epurazione
sia nel campo amministrativo che in quello penale. Sta comunque di fatto che la
discutibile formulazione di molte norme ne favorì una interpretazione riduttiva (sempre
a causa di cattiva normazione, l'amnistia Togliatti, emanata dopo il 2 giugno 1946,
subirà invece una interpretazione estensiva).
Durante la Resistenza le molte disposizioni in materia di sanzioni contro il
fascismo, emesse in parallelo dal CLNAI, erano improntate a maggiore severità,
indotta anche dalle critiche al modo blando in cui si vedeva condotta a Roma la
defascistizzazione (sintomatica apparve la facilità con cui il generale Roatta, uno dei
peggiori criminali di guerra italiani, era stato lasciare fuggire). Dopo la liberazione le
norme emanate dal CLNAI furono scavalcate dalla estensione anche al Nord della
legislazione emanata a Roma (sulla quale, sia pur con significative varianti, era
peraltro ricalcato il decreto del CLNAI, proprio del 25 aprile, sulla amministrazione
della giustizia).
Questo della epurazione, intesa in senso lato, fu uno dei terreni sui quali il
governo di Roma non poteva non misurarsi con la realtà settentrionale. Le tensioni
non mancarono, e il "vento del Nord" dovrà poi confrontarsi con il "clima del Sud" (la
prima espressione è di Pietro Nenni, la seconda di Aldo Moro). L'idea che il CLNAI
potesse costituire un contropotere di fronte a quello di Roma, anche se da qualcuno
vagheggiata o in chiave localistica e nordista o in chiave pararivoluzionaria, fu sempre
nettamente respinta dai dirigenti della Resistenza settentrionale. Parri lo testimonierà
poi con assoluta sicurezza.
Quando la lotta era ancora in corso si era avuta una regolamentazione formale,
anche se non esente da ambiguità, dei rapporti fra Roma e il CLNAI. Già il 31
gennaio 1944 il Comitato centrale aveva inviato a quello Alta Italia una lettera con la
quale lo investiva dei poteri di governo straordinario per il Nord. Alla fine di novembre
Parri, Pajetta, Pizzoni (presidente del CLNAI) e Sogno (capo della organizzazione
Franchi) vennero in missione a Roma per definire i rapporti del CLNAI sia con il
governo italiano che con gli Alleati. In entrambi i casi gli accordi delusero le maggiori
aspettative della missione, tanto che i suoi membri firmarono dopo qualche esitazione;
ma, come ha poi raccontato Parri, "troppo grande, troppo importante quello che
avevamo ottenuto per non lasciare in seconda linea le altre considerazioni". Quello che
si era ottenuto, oltre al riconoscimento formale, era il fatto che il governo delegava il
CLNAI a rappresentarlo nella lotta contro i fascisti e i tedeschi, mentre il Comitato si
impegnava a fare eseguire dal Corpo Volontari della Libertà gli ordini del Comando
alleato. Proprio perchè era cresciuta, la Resistenza otteneva legittimazioni che
implicavano controlli e condizionamenti, entro il contesto sia nazionale che
internazionale.
Concludo con tre osservazioni di carattere generale.
La prima è che la posizione di Roma, dopo il 4 giugno, va inquadrata in quello
che in un convegno organizzato per l'Irsifar da Enzo Forcella e Nicola Gallerano fu
definito "l'altro dopoguerra" e che potrebbe anche essere chiamato il dopoguerra
dell'Italia liberata prima della Liberazione. Era difficile, così a Roma come nel
Mezzogiorno, gestire allo stesso tempo il prorompente desiderio di pace definitiva e la
mobilitazione degli uomini e degli spiriti per la nuova guerra di liberazione.
La seconda osservazione mi viene suggerita da un recente studio di Mariuccia
Salvati che, riprendendo uno spunto di Nicola Gallerano, ha posto in luce come a Roma
prima della liberazione del Nord vi furono intellettuali che, eredi della più profonda
ispirazione dell'antifascismo, cominciarono con dolorosa sincerità a porsi la domanda
di quali fossero le responsabilità del popolo italiano di fronte al fascismo. La città
esaltata dai fascisti, sede privilegiata dell'incontro fra Chiesa e regime, colpita
duramente dalla occupazione tedesca e tesa, dal basso e dall'alto, alla conquista di una
nuova, non bigotta, fisionomia di capitale, era particolarmente atta a suscitare siffatti
interrogativi. Paradossalmente, fu il vento del Nord a interrompere quella riflessione
sulle responsabilità storiche degli italiani nei riguardi del fascismo, riflessione ancora
oggi purtroppo debole nella coscienza civile del nostro paese, al contrario di quel che
sta avvenendo in Germania. La Resistenza orgogliosa della sua vittoria finale sembrò
una cesura definitiva rispetto a un passato travolto dalla storia, e coloro che
insistevano sulla necessità di un esame di coscienza collettivo rischiarono di essere
relegati proprio fra quei moralisti dai quali volevano differenziarsi, attenti com'erano a
non interpretare la rinata gioia di vivere come invito all'oblio.
La terza e finale considerazione è che le diverse anime della Resistenza,
presenti con modalità e sfumature differenti nelle varie zone d'Italia, e con tonalità
particolari nella Capitale, preludevano, per molti contenuti essenziali, al confronto
politico che si sarebbe aperto dopo la liberazione. I vari attori si erano reciprocamente
riconosciuti come protagonisti di una stessa vicenda, da vivere secondo regole
comuni. La storia dei CLN e del contesto che li sorreggeva, dal Comitato Centrale a
quello Alta Italia, a quelli regionali , comunali, professionali, di azienda può essere
letta, trasversalmente ai partiti e alle dislocazioni geografiche, come esempio di
convivenza e collaborazione di forze e di idealità diverse in vista di una prevalente
missione comune da condurre a compimento. Si trattava di riconquistare uno spirito
risorgimentale e nello stesso tempo creare un ordinamento democratico che andasse
oltre l'assetto dell'Italia prefascista. Rossi e neri, tenuti ai margini dell'Italia liberale, si
legittimavano così a vicenda ed ottenevano entrambi il riconoscimento delle altre forze
politiche. Fu il preludio di quell'incontro di culture politiche che si realizzò nei lavori
della Costituente e il cui frutto va oggi, proprio nel 60° anniversario della Liberazione,
difeso e salvaguardato da nuove e pericolose minacce.