Per rendere più agevole la stampa si è deciso di pubblicare le relazioni in formato rtf. I testi delle relazioni non verranno distribuiti durante il Congresso. Il contratto collettivo di lavoro nel Novecento italiano di Umberto Romagnoli Sommario: 1. Utilità di un flash-back: Lazzaro vive ancora. – 2. Una giurisprudenza autoreferenziale e vincente. – 3. Il progetto di politica del diritto. – 4. Niente può fallire come il successo. – 5. Senza fideismi né catastrofismi. – 6. Il ritorno del rimosso. – 7. Il contratto collettivo ”inautentico”. – 8. La joint-venture tra due premiate ditte. – 9. Le ragioni del neo-costituzionalismo. 1.– Utilità di un flash-back: Lazzaro vive ancora. “Sapete che c’è?”, dissero un giorno d’autunno del ’43 ai docenti delle Facoltà giuridiche del Regno d’Italia; “i corsi di Diritto corporativo non si fanno più: sono sostituiti dai corsi di Diritto del lavoro”. “Sapete che c’è?”, dissero un giorno d’inverno del ’44 ai giudici del lavoro; “il contratto collettivo corporativo resterà in vita, ma è moribondo e, comunque, non potrà autoriprodursi perché il suo habitat originario non c’è più”. “Quando gli uomini si trovano di fronte a qualcosa di nuovo che li coglie impreparati”, ha scritto Eric J. Hobsbawm, “si affannano a cercare le parole per dare un nome all’ignoto”. Mica sempre, però.. Sgarbatamente informati che il diritto sindacale e del lavoro avrebbe dovuto voltare pagina, i nostri professori e i nostri giudici smisero presto di interrogarsi su come ridenominarlo. E fecero bene: la più persuasiva testimonianza della micro-discontinuità come costante evolutiva del diritto sindacale e del lavoro è fornita proprio dalle modalità di demolizione del vecchio ordinamento e di costruzione del nuovo. Anche per questo, “ la parola-chiave sarebbe stata la breve preposizione ‘dopo’, generalmente usata nella forma latina ‘post’, come prefisso del termine”, più dotto che politico, col quale le élite colte e ideologizzate delle generazioni precedenti avevano qualificato il regime giuridico-istituzionale del loro tempo. Così, all’unico contratto collettivo possibile venne incollato il prefisso che lo qualifica post-corporativo e gli sarebbe rimasto appiccicato addosso. Ce l’ha tuttora. Ci mancherebbe altro, però, che nel frattempo la sua decrittazione non fosse stata ultimata. Sostenere che la questione è rimasta aperta sarebbe una sciocca impertinenza, visto l’ eccezionale dispendio di risorse argomentative richiesto per trovare una soluzione accettabile, ed anche falsificante, dato che l’aggettivazione ha svelato in fretta il mistero che celava. Post-corporativo è il contratto collettivo che, blindato (come l’antecedente) dagli artt. 2077 e 2113 c.c., non ha mai smesso di rivendicare il ripristino dell’efficacia erga omnes la cui mancanza ha sopportato e sopporta – non solamente lui, peraltro, ma anche il legislatore – come una menomazione, ossia con un indicibile senso di privazione. Infatti, l ’ abbigliamento abituale dell ’ antecedente lui lo può indossare soltanto nei giorni di festa e soltanto se lo ha rubato, con la destrezza occorrente per non farsi arrestare in fragranza di reato; diversamente, sarebbe processato e condannato per furto, magari con scasso. Nondimeno, ciò che il diritto comune dei contratti nega è affermato dalla vulgata corrente. Insomma, sono in pochi a sapere che il contratto collettivo post-corporativo vivacchia in uno stato di minorità, come un’anatra azzoppata. Anzi, si può tranquillamente scommettere che la gente non ci crederebbe se le dicessimo che i contratti collettivi i cui periodici rinnovi, come informano i mass-media, costano in genere mesi di trattative e molte ore di sciopero sono paragonabili ad uno smisurato serbatoio idrico sprovvisto dell’impianto atto a trasformare l’enorme energia potenziale dell’invaso in energia cinetica ed assicurare la distribuzione della corrente elettrica anche nelle abitazioni situate nelle più remote contrade. Ci prenderebbero sul serio soltanto i poveri-cristi a cui è toccata l’esperienza di restare al buio e, a causa del loro isolamento, per farsi un po ’ di luce hanno dovuto accontentarsi di accendere il cerino della contrattazione individuale. Tutti gli altri, invece, è probabile che non ci darebbero retta. Dal loro punto di vista, non hanno torto. Vaglielo a spiegare che l’autonomia contrattuale collettiva non dispone di mezzi espressivi meno precari di quelli allestiti con forbici e colla da una giurisprudenza creativa; che esiste una madornale sproporzione tra la regolazione del contratto collettivo che c’è e una prassi contrattuale che è un eufemismo definire orgiastica; che bisogna avere il gusto del paradosso per pensare che l ’esuberante vitalità del contratto collettivo sia dovuta proprio alla segnalata carenza di regole appropriate. Vaglielo a spiegare che, nonostante la propaganda del regime, nemmeno il contratto collettivo corporativo apriva le porte del Paradiso del garantismo, perché quello era un contratto che faceva parte integrante dei coevi “ scenari decorativi” caratterizzati, secondo Piero Calamandrei, da un “congegno di doppio gioco sistematico” simile al fondo nascosto delle valigie dei contrabbandieri. Vaglielo a spiegare che soltanto nel periodo compreso tra la caduta dell’ordinamento corporativo e l ’ entrata in vigore dell ’ art. 6 della legge 533/1973 “ il rapporto di consequenzialità tra inderogabilità delle norme e l’invalidità del negozio” dispositivo posto in essere dal lavoratore-creditore (G. Giugni) ha potuto ricostituirsi con una durezza di poco inferiore a quella che conobbe all’ epoca del divieto dei patti contrari formulato dall’art. 17 della legge sull’ impiego privato (R. De Luca Tamajo); e ciò perché i sindacati post-corporativi, vittime di un esasperato formalismo giudiziale, non erano considerati idonei ad esercitare un ruolo di assistenza efficace nei confronti dell’autonomia privato-individuale in sede di conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro. In effetti, nemmeno la più sofisticata disquisizione teorica dipanata sul filo del “ mi spezzo, ma non mi spiego ” che troppo spesso cinge le fronti dei giuristi-scrittori dello star system accademico può sciogliere in maniera persuasiva l’enigma della relazione che intercede tra l’art. 2077 e il vigente art. 2113, ossia tra una norma con la quale la colonizzazione del contratto collettivo ad opera della legge raggiunge uno dei suoi punti più alti per azzerare la negoziazione a livello individuale delle condizioni di lavoro e una norma che, per riammetterla sia pure in un contesto tonificato da rassicuranti presenze istituzionali, affievolisce il legame tra inderogabilità del contratto collettivo e indisponibilità dei diritti economici individuali che ne derivano; diritti che, se tutto ciò non bastasse, fino ad una pronuncia della Corte costituzionale della seconda metà degli anni ’60 erano soggetti anche a prescrizione in pendenza del rapporto e la cui prescrittibilità, ad avviso della stessa Corte, è controversa dopo l ’ entrata in vigore dello statuto dei lavoratori. Ciononostante, il good-bye al contratto collettivo corporativo è stato uno dei più sofferti della storia giuridica e la sua eco non si è mai spenta del tutto, come sa anche chi non abbia l’udito per decifrarla con la finezza di Mario Rusciano o di Gaetano Vardaro (e pochi altri, in verità). Infatti, nessuna opzione di politica del diritto sindacale è stata assistita da una convergenza di consensi superiore, per ampiezza e spontaneità, a quella realizzata dalla decisione governativa di sancire, unitamente alla soppressione delle organizzazioni sindacali dell ’ epoca corporativa, la sopravvivenza delle norme che esse avevano negoziato, “ salvo le successive modifiche”.. Un inciso, questo, che col trascorrere del tempo avrebbe acquistato un sapore oracolare; mentre, nell’immediato, il suo significato sembrava univoco e trasparente: le “successive modifiche” sarebbero state introdotte col consenso del soggetto che – parafrasando una formula testuale del decreto del ’44 – “dimostrerà di avere legalmente la rappresentanza della categoria corrispondente a quella tutelata dall ’ associazione disciolta”. Come dire che venne scritto per mantenere aperto o riaprire un ciclo che, viceversa, si era interrotto. Insomma, in materia di lavoro e delle sue regole, non ci furono break risolutivi. In compenso, non ci fu nemmeno il black-out. Non so i vostri, ma i miei studenti mi guarderebbero stralunati se li introducessi allo studio del contratto collettivo descrivendone lo stato a cui lo ha ridotto la dogmatica giuridica con le sue sottigliezze: penserebbero che è una categoria logico-concettuale immobile e inanimata, come un esemplare faunistico impagliato. Affinché si formino un’idea sufficientemente precisa e concreta di come sono andate le cose, se sono in vena di humour, magari un po’ nero, preferisco raccontare (ah, cosa non farebbe un docente per farsi seguire a lezione!) una short story che ha la velocità e l’immediatezza comunicativa d ’uno sketch. Racconto che gli operatori giuridici e sindacali della transizione – in un paese devastato dalla guerra nel quale era da irresponsabili alimentare il clima di incertezza che stava attraversando – giurarono a se stessi di non farsi impressionare dagli innumerevoli segni della morte annunciata del contratto collettivo corporativo e stabilirono di fare anche l’impossibile per minimizzare le conseguenze del trapasso, tappando buchi e stuccando crepe. Detto e fatto. Dato che il destino del contratto collettivo corporativo era segnato, si comportarono come quando scompare un personaggio di cui il mondo intero pensa di non potersi assolutamente privare: gli si infila sul naso un paio di occhiali neri, lo si mette seduto e si tiene segreta la notizia del decesso finché non si trova il legittimo erede del caro estinto o, perlomeno, un continuatore affidabile delle sue prodezze. Il comportamento era necessitato. Soprattutto la disposizione-ponte del ’44, diretta a conservare integro il complesso di norme contenuto nei contratti collettivi vigenti, “fino a quando non (fosse stato) possibile adeguarlo alle nuove esigenze” era dettata dall’emergenza e la sua “utilità sociale”, come avrebbe certificato la Corte costituzionale, era indiscutibile. Tutti erano di questo parere. I comuni mortali, in primo luogo. Ma anche il ceto professionale degli operatori giuridici. Anche la neonata Cgil unitaria di Giuseppe Di Vittorio; anzi, non è da escludere che l ’adozione del provvedimento corrispondesse ad una sua pressante richiesta. Come dire che a nessuno venne il sospetto che la misura legislativa, per quanto socialmente opportuna, avrebbe preso in ostaggio il sindacato, condizionato i lavori della Costituente e orientato gli sviluppi della costituzione materiale. Il che non può sorprendere: la massima di ragion pratica “ciò che è urgente prevale sempre su ciò che è importante” è troppo suadente per non riuscire a catturare il pensiero che, nel dopo-Liberazione, presiede alla riattivazione del più popolare istituto del diritto sindacale. Peraltro, neanche in epoca posteriore alla costituzione la realtà effettuale permetterà di registrare significativi scostamenti. Il flash-back può terminare qui, perché il mio dovere l’ho fatto. I miei studenti sono abbastanza preparati per capire che quella post-corporativa è la stagione delle reticenze, delle rimozioni e delle manipolazioni condivise. En attendant Godot. 2. – Una giurisprudenza autoreferenziale e vincente. Ovviamente, ciò che venne taciuto non poteva essere l’irreversibilità del coma profondo in cui era caduto il contratto collettivo corporativo come costrutto storico. Piuttosto, si preferì farne un dato ontologico, svalutando il dato dell’ascrivibilità di alcune delle sue connotazioni più caratterizzanti – efficacia reale ed efficacia cogente erga omnes – ad un ordinamento giuridico che negava la libertà sindacale quanto quella civile e politica. Difatti, come denunzierà Gaetano Vardaro con la lucida passionalità che lo distingueva, è all’enfatizzazione dell’accidentalità (ininfluenza, insignificanza) di tale connessione che si deve l’incontrastato successo della tesi secondo la quale la configurazione dell’istituto risalente alla legge Rocco del ’26 esprime un’idea intramontabile che ne è slegata e dunque è politicamente neutra, culturalmente incontaminata. L’idea, a cui si riconobbe anche in sede costituente la proprietà di imporsi col nitore accecante delle intuizioni auto-evidenti che zittiscono tutti, è scomponibile in due proposizioni. La prima: allorché si manifesta in una dimensione collettiva ed assume una massiccia rilevanza sociale, anche l’autonomia negoziale dei gruppi privati acquista la valenza dell ’ eteronomia ed esige perciò il sacrificio totale o parziale dell’autonomia degli individui. Diversamente, si finirebbe per distruggere l’essenza di ogni tipo di contratto collettivo, non solo quello di natura pubblicistica. Come dire che l ’ art. 2077 c.c. esprimerebbe un principio transtipico inerente al modello di struttura della norma collettiva: non essendo circoscrivibile al contratto collettivo corporativo, inerisce al contratto collettivo inteso come istituto decontestualizzato. In effetti, è indubitabile che “ciò che dava ai movimenti operai la loro forza originale era la convinzione giustificata dei lavoratori che gente come loro non poteva migliorare la propria sorte con l ’ azione individuale, ma solo con l’azione collettiva” (E. J. Hobsbawm). La seconda: i rappresentanti sindacali ritengono irrealizzabile la loro massima aspirazione, che è quella ad accreditarsi a livello di eccellenza come portatori dell ’ interesse collettivo della generalità dei lavoratori dipendenti, se non si vedono riconosciuta anche dallo Stato la legittimazione a generalizzare l’applicazione delle regole che pattuiscono in aree (geografiche, merceologiche, professionali) di crescente estensione; aree che, come è naturale, risultano tanto più vaste quanto più le regole fissano standard minimi la cui uniformità riflette l ’ omogeneità di condizioni esistenziali suscettibili di generare, tra quanti le condividono, l’uso del pronome “ noi ” . Che, direbbe un sociologo, esprime il desiderio di considerare il luogo di lavoro a stregua di una comunità e l’orgoglio di appartenervi. Condivisa dagli esponenti più autorevoli del sindacalismo migliore e della migliore dottrina non solo del nostro paese, l’idea appena sunteggiata preesisteva all ’avvento del fascismo giuridico: perché, allora, farla morire con lui? perché buttare via l ’acqua sporca col bambino dentro? Se lo chiedeva anche il governo Badoglio. Dice un suo ministro: “il governo non intende distruggere tutto ciò che ha trovato. Quel che oggi ci preme è evitare ogni brusca frattura nell’ordinamento sindacale, sia pure con gli adattamenti richiesti dalla nuova situazione politica” (L. Piccardi). Queste parole, riportate sul Giornale d’Italia del 5 agosto del ’43 sono prudenti; come le decisioni che saranno prese poco dopo. Così, il 9 agosto un decreto legge si limiterà a stabilire, con la sciatteria lessicale di chi ha una fretta maledetta, che i contratti collettivi non potranno diventare vincolanti per le categorie di riferimento se non “ quando siano approvati dall ’ esecutivo, previe le modificazioni del caso”. Se lo chiederanno anche i padri costituenti. Ritenendosi obbligati ad assomigliare più a Nestore che ad Achille, disegneranno nel quarto comma dell’art. 39 del documento costituzionale l’identikit del sindacato in maniera che tutti ne captassero al volo la diversità rispetto alle altre società intermedie. E’ la diversità che sospinge il sindacato ad inoltrarsi nell’area del diritto pubblico con la pretesa, o la fiducia, di non restarvi imprigionato; è la diversità che fa di lui un “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato e, nello stesso tempo, soggetto di una funzione pubblica” (V. Foa), perché sa che, senza la libertà dei privati, non si conquistano i diritti sociali fondamentali, ma sa anche che la libertà dei privati non basta da sola a garantirne l’effettività. Può darsi che ai padri costituenti non fosse chiaro il ruolo del sindacato in condizioni di normalità. Anzi, tenuto conto che i ruoli si definiscono soltanto nel vivo del loro esercizio concreto, è vero senz’altro (A. Accornero). Infatti, il ruolo della Cgil unitaria coeva all’avvento della Repubblica ed alla Costituente si definisce non tanto sul terreno della contrattazione collettiva – che non decolla se non nel corso del ’47 e “presenta gli stessi vizi del metodo corporativo” (G. Giugni) – quanto piuttosto sul terreno delle alleanze coi partiti antifascisti per il perseguimento di fini a lunga o lunghissima scadenza e non negoziabili. Come dire che, per la Cgil dell’epoca, astenersi dal ricercare una identità distinta da quella dei partiti che l’hanno fatta nascere non equivale ad una dolorosa rinuncia. E ciò perché identifica come suo compito primario ed assorbente quello di contribuire alla riapertura d’un ciclo risorgimentale che veda il popolo non più spettatore della costruzione dello Stato degli altri, bensì partecipe della progettazione d’uno Stato che sia finalmente la casa di tutti. Per questo, il più prestigioso leader della Cgil, quando parla in qualità di deputato alla Costituente, prende la parola come “rappresentante delle masse lavoratrici che fanno parte dello Stato e che non sono contro lo Stato ”. Tutto vero; ciò non toglie che l’automatica sostituzione delle clausole collettive alle clausole individuali difformi non è sancita in tutti gli ordinamenti e che l’efficacia generale del contratto collettivo è ottenibile anche senza impiegare tecniche che presuppongono o promuovono l ’ inserimento del sindacato non solo nello Stato-ordinamento, ma anche nello Stato-apparato, ad una tale profondità e con tali ramificazioni che ad un certo punto un maestro del realismo giuridico italiano (M. S. Giannini) non potrà più esimersi dal qualificare seccamente i maggiori enti esponenziali degli interessi delle categorie economico-professionali, incluse quelle degli imprenditori, come amministrazioni pubbliche parallele alle amministrazioni statali. Per questo, se accendi un pc con programmi aggiornati all’ ultimo anno del Novecento e clicchi in rapida successione sulle icone “ sindacato ” e “ contratto collettivo ” , sullo schermo appariranno in corrispondenza diciture di questo tenore: “ Associazione più virtuale che virtuosa, in bilico tra le istituzioni pubbliche e le istituzioni private, ma sbilanciata più verso il pubblico che verso il privato” e ”Auto-regolazione sociale con caratteri irriducibili sia alle fonti come categorizzate dal diritto pubblico sia al contratto come definito dalle codificazioni” (G. Giugni), che dà origine al “rebus di un contratto privatistico con gli effetti tipici di un atto normativo” (T. Treu). Ormai, anzi, non è neanche più un contratto: è un’emicrania. Infatti, “non si sa più con certezza cosa sia e anzi non si sa se il contratto collettivo che un tempo si diceva ‘di diritto comune’ esista ancora o sia mai realmente esistito” (A. Tursi). Ci pensi un po ’ sopra e ti convinci facilmente dell ’ esistenza di una correlazione biunivoca; la bipolarità inscritta nel patrimonio genetico del sindacato si coniuga con quella di un “ibrido che ha il corpo del contratto e l’anima della legge” (F. Carnelutti) e, più latamente, si rispecchia nelle “due anime” del diritto del lavoro: quella privatistica, conflittuale, egoistica e quella "pubblicistica, partecipativa, attenta alle interferenze tra la disciplina del rapporto di lavoro ed il funzionamento dell’ impresa e del complessivo sistema economico” (A. Vallebona). Ad ogni modo, quando l ’Aidlass scelse come tema del suo III congresso nazionale il contratto collettivo di lavoro – trent’anni fa – i giochi erano ormai fatti. La giurisprudenza aveva sgominato la dottrina e l’aveva trascinata sul suo terreno. Il che era stato più facile di quanto non si creda, perché né l’una né l’altra avevano in mente “un contratto la cui efficacia normativa non rinviasse ad altro che al contratto medesimo, cioè alla stessa libertà negoziale delle organizzazioni” stipulanti (A. Tursi). Infatti, i giuristi-scrittori dello star-system accademico non contestavano che il collettivo prevalesse e dovesse prevalere sull ’individuale: rimproveravano alla magistratura la spericolata accondiscendenza con cui avvalorava la loro gerarchizzazione. E’ infrequente, però, che la giurisprudenza si lasci intimorire dalle critiche della dottrina. E ciò per molti motivi: non ultimo quello attinente alla possibilità concreta di svolgere un ruolo di supplenza legislativa avvalendosi di un potere decisionale del cui esercizio risponde unicamente a se stessa. La giurisprudenza, insomma, dispone delle risorse per “edificare come se la sabbia fosse pietra ” , direbbe Jorge Luis Borges, e consentire alle sue profezie di auto-adempiersi. Per questo, la comune accezione del contratto collettivo invalsa nell’ esperienza è stata quella che la creatività giurisprudenziale aveva riplasmato. Vero è che il tratto distintivo del mestiere del giurista è non tanto la bontà dei risultati caldeggiati quanto piuttosto la persuasività degli itinerari percorsi per arrivarci. Tuttavia, si può seguitare a trascurare una dilagante e compatta giurisprudenza? Per questo, con l ’ equilibrio e la ragionevolezza che gli sono abituali, Gino Giugni avanzò prudentemente l’ipotesi di un onorevole armistizio tra dottrina e giurisprudenza. Preso atto che la costante interpretazione giurisprudenziale ne aveva “ ingenerato la certezza” nelle stesse parti contraenti, Giugni propose di qualificare l’ inderogabilità degli effetti del contratto come “un elemento naturale dell’assetto pratico degli interessi” che integra la pattuizione individuale ex art. 1374 c.c. L’ipotesi venne immediatamente respinta con aristocratico distacco da esponenti dello star-system accademico come Luigi Mengoni e Giorgio Ghezzi; ma nettamente più pronunciata era la proclività di altri giuristi-scrittori ad accettare il ruolo di glossatori della giurisprudenza. Probabilmente, la tendenza apologetica raggiunse il culmine con la folta schiera dei giuristi-scrittori i quali, pur censurando l’uso giudiziario dell’art. 2077 c.c., ne approvavano incondizionatamente la finalità al punto di infatuarsi di una concezione dell’interesse collettivo che può essere definita magico-religiosa. Viceversa, se avessero adottato un atteggiamento un po’ più laico, si sarebbero accorti che un interesse corrispondente a quello che si immaginavano – un Giove signore dei fulmini – non c ’è. Non c’è mai stato, tranne che nei testi di mitologia giuridica. Se poi avessero avuto qualche esperienza personale delle dinamiche che si sviluppano nei processi di formazione del consenso sociale, avrebbero scoperto che la pluralità degli interessi collettivi dà origine ad una specie di Olimpo dove ciò che manca – come scrisse con graffiante arguzia Massimo Severo Giannini a proposito degli interessi pubblici – “sono proprio gli dei maggiori, anzitutto Giove, capaci di mettere un po’ d’ordine” non solo nei loro apporti interni, ma anche nei rapporti coi comuni mortali e con lo Stato. Ai comuni mortali non rendono conto di come li sostituiscono nelle scelte che li riguardano e lo Stato, che si vuole tenuto a sanzionarne l’assoggettamento alla disciplina conforme all’interesse collettivo, non ha la possibilità di verificare la legittimazione dei portatori di quest’ultimo a disporre degli interessi individuali. Alla fin dei conti, il tentativo a mio avviso più riuscito di razionalizzare l’ operato d’una giurisprudenza contraria all’opinione secondo la quale “tutti gli articoli che il codice dedica al contratto collettivo (sono) talmente vincolati all ’ordinamento corporativo da non poter essere considerati in vigore”, e propensa ad annoverare l’art. 2077 tra gli “articoli ‘sganciabili’ dall’ordinamento corporativo, nel presupposto che il contratto collettivo non deve mancare di efficacia reale per essere propriamente tale ” (L. Riva Sanseverino), è stato sviluppato in una monografia che non risulta dagli Atti del Congresso Aidlass del 1967 sia stata mai citata nel dibattito – presumibilmente, all’epoca era fresca di stampa o ancora in bozze e l’ autore (pardon, l’autrice) era assente o silente. Il metodo usato – come si dice anche oggi, ma allora si pretendeva di più – è rigorosamente tecnico-giuridico. E’ lo stesso metodo di cui si sarebbe servito una diecina di anni più tardi Francesco Galgano per dimostrare che gli “accordi tra gli associati” a cui si richiama l’art. 36 c.c. non esauriscono la disciplina del contratto associativo. E ciò perché è dato rinvenire norme che, pur costituendo parte integrante del nucleo formato dagli artt. 14-35, appaiono legislativamente formulate per l’associazione riconosciuta in quanto associazione. Pertanto, essendo estranee alla finalità della specifica disciplina che consegue al riconoscimento, esse costituiscono il contenuto minimo legale del contratto associativo e sono applicabili anche alle associazioni non riconosciute come persone giuridiche. Non dissimile è la razionalità del criterio selettivo proposto da Cecilia Assanti con riferimento alle norme contenute nel capo III del tit. I del Libro V del codice civile. Anche lei muove dalla premessa, che la giurisprudenza considera ius conditum, della immutabilità della funzione sociale del contratto collettivo come “ specie essenzialmente unitaria ” , di cui la versione di diritto corporativo e quella c.d. di diritto comune non sono altro che un ’ articolazione tipologica. Coerentemente, anche lei setaccia una manciata di norme codificate allo scopo di individuare quelle che, apparendo dettate legislativamente per il contratto collettivo corporativo in quanto contratto collettivo, si limitano ad effettuare il fissaggio degli elementi costitutivi del modello ideal-tipico e pertanto conservano intatta la loro vitalità. In particolare, possiedono tale capacità di resistenza le norme che, come l’art. 2077, non rinvengono il presupposto diretto della loro applicazione nell’ efficacia generale del contratto collettivo, fermo restando che non sono da considerarsi abrogate, ma soltanto sospese temporaneamente anche le norme che presuppongono l’efficacia erga omnes; e ciò perché quest’ultima non è conciliabile col pluralismo sindacale se non attuando l’art. 39. Al termine della sua rivisitazione, quindi, l’Assanti trova non tanto quel che voleva cercare, ma esattamente quel che voleva trovare prima di iniziare la ricerca, ossia la conferma che il contratto collettivo post-corporativo è fecondato nel grembo del codice civile e perciò ritiene di poterlo costruire per differenza specifica su quello codificato; una differenza di natura più quantitativa che qualitativa (G. Pera) che, essendo perfettamente compatibile col principio costituzionale di libertà sindacale, non può precludere al c.d. diritto comune di concedere al contratto collettivo che ne reca il nome spazi meno avari di quanto non si possa supporre. In piena sintonia con la giurisprudenza, insomma, il contratto collettivo c.d. di diritto comune sarebbe in realtà un contratto collettivo corporativo di seconda generazione, che rispetto all'omologo scomparso si distingue – come sembrava anche a Giuseppe Suppiej – soltanto in ragione del suo nanismo: poiché la sua efficacia è soggettivamente limitata, è un contratto collettivo corporativo in formato-bonsai. Così, dopo averla tanto censurata per la sua trasgressiva creatività, la dottrina presta un’argomentazione elegantemente assolutoria ad una giurisprudenza che aveva sempre pensato che bisognasse riporre in frigorifero tutte le norme legificate riguardanti il contratto collettivo e aveva sempre creduto o sperato – raramente temuto – che sarebbero gradualmente maturate le condizioni opportune per servirle come un surgelato, nella misura in cui si fosse venuta formando una situazione sostanzialmente equivalente al tipo contrattuale diventato in apparenza un reperto archeologico. L’efficacia erga omnes, però, restava un sogno proibito: le mani fatate d’un’estetista diplomata non bastavano a compiere il miracolo. Ciò non significa che magistratura e Parlamento si limitassero ad aspettare Godot. Coscienziosamente ontologizzato, il contratto collettivo corporativo era ormai diventato il paradigma delle regolamentazioni-tipo di rapporti di serie quali sono i rapporti di lavoro e l’erga omnes un traguardo poco meno che ossessivo, un tabù, un feticcio. Certo, sapevano che era dura sfidare la collera e lo sdegno provocati da ogni tentativo di violare i sacri confini del potere di rappresentanza esercitabile dai contraenti collettivi secondo i principi civilistici. Per giudici e legislatori, infatti, il problema maggiore è sempre stato, più che altro, quello di agire con discrezione, di non essere colti platealmente con le dita nella marmellata, di non essere così insolenti da risultare indifendibili. Esemplare è il bon ton esibito dal Parlamento in occasione dell ’ approvazione della famosa legge delega del ’59. Sostenuti dal comprensibile intento di non esporla al rischio di una bocciatura ad opera della Corte costituzionale, i suoi autori fingeranno che l’attuazione dell’art. 39 fosse imminente. Le leggi delegate, scrivono nell'art. 6, "saranno emanate (...) entro un anno (…) o nel minor termine in caso di entrata in vigore della legge applicativa dell’art. 39 della costituzione”. L’affermazione era palesemente farisaica; ma la Corte dovette prenderla per buona e, per salvare la legge, concluse che il regolamento legale dei rapporti di lavoro instaurato con un metodo alternativo a quello caro ai padri costituenti aveva il carattere della transitorietà, con ciò dimostrando che l’ipocrisia non è soltanto “l’omaggio che il vizio rende alla virtù” – come pensava quel moralista di La Rochefoucault. Talora, anche l’ipocrisia può essere virtuosa; e noi che non siamo dei moralisti sappiamo che è vero. Quella è stata l’unica volta che un legislatore dell’Italia repubblicana, invidioso della libertà di manovra che il suo balbettante predecessore aveva potuto prendersi tra il ’43 e il ’47, confessò che la ritardata inattuazione del quarto comma dell’art. 39 cost. era – anche per lui – una sciagura. E’ stata la prima volta. Ma sarebbe stata l ’ ultima. Dopo, infatti, non si è mai discostato da uno stile di comportamento di rara compostezza. Uno stile che ricorda quello dei generali francesi dopo Sedan: “pensarci sempre, ma non parlarne mai”. La giurisprudenza, no. Disinibita e sbrigativa anche a costo di apparire rozza – come è testimoniato, inter alia, dal dominante orientamento che identifica la giusta retribuzione sacralizzata dall’art. 36 cost. in quella prevista dai contratti collettivi post-corporativi – optò per la linea del “si fa, ma non si dice”. E non solo la giurisprudenza di merito. La stessa Corte di cassazione – che pure era “tanto ferrea e inamovibile nel difendere il principio dell’applicabilità del contratto (post-corporativo) ai soli iscritti” – non è mai stata severa quando si trattava di “convalidare le acrobazie che i giudici di merito (si erano allenati a) compiere per disattendere in concreto tale principio” (P. Ichino). Dal canto suo, nemmeno la Corte costituzionale si è mai tirata indietro quando è stata chiamata a coonestare la funzione para-legislativa del contratto post-corporativo. E, al riguardo, vale la pena di rammentare che hanno cominciato prestissimo ad interpellarla: subito dopo il suo insediamento istitutivo. La vicenda ha inizio con un quesito consistente nel sapere se fosse costituzionalmente corretto che un giudice condannasse un imprenditore non iscritto ad alcuna delle associazioni che avevano stipulato un contratto collettivo post-corporativo per inosservanza del medesimo. Vero è, si lamentava l’imprenditore, che una legge del ’ 55, non priva peraltro di precedenti analoghi, vietava che il salario degli apprendisti fosse inferiore a quello previsto dai contratti collettivi; però, i contratti a cui essa rinviava erano sprovvisti di efficacia generale. Non senza un fraseggio visibilmente impacciato, la Corte respinse l’argomento, sentenziando che la legge non intendeva attribuire al contratto post-corporativo un’efficacia impropria mediante una surrettizia attuazione dell’art. 39 cost.; piuttosto, era il contratto che permetteva alla legge di produrre l’efficacia che le è propria ed era a questo fine che la legge denunciata per incostituzionalità gli assegnava la rilevanza di un fatto il cui verificarsi integra e perfeziona il precetto legale. Nel gennaio del 1957 pochi potevano supporre che lo schema di ragionamento seguito dall’Alta Corte fosse destinato ad affinarsi e articolarsi fino a diventare uno dei pilastri che hanno sostenuto il peso dei rapporti di cooperazione funzionale tra legge e contratto collettivo nel dopo-costituzione. E ciò perché incontrava ancora animosità, incredulità o chissà che altro l’opinione per cui l’inattuazione del quarto comma dell’art. 39 cost. si sarebbe protratta sine die e Godot non sarebbe mai arrivato. Solamente quando è apparso evidente che, col succedersi delle legislature, i rapporti tra legge e contratto collettivo c.d. di diritto comune acquistavano sistematicità e si arricchivano in maniera impensabile pur restando indefiniti, (non solo) l’Alta Corte si renderà conto che piegarsi al pragmatismo della regola non scritta per cui la legge non può fare a meno del contratto collettivo era un atto dovuto. Quanto, invece, alle “acrobazie” giudiziarie – poco più di piccole astuzie, tutto sommato, al confronto con quelle in cui si esibivano e si sarebbero esibiti i Parlamenti – che permettevano di dilatare, alla spicciolata e furtivamente, la sfera di efficacia soggettiva del contratto collettivo post-corporativo, generalmente incontravano indulgenza. Un’indulgenza che l’inclinazione dei giudici ad imitare Robin Hood non basterebbe a giustificare. Essa, in realtà, è troppo estesa e istintiva per non alimentarsi della incrollabile persuasione che è inutile resistere alla tendenza del contratto collettivo ad allargare il proprio ambito di operatività: è inutile, perché corrisponde ad una diffusa aspettativa. Sarà un atteggiamento volpino, ma quando nel nostro mestiere ci capita di registrare che una somma di forzature o deviazioni, di finzioni o espedienti si è tramutata in un solido e costante orientamento di pensiero, è consigliabile trattarlo per ciò che è: ravvisarvi l’espressione compiuta di un progetto di politica del diritto, ricostruirne la logica e misurarne l’impatto. Per questo, ho molto apprezzato che uno dei più disincantati giuristi-scrittori dello star-system accademico non abbia saputo trattenersi dal compiere un gesto di riparazione, sia pure tardiva. Riconoscendo alla “ spregiudicata” ed ”eclettica” giurisprudenza del periodo qui considerato il merito di avere realizzato “le condizioni regolative eteronome necessarie, ma anche sufficienti per un ordinamento sindacale di fatto”, Tiziano Treu ne ha celebrato l’ elogio postumo. Dopotutto, l ’efficienza regolativa del contratto collettivo della seconda metà del Novecento italiano è un portato innovativo del conservatorismo di un ceto giudiziario che non esitò a calare il contratto collettivo post-corporativo nel modello del contratto collettivo codificato in Italia nella prima metà del medesimo secolo. 3. – Il progetto di politica del diritto. Il progetto giurisprudenziale di politica del diritto è strutturalmente binario. Riguarda il contratto collettivo e, al tempo stesso, il conflitto collettivo. Pertanto, sarebbe arbitrario spezzarne la coesione interna, smontarne i pezzi ed esaminare separatamente gli sviluppi applicativi di ciascuno di essi. La chiave di lettura non può non essere unificante, perché lo impone la stessa chiave di volta dello statuto epistemologico del diritto sindacale, dove il giudizio di disvalore che colpisce il conflitto non ha mai nemmeno sfiorato il contratto collettivo; uno statuto che celebra l’apologia del contratto collettivo come profilattico del conflitto. Infatti, quello in cui avrebbero voluto vivere gli ideatori dell’abc e della grammatica del diritto sindacale nell’Occidente europeo era “il paese dove non si sciopera” e dove la contrattazione collettiva assomiglia alla “contrattazione di borsa (che) si apre e si chiude con fulminea rapidità e senza tante discussioni”, come auspicava Francesco Carnelutti. Ad ogni modo, l ’ esperienza giuridico-sindacale (anche) comparata sta lì a testimoniare che la desiderabilità del contratto collettivo aumenta in misura inversamente proporzionale alla conflittualità che accompagna i processi di formazione del consenso e l’apprezzamento della sua attitudine regolativa è una variabile dipendente dalla sua affidabilità come base di calcolo dei costi di produzione fino alla scadenza prevista. Era inevitabile, quindi, che la medesima asimmetria valutativa si riproducesse nel progetto di politica del diritto accarezzato per decenni dal ceto giudiziario. La valorizzazione giurisprudenziale dell ’ autonomia contrattuale collettiva ha proceduto contestualmente alla demonizzazione del conflitto e anzi la ri-regolazione di quest’ultimo, pur rivelando il medesimo atteggiamento acritico e inerziale che i giudici prediligevano quando si occupavano del contratto collettivo, è l ’ esito di un maquillage assai più leggero e superficiale delle preesistenti regole repressive. Proprio per questo, però, non solo a me è sempre sembrata un ’ ingenuità qualificare tout court un “ errore felice ” l ’ innesto giudiziario dell’art. 2077 sul contratto collettivo post-corporativo. Vero è che, fondando sul diritto positivo il principio della prevalenza del collettivo sull’individuale a cui consegue l’automatica applicazione delle clausole collettive al posto di quelle divergenti del contratto individuale, la giurisprudenza ha impedito che “la stessa funzione delle associazioni sindacali (fosse) gravemente pregiudicata ” (A. Cataudella). Anzi, tenuto conto dell ’ epoca del predetto innesto giudiziario – un’epoca nella quale il potere del movimento sindacale è così tenue da non riuscire ad imporre la regolare periodicità del rinnovo dei contratti nazionali neanche nella categoria-pilota dei metalmeccanici, che dovrà attendere due lustri per rinegoziare il suo primo contratto post-corporativo – non è mica da visionari parlare di atteggiamento promozionale o di sostegno ante litteram. Questa però non è che una mezza verità. Essa va completata osservando che la giurisprudenza – pur senza sbandierare l’esistenza di un nesso di corrispettività, perché teorizzare non è il suo mestiere – considerava la garanzia dell ’ automaticità dell ’ efficacia regolativa del contratto collettivo come una moneta di scambio politico. Come dire: il suo contributo ad impedire l’indebolimento dell’autoregolazione sociale equivaleva al pedaggio che il supplente del legislatore era disposto a pagare per prevenire incendi, ossia per soddisfare la medesima esigenza di ordine pubblico che sospingeva il medesimo supplente del legislatore a mantenere quanto più possibile sul collo delle associazioni sindacali le briglie che il codice Rocco aveva confezionato per loro – con buona pace dell’art. 40 cost., ma con la fondata presunzione che il supplito se ne rallegrasse. Se è giusto riconoscere alla giurisprudenza consapevolezza del ruolo da svolgere e coerenza decisionale, non le si fa un torto asserendo che non poteva certo essere lei il fattore più adatto ad incentivare il cambiamento del corpus normativo, la cui ossatura essa medesima andava cementificando, e ad incoraggiare la crisi degli equilibri che essa medesima stava diligentemente stabilizzando; equilibri che erano garantiti proprio dalle gabbie del contratto collettivo nazionale di categoria, l’unico che potesse operare a giudizio delle stesse parti sociali sicure, almeno in questo, di non tradire le attese dei padri costituenti. 4. – Niente può fallire come il successo. In un manuale che ha avuto un discreto successo (più di critica che di pubblico, come si dice d’un film di classe con modesti borderò) si rileva che, proprio negli anni coincidenti con la fase del rinnovamento del diritto sindacale, il protagonismo della giurisprudenza improvvisamente si smorza. L’annotazione è esatta. Ma sarebbe sbagliato se fosse formulata col tono sarcastico che è familiare ad uno dei co-autori del manuale. Piuttosto, è giusto interrogarsi sulle ragioni della diminuita influenza dei giudici sul destino del contratto collettivo. Come è noto, l’innovazione più dirompente che è dato registrare nel dopoguerra sul versante delle regole collettive del lavoro è costituita dall’ascesa di “un modello di contrattazione aziendale articolato sulla base delle specifiche condizioni delle singole unità produttive”. E’ il contratto collettivo di impresa. Il suo avvento non solo movimenta un paesaggio monumentalmente plumbeo – quello formatosi per effetto di una contrattazione centralizzata che si era sviluppata, secondo i canoni della cultura sindacale egemone, “nell’ambito indifferenziato di una classe operaia livellata alla soglia del pauperismo” (G. Giugni) – ma schiude una prospettiva ricca di potenzialità estranee alla tradizione rivendicativa e giuridica. “Se non vorrà ridursi a mero fatto tattico” – presagisce Gino Giugni con largo anticipo – la contrattazione aziendale potrà costruire “una nuova e più efficiente rete di istituzioni aziendali che dal loro nascere dalla concretezza di rapporti e situazioni materiali ” ricavano la legittimazione a correggere penalizzanti distorsioni: da quella che fa del contratto collettivo un etero-comando avente la natura di un sostituto funzionale della legge e ne mitizza i caratteri di regolamento imperativo a quella che comprime la fase di amministrazione del contratto collettivo all’ interno di una cornice processuale che, quanto alle controversie individuali, non solo esalta la separazione, contestabilissima anche sul piano della teoria generale, tra ius dicere e ius dare, ma concede rilevanza al solo interesse dell ’ attore, distruggendone il nesso d ’ interdipendenza con l ’ interesse collettivo di cui i processualcivilisti chiacchierano coi brividi del neofita fin dall’inizio del secolo, perché “la controversia è collettiva non solo quando sia immediatamente colpito l’interesse comune ai componenti del gruppo, ma anche quando sia immediatamente colpito l ’ interesse del singolo appartenente al gruppo” (F. Santoro Passarelli). Bisogna convenire che l ’ inventiva eccitabile da problematiche del genere non può sbocciare in un’aula giudiziaria. Questo, anzi, è l’ambiente meno favorevole, perché proprio la propensione dei giudici a tutelare le posizioni individuali nei confronti del potere collettivo-sindacale, ed a premiare l’abilità con cui “l’avvocato di parte che si prenda gioco della faticosa e sovente improba attività negoziale svolta dai rappresentanti sindacali per raggiungere un equilibrio che contemperi gli interessi di tutti" (G. Giugni), “ha contribuito a precludere in Italia lo sviluppo di forme di giurisprudenza industriale” (T. Treu). Neanche fuori, del resto, la voglia di innovare trova una dimora adeguata; né l’avrebbe trovata in seguito, perché i trend della contrattazione aziendale avrebbero smentito gli oroscopi più promettenti e lusinghieri in ordine alla qualità dei suoi contenuti. Vero è che essa nasce in polemica col contratto collettivo nazionale e che per parecchi anni si stenterà a controllarne l’effetto-urto, ma la competizione tra centro e periferia raramente è uno scontro tra culture alternative delle relazioni industriali. E’ documentabile, infatti, che la contrattazione aziendale si è allontanata episodicamente e il meno possibile dalla logica redistributiva che pervade di sé la contrattazione del livello superiore e, specializzandosi nelle impennate salariali, si è consumata come una torcia che cerca, famelica, la direzione del vento proveniente dai luoghi in cui si produce ricchezza. Come dire che il contratto collettivo nazionale abbandona le sue antiche pretese di omnicomprensività ed esclusività, ma niente sembra poterne sbiadire il pathos custodito e venerato nella memoria storica di intere generazioni di operatori (non solo) giuridici come si addice all’espressione più significativa dell’autonomia privato-collettiva. Insomma, col contributo dell’ideologia della sinistra che lo sovraccarica del compito di salvaguardare l’unità della classe, il contratto collettivo nazionale di categoria resta l’architrave del sistema delle fonti regolative dei rapporti di lavoro e il contratto collettivo di impresa, sconosciuto all’ordinamento sindacale corporativo, sarà a lungo percepito come atipico anche nell’ordinamento sindacale post-corporativo. Non è affatto casuale, quindi, che le cautele con cui (non solo) la giurisprudenza lo ha inizialmente accolto non avessero una motivazione diversa da quella che, una ventina d’anni dopo, la proliferazione di contratti individuali di lavoro divergenti dal prototipo legificato, giurisprudenziale e negoziato dai sindacati solleciterà all ’ arroccamento difensivo il ceto professionale degli operatori giuridici (tranne isolate eccezioni) e sindacali. In effetti, se gli operatori giuridici e sindacali del Novecento hanno interiorizzato il colossale pregiudizio favorevole al lavoro dipendente che li inchiodava all ’ idea che il sistema normativo intorno ad esso edificato potesse agglutinare, inglobare, omologare tutte le figure contrattuali mediante le quali avviene l’integrazione del lavoro nei processi produttivi, non può sorprendere che non abbiano prestato la minima attenzione alla determinatezza storica del contratto collettivo nazionale di categoria. Dopotutto, l’affinità esistente tra quest’ultimo e il contratto di lavoro stabile a tempo pieno è troppo stretta per non provocare reazioni identiche di fronte alla crisi di entrambi. Quella affinità sussiste proprio perché, figlio legittimo del Novecento, il diritto del lavoro ha fatto quel che doveva. Per soddisfare la domanda di sicurezza che nella civiltà industriale scaturisce anzitutto dall’impossibilità di procurarsi da vivere onestamente se non lavorando alle dipendenze altrui e, al tempo stesso, per rendere “ possibile l ’ organizzazione della produzione su scala mai conosciuta e quindi la stessa riproduzione del capitale” (G. Giugni), ha inventato il contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato. Che sarebbe diventato il simbolo giuridificato della concezione del diritto al lavoro che accompagnò la formazione delle costituzioni post-liberali e gli è rimasta abbarbicata con l’aiuto di un collante che pareva indistruttibile: il dogma interpretativo del patto costituzionale che fa del lavoro salariato il passaporto per la cittadinanza. Infatti, la disciplina limitativa del licenziamento è stata una tête de chapitre del diritto novecentesco del lavoro proprio perché era un modo – insufficiente quanto si vuole e, forse, oggettivamente, ma incolpevolmente distorsivo – per onorare la cambiale del diritto al lavoro inteso come promessa rivolta a “tutti i cittadini di vivere dignitosamente grazie all’occupazione stabile nel lavoro subordinato” (M. D’Antona). Il suo valore paradigmatico si lega all’inconfessata grandiosità dell’obiettivo che si propongono le classi dirigenti delle società industriali: generalizzare un codice di riferimento culturale che i comuni mortali, non avendo la possibilità né di sceglierlo né di rifiutarlo, possono soltanto interiorizzare. Il diritto del lavoro del Novecento possiede per l’ appunto il dosaggio della prescrittività necessaria (anche se, da sola, non sufficiente) a determinare l’effetto atteso, sia perché riflette fedelmente l’ atteggiamento verso il lavoro che corrisponde al fabbisogno dell’economia capitalistica nell ’ era fordista sia perché il sistema dominante della produzione di massa non produce soltanto vetturette ed elettro-domestici: prefigura un modello di organizzazione sociale. “L’industrialismo”, scriveva Herbert Spencer nel tardo Ottocento, “non deve essere confuso con l’industriosità”. A differenza del secondo, il primo vocabolo non designa situazioni caratterizzate soltanto dalla diligente erogazione di ingenti quantità di lavoro, dalla disponibilità diffusa a darsi da fare, dalla generale condivisione di un’etica del lavoro come misura della responsabilità di ciascuno verso se medesimo e la comunità. Piuttosto, designa un certo modo di produrre che diventerà in fretta anche un certo modo di pensare. L’industria, infatti, è stata uno dei grandi laboratori della socializzazione moderna di cui tutti finiranno per enfatizzare l’ubiquità, considerandola come un luogo non solo fisico, ma anche mentale, perché è in fabbrica che si impara a comprendere come il benessere personale dipenda da quello collettivo e ad apprezzare il legame esistente tra l’interesse individuale e l’interesse del gruppo omogeneo di cui si fa parte; perché è lì che l’ ubbidienza è premiata e la soggettività degli individui che non si esprima attraverso schemi di comportamento gregario è soffocata, cancellata, repressa.. Insomma, è come se il diritto del lavoro non dovesse adempiere soltanto il non facile compito di risolvere i problemi esistenziali dei comuni mortali compatibilmente con le esigenze di funzionamento della fabbrica, ma si fosse anche sobbarcato al ruolo pedagogico di trasmettere all’intera società gli input necessari per risolvere i propri. L’autore di un classico della storiografia contemporanea (La rifondazione dell ’ Europa borghese) si attribuisce, non a torto, il merito di essere stato “uno dei primi a segnalare il ruolo del taylorismo e del fordismo come elementi ideologici della stabilità” e del consolidamento di un ordine sociale dove tutto è prestabilito (C. S. Maier). Ma è mia opinione che, se non fossero stati trattenuti da preclusioni di natura metodologica, i giuristi del lavoro siano sempre stati nelle condizioni ideali per precedere tutti, perché nessuno scienziato sociale era più di loro avvantaggiato dalla professione per poter acquisire la certezza che l ’ ordinamento dell’industria era diventato l’ordinamento della società con la mediazione dell’ordinamento giuridico. E’ questa la principale tappa raggiunta dal diritto del lavoro nel suo secolare tragitto. Una tappa che, pur non essendo il suo capolinea, ha del prodigioso. Per questo, Renato Scognamiglio ha potuto definirlo “il” diritto del secolo. Per rendersene conto, occorre sapere che il diritto del lavoro non sarebbe neanche venuto al mondo se nell’Ottocento europeo non ci fossero state moltitudini crescenti di poveri che bisognava togliere dall ’ emarginazione per integrarne vasti strati nei meccanismi della produzione capitalistica; che, se non ci fosse stato il diritto del lavoro del Novecento, la povertà non avrebbe avuto le incentivazioni né temuto le sanzioni più adatte per educarsi alla laboriosità; che, se la povertà non si fosse trasformata da oziosa o pericolosa in laboriosa, non sarebbero maturate le condizioni di base per legittimarla a rivendicare che la cittadinanza diventasse il diritto di tutti che è oggi e lo Stato monoclasse lo Stato pluriclasse che conosciamo. In effetti, sebbene i mendicanti e i vagabondi siano sempre esistiti, nella storia delle nazioni dell’Occidente europeo presto o tardi è arrivato il momento in cui, non bastando più né la pietà né la forca, bisogna imparare a trattarli coerentemente con una riprogettazione della società aderente alle esigenze dello sviluppo economico e sociale in regime liberal-democratico. Benché cronologicamente sfasato, il momento coincide con la presa d’atto da parte delle singole borghesie nazionali che le cose si sono messe in modo tale per cui povero non è più soltanto il marginale o il deviante; è anche l’operaio della manifattura, come testimoniano “le condizioni di vita quotidiana, la situazione abitativa, lo stato di salute, le famiglie numerose, l’aspetto esteriore” (B. Geremek) che lo trattengono in fondo alla scala sociale. Senonché, la proletarizzazione conferisce un carattere nuovo al fenomeno antico della povertà. Per certo, lo rende ingovernabile con le pratiche dell’Ancien Régime, sia quelle caritatevoli-assistenziali che quelle repressive. Infatti, la pietà e la forca simboleggiano una politica di esclusione sociale, mentre proprio questo è l’obiettivo non più desiderabile né desiderato, perlomeno con l’intensità di prima, sia per nobili ragioni di principio che per calcoli d’interesse, peraltro sensati e non miopi. Anzi, diventa importante e urgente individuare “una via per far accedere anche i poveri al diritto” (G. Procacci) e, poiché costoro non possiedono che il proprio lavoro, è soltanto nei dintorni del lavoro che prestano alle dipendenze dei proprietari dei mezzi di produzione che si formerà l’unico diritto accessibile da loro: un diritto che è del lavoro nella stessa misura in cui è sul lavoro, perché concede al lavoro la parola, ma contemporaneamente gli vieta di alzare troppo la voce. Quello del lavoro, però, non è soltanto il diritto del secolo. E’ anche il più eurocentrico dei diritti, perché è figlio del compromesso che ha maggiormente avvicinato l ’Europa alla soluzione del problema della “quadratura del cerchio” ossia, come dice Ralf Dahrendorf, della coesistenza delle tre esigenze fondamentali delle società evolute: benessere economico, coesione sociale, democrazia politica. Senza il diritto del lavoro, il tentativo di rifondare l’Europa borghese alla fine della Grande guerra e dopo la Grande crisi del ’29 non avrebbe avuto gli esiti che conosciamo, perché i meccanismi di governo non sarebbero stati lubrificati nella misura necessaria e sufficiente ad impedire che la disperazione di masse di sfruttati, perdenti, disadattati superasse la soglia critica, rischiando così la catastrofe. La catastrofe non c’è stata. Ma non chiedete chi ne abbia il merito, sia perché la paternità del diritto del lavoro del Novecento è, non senza buone ragioni, controversa – “qualunque sia la concezione del mondo a cui abbiano di volta in volta aderito”, ha scritto Federico Mancini, “i legislatori europei si sono sempre proposti di modificare (…) la condizione dell’uomo che vende la sua forza lavoro”, obbedendo così “a una comunque motivata tensione riformatrice ” – sia perché la questione non è appassionante quanto ci terrebbe ad apparire. La questione della paternità ideale interessa meno di quella consistente nel sapere quale sia stata l’efficienza pratica del compromesso che ha generato il diritto del lavoro del Novecento. In ultima analisi, molto altro non dovrebbe interessare in presenza di un insieme di regole che, per quanto robustamente marcata sia la sua inclinazione a coniugarsi con progetti di alto profilo (“modelo para armar”, lo ha definito Antonio Baylos), si nutre più di pragmatismo che di ideologie. Infatti, ha potuto sopravvivere perché ha saputo adattarsi – poco per scelta e molto per obbligo – ai cambiamenti della società. Entro questi limiti, il suo ruolo è stato salvifico perché ha contribuito a “quadrare il cerchio ” ossia a realizzare un equilibrio soddisfacente. Un equilibrio che è stato sostenibile quando e finché tutti gli indicatori macro-economici – dal volume della produzione alla massa di ricchezza ridistribuita, al livello occupazionale – hanno potuto convergere nella medesima direzione all ’ interno delle coordinate tracciate dall ’ espansione dell’industrializzazione e dalle politiche keynesiane dell’intervento statale. Ciò significa forse che all’elogio del lavoro bisognerebbe associare l’elogio delle sue regole novecentesche? Può darsi, e non è il caso di nasconderlo. Al contrario, in quanto ricomprende il complesso delle misure compensative adottate per correggere, prevenire, attenuare gli iniqui effetti dell’economia di mercato con i suoi vincitori e i suoi vinti, il diritto del lavoro del Novecento è la risposta alla domanda di sicurezza che sale dai piani bassi dell’ edificio sociale. Al tempo stesso, poiché si propone di evitare sfratti traumatizzanti o sanguinose defenestrazioni degli inquilini dei piani alti, bloccando o frenando le spinte che minacciano di sgretolare le fondamenta del sistema capitalistico, è l’insostituibile tecnica di stabilizzazione dinamica degli equilibri storicamente possibili. Per questo, io morirò persuaso che le democrazie sono debitrici verso il moderno diritto del lavoro perché - se sono sopravvissute nel secolo della rivoluzione industriale e anzi si sono estese, consolidate, perfezionate - lo devono anche a lui. Di strada, dunque, il diritto operaio ne ha fatta tanta. Pur non essendo né dotto né censitario, ha spiccato il volo; è volato oltre la collinetta che chiudeva il suo orizzonte e non ha avuto paura di pensare in grande. Tuttavia, non ce l’avrebbe mai fatta se non avesse potuto giovarsi stabilmente d’un effetto moltiplicatore delle ferite che il contratto di lavoro individuale provocava nel diritto codificato dei contratti tra privati. Per questo, il contratto collettivo è la creatura normativa più corteggiata e coccolata del Novecento. Inventato per soddisfare le esigenze delle macro-strutture della produzione di pianificare l’uso, calmierare il costo e comprare il consenso d’una forza lavoro etero-diretta e massificata, il contratto collettivo è stato il simbolo giuridificato del principio di razionalità incorporato in una tecnica produttiva avente la proprietà di predefinire un assetto rigidamente organizzato della totalità dei rapporti sociali e degli stessi programmi di vita degli individui. Un simbolo che era ingigantito dai più appariscenti aspetti esteriori del contratto collettivo a cui dovevano uniformarsi i contratti individuali: la dimensione territoriale era la più estesa possibile, di solito coincidente coi confini nazionali; la platea dei suoi destinatari era indifferenziata e il suo baricentro gravitava sulla fissazione delle quantità standard di lavoro e salario scambiate tra il lavoratore-tipo, capo-famiglia-monoreddito, e imprese alla ricerca di una cassetta degli attrezzi normativi che facilitassero l’amministrazione dei rapporti di lavoro. Per essere efficace, la descrizione del contesto storico-culturale di cui erano espressione, da un lato, un contratto di lavoro in cui trova alloggio “l’aspirazione del lavoratore a quel complesso di beni – professionalità, garanzia e adeguatezza del reddito, prospettive di carriera – che sono indissolubilmente legati all’occupazione stabile” (D’Antona) e, dall’ altro, un contratto collettivo inteso come sostituto funzionale della legge dovrebbe servirsi di colori che si stemperano nel grigio e di cadenze salmodianti. “Questo era il Novecento”, ha scritto Aris Accornero; “tutti ci alzavamo alla medesima ora, tutti uniformati negli orari giornalieri, settimanali, annui” e tutti pensavamo che “la vita lavorativa si svolgesse su tutto l’orario giornaliero per tutti i giorni feriali della settimana in tutti i mesi lavorativi dell’anno, fino alla pensione. Questo ci ha dato il Novecento ”. Il percorso esistenziale poteva non riscuotere unanimità di consensi. Ma la cosa non impensieriva. Contava che esso fosse preordinato al raggiungimento della sola forma di cittadinanza sociale che il diritto sindacale e del lavoro poteva realisticamente promettere al popolo degli uomini col colletto blù e le mani callose; una cittadinanza sociale che Theodor Marshall definiva industriale anche perché (suppongo) odorava di petrolio, carbone, vapore di macchine; una cittadinanza sociale basata sul trittico posto fisso-salario garantito-pensione pubblica. La promessa è stata onorata. Ciononostante, ancora prima di andarsene, il Novecento ha fatto lo sgambetto a questo diritto del lavoro. Pertanto, adesso che il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato non è più la sua stella polare ed i suoi più consentanei scenari (non solo) normativi sono stravolti, è ragionevole domandarsi come e quanto il contratto collettivo del Novecento dovrà trasformarsi per seguitare a proporsi come fonte regolativa privilegiata anche del lavoro “senza aggettivi” ossia del lavoro considerabile come “ una specie del medesimo genere al quale appartiene il lavoro subordinato ” in tutte le ipotesi in cui – “ indipendentemente dallo schema negoziale utilizzato” dalle parti per farne l ’oggetto di un’obbligazione contrattuale – costituisce un “elemento normale e costante nel ciclo produttivo dell’impresa altrui”, a tal segno che “le sorti di quest’ultima incidono, oltreché sulle vicende di un contratto, sul destino e sul progetto di vita della persona” che si è obbligata a lavorare (M. D’Antona). 5. – Senza fideismi né catastrofismi. Si può anche rassicurare il sindacato che, guardandosi nello specchio, non ci vede se non una forma storica di rappresentanza degli interessi che nessuno può sostituire là per là. Bisognerebbe però anche dirgli, chiaro e tondo, che sbaglierebbe a trarne motivi per autocompiacersi e pretesti per limitarsi a governare l’esistente, come se avesse un futuro di cui fidarsi solamente perché ha un passato di cui gloriarsi. Il fatto è che la sua funzione dovrà diventare, sta diventando, quella di rappresentare il lavoratore in quanto cittadino piuttosto che il cittadino in quanto lavoratore. Le parole sono identiche, ma gli accenti sono diversamente distribuiti. Ed è proprio nel tentativo di valorizzare il mutato significato della relazione di interdipendenza fondativa tra lavoro e cittadinanza che sono entrate in circolazione proposte di “modelli regolativi capaci di seguire la persona nelle sue attività, senza che sia il concreto contesto organizzativo nel quale l’attività si iscrive ad imporre il confine della tutela, perché ci sono dei diritti fondamentali che non riguardano il lavoratore in quanto tale, bensì il cittadino che guarda al mercato del lavoro come ambito di chance di vita e dal lavoro (un lavoro che può anche cambiare nel tempo, un lavoro che può essere autonomo o subordinato) si aspetta identità-reddito-sicurezza, cioè i fattori costitutivi della sua personalità” (M. D’ Antona). Si tratta di tipologie normative che, se non sono riconducibili ad una figura social-tipica unificante e rappresentativa d ’ un mondo del lavoro irrimediabilmente disgregato, sono tuttavia irriducibili al referente del lavoratore subordinato dell’età industriale. Si può anche non dubitare che nemmeno nel nuovo millennio sparirà l’esigenza di riequilibrare il gap di potere caratteristico dei rapporti che attuano lo scambio tra lavoro dipendente e retribuzione. Tuttavia, non diversamente dal diritto legificato del lavoro, il contratto collettivo dovrà rispondere alla “ domanda di un assetto normativo più adattabile agli interessi e bisogni del lavoratore in carne ed ossa che a quelli del lavoratore astratto e massificato del quale ci parlano leggi e contratti collettivi”; interessi e bisogni, diceva Massimo D ’ Antona, post-materiali e post-occupazionali, come tali suscettibili di “complicare lo schema basilare del rapporto di lavoro, che identifica l’interesse tipico e caratterizzante del lavoratore nella retribuzione”. Si può anche ritenere che nemmeno gli antagonismi di classe che abbiamo conosciuto nel Novecento siano finiti. Ma è sicuro che appena agli inizi è la lotta per l ’uguaglianza “intesa come pari opportunità di scegliere e mantenere, anche nel rapporto di lavoro, la propria differente identità e come pari diritto di adattare il lavoro al proprio progetto di vita”; ed essa non potrà proseguire con le tecniche dell’uniformità garantita (M. D’Antona). Insomma, le cose si sono messe in modo che il contratto collettivo, inventato dal Novecento per soddisfare le esigenze tipicamente proprie di regolarizzazione dell’andamento del sistema di produzione dominante ed insieme di soddisfacimento di aspettative esistenziali diffuse, non è più la soluzione. E’ diventato esso medesimo un problema. Difatti, tutte le sue componenti strutturali sono colpite da fibrillazione o stanno per esserlo. La più oscillante è l’inderogabilità della norma collettiva sia come sinonimo di immodificabilità se non in melius delle tutele sia come premessa maggiore del sillogismo giudiziario. Sotto questo secondo profilo, al giudice del lavoro non si dice di decidere: “gli si dice di pacificare senza decidere” (E. Resta), o imponendo rimedi alternativi al giudizio dirimente che dovrebbe pronunciare o attivandoli lui stesso per far cessare la lite senza porsi super partes, bensì in mezzo a loro per esserne il tramite tenuto a perdere la sua terzietà ed insieme a non perderla del tutto. Sotto il primo dei profili, mai come adesso la sindrome della crisi d’un sistema protettivo incentrato sull’ idea che i contenuti dell’eteronomia sono precostituiti da decisori la cui volontà non può non sovrapporsi a quella dei lavoratori uti singuli è apparsa estesa. Tant’è che si fa strada l’idea che “l’inderogabilità è una possibilità, e non (è più) una necessità” (F. Scarpelli), per ammettere patti in deroga alle regole-standard sovra-ordinate che, declassate da imperative a semi-imperative, possono essere deprivate dell ’ efficacia reale coi suoi inesorabili automatismi espropriativi dell’autonomia individuale (R. Voza). D’altronde, se è vero (come è vero) che l’autonomia individuale assistita – ed è corretto chiamarla così perché agisce in un contesto che ne garantisca un ’ esplicazione effettivamente libera – ha (quasi) sempre trovato una generosa ospitalità nel diritto del lavoro quanto a dismissione di diritti già sorti da un contratto conforme alla normativa eteronoma, non è incoerente ipotizzarne un’ulteriore espansione nella fase di costruzione dello stesso regolamento negoziale in presenza delle condizioni previamente individuate dalle parti sociali a ciò autorizzate dallo stesso legislatore che, per un senso malinteso di valorizzazione dell’autonomia collettiva, l’aveva trasformata in una fonte di diritto oggettivo. Diversamente, non si saprebbe come contemperare l ’ autorità dell ’ etero-comando con la libertà individuale; mentre proprio questo è richiesto dalla “sfida delle differenze, che hanno fatto irruzione nel mondo del lavoro e premono sui congegni normalizzatori del suo diritto, chiedendo di essere ammesse e rispettate, anziché tacitate in nome di un interesse generale selezionato chissà dove e perché” (M. D’Antona). Se vi è capitato di udire lo schianto d’un albero stagionato, ricorderete che è lacerante. Ma ne siete ancora impressionati anche perché eravate incapaci di sentire il rumore della foresta che gli cresce intorno. Del resto, l’icona che raffigura il contratto collettivo del Novecento è divinizzata soltanto da superstiti adoratori del formalismo giuridico indifferenti sia alla storia che alla pratica dell’istituto. Ad un’occhiata retrospettiva, infatti, non può sfuggire che l’ immagine raffigurata nell ’ icona è l ’ esito compromissorio d ’ una razionalizzazione che produsse non poche né trascurabili deformazioni, perché l’ingresso del contratto collettivo nei blasonati sistemi giuridici euro-continentali, e segnatamente nel nostro, non venne sponsorizzato gratis. Anzi, il contratto collettivo non vi entrò se non a condizione di subire una profonda alterazione delle sue originarie connotazioni e difatti – staccato dalle sue radici prestatuali, trapiantato in un contesto di relazioni quanto più possibile aconflittuali e perciò artificiali, rigidamente legificato – gli improvvisati ed ingenui leader del popolo degli uomini col colletto blù e le mani callose non avrebbero più potuto riconoscervi il figlio sporco, brutto e cattivo di un primitivismo che rinomati maîtres à penser paragonavano con casalingo empirismo a quello osservabile nei “mercati di bestiame (dove) la figura dei mediatori, uomini tarchiati e violenti, con voci rauche, facce rudi, randelli e bestemmie, è un simbolo dell’arretratezza” dell’ambiente e dei suoi abituali frequentatori (F. Carnelutti). Nell ’ ampia misura in cui è conciliabile con i canoni del positivismo giuridico ottocentesco la concezione normativista dell ’ autonomia collettiva è diventata due volte anacronistica. Una prima volta, perché persino i Parlamenti hanno cominciato a trattare le proprie creature con la premurosa apprensione di cui in passato erano oggetto le ragazze di buona famiglia in età da marito: temendo che potessero fare incontri sgraditi, magari a loro stessi più che alle figlie, i genitori non le lasciavano uscire di casa da sole. Così, a causa dell’ insufficiente protezione carismatica del sigillo di Stato, neanche i Parlamenti mandano più in circolazione le leggi, perlomeno quelle più a rischio, senza l ’assistenza di un chaperon incaricato non tanto di attuare il diritto scritto – che in effetti assomiglia ad un semilavorato – quanto piuttosto di scoprire il diritto che non c’è, disponendo di poteri che permettano l’adattamento creativo delle regole al mutare delle situazioni sottostanti e di un’articolata metodologia per la risoluzione delle controversie relative alla loro applicazione. In Italia, e non solo lì, le chiamano Autorità amministrative indipendenti. Ma la loro denominazione non ha molta importanza. Qualunque sia, essa immancabilmente rimanda al ruolo più di amministratori di interessi che di applicatori-interpreti di norme e dunque designa soggetti istituzionali selezionati per intercettare, monitorare, gestire gli input trasmessi dal pluralismo sociale e per completare, perfezionare, implementare la legge della cui applicazione sono garanti in ragione della loro neutralità unita ai saperi specialistici di cui sono accreditati. La seconda ragione per cui l’obsolescenza della concezione del contratto collettivo che ne fa una fonte ascrittiva di diritti soggettivi immediatamente giustiziabili ha subito una violenta accelerazione è rintracciabile negli scenari delle relazioni sindacali del tempo presente. Mai come adesso, infatti, è emerso con chiarezza che, al di là delle intenzioni o dei desideri delle parti contraenti, residua normalmente una zona d’ombra nella quale esse restano in posizione di trattativa anche posteriormente alla sottoscrizione del contratto un po’ perché, come si insegnava tanti anni fa, la disseminazione di clausole oscure, ambigue o lacunose è una costante dei processi di formazione dei contratti collettivi, ma soprattutto perché è diventato impossibile dominare l’accresciuta complessità delle attività sviluppabili nel quadro della procedimentalizzazione del potere aziendale coi soli strumenti del garantismo, individuale o collettivo che sia. E’ soprattutto in seguito alla dilatazione dell’area delle materie negoziabili per il tramite di obblighi di consultazione, informazione, “esami congiunti” con le rappresentanze sindacali in ordine a vicende dell’impresa – e non solo dell’impresa in crisi – in passato rientranti nelle prerogative unilaterali del management che le regole-standard – in ragione della loro astrattezza, generalità e uniformità – risultano sempre più spesso inadeguate o per eccesso o per difetto e il baricentro del dopo-contratto è destinato a spostarsi dalla formalizzazione dall’incontro iniziale dei consensi alla creazione in periferia dell’habitat adatto a favorire il loro riformarsi in condizioni mutate o disomogenee rispetto a quelle presunte da strategie centralistiche. A Franco Liso è venuta in mente la bella metafora – e dicono che di metafore io me ne intenda parecchio – di “quelle strutture di cemento armato maldestramente costruite troppo a ridosso della spiaggia. Una violenta mareggiata le abbatte, erodendone la base. Esse rimangono intere, ma del tutto inutili. Sarebbe stato meglio arretrarle e trasformarle, ma non lo si è fatto”.. Come dire che anche le regolazioni ispirate al garantismo statico bisognerebbe adattarle e rimodularle. “ Invece, spesso si è assistito all’intransigente difesa dell’esistente ed alla conseguente esaltazione della mediazione giudiziaria; e talvolta si è visto nella valorizzazione del ruolo del sindacato una minaccia per i diritti dei lavoratori”. Il contratto collettivo, insomma, non è più (dato e non concesso che lo sia stato) la miniera di granitiche certezze di cui favoleggia un’agiografia giuridico-sindacale che, pur di non ammettere l’eventualità che alle questioni risolte ex ante soltanto in apparenza si sommino quelle non previste da affrontare ex post, si rifugia nel mito dell’inderogabilità. Mai come adesso, pertanto, sarebbe raccomandabile un modello dinamico di relazioni gestite da istituzioni (agili, ma) stabili che, se del caso, aggiornano e rivedono le regole con la cultura della prassi occorrente per risolvere problemi, anziché con la logica concessivo-acquisitiva o lamentoso-accusatoria propria del tradizionale conflitto industriale i cui attori costruivano la propria identità sulla base dell’esistenza dell’antagonista. “Noi e loro”: questa, per decenni, è stata la formuletta verbale corrente per rappresentare in termini icastici non tanto la questione sociale quanto piuttosto uno scontro tra culture. Con riferimento alla problematica qui tratteggiata, sono estremamente istruttive le più recenti evoluzioni dell’ordinamento giuridico del lavoro nella Spagna post-franchista. Esse ci dicono che non è più lecito fare dell’erga omnes l’alfa e l’omega del contratto collettivo, perché il livellamento dei trattamenti che questa connotazione comporta confligge con la diversificazione del mercato del lavoro sia su base territoriale che dal punto di vista della tipologia aziendale. L’ordinamento spagnolo prevede un modello legificato di contratto collettivo come fonte regolativa provvista di efficacia vincolante e generale “que sigue en buena parte pautas del anterior modelo ‘corporativo’ del franquismo”. Ciò che non era stato previsto né dagli autori dell’Estatuto de los Trabajadores né, fino a pochi anni addietro, dagli attori sociali è la tracimazione dell’autonomia collettiva sul terreno del diritto comune, e dunque oltre i confini della sua tipizzazione legale, ossia la “ recontractualizaciòn del convenio collectivo ” – come scrive Miguel Rodriguez-Piñero con un gioco di parole solo apparente – per effetto del crescente dinamismo dell’economia e del mercato che non permette più ai negoziatori del contratto collettivo di limitare “ su papel al celebrarlo y firmarlo ” se non pregiudicando la stessa funzione regolativa. Senonché, l ’ insieme delle innovazioni di diritto sostanziale e processuale introdotte nel 1973 ha finito per anestetizzare l ’ autonomia privato-collettiva. E ciò perché, se le associazioni sindacali del dopo-costituzione hanno potuto finalmente considerarsi, ed essere considerate, “come il re Mida della leggenda, nella condizione di veder trasformato in norma inderogabile (…) ogni e qualsiasi istituto su cui pongano le mani” (G. Giugni), al tempo stesso sono state gratificate dal riconoscimento del potere di convalidare gli atti dispositivi dei diritti individuali esercitabile nelle forme dell’art. 411 c.p.c. Come dire che la stessa riforma legislativa con la quale la legificazione del contratto collettivo post-corporativo ha compiuto un passo in avanti ha, contemporaneamente, rimesso in moto lo smottamento dell ’ intero fronte dei diritti individuali di origine pattizia a cui erano legittimate le associazioni sindacali dell’epoca corporativa per ristabilire la par condicio tra soggetti dei quali – secondo la sola lettura anticapitalistica dei problemi giuridici del lavoro allora consentita, una lettura deamicisiana – uno è, immancabilmente, poco meno che angelicato e l ’altro “socialmente pericoloso” (F. Liso). Occhio alle date, però. Nell’arco degli stessi anni l’immagine stereotipata del lavoratore come moderno capite deminutus era sostituita da quella del lavoratore come delicatus creditor, specialmente nelle organizzazioni produttive di dimensioni occupazionali medio-grandi dove una tutela forte contro il licenziamento si veniva saldando con la robusta tutela sindacale prevista dalla normativa statutaria: perlomeno in queste realtà, insomma, si disponeva dei correttivi ad uno storico squilibrio nei rapporti di potere. Ciononostante, neanche lì, malgrado il rigoglio documentato da un palmarès senza precedenti, l’autonomia collettiva ha avuto l’ orgoglio di rivelare “la sua vera natura, che non è quella di sottoporre il lavoratore ad una sorta di paternalistica tutela” (G. Giugni). Quindi, è inesatto che soltanto i più accesi supporter della deregulation, come in Italia Pietro Ichino, “non facciano riferimento alla storia del diritto del lavoro” (S. Simitis). In realtà, il cattivo esempio l’hanno dato per primi i loro attuali avversari, ponendo così le premesse del deprimente dialogo tra sordi a cui stiamo assistendo. C’è da chiedersi peraltro quale concezione di sé abbia l’autonomia collettiva, dal momento che i suoi portatori si sono arresi con facilità irrisoria all ’ idea messa recentemente in circolazione da uno Stato che non si vergogna di confessare la bancarotta della sua giurisdizione. L’idea è che l’autogoverno della micro-conflittualità corrisponde all’interesse pubblico a decongestionare il circuito giudiziario, laddove “le forme di composizione stragiudiziale delle controversie individuali di lavoro assumono, in un sistema di libertà sindacale quale è il nostro, una ragion d’essere propria che sussisterebbe anche se la macchina della giustizia funzionasse alla perfezione” (G. Giugni). E ciò perché, delegando ai giudici il controllo sull’applicazione del contratto collettivo, il sindacato ci rimette del suo. La ragione più incontestabile per cui i contraenti collettivi hanno un interesse autenticamente proprio ad assumere e condividere la responsabilità dell ’ organizzazione dell ’ attività conciliativo-arbitrale è la stessa che eruppe dall ’ esperienza ottocentesca dei probiviri industriali e venne lucidamente percepita dai nostri giuristi dell’inizio del Novecento. Essa si manifesta perché “gran parte delle controversie individuali di lavoro si collegano, in atto o in potenza, a controversie che sono già sorte o potranno sorgere” – ossia, per dirla in gergo forense, sono controversie seriali – e, ciononostante, non può sussistere alcuna garanzia che si affermi un orientamento decisionale omogeneo e solidale con la pressione alla standardizzazione delle situazioni giuridiche soggettive esercitata dal contratto collettivo. Il giudice è tenuto ad emettere responsi vincolati ai canoni dell’ermeneutica giuridica. Quindi, è libero di elaborare decisioni suscettibili di alterare l’equilibrio degli interessi che ha permesso il formarsi della norma pattizia. Per questo, “stipulare contratti collettivi, senza riservarsi la possibilità di controllarne l ’ applicazione, equivale per il sindacato ad abdicare ad una sostanziale porzione del potere contrattuale” (G. Giugni). 6. – Il ritorno del rimosso. E’ fin troppo facile prevedere gli interrogativi di sapore non propriamente simpatetico a cui mi sto esponendo. Come si può spargere la voce che il contratto collettivo del Novecento è un falso idolo dopo che la sua legificazione è stata solennemente invocata dall’accordo di luglio del ’93, sia pure con riferimento ad ipotesi delimitate, e il Parlamento se ne sta occupando? Come si può coonestare una simile insinuazione proprio adesso che il contratto collettivo post-corporativo è diventato, sia pure nel solo pubblico impiego, un contratto nominato? In ogni caso, con quale credibilità può sostenere che il contratto collettivo del Novecento ha imboccato il suo sunset boulevard chi, come me, in qualità di componente d ’ una commissione di studio ministeriale, Tiziano Treu consule, ha proposto di inserire in un disegno di legge una disposizione che attribuisse al ministro del lavoro – su istanza congiunta dei contraenti – la facoltà di recepire in un proprio decreto il contenuto dei contratti collettivi, ivi inclusi quelli rivolti a trasporre nell’ordinamento interno le direttive comunitarie? Omesso il solo interrogativo a cui mi rifiuterei di rispondere perché lo considero un insulto all’intelligenza (come si può accreditare l’ idea che il modello fordista ed i suoi elementi caratteristici siano un jurassic park, laddove è arcinoto che cambiamento e conservazione procedono a braccetto anche in epoche di transizione permanente?), tutti gli altri interrogativi sono più opportuni che scomodi. In primo luogo, sollecitano l ’ indispensabile opera di chiarimento su alcuni dei più chiassosi avvenimenti degli anni ‘90 che hanno interessato il contratto collettivo – dall’Accordo sulla Politica Sociale di Maastricht, poi recepito nel trattato di Amsterdam, al decreto “29 ” ripetutamente modificato, al Patto di Natale del 1998 – e sugli ultimi sviluppi del suo rapporto con la legge, sull’ipertrofia normativa che lo caratterizza e sulle sue ricadute sul modo d’essere del sindacato In secondo luogo, mi permettono di precisare il mio pensiero. Leggendo su manuali ed enciclopedie del diritto che la produzione di massa ha generato sindacalismo e contrattazione collettiva di massa, soltanto le più tonte matricole delle Facoltà di Giurisprudenza possono ritenere che il contratto collettivo non possa vivere senza il fordismo-taylorismo di cui non sarebbe altro che un retaggio. Tocca al maestro paziente spiegare che l’affermazione “non va intesa in modo assoluto, perché potrebbe condurre ad una sopravvalutazione del dato strutturale” (G. Giugni), come tale viziata da un approccio deterministico che non aiuta a capire come mai lo strumento continui ad essere universalmente impiegato. La sua persistente diffusione testimonia come l’ “attitudine del contratto collettivo a porsi non solo sul piano sociale, ma anche su quello giuridico, come fatto normativo” sia slegata più dalle variabili forme di organizzazione della produzione che non dalla sua predestinazione “a realizzare l’interesse del gruppo, sintesi e non somma di interessi individuali” (M. Persiani). Una predestinazione, però, che non è data. Non è in rerum natura; è voluta, come è desumibile dalla documentata circostanza che mai – nemmeno all’epoca del dominio della produzione di massa – il contratto collettivo del Novecento ha trovato bell’e fatta la rete delle solidarietà degli interessi. Piuttosto, ne ha promosso l ’ autocoscienza a livello di gruppo fino ad apparire come un suo risultato e ne ha fatto costantemente oggetto di un’accurata manutenzione. Infatti, la condizione implicita del successo del contratto collettivo del Novecento risiedeva nella capacità dei sindacati di organizzare gli interessi presenti nel mondo del lavoro; il che, in una società dove ciascuno dei duellanti pensava che l’estinzione dell’avversario potesse procurare solo vantaggi all’intera società, era relativamente agevole. Di contro, la crescita del pluralismo degli interessi di lavoro, accentuando le difficoltà di riorganizzarlo sindacalmente, impone il riordino della cassetta degli attrezzi regolativi e la ricerca di sensori capaci di sondare gli strati profondi di una società frammentata e orfana di progetti generali, scarsamente disponibile ad essere ricompattata e ad “accettare l’imposizione dall’alto di visioni precostituite” (R. Del Punta). Poiché il sindacato sta al gruppo dei rappresentati “come la carta geografica sta al territorio” (B. Caruso), è ragionevole ricontrollare ogni tanto la capacità di rispecchiare gli interessi di cui si considera ente esponenziale. Per questo, va segnalata positivamente l’iniziativa avviata di recente dalle principali confederazioni di offrire forme appropriate di rappresentanza ai lavoratori non equiparabili ai subordinati, ma di fatto nemmeno classificabili tra gli autonomi. Di per sé, la scelta è lodevole anzitutto perché postula una corretta analisi delle ragioni del malessere del sindacalismo storico: neanche la sua cooptazione nei centri decisionali del potere pubblico è la risposta al suo fabbisogno di rilegittimazione. Non è detto, però, che la decisione possa senz’altro procurare un valido strumento per gestire la transizione dal lavoro declinato al singolare al lavoro declinato al plurale. Anzi, tenuto conto che l’operazione è pilotata dalla medesima cabina di regìa la cui politica del diritto raffigurava il contratto di lavoro stabile a tempo pieno a stregua di una stella polare ed i cui occupanti si sono rifiutati più che potevano di sfogliare il libro della post-modernità, non me la sentirei di escludere a priori che la sindacalizzazione separata dei presunti residuali, sotto-protetti per definizione, si proponga semplicemente di fabbricare una specifica arma di pressione in più per reclamare la parificazione di trattamento rispetto ai lavoratori a cui si applica il diritto del lavoro del Novecento. E se, invece, fossero dei precursori, sia pure senza volerlo né saperlo? Paradossalmente, non me la sentirei neppure di escludere a priori un rischio di segno opposto. Il rischio, cioè, che il curioso apartheid organizzativo sia la spia di una separatezza di strategie e dunque finisca, al di là delle intenzioni, per sancire e in qualche modo istituzionalizzare il dualismo che vede i lavoratori regolari, ossia i protetti “alla vecchia maniera”, contrapporsi agli irregolari. Nel primo caso, la scelta di rappresentare il diverso e aggregare il disperso somiglierebbe al buon senso di chi è portato a non disfarsi delle vecchie scarpe, neanche se sono sfondate, perché non affaticano i piedi. Nel secondo, sarebbe interpretata dalle altre associazioni sindacali in discorso, benché affiliate alle medesime confederazioni che hanno preso l’iniziativa, come una tacita autorizzazione a considerarsi esonerate dall’onere di aggiustare le politiche del diritto finora seguite e dunque dal fastidio di farsi carico di una domanda sociale eccentrica rispetto alla tradizione rivendicativa: una domanda di tutele più personalizzate di quanto non sia consentito dalla logica di un rapporto di lavoro standard. 7. – Il contratto collettivo “inautentico”. Sarà il caso di cominciare col togliere di mezzo una questione che, invece, vorrebbe apparire intrigante ed è solitamente trattata come se lo fosse: il contratto collettivo nazionale dei pubblici dipendenti a statuto privatistico ri-regolato sul finire degli anni ‘90 non può essere utilizzato come prova dell’inossidabilità del contratto collettivo del Novecento. Esso è considerabile un masso erratico; niente di meno, ma neanche niente di più. In primo luogo, le esigenze di varia natura alle quali ubbidisce la ri-regolazione legale appaiono ancora più insidiosamente prevaricanti di quanto non lo fossero nella regolazione del’93. Tra di esse primeggiano quelle di natura economico-finanziaria inconfondibilmente proprie del datore di lavoro pubblico in qualunque paese che, però, si inaspriscono quando il datore di lavoro pubblico si distingue per inefficienza, sprechi e propensione ad indebitarsi. Fatto sta che, con precipuo riguardo a questi aspetti, gli indirizzi per la contrattazione collettiva nazionale sono previamente sottoposti al governo, che può esprimere le sue valutazioni, e il contratto non può essere sottoscritto se la Corte dei conti non certifica positivamente la compatibilità dei costi che esso comporta con gli strumenti di programmazione di bilancio, in tal caso prefigurandosi anche la necessità della riapertura delle trattative. In secondo luogo, l’accordo Aran-sindacati è “inautentico ”. Detesto la prosa inflazionata dagli ammiccamenti grafici. Nondimeno, stavolta uso il virgolettato, che sul lettore fa il medesimo effetto che, nel linguaggio parlato, produce sull’ascoltatore l’innaturale colpetto di tosse o strizzatina d’occhio, per lasciare intendere all’interlocutore che ci si aggira nei pressi di una speciale verità che, se ci si astiene dall’enunciarla, è soltanto perché si preferisce l’immensa ricchezza del taciuto. So bene che nella letteratura formatasi con la velocità delle foreste tropicali ai margini del contratto collettivo ri-regolato non c’è traccia della singolare autocensura che esorta alla complicità. Per forza. Incitata da una lesta imprenditorialità soi-disante culturale, c’è in giro troppa “gente”, direbbe Massimo Severo Giannini, “che racconta come è fatta una legge e cosa c’è dentro”. Non a caso, i ”raccontini” di corto raggio che essa scrive non figurano nella lista delle letture che consiglio ai miei studenti. Casomai, per metterli in condizione di capire, li rimando alla pagina d’uno scrittore italiano, ove può leggersi un surreale apologo, a modo suo illuminante. "Un lombrico stava attaccato all'amo. Un pesce lo vide. - Oh, come soffri, posso fare qualcosa per te? - Potresti mangiandomi, ma se lo farai finirai mangiato. - Ti mangerò ugualmente, disse il pesce, perché non posso vederti soffrire così. Il pesce lo mangiò e finì mangiato”. Il compendioso brano, che presenta l ’ involontario vantaggio di offrire una rappresentazione sorridente e, al tempo stesso, accigliata del back-ground dell’incontro tra legge e contratto collettivo dei pubblici dipendenti, costituisce una buona base di partenza per chiunque intenda spiegare perché, come e quanto quest’ultimo si distingua dal contratto collettivo del Novecento. Mentre la contrattazione collettiva si è sviluppata nel suo territorio elettivo con una logica schiettamente incrementale, rivelandosi il più efficace strumento di miglioramento delle condizioni di lavoro e di redistribuzione della ricchezza, nel p.i. i sindacati hanno sempre dichiarato di essere disposti anche a chance di amministrare in modo socialmente utile ed economicamente produttivo. Hanno sempre promesso di svolgere un ruolo salvifico ed insieme sacrificale. Si sono sempre sbracciati a proclamare che era loro intenzione privilegiare obiettivi eccedenti il loro orizzonte rivendicativo. svenarsi pur di dare alla p.a. la Sparpagliati nelle mozioni dei congressi delle organizzazioni sindacali dall’aprirsi degli anni ’70 in qua, gli inusuali obiettivi erano in realtà l'indizio non tanto d'una portentosa vocazione impaziente di essere messa alla prova quanto piuttosto della disponibilità a sborsare qualunque prezzo per far uscire la contrattazione collettiva, prima, dalla clandestinità e, in seguito, dal limbo in cui l’aveva trasferita la legge quadro dell’83. I sindacati del pubblico impiego, scrivevo vent’anni fa e non me ne pento, “sono, e si sentono e si dicono, legittimati a contrattare riformando la p.a. ovvero a riformare la p.a. contrattando. Essendo, e sentendosi e dicendosi, investiti del compito di chiedere per contratto le riforme amministrative più difficili da attuare, essi non potevano non elaborare una linea destinata ai decenni, se non ai secoli, futuri”. Alla fine, presumendo che mai e poi mai la p.a. sarebbe riuscita da sola a risolvere la sua endemica faute de mieux il legislatore ha preso sul serio gli obiettivi del sindacato – ossia, ha infilzato la p.a. nell’amo per un pesce sventurato, ma benefattore – al punto di giuridificare la priorità dell’obiettivo consistente nel contenimento delle retribuzioni al di sotto dei tetti sostenibili dalla finanza pubblica. Come dire che il prezzo richiesto dal legislatore non si finirà mai di pagarlo, perché i vincoli che dapprincipio potevano apparire imposti dall'emergenza si sono convertiti, dopo l'ingresso in Europa dell'Italia, in vincoli di natura permanente per evitarne l’espulsione, perché gli andamenti della spesa pubblica complessiva rilevano ai fini del rispetto del patto di stabilità dell’Unione Europea; ed è risaputo che la capacità del nostro paese di onorare gli impegni presi dipenderà anche dalla moderata lievitazione del costo del lavoro nel settore pubblico e dalla sua razionalizzazione, dalla migliore utilizzazione delle risorse umane della p.a. e dalla modernizzazione delle strutture organizzative. crisi, Fatto sta che il comune denominatore degli obiettivi a cui è finalizzata la contrattazione collettiva nel p.i. risiede in ciò: essendo valutabili anzitutto nell'ottica e coi parametri di cui abitualmente si serve la generalità dei cittadini-contribuenti in qualità di fruitori delle prestazioni delle p.a., corrispondono senz’altro ad interessi che non possono appartenere interamente alle parti contraenti. Per questo, ad uno specialista del calibro di Lorenzo Zoppoli è sembrato che "nei contratti collettivi del pubblico impiego ci debba sempre essere un orientamento da stipulazione a favore del terzo", la quale (come stabilisce il codice civile) presuppone la compresenza di due interessi distinti, ma convergenti: l'interesse dello stipulante e quello di chi – pur essendo estraneo alla vicenda contrattuale, come per l’appunto la comunità amministrata – può ricavarne benefici. Per quanto non fosse tecnicamente impeccabile, il richiamo alla decrepita figura contrattuale era suggerito e quasi estorto da una norma del decreto 29 avente l’intonazione dell’undicesimo comandamento: "la contrattazione collettiva decentrata è finalizzata al contemperamento tra le esigenze organizzative, la tutela dei dipendenti e l'interesse degli utenti". Insomma, è orientata alla promozione dell'interesse del pubblico. In effetti, se il legislatore nomina separatamente e distintamente l’interesse dell'organizzazione pubblica, l’interesse dei dipendenti e l’interesse degli utenti, ciò significa – come venne prontamente rilevato – che lo stesso interesse dell'organizzazione pubblica "è un interesse di parte, che non contiene presuntivamente in sé gli altri interessi. Neppure quello degli utenti" (M. Rusciano), al quale si riconosce la proprietà di esercitare sulla p.a. la medesima azione di stimolo, controllo e sanzione esercitata dal mercato nei confronti dell'impresa privata. Pienamente solidale col medesimo schema di ragionamento è l’autore di una corposa monografia che amplifica la portata del frammento normativo al punto di ravvisarvi "il precipitato di tutti gli altri contemperamenti necessari” per attuare il decreto 29 globalmente considerato (C. Russo). Malgrado le apparenze, un messaggio del genere non era l'acerbo frutto d'una dottrina minoritaria. Infatti, non c'è documento della prima tornata contrattuale che non l'abbia enfatizzato al punto di farne il criterio ordinante dell'intero sistema di relazioni sindacali nel p.i. E' come se l'autonomia collettiva avesse voluto rimarcare spavaldamente la superfluità della formula legificata. Per le parti sociali, anziché un'intonazione pedagogica, il limpido enunciato aveva il valore d'una certificazione celebrativa. In proposito, chi avesse dubbi si vada a leggere il protocollo d'intesa sul lavoro pubblico del 12 marzo 1997. Pertanto, adesso che la dizione è scomparsa dal testo legislativo, gli esperti del ramo (Lorenzo Zoppoli incluso) non hanno motivo per rivedere la direttiva d'interpretazione sistematica che avevano estrapolato: a metabolizzazione irreversibilmente compiuta della ratio sostanziale dell’esile disposto normativo, la successiva rimozione di questo è ininfluente. Piuttosto, avrebbero motivo per domandarsi, da osservatori imparziali e spassionati, se il reclamizzato “contratto per amministrare, per amministrare in modo diverso” non sia rimasto quel che era vent’anni fa: ”un’utopia un bel po’ nevrotizzante”. Inautentico quanto alle sue origini, il contratto collettivo dei pubblici dipendenti lo è altrettanto anche in ragione delle condizioni di contesto in cui si concretizza la corrispondente fattispecie. Infatti, mentre il contratto collettivo dei privati è l’esito di “un’attività che trae la sua forza dalla libertà di forme espressive”, il contratto collettivo dei pubblici dipendenti è assoggettato ad una “iper-legificazione” che ne soffoca la formazione in un fitto reticolo di procedimenti di autorizzazione burocratico-legalitari e di controllo finanziario (M. D’Antona). Non è poco. Ma non è nemmeno tutto, perché il quadro dei distinguo si arricchisce ulteriormente analizzando quel che succede sul versante dei datori di lavoro pubblico, ove il soggetto che li rappresenta ai fini negoziali si sta accapigliando da un pezzo col difficile problema della sua identità, senza poterne padroneggiare i termini come sarebbe desiderabile. Mi risulta che l’Aran abbia creduto di averlo risolto durante il periodo che, se per lei deve essere stato il più sereno della sua breve esistenza, per la Repubblica è stato uno dei più cupi, perché di tutti i vertici politici delle p.a. tutti dicevano il peggio possibile. Esso ha inizio col disseppellimento di Tangentopoli ed ha la durata del successo del pool di Mani Pulite. E’ in questo periodo che il legislatore non può non fare i conti con un’opinione pubblica scossa da una raffica di scandali di Palazzo e, per rinfrancarla, le darà in pasto la speranza che l’ingegneria istituzionale sia in grado di costruire luoghi al riparo quanto più possibile dalle interferenze della politica intesa e praticata nel senso meno nobile possibile. Adesso, invece, l’Aran si rende conto che la rappresentanza legale del cui munus è rimasta formalmente titolare nei confronti delle p.a. è uno strumento approssimato per eccesso, perché comporta di per sé un’invasione della sfera giuridica altrui di dimensioni superiori a quelle tollerabili dalle stesse p.a. molte delle quali, per giunta, sono chiamate ad attuare la riforma federalista dello Stato (L. Mariucci). Nel novembre del ’97, infatti, il legislatore ha emancipato in senso tecnico le p.a. riducendone l’incapacità legale a contrattare a livello di comparto da assoluta a relativa; tant’è che i rispettivi comitati di settore non solo esercitano un penetrante potere d’indirizzo nei confronti dell’Aran, ma possono persino delegittimarla, perché ad essi spetta formulare un parere conclusivo sulle ipotesi di accordo raggiunte nelle negoziazioni di comparto. Come dire che la politicità inscritta nel codice genetico della contrattazione collettiva è tornata a schizzare in superficie come una palla di gomma sfuggita dalla mano che la tratteneva sott’acqua e l’Aran farebbe morire dal ridere i suoi rappresentati se si permettesse di ammonirli così: “silete politici in munere alieno”. In verità, fin dalla sua nascita la sua competenza è quella di un organismo tecnico e “il tecnico non sceglie i fini; ha soltanto il potere conoscitivo dei mezzi per realizzare fini decisi da altri” (N. Irti); quando va bene. Tuttavia, la sostanziale equi-ordinazione dell’Aran rispetto ai comitati di settore ha visibilmente accentuato la sfrontatezza del legislatore che continua a qualificarne il ruolo in termini di rappresentanza ex lege delle p.a., come se non fosse cambiato niente. Vero è che l’incongruità non è stata eliminata per la medesima ragione per cui era stata introdotta: ossia, perché rende l’inestimabile servigio, apprezzato anche dalla Corte costituzionale, di un escamotage che consente al contratto collettivo stipulato dall’Aran di produrre efficacia generale senza scomodare il quarto comma dell’art. 39 cost. Ciò non toglie che si sarebbe potuto ottenere un analogo risultato configurando legislativamente il ruolo dell’Agenzia a stregua dell’assistenza del curatore nei confronti di soggetti limitatamente capaci di agire, il cui assenso ne integra la volontà e, in quanto è necessario per il perfezionamento degli atti negoziali, partecipa della stessa natura di quello prestato dal contraente. Anche questa sarebbe una fictio iuris. Ma, perlomeno, non pretende di occultare la realtà. Dopotutto, il ruolo che l’Aran è in grado di svolgere è quello dell’intermediario brevettato che, piazzato tra dirigenza politica e dirigenza sindacale, può proporsi soltanto o soprattutto di impedire che il metodo della formazione bilateralizzata delle regole del lavoro pubblico subisca gli stessi inquinamenti che avvelenavano il metodo della regolazione unilaterale. Il suo ruolo, insomma, è quello dell’esperto ed insieme del moralizzatore. Un ruolo curioso. Un ruolo d’insostenibile leggerezza. necessaria Per questo, può succedere (e succede, succede eccome) che l’Aran presti ascolto alle pretese delle p.a. di gestire con maggiore autonomia le relazioni contrattuali con l'aria del bravo cassiere di banca davanti al quale arriva uno che gli chiede di effettuare un bonifico intestato alla Madonna e all'insistente rivendicazione di un maggiore presenzialismo sindacale specialmente a livello decentrato reagisca nello stesso modo in cui reagirebbe chi, giocando a scacchi, si accorge che l'avversario gioca con due Regine. In effetti, per quanto si possa in astratto ritenere che la scelta migliore per sconfiggere l'inerzia autoconservativa della cultura del sospetto consiste nel favorire il superamento delle condizioni che l’hanno determinata, nella situazione storicamente data l’opinione sconfina nella temerarietà. Anche il legislatore lo sa. Diversamente, non avrebbe obbligato le p.a. ad attivare livelli di contrattazione esclusivamente sulle materie e nei limiti fissati dai contratti nazionali né avrebbe fatto ricorso alla più energica delle sanzioni civilistiche per invalidare le clausole inserite nei contratti integrativi che risultino in contrasto coi vincoli posti dai contratti nazionali né avrebbe minacciato di “prorogare l'efficacia temporale (dei contratti) ovvero di sospenderne l'esecuzione parziale o totale in caso di accertata esorbitanza dai limiti di spesa". Insomma, pur incentivando il federalismo possibile a costituzione invariata, il legislatore di fine secolo non ha smesso di flirtare con la logica repressiva insita in ogni forma di paternalismo che si nutre di valutazioni e giudizi, a torto o a ragione, poco teneri sulla maturità degli stessi soggetti che dovrebbero agire da protagonisti della riforma federalista ed è disposto ad allontanarsene con prudente gradualità per poter continuare a credere che il biglietto di viaggio “dal disastro verso l’ignoto”, staccato nel febbraio del 1993, fosse di sola andata. Dite che è illogico stabilizzare regole del lavoro su materie e in ambiti colpiti da uno sciame di scosse sismiche quando le turbolenze sono appena cominciate? Dite che non ha senso uniformare e livellare quando, tutt’al contrario, bisognerebbe valorizzare il carattere multi-organizzativo delle p.a., il loro policentrismo, la loro diversificazione territoriale, professionale e di scopo a misura delle utenze di riferimento? Dite che è contraddittorio legificare il primato del contratto collettivo nazionale dei pubblici dipendenti e contemporaneamente avviare processi di costruzione dello Stato autonomista? Apparentemente assennate, domande del genere sono invece mal poste. Il fatto è che la routine d’una centralizzazione contrattuale tendenzialmente incapace di produrre valore aggiunto se non in termini di moderazione della crescita salariale dei tre milioni di lavoratori è, comunque, preferibile all’iniziativa di moltitudini di datori di lavoro pubblico alle cui incursioni corsare è dovuto il formarsi della giungla normativa dei trattamenti dei loro dipendenti che la contrattazione di comparto è tenuta a bonificare. 8. – La joint-venture tra due premiate ditte. Il metodo di produzione delle regole del lavoro alle dipendenze delle p.a. non è altro che la punta dell’iceberg ossia la manifestazione estremizzata d’una tendenza di lungo periodo che ha convertito il binomio legge-contratto collettivo in una matassa arruffata. Il tentativo di dipanarla hic et nunc avrebbe due gravi difetti: sarebbe privo di originalità e introdurrebbe un’inammissibile digressione. Quindi, me ne astengo. Tuttavia, suggestionato dal caso-Italia che è considerabile un caso clinico, non posso trattenermi dal banalizzare le acquisizioni della più accreditata sociologia del diritto, osservando che tutto nasce dal fatto che la legislazione in materia sindacale e di lavoro – un po ’ per garantirsi un livello passabile di funzionamento fisiologico e un po’ per diminuire “l’esposizione politica dei centri di decisione statuali” (M. D’Antona) o (il che non è molto diverso) per rendere più tollerabile una evidente crisi regolativa da “sovraccarico funzionale” (G. Vardaro) – ha bisogno del contratto collettivo più di quanto non ne abbia di lei il contratto collettivo. La segnalata tendenza di lungo periodo non è mai stata sotterranea; tutt’al più, può dirsi che aveva l’andamento di un fiume carsico. Il ceto giuridico italiano non la individuò soprattutto perché il suo provincialismo culturale unito ad una discreta ottusità non glielo permise. Incuranti non solo della lezione ricavabile dall’esperienza giuridico-sindacale d’ oltre Manica – icasticamente sunteggiata da Otto Kahn-Freund: “ciò che lo Stato non ha dato nemmeno può togliere” – ma anche della saggezza immortalata nell’aforisma di Melchiorre Gioia secondo il quale “gli errori delle generazioni passate riescono utili al legislatore come la storia de’ naufragi al marinajo” o in proverbi del tipo “il gatto che si è scottato con l’acqua bollente ha paura anche dell’acqua tiepida”, gli operatori giuridici del dopo-costituzione accreditavano una versione diametralmente opposta, dissipando il loro patrimonio di energie “nell’inutile indagine sui modi in cui l’art. 39 (avrebbe potuto) essere attuato” (F. Mancini). Tuttavia, la tendenza non era sconosciuta. Era infatti opinione di un “sindacatino”, come la Cgil fino agli anni ’50 inoltrati spregiativamente chiamava i sindacati costituitisi dopo la scissione del ’48, che l’intero movimento sindacale italiano, col suo cumulo di ritardi storici quanto ad esperienza di libertà, dovesse autonomamente costruirsi la sua, emancipandosi attraverso la dialettica e la competizione proprie del pluralismo organizzativo garantito dal primo comma dell’art. 39. Nettamente contraria all’attuazione del quarto comma dell’art. 39 che, privilegiando la regola strumentale al principio di maggioranza per cui ciascuno dei sindacati seduti al tavolo negoziale conta unicamente in proporzione al numero degli iscritti, “ svaluta apertamente la pretesa egemonica di contare in base alla qualità della capacità rappresentativa degli interessi ” (M. Napoli), l ’ opinione radicalizzò le divisioni sindacali. Ciononostante, in un arco temporale tutto sommato breve sarebbe diventata l ’opinione del sindacato “nel suo complesso”, come annoterà nel 1963 Federico Mancini, anche perché ebbe la straordinaria fortuna – sissignori, la fortuna – di sostentarsi con copiosi argomenti dotati di inusitata rispettabilità accademico-scientifica. L’opinione infatti potè nutrirsi del pensiero giuridico legato ai nomi di Francesco Santoro Passarelli e Gino Giugni. A proposito dei quali non mi stancherò mai di ripetere che ciò che li unisce supera ciò che pure li divide. Benché Santoro Passarelli fosse uno degli ultimi esponenti della grande scuola civilistica dell’Ottocento, mentre Giugni “ non saprà mai” (come disse una volta di se medesimo) “se è un politico prestato al diritto o un giurista prestato alla politica”, ciò che li accomuna è anzitutto la piena consapevolezza unita alla fiduciosa operosità che le loro interpretazioni ricostruttive miranti a valorizzare l’autonomia privato-collettiva avessero l’attitudine ad influenzare lo sviluppo del diritto sindacale vivente, come effettivamente sarebbe accaduto, in ragione della lungimiranza politico-culturale di cui erano espressione. Ovviamente, come sta scritto nel destino dei protagonisti di vicende che lasciano il segno, Francesco Santoro Passarelli non poteva sapere che la sua teorizzazione privatistica del fenomeno sindacale avrebbe incentivato una politica del diritto che, raffigurando il rapporto tra contratto collettivo e legge nei termini teatralizzanti della lotta della luce contro le tenebre, ingigantiva il pericolo che, per assegnare al contratto collettivo la rilevanza giuridica endo-statuale nelle forme volute dall’art. 39 cost., la legge finisse per divorare la sostanza pre-statuale della contrattualità. Né Gino Giugni poteva sapere che, dopo l’Introduzione allo studio della autonomia collettiva, il diritto sindacale del dopo-costituzione non sarebbe più stato un personaggio in cerca d’autore. Non poteva sapere nemmeno quante fossero le probabilità di realizzazione del suo progetto. Fatto sta che esso non ha trovato riscontri se non entro i margini di adattabilità dell’esistente, ponendo progressivamente in evidenza un décalage tra le linee direttrici del lavoro culturale del giurista e le linee della politica del diritto praticata dalle principali forze in campo. Come dire che queste ultime si sono discostate non di rado dall’ispirazione di fondo del progetto e non hanno saputo (potuto? voluto?: ecco un altro bel tema per gli storici delle istituzioni) interconnettere i vari segmenti del medesimo se non con gli occhi inumiditi dalla nostalgia, che è la forma di vecchiaia più penalizzante che ci sia. Infatti, riletto in controluce con gli occhi asciutti, il diritto sindacale del dopo-costituzione può dare l’impressione d’un collage eseguito da chi sta imparando proficuamente il mestiere dell’intarsiatore per comporre con materiali vecchi un disegno nuovo. Per questo, lo stesso Giugni che ha educato numerose generazioni di operatori giuridici a considerare il nostro sistema di auto-regolazione sociale a stregua di un ordinamento iure proprio, originario e sovrano, ammetterà sul finire degli anni ’80 che “quest’ ordinamento di fatto oggi è un po’ sgangherato”, pur rivendicando (con tono sommesso, ma) con giustificata fierezza il merito che la sua visione giuridica “è valsa se non altro a dimostrare che, anche in assenza di un intervento legislativo regolatore e attuativo del particolare tipo di contratto previsto dalla costituzione, il sistema contrattuale non era extra legem e tanto meno contra legem”. Nondimeno, il contratto collettivo post-corporativo non ha troncato il feeling col diritto pubblico; il processo civile davanti al giudice ordinario come metodo per la composizione delle liti individuali generate dall’ amministrazione delle norme collettive è rimasto oggetto di culto; il sindacato – un sindacato che “contratta per tutti” e si erge in difesa del “lavoratore come singolo individuo titolare di diritti soggettivi prima che come componente di un gruppo sociale portatore di interessi collettivi” (A. Accornero) – non ha mai smesso di comportarsi più da tutore che da mandatario nell’ampia misura in cui tratta il singolo, “più che con riguardo alla sua veste di socio, con riguardo a quella di destinatario degli effetti dell’azione sindacale” (M. Rusciano). Neanche lo Statuto dei lavoratori ha eliminato le aporie più vistose dell’evoluzione del diritto sindacale. Non solo ha suggellato l’ incompiutezza della transizione dalla rappresentanza sindacale di tipo politico-istituzionale e dunque di diritto pubblico, acquistata a prezzi proibitivi in età corporativa, alla rappresentanza di tipo privatistico-associativo, ossia particolaristica, e dunque di diritto comune privilegiata nell’età successiva (M. Rusciano). Per di più, ha persuaso il sindacato che non era affatto necessario cambiare rotta e che era, invece, redditizio lasciare le cose come stavano, perché intanto incamerava risorse (non solo) normative da un potere pubblico tutt ’ altro che avaro, più permissivo che esigente, più schierato che neutrale. Il fatto è, scriveva Gino Giugni nel 1972, che “occorre un investimento di sostegno nei confronti dell’azione sindacale al fine di tonificarla e di consentire al sindacato di riguadagnare quello che sta perdendo a causa di incontrollate esplosioni sociali”. E’ certamente un errore da sofisti spiegare con il dopo quel che è accaduto prima, stabilendo concatenazioni causali là dove può esserci soltanto una successione cronologica di eventi. E’ tuttavia indubbio che, rigettando reiteratamente le eccezioni d ’incostituzionalità che fino alle soglie degli anni ’90 piovono sull’art. 19 st. lav., la Corte costituzionale farà quello che i più si aspettavano da lei per rendere produttivo l’ investimento. Dopotutto, non c’era ragione al mondo perché dovesse fidarsi più delle neo-formazioni sindacali di base coi loro effetti destabilizzanti che non del sindacalismo storico riunificato nel club della maggiore rappresentatività, luogo delle grandi saldature organiche e sede privilegiata delle “sintesi tra istanze di tipo micro-economico e di tipo macro-economico ” . Pertanto, è un ’ ingenuità ritenere che, solamente perché si proponeva di offrire un sostegno al pluralismo conflittuale, il diritto promozionale di cui lo Statuto dei lavoratori resta la più significativa espressione non potesse far maturare anche da noi le premesse d ’ un trade-off tra potere pubblico e potere sindacale che rappresenta il cuore d’una strategia riformista ricalcata, mutatis mutandis, sul patto newdealista degli anni ’30. Infatti, in cambio del minimo storicamente possibile di regolazione eteronoma del potere sindacale, il potere pubblico a sua volta incasserà il massimo storicamente possibile di consenso sociale diffuso. Se fosse stata una partita a poker, si sarebbe compreso subito chi era il professionista. Opporsi all’integrale attuazione dell’art. 39 cost., sapendo che la legislazione sindacale e del lavoro orfana di contratti collettivi di natura para-legislativa somiglia ad un veicolo con le ruote quadrate, è come stringere Montecitorio e Palazzo Madama nella morsa di un assedio che ne rende difficoltoso l’approvvigionamento. E’ infatti per non morire d’inedia che gli assediati si specializzano nell’arte dell’auto-inganno e ai loro numi tutelari, vestiti da giudici costituzionali, non resta che rassicurarli che possono campare egualmente con le gallette di cui dispongono. Poco meno che patetica, al riguardo, ma emblematica è la contorsione con la quale il Parlamento ha ritenuto di poter evitare che la legge 146/1990, la cui attuazione ha affidato in via pressoché esclusiva ai “ contratti collettivi”, sia scritta sull’acqua, guadagnandosi così la commossa approvazione dell’Alta Corte. Insomma, a dispetto della sua estrema informalità, la costituzione materiale ha avuto il sopravvento. Però, si potrebbe anche dire che, come ogni tanto gli capita, il tempo è stato galantuomo. E’ stato galantuomo perché, addestrando il sindacato a prodursi nella performance di sommare ai vantaggi di cui gode come “libero soggetto di autotutela in una sfera di diritto privato” i vantaggi di cui si appropria come “soggetto di una funzione pubblica”, ne ha demistificato l’ideologia anti-legalitaria, anti-formalista, anti-istituzionale provocatoriamente protesa ad esorcizzare il diritto pubblico. E’ l’ideologia dell’alterità del contratto collettivo rispetto alla legge; un’ideologia che, nell’ultimo quarto del Novecento italiano, si è ossificata. Infatti, ormai è lo Stato che attribuisce all ’autonomia collettiva la licenza di assumere movenze che mimano quelle della legge, riservandosi di fissarne le regole d’uso – con una diligenza tanto scadente da rasentare in qualche caso la cialtroneria – oppure – quando è in vena di comportarsi in maniera più decorosa – di “ predisporre le nervature istituzionali dei processi di autoregolazione sociale” (L. Mengoni) od anche di determinare condizioni o presupposti di legittimità dell’autorità law making delegata a soggetti privati. Se è ragionevole congetturare che questo stadio evolutivo è stato raggiunto perché, pur non possedendo la dignità dell’atto avente l’efficacia promessa dal quarto comma dell’art. 39, quella che era in qualche modo riconosciuta al contratto collettivo post-corporativo aveva familiarizzato il sindacato del dopo-costituzione alle frequentazioni col diritto pubblico senza andare troppo per il sottile, bisogna convenire che la spregiudicatezza e l’eclettismo del legislatore hanno finito per mettere in solare risalto il dilettantesco conformismo dell ’ alma mater del contratto collettivo post-corporativo unanimemente identificata nella giurisprudenza degli anni ’50. E ciò perché quest’ultima non poteva percepire né la necessità né l’ opportunità di mettere in discussione il “pregiudizio concettuale” della configurazione monistico-unitaria del contratto collettivo (G. Vardaro), muovendo dall’assunto “che vuole che al contratto collettivo corrisponda una, e una sola, disciplina; e che qualunque disciplina non possa non riguardare il potere dell’organizzazione sindacale di regolare i contratti di lavoro nell’ambito del gruppo rappresentato ” (M. D’Antona). L’ insoddisfazione e la voglia di superarla sarebbero venute assai più tardi, a percorso inoltrato dell’itinerario della “via italiana alla giuridificazione del contratto collettivo” (G. Vardaro). Se la sensibilità predittiva che permise a Giuseppe Ferraro, in una non dimenticata monografia la cui elaborazione si situa a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’ 80, di assegnare una rilevanza ordinamentale alla diversificazione delle funzioni social-tipiche del contratto collettivo desumibile dalla varietà tipologica delle sue forme dì uso da parte del legislatore appare condizionata da una lettura sostanzialmente apologetica delle medesime, nessuno tuttavia può negare che si stavano creando le premesse e le condizioni favorevoli all’introduzione di regimi giuridici differenziati. “E’ possibile”, ammetterà Gaetano Vardaro in uno scritto del 1987, “ che ad una qualche forma di diversificazione strutturale del regime giuridico dei contratti collettivi si arriverà in tempi anche relativamente brevi”.. Ma non è la prospettiva in sé a motivare il disagio del giovane giurista-scrittore cooptato nello star system accademico. Lo preoccupa che la selezione degli agenti della contrattazione privilegiata da sequenze di rinvii legislativi sia camuffata come sviluppo applicativo della medesima linea di sostegno sindacale inaugurata dallo statuto dei lavoratori. Secondo lui, adottare un’ottica del genere significa falsificare i dati di realtà e svuotare la garanzia costituzionale del pluralismo. Per parecchi motivi. Primo. I sindacati riconosciuti come autorità normativa dallo Stato devono la loro legittimazione al loro grado di integrazione nel sistema politico-istituzionale e l’ ordinamento iure proprio del quale sono artefici e garanti stabilisce con l’ordinamento statale un rapporto di simbiosi più antagonistica che mutualistica, perché ne ricava vantaggi più che altro apparenti. Secondo. L’erga omnes, che la giurisprudenza non ha mai cancellato dalla sua agenda, subisce un mutamento di senso: smarrito per strada “il senso tradizionale di estensione ai non organizzati dei trattamenti conquistati dagli organizzati”, acquista il senso di vincolare anche i dissenzienti, singoli individui o gruppi minoritari (M. D’ Antona) Terzo. In presenza di conflitti endo- o intersindacali che minacciano la tenuta dell’autoregolazione sociale, non si può reagire come se non fosse disponibile la regola per governarli. Sul tema mi soffermerò nell’ultimo pgr. Intanto, però, vale la pena di osservare che finora si è potuto disapplicarla semplicemente “perché, non essendoci conflitti, non c’era neanche bisogno di ricorrervi” (G. Giugni). Infatti, a poco a poco si è realizzata nell’ordinamento la compresenza di una pluralità di modelli di disciplina del contratto collettivo, diversificati per contenuto e regime della sua efficacia, per finalità e tasso di legificazione o, meglio, per incisività dell ’imprinting legislativo. Il primo è quello su cui giurisprudenza e dottrina hanno esercitato la propria creatività nei decenni centrali del secolo: è il contratto collettivo del quale ho finora parlato; è il contratto collettivo di tipo normativo-accrescitivo, la cui logica non può essere che “quella del ‘concreto’ e del ‘possibile’, onde la previsione di un controllo di razionalità da parte del giudice altro non sarebbe che abilitare il giudice a sostituirsi alle parti” (M. Persiani)”. Insomma, è il contratto collettivo del Novecento italiano che, per una incorreggibile inclinazione alla vivacità espressiva, ho definito in precedenza contratto collettivo corporativo formato-bonsai. Il secondo gli si contrappone perché, pur costituendo l’esito d ’ un ’ attività autonomamente deliberata, la legge ha rigorosamente conformato il contratto collettivo a stregua di un ’ autonormazione assoggettata a pesanti vincoli funzionali e finalistici: è il contratto collettivo “inautentico” dove “di negoziale, alla fine, non resta che la genesi consensuale dei suoi precetti normativi” (A. Tursi). Tra quest’ultimo e il contratto collettivo del Novecento non esiste una graduazione di tonalità: esiste un vero e proprio salto qualitativo, perché il legislatore ha disegnato il secondo modello di disciplina adottando come parametro di riferimento di fatto prevalente interessi che, nonostante la loro generale condivisione, sono ascrivibili in via diretta ed immediata allo stesso legislatore. Il terzo modello si colloca in una posizione intermedia, anche se non equidistante perché è più vicino al secondo che al primo nella misura in cui gli sono “ assegnate funzioni o finalità che ne collocano il senso giuridico ultimo in una dimensione meta-negoziale” (A. Tursi). Esso corrisponde ai contratti collettivi – la cui testa di serie è costituita dal contratto collettivo stipulato in attuazione della legge 146/1990 – ove auto-determinazione e prospettiva funzionale coesistono, fermo restando che – “pur esercitando un apparente self restraint” (M. D’Antona) – è lo Stato che, come può e sa, pone le condizioni subordinatamente alle quali è disposto a conferire rilevanza nel suo ordinamento al contratto collettivo. Così, se è vero che la Commissione di garanzia “non ha poteri correttivi o modificativi degli accordi stipulati”, è pure vero – come si premura di puntualizzare la Corte costituzionale – che “ una valutazione negativa da parte della stessa Commissione li priverebbe di efficacia”. Come dire: l’ideologico ottimismo secondo il quale l’autonomia collettiva dovrebbe poter strumentalizzare la legge rischia di cedere il posto alla retorica apocalittica secondo la quale il contratto collettivo “da ordo ordinans si trasforma in ordo ordinatus“ (S. Simitis). Soltanto l’ostilità, peraltro non del tutto destituita di fondamento, alla funzionalizzazione dei poteri privati (individuali o collettivi che siano) al soddisfacimento di interessi che non possono essere esclusivamente privati (né di singoli né di gruppo) può giustificare l’assunto per cui il contratto collettivo riconducibile al primo e meno recente modello di disciplina avrebbe la forza immanente di un concetto-spugna capace di assorbire e digerire ogni possibile modello ulteriore, sovrapponendosi alla stessa realtà normativa, come se fosse irrilevante che sia stato costruito indipendentemente da essa (M. Persiani). Irrilevante, viceversa, è l’argomento secondo il quale non possono esserci contratti collettivi che non “compongano conflitti di interessi tra capitale e lavoro”. Questi, sì, sono immanenti, pur riproponendosi in forme e termini rinnovati. E’ ovvio. Ma è altrettanto ovvio che, in mancanza di una mediazione legislativa, vi sono conflitti che il contratto collettivo del Novecento italiano non può risolvere. Difatti, non li ha neanche affrontati. Et pour cause. Come fenomeno di autonomia privata operante in regime di rappresentanza volontaristico-associativa, quel contratto non è in grado né di dettare discipline vincolistiche di dinamiche conflittuali il cui presidio corrisponde ad un interesse pubblico in quanto coinvolgono moltitudini di terzi estranei né di flessibilizzare la legislazione garantista né di promuovere e/o condizionare la ristrutturazione in senso federalista del sistema delle p.a. Oltretutto, si tratta di materie sottratte alla disponibilità delle parti sociali; come dire che la mediazione legislativa non può essere saltata. Casomai, si dissente sulla forme della mediazione, che molti vorrebbero più grintosa, e sugli esiti consensuali, che molti vorrebbero legislativamente precostituiti con margini di approssimazione più esigui. Ut erat in votis, si dovrebbe concludere. L ’ approccio interpretativo dal quale mi sono permesso di divergere è sostanzialmente identico a quello che Stefano Rodotà, nel suo magistrale commento all’art. 42 cost., rimprovera alle dottrine giuridiche attestate in difesa delle ragioni proprietarie che l ’ ordinamento pre-costituzionale qualificava esplicitamente “inviolabili”. “Ci si può legittimamente domandare”, scrive Rodotà, “se, per effetto dell’introduzione della funzione sociale nell’ordinamento, si possa ancora parlare della proprietà come di un diritto soggettivo; ma non si può escludere l’operatività della nozione di funzione sociale assumendo la pregressa natura giuridica del diritto di proprietà”. Orbene, come quest ’ ultimo è cambiato in seguito al “ passaggio da un regime in cui il principio di diritto positivo è quello dell’ assolutezza della proprietà ad uno di proprietà funzionalizzata”, così “il diritto sindacale italiano sta facendo i conti con la propria ‘anomalia’: mentre le tipologie e le funzioni della contrattazione collettiva tendono a differenziarsi sul terreno sociale, il regime giuridico del contratto collettivo resta ancorato ad una soltanto di esse, quella sulla quale è stato storicamente edificato con materiali compositi e di incerta affidabilità” (M. D’Antona). Come dire che il giurista del lavoro non può ingessare l’ autonomia collettiva in schemi concettuali superati da interventi variamente conformativi o preformativi della stessa, i quali testimoniano come l’utilità sociale tenda ad acquistare la valenza di un principio ordinatore degli svolgimenti dell ’ autonomia collettiva (M. Mariani), accelerando un processo di “compenetrazione” tra sfera statuale e sfera dell’autonomia collettiva la cui “istituzionalizzazione è corrispettiva alla devoluzione ai sindacati di funzioni pubbliche ” (M. D ’ Antona) che finiscono per retro-agire sulla struttura del principale strumento utilizzabile per svolgerle. E ’ il medesimo processo l’assenza del quale negli anni in cui un giurista del calibro di Carlo Esposito si collocava su posizioni contigue le faceva apparire perlomeno oniriche, con ciò dimostrandosi ancora una volta che anche la ragione può avere torto quando sceglie il momento sbagliato per esprimersi. Vero è che il dato della doverosità della corrispondenza degli svolgimenti dell ’ autonomia collettiva con gli obiettivi legislativamente prefissati, come del loro adeguarsi a condizioni o presupposti anch’essi legislativamente prefissati, ha un carattere episodico e circoscritto. Tuttavia, proprio questi sono i modelli regolativi emergenti che sembrano orientati ad impadronirsi di crescenti spazi nel sistema delle fonti normative. Pertanto, tenuto conto dell’intrinseca ambiguità della descritta politica del diritto tempestivamente percepita e segnalata da Gaetano Vardaro, vale la pena di sorvegliarne con attenzione gli sviluppi piuttosto che negarne l’esistenza: anche don Ferrante credeva che non fosse peste e di peste morì. La reminiscenza manzoniana, mi affretto a chiarire, non intende suggerire chissà quali perversi parallelismi tra il flagello abbattutosi sulla Milano seicentesca e la fine dello “stallo pluralistico” ossia della conversione del pluralismo da conflittuale in cooperativo (L. Mengoni). Nondimeno, le più recenti esibizioni della coppia pubblico-collettivo lasciano di stucco. Così, mentre nelle aule universitarie si comincia ad insegnare che la formula dottrinale per cui lo sciopero è un diritto individuale ad esercizio collettivo è un dogma fondato più sulla ragione che sullo ius conditum perlomeno nell’area dei servizi pubblici essenziali, nelle aule giudiziarie si comincerà presto a dubitare che possa ancora parlarsi di inderogabilità delle norme protettive dei pubblici dipendenti, benché provengano da contratti collettivi legificati. A questo proposito, mi riferisco non solo e non tanto alla circostanza che, assumendo come preminente l’interesse a decongestionare il circuito giudiziario, il legislatore abbia sdoganato l’arbitrato (obbligatoriamente preceduto, anch’esso, dal tentativo di conciliazione, come nel settore privato) in modo da suscitare più problemi di quanti non possa risolverne; mi riferisco anche e soprattutto alla circostanza che, per privilegiare l’esigenza di garantire l’immodificabilità dell’equilibrio degli interessi di cui è espressione il singolo contratto di comparto per tutta la sua durata, il legislatore abbia manifestato l’intenzione di emarginare doppiamente il giudice togato. Una prima volta, revocandogli la delega dell’interpretazione esclusiva delle clausole contrattuali; una seconda volta, vietandogli di disapplicare clausole in contrasto con disposizioni imperative di legge. Infatti, “quando per la definizione di una controversia individuale (…) è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l ’ efficacia, la validità o l ’ interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale (…), il giudice con ordinanza non impugnabile (…) fissa una nuova udienza di discussione non prima di centoventi giorni”, per dare ai contraenti la possibilità di riprendersi il controllo sul destino della clausola controversa o definendone consensualmente il significato oppure rinegoziandola tout court e dunque modificandola. Solamente nel caso in cui il procedimento incidentale si concluda senza esito alcuno, il giudice può decidere “andando oltre (ossia superando il testo oscuro con lo strumento dell’interpretazione) o contro il contratto (ossia sostituendo il disposto contrattuale ritenuto invalido o inefficace) ” (M. D’ Antona); ma l ’ eventualità è tanto temuta da indurre il legislatore a ridisegnare lo scenario processuale, complicandolo con barocchismi e affollandolo con frotte di interlocutori. Ad ogni modo, estote parati: la proliferazione dei modelli di disciplina del contratto collettivo è il sintomo dell’appartenenza di questa figura iuris alla razza dei mutanti. Mario Rusciano, del resto, ci aveva avvertito: la contrattazione collettiva è come “un fiume che attraversa molti e diversi territori: ha un solo nome, sgorga da una sola fonte, l’acqua è la stessa, ma il suo alveo si conforma alla struttura geologica della terre attraversate”. Ci sono però dei limiti. E’ stata la Corte costituzionale la prima a dircelo. Invitata a pronunciarsi sulla natura di una decisione concertata, essa reagì come se l ’ avessero apostrofata con parole che, aggredite da una malattia incurabile, soffrono di una eccedenza di significati e pertanto ostacolano la comunicazione nell’ampia misura in cui sollecitano i parlanti a prese di posizione che – assai più nette dell’oggetto a cui si riferiscono – somigliano a pregiudizi, favorevoli o sfavorevoli che siano. “Per quanto lo si esorcizzi col prefisso ‘ neo ’ e con l ’ aggettivo ‘ liberale’”, è il lapidario giudizio di Luigi Mengoni, “il modello corporativo della legge del 1926 in qualche modo viene sempre fuori”. Neanch’io ho mai nascosto disagio e inquietudine. Ma, come dirò un po’ più avanti, questo è uno dei casi in cui semplificare un fenomeno complesso espone al rischio de deformarlo. Sono grato perciò al giovane studioso che, avendo imparato a coniugare l’originalità e la freschezza delle idee con l’obbligo di tradurle in un linguaggio abbordabile da tutti, ha saputo dimostrare che la pluri-valenza del contratto collettivo non è illimitata. Antonio Lo Faro infatti ci ha spiegato, senza indulgere nei riti iniziatici cari agli esperti di diritto comunitario del lavoro, che la contrattazione collettiva europea – partorita con taglio cesareo a Maastricht e innalzata dal nuovo trattato dell’Unione al rango di un metodo di produzione normativa alternativo a quello delle direttive unilateralmente e discrezionalmente adottate dal Consiglio – non è che una forma evoluta della prassi procedurale che negli Stati-nazione chiamano concertazione sociale. Anche la contrattazione collettiva europea è una risorsa; ma è una risorsa più di legittimazione che di regolazione. Il suo normale mezzo espressivo, infatti, è l’accordo con funzione ancillare e complementare rispetto al c.d. legislatore comunitario. Un accordo che viene suicidato mediante la decisione del Consiglio; mentre l’accordo c.d. libero, che non è ancora sbucato dalle nebbie del Nord-Europa e chissà quando ne vedremo un esemplare, viene fatto sostare in una zona limbica proprio perché è “ più vicino al concetto di autonomia collettiva intesa come potere originario dei gruppi privati di autoregolarsi” (M. D’Antona). La residua, ma ragguardevole indeterminatezza della concertazione sovra-nazionale fornisce una ulteriore, ma eloquente giustificazione ex post dell’ atteggiamento adottato dalla nostra Corte costituzionale nei confronti della concertazione nazionale. Nell ’ occasione menzionata, infatti, la Corte sembrò più che altro interessata ad escludere la prospettiva che si trattasse di un additivo o di un farmaco ricostituente di cui la contrattazione collettiva potesse imbottirsi al punto di risultare “ancora più estesa e garantita di quanto non potrebbe esserlo in base all’inattuato quarto comma dell’art. 39 ”. Oggi, avrebbe meno motivi di preoccuparsi. Dal maxi-accordo del 22 dicembre 1998, che traccia un percorso di concertazione legislativa modellato su quello comunitario, è dato desumere che l’obbligo del potere pubblico ad attivarsi a sostegno degli accordi raggiunti è giuridicamente inesigibile e costituzionalmente irrilevante, ossia ha natura soltanto politica, ancorché le intese vertano su “ materie che incidono direttamente sui rapporti tra imprese, loro dipendenti e le rispettive organizzazioni di rappresentanza e non comportino un impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato”. Concertazione, dunque, è una parola che non parla, gareggiando da questo punto di vista con parole come flessibilità, come globalizzazione, come gobba dei conti INPS. Non parla; in compenso, sconcerta. “ Non amata, ma inevitabile ” ; ecco cosa sarebbe la concertazione, secondo un apprezzato sociologo inglese: inevitabile, perché permette ai governi e ai partner sociali di attuare uno scambio politico le cui poste sono, da un lato, il rafforzamento della legittimazione politico-sociale dei governi e, dall’altro, l’attivazione di un canale istituzionale che permetta ai sindacati di influenzare le politiche pubbliche per arginare la deriva neo-liberista, controllare la deregulation e contrastare la demolizione indiscriminata del welfare state. “ Destinato ad essere sempre con noi ” – prosegue Colin Crouch – il fenomeno ha la ciclicità delle maree e, come le maree, indietreggia e avanza. Ma è prevedibile l ’ intensificarsi dei suoi ritmi contestualmente al processo d’integrazione europea, perché – come e più della Commissione Delors, come e più della Commissione Santer – la Commissione Prodi cercherà di rimediare al congenito deficit democratico dell ’ Unione Europea stabilizzando rapporti diretti con le istituzioni rappresentative della società e queste ultime potranno aiutare un’Europa senza Stato ad acquisire quelle prerogative degli Stati-nazione dell’età post-liberale che ne fanno un’autorità intesa come supremazia legittimata dal consenso piuttosto che come forza dominante. Per questo, scavando nel sottosuolo degli ordinamenti costituzionali, si scoprirebbe che, proprio perché la concertazione dei nostri giorni è “un modo informale di determinazione della volontà politica con funzione complementare rispetto ai procedimenti formali” (L. Mengoni), nasconde lì le sue radici. Come dire che è il più sonoro e visibile segnale, percepibile anche dal più distratto dei giuristi e politologi contemporanei, di una drammatica crisi epocale tuttora irrisolta: quella che sgretolò le basi degli Stati mono-classe dell’Ottocento minacciati dalle istanze di protagonismo delle masse popolari che la rivoluzione d’industriale, sovvertendo i delicati equilibri dell’ecologia politica del tempo, scaraventava sulla ribalta della scena nazionale col risultato di spaventare a morte le tradizionali élite del potere e le classi medie. Di questa prolungata stagione formativa – si potrebbe definirla la sua età di mezzo – il diritto del lavoro vigente nello scorcio finale del Novecento conserva assai più di qualche segno superficiale; un po’ perché nessuna epoca storica inizia dall’ora zero e un po’ perché i molti corporativismi dell’Europa della prima metà del Novecento si sono insediati proprio per affrontare tutti i processi sociali, economici e politici con la maturazione dei quali oggi stanno facendo i conti le democrazie dei paesi industrialmente più progrediti ed è in quei contesti che si sono manifestati per la prima volta i processi di giuridificazione dei rapporti tra i corpi intermedi e lo Stato che taglieranno trasversalmente le società avanzate del secondo dopoguerra. Insomma, la concertazione non è altro che un neologismo per riverniciare il lascito del corporatismo liberale, come Charles S. Maier definisce – “non senza esitazione“ – la pratica di governo che si diffuse intorno agli anni ’20 in alcuni paesi dell’Europa centro-meridionale e la cui degenerazione provocò l’avvento di forme di Stato totalitario. Quella pratica sviluppava una strategia di diseguale spessore e respiro aperta all’ integrazione nella legalità istituzionale del movimento operaio, nei confronti della quale non potevano essere pregiudizialmente ostili le maggioranze socialdemocratiche del sindacalismo euro-continentale che, da Weimar in poi, ha considerato una sua vitale anomalia lo stare dentro la sfera dello Stato senza compromettere il suo essere una forma primaria di auto-organizzazione sociale. Dopotutto, il fondatore delle Annales era del parere che ogni società è sempre piena di ombre antiche che vi tornano o vi stazionano come i fantasmi di certi morti insepolti e un grande intellettuale italiano ha scritto che “la storia non ammette soluzioni di continuità e si serve dei miti, delle fedi, delle illusioni per rinnovare la sua eternità” (P. Gobetti). Per questo, dovremmo tutti riconoscere – con umiltà e non senza un filo di gratitudine – che i padri costituenti, pur non sapendo rinunciare “agli schemi che avevano caratterizzato l’esperienza sindacale fascista se non per spogliarli del loro carattere autoritario ” (F. Mancini), al tempo stesso cercarono di “frequentare il futuro”, per usare la “bella espressione” che – sostiene Antonio Tabucchi – piacque tanto ad un abituale frequentatore del passato come Pereira. E ciò perché seppero realisticamente valutare come un dato irreversibile la centralità dell’apporto della legge alla configurazione del contratto collettivo che nel corso del Novecento si era venuto disegnando in ragione più dell’intreccio tra pubblico e privato che non dell’intreccio tra interesse individuale e interesse di gruppo sul quale si polarizzavano gli studi pionieristici di Lotmar in Germania, di Planiol in Francia, di Messina o di Galizia in Italia. Quindi, mettersi ad ironizzare sulla ingenuità di chi credeva nel “ miracolo della mediazione tra esigenze pluralistiche ed esigenze pubblico-istituzionali” (F. Lunardon), come è tornato di moda non appena ha ripreso ad espandersi la persuasione di quanto sia distorsivo attribuire all’ art. 39 nient’altro che la valenza di un veto costituzionale (per di più) “di cartapesta” a legiferare in materia di contratto collettivo con efficacia generale (M. D’ Antona), non è né impietoso né dissacrante. “ Taci, Mercuzio, tu parli di nulla”, è la replica più cortese. “Miracoloso”, casomai, è che il contratto collettivo del Novecento italiano si faccia ancora prendere sul serio da un ceto di professionisti che non può sapere con precisione di cosa sta parlando. Perché, allora, non riconoscere che soltanto in seguito al prevalere della tendenza – peraltro, viziata da strumentalismi – a sovrastimare l’anelito libertario delle società intermedie e ad ingigantirne la paura d ’ uno Stato-babau che si è potuto credere di avere sepolto il contratto collettivo prefigurato dai padri costituenti? Non lieve, infatti, è stata la sorpresa di “ ritrovare fuori della costituzione quanto era già scritto in buona parte in quest’ultima” (G. Vardaro); e non minore è stato l’imbarazzo con cui si è dovuto sostenerne, con una singolare inversione metodologica, le “pretese di razionalizzazione e di legittimazione” nei confronti dello stesso art. 39 di cui ogni tanto si invocava la soppressione o una sapiente revisione (M. D’Antona). La verità è che i più anziani avevano dimenticato ciò che, invece, dovevano insegnare ai più giovani. Mario Nigro scrisse che “il ‘terzo’ non appartenente ai corpi intermedi è una realtà indistruttibile della struttura sociale. E’ la sua sola esistenza che porta a negare la completa coincidenza – presupposta, anche se non affermata esplicitamente dalle dottrine del pluralismo sociale – fra insieme delle formazioni sociali e corpo più grande (lo Stato)”. 9. – Le ragioni del neo-costituzionalismo. “Quello che intercorre tra il giorno dell’approvazione della costituzione ed il giorno della sua attuazione con leggi costituzionali o ordinarie”, esorta a considerare Stefano Rodotà, “non è un periodo che possa essere ignorato, quasi fosse una lunga parentesi chiusa la quale si torna finalmente alla purezza delle origini”; come dire: niente può cambiare ciò che, dovendo essere, è stato. Sono convinto che l’esortazione non sia stata finora raccolta con maggiore esprit de finesse di quanto non sia riuscito a Massimo D’ Antona allorché ha rivisitato l’art. 39. “Rileggere oggi” il disposto costituzionale, assevera Massimo nel suo saggio che reca la data del 18 maggio 1999, “significa innanzitutto prendere atto del processo storico che ha spinto la legislazione sindacale a coonestare, al di fuori degli schemi vincolati della seconda parte, le forme volontarie e autolegittimate dell ’ organizzazione dei sindacati e della contrattazione collettiva”. Potrà anche destare una certa sensazione o un moto di vibrante emozione che, nell’imminenza della tragedia di cui sarebbe rimasto vittima, Massimo riprendesse il discorso là dove Gaetano Vardaro lo aveva interrotto senza che potessimo sapere, né lui né noi, che un suo irreparabile gesto gli avrebbe impedito di proseguirlo. Ma è normale che le sentinelle degli avamposti si diano la voce nel cuore della notte; e non tanto per farsi coraggio quanto piuttosto per darne agli altri, trasmettendo il messaggio che la frontiera è presidiata. Anche se è pure normale che, se le retrovie sono troppo distanti, il messaggio si percepisca debolmente, soltanto gli insonni possano udirlo e in pochi siano disposti a decifrarlo compiutamente. La frontiera è quella della rifondazione della teoria giuridica del contratto collettivo sulla quale, quindici anni or sono, Gaetano si era attestato con la tenacia che tutti ammiravamo allorché ci propose genialmente di reinterpretare l’art. 39, immaginando che il disposto costituzionale “non esauri(sse) le valenze normative assegnabili ai contratti collettivi all’interno dell’ordinamento statale e non preclude(sse), neppure, il ricorso a forme diverse di estensione erga omnes della loro efficacia. Né le une né le altre”, sosteneva Gaetano, “godranno della tutela riservata al particolare sistema espressamente menzionato dall’art. 39, comma 4°; ma saranno sempre ammissibili, purché coerenti col principio di libertà sindacale formulato dall ’art. 39, comma 1°”. La frontiera, quindi, coincide con quella che Armando Tursi ci ha descritto di recente con una sintesi semantica così brillante da piacermi al limite dell’invidia, riformulando “l’ipotesi che l’autonomia collettiva riconosciuta e garantita dal primo comma dell’art. 39 costituisca una sorta di ‘cerchio maggiore’ al cui interno possono inscriversi ‘cerchi minori’ che realizzino diversi, possibili ed anche alternativi modelli di legificazione dell’autonomia collettiva: il legislatore è libero di perseguire i propri obiettivi di razionalizzazione del sistema contrattuale collettivo, purché non valichi i limiti del cerchio maggiore”. Senza poter prevedere come sarebbe andata a finire, nel 1997 l ’Aidlass ordinerà alle sue truppe di lasciare le retrovie e ammassarsi sulla medesima frontiera per celebrare il suo XII Congresso nazionale, dominato per l’appunto dal tema delle vicissitudini del contratto collettivo. Il piccolo, ma agguerrito esercito vi affluì alla spicciolata e dunque in maniera disordinata. Non per colpa dell ’ occasionale Stato Maggiore, che anzi era di buona qualità ed era animato da buone intenzioni; né per colpa dei capi storici, che ruppero il loro pensieroso silenzio soltanto per auspicare “che i giovani si dedicassero, un po’ più intensamente e con un po’ più di immaginazione, alla ricerca sui modi di espressione del consenso in ambito sindacale, perché questa probabilmente costituisce la chiave di volta attraverso la quale si riesce a risolvere tutta una serie di problemi collaterali” (G. Giugni). L’auspicio ha tutta l’aria d’un ripiego. Il suo autore infatti era stato il presentatore di uno sfortunato disegno di legge in materia di procedure per l’approvazione di accordi sindacali col dichiarato intento di introdurre “correttivi al declino di un modello di democrazia sindacale eutrofizzato in eguale misura da dosi eccessive di partecipazione plebiscitario-informale alla base e di rigidità burocratico-istituzionali al vertice” (B. Caruso). Ma, proprio perché era formulato da chi non poteva rimproverarsi di non aver portato la questione nelle competenti sedi legislative, l’auspicio va preso sul serio. Il fatto è che, nell’arco dei trent’anni che separano il XII dal III Congresso Aidlass, il legislatore non avrà agito a casaccio, ma – secondo un’opinione che sa di antico – è stato “poco prudente” (M. Grandi), perché avrebbe finalizzato l’autonomia collettiva alla composizione di assetti di interessi legislativamente individuati, negandole “libertà di contenuto, di procedimento, di scopo” (M. Grandi). Chi la pensa così mostra di avere la proterva risolutezza occorrente per candidarsi alla leadership degli assedianti di Montecitorio e Palazzo Madama. Costoro, viceversa, farebbero meglio a sperare in Dio piuttosto che ad impugnare le armi, seguitando così a prescindere dal solo dato di fatto che merita di essere valutato con la necessaria pacatezza: è del tutto irrilevante che l’autonomia collettiva si svolga in un regime di assoluta informalità, quando “ il legislatore ha bisogno di lei come medium indispensabile tra lo Stato e la società” (R. Del Punta). Pertanto, è inutile mettersi ad agitare vessilli da crociata ogniqualvolta si assiste a tentativi di spezzare un assedio durato assai più di quello narrato da Omero con iniziative che testimoniano come gli assediati non siano affatto rassegnati a fare la fine del pesce che nuota in una vasca a cui hanno tolto il tappo. Senonché, è proprio a questo riguardo che la platea degli spettatori si suddivide in opposte tifoserie. I più duri, come Antonio Vallebona, non accettano compromessi: “se non si attua o non si modifica l’art. 39, nel nostro sistema non c’è spazio per l’efficacia generale del contratto collettivo”; mentre i più buoni, come Franco Liso, sono indulgenti: “non deve dare scandalo che il contratto collettivo venga caricato di funzioni regolative ultra partes. Le parti sociali continuano ad operare liberamente”. Di rincalzo a quest’ultimo, poi, Mario Napoli butta sul tavolo un carico da undici: dicono che “la contrattazione collettiva, se funzionalizzata, perda la purezza dell’ originaria configurazione normativa, che risulterebbe bistrattata da un legislatore deciso ad orientarla su obiettivi specifici. Capovolgerei totalmente questo giudizio. (…) La contrattazione collettiva non cambia natura solo perché il legislatore le attribuisce un oggetto d’intervento in funzione di interessi generali. (…) Cambia forse natura la legge regionale che attua norme di principio d’una legge dello Stato? La legge regionale rimane tale e quale, come espressione della comunità locale, anche se si muove sui binari tracciati da una apposita legge-cornice”. Contrariamente alle intenzioni, è questo stesso accostamento – la cui intonazione percussiva si addice all’estemporaneità – a scoperchiare la fragilità dell’argomentazione. E’ dato infatti obiettare che legislazione regionale e legislazione statale hanno basi fondative e profili istituzionali qualitativamente identici. Per questo, la loro matrice ordinamentale non può cambiare neanche quando si collocano in un rapporto gerarchico. Il fatto è che l’argomentazione usata è un sintomo della vischiosità della medesima ideologia giuridico-sindacale che, in passato, produsse dogmatismi sui quali – come succede sempre – è facile schierarsi e coi quali è difficile dialogare. Peraltro, nemmeno il giustificazionismo per partito preso può essere più persuasivo. Anche l’accomodante Franco Liso lo sa. E non lo nasconde: “è opportuno”, suggerisce, “che l’efficacia generalizzata del contratto collettivo poggi su basi più solide”, affrontando “apertamente il problema della seconda parte dell’art. 39”. In realtà, sono perlomeno cinque anni che da un settore dello star system accademico – non trascurabile più per qualità che per quantità: tra i più solerti spiccano studiosi preparati e sensibili come Giampiero Proia e Lorenzo Zoppoli – provengono insistiti segnali di un risveglio propositivo di tipo neo-costituzionale. E’ come se i nodi non sciolti dell’ordinamento sindacale di fatto fossero arrivati al pettine, e tutti in una volta. Tenuto conto, come si deve, che la manipolazione anche delle più care memorie di vicende o fatti del secolo XX anteriormente all’arrivo del XXI è l’impudicizia intellettuale che chiamano revisionismo, vale la pena di avvertire subito che la menzionata sollecitazione non ha questo vizio d’origine. Ribadisco quindi che le dottrine giuridiche e politiche vincenti nel dopo-costituzione hanno fatto bene a non risparmiarsi per dissuadere dall’ imboccare la strada dell’attuazione della seconda parte dell’art. 39. Detto questo, però, non si è per ciò solo dimostrato che la strada alternativa sia percorribile all’infinito divaricando la forbice tra i principi di organizzazione del pluralismo sindacale ricavabili dalla costituzione formale e il processo di formazione dell’ordinamento sindacale di fatto. Non può certo essere questa la sede per rifare la storia della coalizione di governo delle relazioni industriali che lo ha gestito. Una coalizione avente le caratteristiche di un club l’appartenenza al quale conferisce una legittimazione paritaria e selettiva: paritaria, nel senso che rende uguali i diversi, prevenendo così la rissosità per il primato tra gli appartenenti al club, e selettiva in quanto chiude verso l'esterno, rifiutando così agli estranei la legittimazione ad occuparsi delle materie che, per statuto, il club ha confiscato per sé. Ci tengo soltanto a dire che, nella persistente irrealizzabilità del progetto costituzionale, è stato provvidenziale che tra i principali attori sociali si raggiungesse un accordo di lungo periodo sull'assetto della costituzione materiale delle relazioni industriali. Nondimeno, i guai sono arrivati quando, cooptato negli attici del potere pubblico ed ammesso nei circuiti normativi dello Stato, il club ha rivelato la natura di “un’ organizzazione libera di diritto privato ed insieme altro-da-sé: un’istituzione in qualche modo pubblica, braccio o segmento dello Stato” (V. Foa), nell’apparato e nell’ ordinamento del quale è venuta conficcandosi con la tenuta d’un chiodo ad espansione piantato con perizia nella roccia, anche se in sistemi poco trasparenti come sono di solito quelli autoreferenziali conta soltanto che i loro membri siano disposti a rilasciarsi reciprocamente certificati di garanzia sulla genuinità del rispettivo pedigree e “più esplicito è il monopolio contrattuale più forte diventa la posizione del vertice sindacale” (S. Simitis). “E’ chiaro”, infatti, “ che né ai fini della contrattazione collettiva con efficacia erga omnes né ai fini della concertazione neo-corporativa la legittimazione dei rappresentanti di una delle parti sociali può dipendere esclusivamente dal riconoscimento dell’altra” (L. Mengoni). “La governabilità delle relazioni industriali – come di ogni altro sottosistema sociale – si può garantire”, avrebbe detto Massimo D’Antona, “concentrando il potere o incrementando il consenso ” . Si dà il caso che il club non fosse soltanto una concentrazione di potere esercitato sulla società; incrementava anche il consenso della società. Gli stati di grazia però non durano in eterno. E, quando spariscono, si determina un ’alternativa. Si può tentare di prolungarli artificialmente: “va in questo senso una legislazione di ‘ premio ’ ai soggetti sindacali inseriti nel circuito politico degli interlocutori dello Stato ” . Oppure, si può tentare di rianimare il pluralismo rappresentativo, rivitalizzandone nei limiti del possibile il dinamismo che gli è proprio: “ va in questo senso una legislazione sulle procedure democratiche destinate a misurare la rappresentatività concreta dell’agente contrattuale (…) che leghi l’efficacia generale del contratto collettivo al consenso maggioritario” (M. D’Antona), Se era probabilmente fuori posto l’elegante sarcasmo con cui Luigi Mengoni commentò l’exploit del legislatore statutario – "ai suoi occhi il sindacato (cioè, le tre maggiori organizzazioni sindacali) deve essere apparso come agli occhi di Dio apparve l'Inghilterra nel glorioso 1689: 'la guardò e vide che tutto era bene'" – a distanza di trent’anni me ne impadronisco volentieri per commentare l’impassibilità del legislatore di fronte allo smisurato divario, privo di riscontri a livello comparato, “fra le funzioni di rilevanza generale, direttamente o indirettamente attribuite ai sindacati e alla contrattazione, e la totale assenza di regolazione legislativa degli stessi soggetti e oggetti” (T. Treu). Questo, ormai, è un luogo comune. Pochi, invece, dicono che il legislatore non può addebitare la sua inerzia alla diabolica pervicacia delle resistenze sindacali. Se fosse capace di compiere un severo esame di coscienza, senza per ciò solo doversi sdraiare sul lettino dello psicanalista, dovrebbe ammettere che lui stesso si è allevato in casa un sindacato il quale col pluralismo si trova a suo agio soltanto se può amministrarlo come gli pare e dunque che lui stesso, come suggeriva l’inascoltato Mario Nigro un quarto di secolo fa, si è comportato da “protettore di privilegi e legittimatore esplicito od occulto di poteri privati”, finendo così per “impattare contro il principio costituzionale di libertà sindacale” (A. Tursi). Infatti, proprio con lo statuto gli ha appaltato la gestione del pluralismo sindacale esistente, giudicando il club della maggiore rappresentatività “in condizioni di assicurare spontaneamente – una volta rimosse le difficoltà di radicamento nei luoghi di lavoro – la necessaria legittimazione alle proprie istituzioni”. Il pluralismo, insomma, lo statuto “ lo presuppone, ma non lo organizza”. Per questo, tra tutti i “temi di un diritto sindacale possibile” Massimo D’Antona attribuiva la priorità a quello attinente al “modo di essere rappresentati, da chi e come ” : un modo da ridefinire in corrispondenza al “bisogno più generale di ridisegnare nel sistema giuridico l’immagine dell’individuo, con le sue istanze di autodeterminazione di fronte ad ogni potere, anche se protettivo e benefico”. Regole sulla legittimazione della rappresentanza, regole sulle garanzie dei rappresentati, regole sul pluralismo associativo: ecco le regole che lo statuto ha ritenuto di non dover scrivere, “dato che il sistema sindacale assicurava autonomamente il necessario ordine”. Non a caso, Massimo lo chiamava “’il non detto’ dello statuto dei lavoratori”. “Contrariamente ad un diffuso luogo comune”, ha scritto, “nello statuto i diritti di democrazia sindacale non sono riconosciuti ai lavoratori come rappresentati”; infatti, “al diritto di assemblea e di referendum corrispondono doveri a carico del datore di lavoro di consentirne l’esercizio, non doveri a carico dei rappresentanti sindacali di farne uso per ottenere il mandato o per rispondere ai rappresentati”.. Insomma, lo statuto “si preoccupa delle garanzie dei rappresentanti di fronte al potere dell ’ impresa, ma non definisce la posizione dei rappresentanti di fronte al lavoratori, né come iscritti né come rappresentati”. Non so cosa ne penserebbe, di questa denuncia, il ministro socialista al quale la sorte negò la soddisfazione di concludere il dibattito parlamentare che precedette l’emanazione dello statuto. “Il disegno di legge che il mio ministero sta elaborando”, aveva preannunciato, “ si propone di fare del luogo di lavoro la sede della partecipazione democratica alla vita associativa sindacale e alla formazione di tramiti democratici di comunicazione tra il sindacato e la base dei lavoratori”. Con ogni probabilità, Giacomo Brodolini che amava guardare in faccia la realtà, perché sapeva che altrimenti non c’è nemmeno la speranza di correggerla, penserebbe che allo statuto il miracolo non è riuscito; tutto qui. Ma penserebbe anche che lo statuto non era attrezzato allo scopo. Le sue coordinate storico-politiche non gli permettevano di affermare le regole della democrazia sindacale se non “come rivendicazione nei confronti di chi non solo doveva riconoscerle, ma anche subirle sopportandone oneri e costi: le imprese” (B. Caruso). Col passare del tempo, però, anche la Corte costituzionale ad un certo punto ha dovuto ammettere che la maggiore rappresentatività valorizzata dall’art. 19 dello statuto per premiare i sindacati confederali era diventata per i medesimi quel che Giuliano Amato diceva spesso del suo governo che, per quanto sventurato, sembra essersi procurata l’ imperitura stima degli italiani: un aliscafo sospeso su un cuscino d’aria che può sgonfiarsi là per là. La Corte però non se la prende col legislatore per ciò che aveva fatto nel 1970 – “la Corte è ben consapevole che (…) l’idoneità del modello disegnato nell ’ art. 19 a rispecchiare l ’ effettività della rappresentatività sindacale è andata progressivamente attenuandosi” – bensì per ciò che si ostina a non fare: fissare le regole del gioco che permettano di sapere “chi rappresenta chi”, come e perché. L’ostinazione è motivata non tanto da intrinseche difficoltà di ordine logico-giuridico – perché in materia si può ormai scoprire soltanto l’ ombrello – quanto piuttosto dagli insuperati ostacoli che hanno finora impedito di smantellare il bunker delle rendite di posizione nel frattempo acquisite. Ad ogni modo, un dato è fuori discussione: in un’epoca in cui è legittimo “ chiedersi quale valore, anche giuridico, possa ancora riconoscersi all’iscrizione ad un sindacato” (M. Rusciano) – un po ’ perché gli iscritti “ hanno scarso peso ” nelle decisioni del sindacato e un po’ perché quest’ultimo, non trovando ragioni di distinguere tra iscritti e non-iscritti, “tratta gli uni come tratta gli altri ” (A. Accornero) – non basta rivitalizzare l’etica del consenso; occorre coniugarla con l’etica della responsabilità. Il che postula il minimo legale necessario e sufficiente per rilegittimare una fonte di produzione di norme imputabili ad un ordinamento che per i terzi estranei è particolaristico e, ciononostante, adocchiate da rinvii legificanti i quali, dilatandone l’efficacia, convertono l’autonomia sociale – di cui sono espressione, nella migliore delle ipotesi, per gli insider – in “indubbia eteronomia” per gli outsider (M. Nigro), ossia per le moltitudini di cittadini che non hanno conferito alcun mandato rappresentativo agli agenti effettivi del processo sociale. E’ l’incessante circolarità di questo input-output tra sistema politico (o giuridico-statale) e sistema di relazioni industriali (o sistema giuridico-sindacale) che rende indifferibile l’accertamento dei requisiti che i soggetti agenti devono possedere per acquistare una partnership qualificata; un accertamento da effettuarsi in base a criteri, pensa e dice la Corte, “ispirati alla valorizzazione dell’effettivo consenso come metro di democrazia anche nell’ambito dei rapporti tra lavoratori e sindacati” e dunque basati su di una combinazione virtuosa tra dato associativo e dato elettorale risultante dall ’ istituzione legalmente esigibile di rappresentanze unitarie del personale. E ciò non solo perché “l’autorità della legge non può surrogare la forza sociale del contratto, (ma anche perché) la forza sociale del contratto è commisurata al grado di consenso che ottiene il rappresentante che negozia ” (M. D’ Antona). Massimo Troisi direbbe: “scusate il ritardo”. Sarebbe carino che facesse altrettanto anche la nostra corporazione. Oltretutto, non può essere smemorata al punto di dimenticarsi che è stata formalmente costituita in mora durante il suo XII Congresso. Nel suo conciso intervento, infatti, Gino Giugni affermò che toccava ai giuristi-scrittori dello star system accademico “ricostruire quello che il legislatore ha voluto”. Vero è che qualcuno raccolse l’invito seduta stante: il legislatore ha voluto “utilizzare la contrattazione collettiva per quella che è in base al primo comma dell’art. 39, cioè come regolazione sociale” (M. Napoli). Come dire: sono da escludere cedimenti alla “ tentazione panstatualista”, la cui pericolosa rinascita Gaetano Vardaro fu tra i primi a percepire, “di utilizzare l’intensificazione dei rapporti tra Stato e sindacati che il neo-corporativismo presuppone come punto di partenza per un inglobamento vetero-corporativo dei secondi nel primo”. Per quanto condivisibile, si tratta però dell’incipit di un discorso bruscamente interrotto. Che il legislatore consideri la contrattazione collettiva meritevole di fiducia, sta bene: “è pacifico che il primo comma dell’art. 39 garantisce tutela di rango costituzionale non solo ai sindacati in quanto gruppi organizzati, ma anche alla loro attività negoziale e ai prodotti di tale attività” (F. Bano). Anzi, il riconoscimento che l’ordinamento statale concede all’ ordinamento intersindacale, “ lasciandolo originario, è quello che si consuma interamente nel primo comma dell’art. 39” (M. Pedrazzoli). Tuttavia, ciò che ora interessa è interrogarsi sul punto se la condivisione dell ’incipit autorizzi il legislatore a sottostimare i principi costitutivi racchiusi nei commi successivi della medesima disposizione costituzionale quando ricollega ai prodotti dell’autonomia collettiva effetti ulteriori e/o diversi rispetto a quelli che potrebbero ex se dispiegare. Infatti, “dire che non estende l’efficacia del contratto collettivo, ma se ne avvale (…), non cambia la sostanza delle cose” (P. Bellocchi). “Al di là della loro inerenza al modello costituzionale di dettaglio”, scrive Massimo D’Antona, “quei principi” esprimono scelte di valore della costituzione dalle quali il legislatore non si può discostare quando opera sul terreno della seconda parte dell’art. 39 e, sia pure allo scopo di realizzare meccanismi alternativi al disposto costituzionale, influenza il funzionamento del pluralismo sindacale”.. Piuttosto, alleggerito e ripulito dei suoi (ormai) innocui e insignificanti detriti vetero-corporativi, è tenuto ad attualizzarne il significato, adottando l ’ ottica di un ’ interpretazione adeguatrice od evolutiva e, cionondimeno, più recuperante che correttiva. Oggi, possiamo dire che ci ha provato; e senza dover esibire i muscoli. Segno, questo, che si va mitigando il rifiuto di interferenze legali sui “profili endo-organizzativi della formazione della decisione collettiva” (G. Vardaro) e – amenoché non si sia trattato d’un isolato episodio, per ora irripetibile, come sembra – la pretesa di rimandare sine die l’avvento di “una seconda generazione di disposizioni a tutela del lavoro” (S. Simitis) ha perduto l ’ intransigenza e l ’ arroganza che l ’ hanno sempre caratterizzata. A ragione, quindi, Massimo ha potuto concludere il suo saggio del ’ 99 ravvisando una convincente “ concretizzazione ” del nucleo essenziale dei principi dell’organizzazione del pluralismo sindacale secondo la costituzione nel provvedimento legislativo che, nel medesimo arco temporale, stava faticosamente producendo l’effetto di sbloccare l’acceso alle uniche vie conosciute per restituire credibilità, trasparenza ed efficienza ad un sistema sindacale maturo. La prima, esplorata palmo a palmo da squadre di investigatori, è quella che permette il transito da un regime di rappresentatività presunta dei sindacati, nei confronti del quale una democrazia politica non può non essere allergica, ad un regime di rappresentatività verificata sia agli effetti della legittimazione a negoziare che agli effetti della misurazione secondo il criterio proporzionalistico del consenso effettivo di cui ogni sindacato è portatore al tavolo negoziale, rendendo così computabile il consenso maggioritario che autorizza la stipulazione di contratti collettivi con la ragionevole certezza della sua corrispondenza all’interesse comune dei rappresentati. La seconda permette di passare da un pluralismo aselettivo e non regolato ad un pluralismo governabile. Vero è che il telaio normativo è stato allestito per essere montato su di un veicolo per adesso parcheggiabile unicamente nell’area del pubblico impiego. Tuttavia, poiché le regole del suo funzionamento, se non attuative dell’art. 39, appaiono compatibili col medesimo – specialmente se valutate attraverso il filtro d’una pronuncia della Corte costituzionale di poco posteriore al referendum abrogativo sull’art. 19 st. lav. – a quanti sono interessati ad eliminare il dualismo normativo che è venuto a determinarsi è scappato subito di dire che la soluzione del problema dell’ efficacia legale erga omnes del contratto collettivo del Novecento italiano appariva più vicina alle soglie del Duemila di quanto non lo fosse nel momento in cui essa venne proposta, profilandosi finalmente la possibilità di una occupazione del sistema delle fonti regolative in materia sindacale e del lavoro accompagnata dai preparativi per instaurarvi un regime di reggenza condivisa da carissimi nemici. Certo, se lo storico assedio della cittadella a cui ho più d’una volta accennato fosse, come può sembrare, in procinto di concludersi senza la sconfitta degli assedianti, ma anche senza la capitolazione degli assediati e dunque senza vinti né vincitori, l’avvenimento segnerebbe un passaggio d’ epoca paragonabile a quello compiuto con lo statuto. Anche lo statuto, secondo un attento osservatore francese di cose italiane, “segnò la fine di una lunga pazienza”.