Pino Blasone
5. Critica del fondamentalismo
L'originale e l'originario
Nei capitoli precedenti si è cercato di mostrare come la nostalgia dell'originario, il mito di un
ritorno alle origini e le possibili strumentalizzazioni politiche, siano elementi ricorrenti in più culture:
dalla cristiana all'ebraica, perfino a quella laica, la quale si fa convenzionalmente coincidere con la
civiltà moderna. Altrettanto convenzionalmente, al fenomeno si attribuisce la definizione
“fondamentalismo”. Non di rado, a quest'ultima viene associata la definizione “integralismo”. Benché
non necessariamente i due fenomeni convergano, intuibilmente è più facile che ciò accada in periodi di
crisi particolarmente acuta. Ed è opinione diffusa che la cultura arabo-islamica stia attraversando uno di
tali periodi. Qui di seguito, si vaglieranno indicazioni ed elementi utili a un esame della questione.
Volendo, si può far iniziare il pensiero moderno del mondo islamico da una memorabile disputa
che oppose Jamal al-Din al-Afghani -- nato presumibilmente in Afganistan, vicino a Kabul, nel 1839 -al francese Joseph Ernest Renan. Questi aveva discusso nel 1852 a Parigi la tesi di dottorato Averroès
et l'Averroïsme i . Ivi si rivalutava il pensiero del celebre arabo andaluso. Nello stesso tempo, si
svalutava la cultura islamica a lui successiva, avviata verso la stagnazione e la decadenza. Cioè quanto
gli stessi musulmani, per la verità, definiscono in arabo taqlîd, inerte tradizionalismo. Ultimo dei grandi
filosofi islamici medioevali, interpreti dell'aristotelismo e del platonismo greci, Averroè/Ibn Rushd
avrebbe introdotto nella storia del pensiero la distinzione tra fede religiosa e indagine razionale. Essa
sarebbe stata alla base dello sviluppo della scienza e del laicismo moderni.
Tuttavia, un indirizzo del genere sarebbe stato respinto per motivi religiosi proprio nel nativo
Oriente. Basti pensare alla “Incoerenza dell'incoerenza” (Destructio destructionis, in traduzione latina)
dello stesso Ibn Rushd, replica all'“Incoerenza dei filosofi” (in arabo, Tahâfut al-falâsifa) del teologo
persiano Al-Ghazali, che aveva avversato la filosofia ellenizzante di Al-Kindi, di Al-Farabi, di
Avicenna/Ibn Sinaii. E' da annotare che perfino un acuto filosofo della storia, come il tunisino Ibn
Khaldun, si uniformerà al giudizio negativo in omaggio al realismo empirico e all'ortodossia religiosa.
Quasi solo il pensiero di Avicenna seguiterà a godere di un credito nella speculazione mistica e
filosofica, soprattutto nell'oriente islamico.
Viceversa, la lezione di Averroè sarebbe stata accolta dalla civiltà occidentale, favorendone il
Rinascimento. In altri termini, condizionando in positivo la visione del mondo nonché della società
politica. Ciononostante, anche da noi l'averroismo avrebbe incontrato forti resistenze, specie in
ambienti ecclesiastici. Una delle prove più note ne è De unitate intellectus contra Averroistas di
Tommaso d'Aquino, requisitoria contro i seguaci europei delle idee di Averroè, o delle deleterie
conseguenze che essi ne avrebbero tratto. Ci vorrà del tempo, prima che la sua postuma effigie potesse
risalire dall'anti-inferno dantesco fino alle Stanze Vaticane, dipinta da Raffaello nella Scuola d'Atene.
Tale, in sintesi, lo schema di Renan, destinato a duraturo successo fra gli orientalisti. Almeno,
tra quelli che non erano rimasti affascinati dai Parerga e paralipomena di Arthur Schopenhauer, là
dove si esalta la gnosi islamica -- e di frequente ascendente neoplatonico -- cosiddetta del sufismo.
Altro è stabilire fino a che punto la lettura di Averroè data da Renan non fosse strumentale. Circa
l'aristotelismo del pensatore andaluso, ci si può rapportare a un giudizio di Abdallah Laroui, in
L'idéologie arabe contemporaine: “Nel passato gli arabi hanno avuto un Aristotele a loro misura,
diverso da quello dei greci”. In misura analoga, gli europei si sono ricavati un Averroè discrepante da
quello arabo. A un suo recupero all'attualità, è improntato un pensiero arabo recente. Esponente di
rilievo, Muhammad ´Abid al-Jabiri in Marocco, nella trilogia Critica della ragione arabaiii.
Una distinzione fra “ragione araba” e “ragione islamica” era stata in effetti suggerita da
Averroè, nel “Trattato del discorso decisivo ed esposizione dell'accordo tra legge religiosa e
filosofia”iv. Le due concezioni erano ivi complementari, pur spianando la via a una interpretazione non
letteralistica né formalistica del dettato religioso: “Là dove la conclusione tratta da una dimostrazione
contrasti col significato apparente della sacra scrittura, ciò consente una interpretazione allegorica
secondo le regole di tale metodo in arabo”. Una moderna lettura estensiva di questo passo e del suo
contesto sarà data dal siriano Farah Antun, in un saggio su Ibn Rushd e la sua filosofia. Nasce qui quel
travagliato rapporto dialettico fra arabismo e islamismo, che ha informato tanta parte della cultura
araba del secolo scorso.
La preoccupazione generale di Averroé era stata di evitare conflitti fra religiosità e razionalità.
Nel senso stesso dell'esigenza di un nuovo uso dell'allegoria nell'esegesi dei testi religiosi, e nella scia
dell'averroismo europeo, si pronuncerà ben più tardi Galileo Galilei in una famosa lettera a Benedetto
Castelli del 21 dicembre 1613. Alieno da ogni successiva riduzione dualistica del suo pensiero, il
pensatore andaluso insiste tuttavia sull'accordo interpretativo da stabilire fra allegoria e analogia con
altri passi espliciti della scrittura coranica. Soprattutto, egli aggiunge un particolare riferimento al
veicolo linguistico e all'ambiente culturale, cui non sfugge una peculiarità dell'immaginazione araba:
Interpretazione allegorica è l'estensione del significato di un'espressione dal significato reale a uno
metaforico. Né si tralascino le convenzioni metaforiche dell'arabo, quale il chiamare una certa cosa col
nome di un'altra che le somigli, o che esprima una causa o conseguenza o concomitanza di essa…
A queste osservazioni sull'immaginazione araba nel Discorso decisivo di Averroè, si possono
ben accostare quelle reperibili in Il regime del solitario del suo precursore andaluso Avempace/Ibn
Bajja. Ivi si attribuisce a tale facoltà un carattere evocativo e nostalgico del passato, ancor più forte di
ogni virtù creatrice rivolta al futuro: “Gli arabi attribuiscono alla memoria proprietà che non le sono
riconosciute dalla maggioranza degli altri popoli. […] Essi pensano che la memoria è la permanenza
del ricordato. […] Il piangere per le case abbandonate o il rattristarsi per le vestigia che qualcuno ha
lasciato fanno parte di questo genere di forme, e parte cospicua della poesia degli arabi, così come dei
racconti e delle storie, è costruita su questi calchi”v.
Può lasciare comunque perplessi il dover risalire a un pensiero medioevale, per poi riferirsi a
situazioni a noi contemporanee. Un esempio attuale è il film Le destin (Al-masîr) del regista egiziano
Youssef Chahine, uscito in Egitto e in Francia nel 1997, non senza suscitare polemiche e censure in
patria. La ricostruzione cinematografica della vita di Averroè vi è filtrata da una interpretazione,
avversa non solo all'ostracismo religioso subito dal filosofo nell'ultima parte della sua esistenza. Tale
critica è chiaramente estesa al fondamentalismo e all'integralismo nel mondo islamico odierno, alle loro
pretese di inibire le conquiste dei diritti civili e della libertà di pensiero. Si ribadisce inoltre che
quest'ultima non è un'istanza estranea alla cultura araba. Essa è viceversa ricorrente.
Si tenga peraltro presente, quello che per gli occidentali è tardo Medioevo corrisponde
all'incirca all'età classica della civiltà araba. La scansione del tempo storico è una convenzione culturale
soggettiva. La nozione di Medioevo, frequente adozione di comodo a fini comparativi, può per altri
anche suonare straniante o impositiva. In secondo luogo, si tratta di intendersi sulla portata del concetto
di contemporaneità. In merito, giova ricordare ciò che il marocchino ´Allal al-Fassi scriveva nel 1952
in “La mia autocritica” (Al-naqd al-dhâtî). Tanto più, quanto nel seguente paradosso è riscontrabile un
atteggiamento fondamentalistico non necessariamente congiunto con uno integralistico:
…contrariamente a quello che era il pensiero dominante nei pensatori del XIX secolo, non c'è un
progresso ineluttabile. Chiamiamolo dunque evoluzione, il movimento della vita può avvenire sia in
avanti sia all'indietro. […] Un errore commesso dalla gente sta nel confondere il contemporaneo con la
contemporaneità, ciò che è contemporaneo con quanto si verifica in epoca contemporanea. E' invece
possibile che nella nostra epoca non vi sia niente che dimostri uno “spirito contemporaneo”, mentre sia
di essenza contemporanea qualcosa sviluppatosi nella storia medioevale o anche in un'epoca primitivavi.
Malgrado trascorsi vicini all'integralismo, a un pensatore quale Al-Jabiri possono oggi essere
accostati Hasan Hanafi e Nasr Hamid Abu Zayd in Egitto. Con altri intellettuali laici se non laicisti,
essi sono stati soggetti a persecuzioni o a intimidazioni per le loro idee. Che cosa ha reso il pensiero di
un Abu Zayd inviso ai fanatici? Probabilmente, proprio l'azzardo di sostituire alla “ragione araba” la
nozione di “ragione islamica”, in ciò preceduto dall'algerino Muhammad Arkun vii . La denotazione
epistemologica assume una connotazione ermeneutica, più estesa e complessa. Già per il fatto di porsi
essa viene accusata dagli addetti (´ulamâ`) come un'ingerenza religiosa o un attentato al proprio ruolo,
benché quest'ultimo nella società musulmana non sia codificato né in linea di principio separato, come
nella tradizione ecclesiastica cristiana in particolare cattolica:
Se l'Islam aveva ben accolto e assimilato l'eredità precedente sottomettendola ai suoi approcci e tecniche,
con efficacia i musulmani di ieri sono riusciti a far proprio il retaggio culturale delle altre nazioni e
civiltà, trasformandolo in parte integrante della ragione islamica. Nondimeno la “ragione islamica” di cui
si parla, va sottolineato, non è un sistema di pensiero unico e omogeneo come certi lasciano credere. E'
un insieme di sistemi riflessivi differenti per concezione e per progetto, rispecchiando il pluralismo
sociale, etnico e culturale, strutturale delle società viventi nell'area geografica e culturale dell'Islamviii.
E' in ogni caso da rimarcare il collocarsi dell'averroismo storico a un crocevia: fra Oriente e
Occidente, tra antichità e modernità. Da qui, il suo prestarsi a più letture funzionali. In fondo, nella
vocazione a migrare da una cultura all'altra, da un linguaggio all'altro, si realizza e verifica
l'universalità della filosofia. Ciò fa parte della capacità dialettica, che la distingue dalla filologia e dalle
altre scienze esaltate da Renan. Ma è anche quanto a loro dovrebbe collegarla, in un rapporto di assiduo
confronto. In merito alle stesse, un discutibile presupposto renderà possibile la discussione di Afghani
con Renan. Sorprendentemente, esso è espresso dal primo dei due: “Sono gli uomini a doversi
rapportare alla scienza, non la scienza agli uomini”.
Di fronte a un sapere postulato come neutrale, non ci sarebbero Oriente o Occidente che
contino. Né sarebbe indispensabile appellarsi ad “Aristotele o Galileo”, per chi nutrisse scrupoli
connessi con la propria tradizione. Sarebbe sufficiente tener presente l'obiettivo della verità, osservava
Afghani in una Lezione su insegnamento e apprendimentoix, in esplicita polemica con gli ´ulamâ` del
suo tempo. Le cose ovviamente si complicano, se vengono coinvolte religione e metafisica, a fianco
della politica e dell'economia. Il pensiero critico dovrebbe svolgere un ruolo di chiarimento e di
mediazione. Ma, non di rado, la ricerca di una via originale si tinge di originario. E questo, si sa, esige
di essere interpretato. I suoi travestimenti possono dar luogo a travisamenti, specie quando lo si forzi a
coincidere con l'autentico, l'univoco e intangibile.
Rispetto all'epoca di Afghani, la mentalità musulmana media è certo cambiata, per quanto
concerne l'acqisizione delle scienze moderne. Specie le tecniche sono state viste quali fonti di
successo economico, sostegno del potere politico e militare. Molte attese circa la loro effettiva utilità
sono andate però deluse. In uno studio di taglio sociologico su Fondamentalismo islamico. L'Islam
politicox, Agostino Spataro riporta che la maggioranza degli aderenti a movimenti integralisti sarebbe
formata da giovani in possesso di un'istruzione superiore scientifica o tecnica, posti di fronte
all'alternativa disoccupazione o emigrazione.
Tale frustrazione sociale può scaricarsi sia contro i governi locali laicisti sia contro quelli
occidentali, ritenuti complici o responsabili della situazione. Essa è facile esca per un ripiegamento di
tipo identitario, in ambito nazionalistico-religioso. Quanto all'atteggiamento assunto dal pensiero
critico, da Afghani fino a tempi recenti, il suo imbarazzo e la sua ambivalenza probabilmente non
potrebbero essere meglio sintetizzati che nell'appunto a esso mosso non da un pensatore di professione,
bensì dall'autore di una Introduction à la poétique arabe, il poeta siriano ´Ali Ahmad Sa´id “Adonis”:
…i pensatori arabi, condizionati dal trauma occidentale, hanno affrontato la modernità in quanto
realizzazione tecnologica e culturale. Dopo di che, hanno studiato i mezzi che avrebbero consentito loro
di adottare tale realizzazione, salvaguardando allo stesso tempo un'identità intellettuale distinta. Questo
ci ricorda il tentativo di alcuni antichi filosofi arabi di conciliare religione araba e ragione greca, e spiega
perché la modernità, in seno alla società araba, è rimasta un prodotto di importazione, un corpo estraneo.
[…] Gli Arabi non hanno adottato l'atteggiamento intellettuale razionale che ha dato vita alla modernità
occidentale, ne hanno piuttosto adottato la realizzazione stessa, realizzazione che emana da un
atteggiamento opposto alla struttura tradizionalista del pensiero arabo, tuttora dominantexi.
Modernismo e fatalismo
Almeno in apparenza, la posizione di Renan era un passo avanti rispetto a quella di Denis
Diderot nelle Lettres à Sophie Volland (nella lettera del 30 ottobre 1759, si bollava l'Islam come
“nemico della ragione”, misconoscendo pur l'importanza di una filosofia araba). Era però un passo
indietro rispetto alla considerazione in cui erano stati tenuti il pensiero e la scienza arabe nel Medioevo,
ad esempio presso il filosofo inglese Adelardo di Bath. Per questi, esse rappresentavano un richiamo
all'autonomia della ragione contro l'imperante ossequio verso l'autorità nel campo del sapere xii. Ancora
nel 1708, l´arabista inglese Simon Ockley tradurrà l'opera dell'arabo medioevale Abubacer/Ibn Tufayl
col titolo The Improvement of Human Reason. Pressoché il contrario, di quanto sosterrà Renan.
Sta di fatto che la sua tesi di fondo sarà da lui ripresa in un discorso al Collège de France,
pronunciato il 23 febbraio 1862, De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la civilisation.
Non esente in realtà da anticipazioni razzistiche, questa retorica apologia del primato europeo si pone
alla base del moderno antisemitismo “laico”, non meno di quello antiebraico di Voltaire qui illustrato
nei capitoli precedenti. Essa così si chiudeva: “Signori, l'avvenire compete all'Europa e solo a essa.
L'Europa conquisterà il mondo e vi espanderà la sua religione, che è diritto, libertà e rispetto per gli
uomini. In tale credo c'è qualcosa di divino, in seno all'umanità. In ogni settore, il progresso dei popoli
indo-europei consisterà nell'allontanarsi quanto più possibile dallo spirito semitico”.
Dai tempi di Adelardo di Bath la scena era assai mutata, e anche l'ottica in cui inquadrare la
questione. Ma neanche troppo, da quando Pierre Bayle nel Dictionaire historique et critique aveva
ridefinito l'immagine europea dell'Islam, o il “tollerante” Voltaire aveva composto la tragedia Le
fanatisme ou Mahomet le prophète. Bersaglio principale di Renan diventa l'Islam “reale” a lui
contemporaneo, additato come regno di fanatismo e di terrore. Ciò, al punto da lasciarsi andare ad
appelli e previsioni avventate, a dichiarazioni alternative nella forma e contraddittorie nella sostanza:
Condizione oggi essenziale perché la civiltà europea possa espandersi è la distruzione della cosa semitica
per eccellenza, il potere teocratico dell'islamismo, e di conseguenza la distruzione dell'islamismo. Infatti
l'islamismo non può sussistere se non in quanto religione ufficiale. Quando lo si ridurrà allo stato di
religione libera e individuale, esso perirà. […] In politica, noi concilieremo due cose che i popoli
semitici hanno sempre ignorato: la libertà e la forte organizzazione dello Statoxiii.
Una più meditata e mirata conferenza, tenuta all'Università della Sorbona su L'islamisme et la
science, sarà pubblicata dal parigino Le Journal des Débats il 29 marzo 1883 xiv . Nella visione
positivistica di Renan, un risvolto politico interessante è il rilievo dato alla progressiva divisione fra
poteri temporale e spirituale nella storia europea, connotazione presumibilmente carente nei governi di
impronta teocratica succedutisi nel mondo islamico. Nella sua replica sullo stesso Journal des Débats
in data 18 maggio 1883, Afghani comincia con l'adottare una tattica difensiva, incentrata sull'oggetto
specifico della conferenza recente di Renan:
Ammesso che la religione islamica sia di ostacolo allo sviluppo delle scienze, chi può affermare che ciò
non verrà meno un giorno? Su questo punto, come quella islamica si differenzierebbe dalle altre?
Ciascuna a suo modo, tutte le religioni sono intolleranti. La religione cristiana, intendo la società che ne
segue ispirazioni e precetti ed è conformata a sua immagine, è emersa dalla prima fase cui ho alluso. Da
allora libera e indipendente, sembra avanzare rapidamente sulla via del progresso e della scienza, mentre
quella musulmana non si è ancora liberata dalla tutela della religione.
Subito dopo, l'orizzonte del discorso si amplia, giungendo a coinvolgere l'intero campo di
azione delle rispettive culture, in un ordine di successione storica che scandisce il cammino
complessivo della civiltà umana. Un quadro, il quale permane, almeno formalmente, religioso:
Eppure, preso atto che la religione cristiana ha preceduto di secoli quella musulmana sulla scena del
mondo, non posso disperare che la comunità di Maometto riesca un giorno a recidere i suoi vincoli e a
procedere risoluta sul sentiero della civiltà alla maniera della società occidentale… No, non posso
ammettere che questa speranza sia negata all'Islam.
Il polemista non si limita a considerare scienze e tecniche, le quali pure avevano occupato un
posto rilevante nella cultura araba medioevale, né a ribadire che esse erano state assunte dalla civiltà
europea rinascimentale e sviluppate durante l'illuminismo. Un tacito accordo di Afghani con Renan,
circa una superiore “religione del progresso”, non è tuttavia credibile. Neanche la probabile
condivisione di simpatie massoniche lo giustificherebbe.
A partire dallo spunto polemico e nell'ambito dell'evoluzione del proprio pensiero, il primo
concluderà col negare che il razionalismo fosse estrinseco alla civiltà islamica, prima e dopo
Averroè/Ibn Rushd. “Di tutte le religioni,” protesta Jamal al-Din, rivolgendosi altresì ai propri
correligionari, “l'Islam è quasi la sola a biasimare chi crede senza prove e a rimproverare chi segue una
qualsiasi opinione senza certezza… Ogni qual volta l'Islam parla, lo fa alla ragione… I testi sacri
proclamano che la felicità consiste nel giusto uso della ragione”. Afghani tornerà quindi sul tema
iniziale, affermando contro l'oscurantismo religioso: “Chi vieti scienza e conoscenza, credendo di
difendere la religione islamica, ne è in realtà nemico”.
Evidente, l'eco di quanto proclamato da Averroè nel suo Discorso decisivo: “La legge religiosa
invita a osservare l'esistente e a ricercarne la conoscenza tramite ragione; ciò è manifesto in più versetti
coranici” xv . A differenza però del pensatore di Cordova, Afghani non approfondisce per esteso il
problema di quale sia il corretto uso della ragione e il tenore delle prove da ritenere valide. Egli
preferisce ripiegare sulla vecchia condanna della filosofia greca e dei suoi rielaboratori islamici. Un
altro argomento importante lo ricollega ad Averroè, il quale vi aveva dedicato un capitolo dell'opera
citata sul nesso tra religione e filosofia. In disaccordo con Al-Ghazali, le sue conclusioni pur equilibrate
avevano anticipato quelle cui perverrà Erasmo da Rotterdam, in contrasto con Martin Luteroxvi.
In un intero scritto -- in arabo, Al-qadâ' wa al-qadar, “Il decreto e il destino” --, Afghani
chiarisce che lo scetticismo dei musulmani verso il libero arbitrio (ikhtiyar) non merita la fama di
fatalismo (jabr) loro attribuita. Esso è un preconcetto che gli occidentali si sarebbero fatti dei
musulmani o che questi avrebbero finito col farsi di sé, di fronte all'insorgere della modernità in Europa
e alla sua assunzione di un carattere invasivo altrove. Non molto diversamente che per i cristiani
protestanti, se non altro per reazione la credenza in una divina predestinazione può promuovere una
vita attiva, tesa a provare a se stessi e agli altri la riuscita personale o collettiva tramite l'esercizio a
oltranza della libertà di scelta. E' da annotare che osservazioni del genere, applicate alla civiltà
occidentale, saranno sviluppate da Max Weber in Etica protestante e spirito del capitalismo.
Tutto ciò non toglie che lo storico Abdallah Laroui, commentando il pensiero di Afghani in
Islam et modernité, sosterrà che “l'Islam sembra aver stabilito, ai suoi inizi, certi valori i quali la società
cristiana dell'Occidente ha finito col realizzare”. E lo stesso ´Ali Ahmad Sa´id “Adonis”, nel saggio
citato Introduction à la poétique arabe, dal suo particolare punto di vista ha finito col formulare il
seguente paradosso: “E` la modernità occidentale ad averci fatto scoprire la nostra propria modernità,
più antica, al di là del nostro sistema politico e culturale, basato su un modello occidentale”xvii.
Con “sistema politico e culturale”, si allude qui a una certa eredità forzosa del colonialismo. Sia
l'atteggiamento di Laroui sia quello di Adonis sono altri esempi attuali di un fondamentalismo
dialettico, che ha ben poco da spartire con l'esclusivismo integralistico. Semmai, da parte loro si
contesta che la modernità sia privilegio di una singola cultura, anziché frutto di un concorso di apporti
soggettivi e di circostanze oggettive. A ben vedere, un tale integralismo della modernità -- il “modello
occidentale” -- avrebbe finito col metterne in crisi il concetto stesso o col minarne la credibilità, in
quanto fase necessaria di confluenza o stadio neutrale di sviluppo nella storia delle civiltà. A fianco di
un integralismo della modernità, sussiste una sua peculiare forma di fatalismo.
Secondo Mohammed Chaouki Zine in un articolo intitolato L`Islam et l`Occident: les enjeux du
sens et les aléas de la puissance, la situazione è soggetta a degenerare a causa di una deformazione, da
cui sarebbe affetto in particolare l'Occidente xviii . La propria crisi viene proiettata sull'immagine
dell'altro. Il tentativo di vincerne la resistenza a coincidere con la propria immagine provoca l'impulso a
infrangere uno specchio, così carico di negatività. Quanto questa tentazione possa farsi reciproca,
innescando una catena di azioni e reazioni contrarie, lo attesta la cronaca oltre alla storia dei rapporti
fra culture. Fuori del mito greco che lo rappresenta, l'amore di Narciso è sempre sul punto di mutarsi in
odio. Gli esiti sono ugualmente fatali.
Nella misura in cui per fatalismo si intenda non tanto rassegnazione a una fatalità estranea,
quanto la pretesa che la propria visione del mondo sia un destino comune a ogni altra cultura,
narcisismo e fatalismo sono facce di una sola medaglia. Esse sono forme di irrigidimento nella
percezione di sé, e di offuscamento di quella dell'altro. Il narcisismo culturale, insiste altrove il filosofo
algerino, non risparmia il pensiero, e il linguaggio in cui esso viene concepito ed espresso. E'
l'occasione, per tornare sulle mai dimenticate accuse di Renan verso la civiltà arabo-islamica, e per
rivendicare a quest'ultima una sua originalità non necessariamente avvertita come originaria:
Ernest Renan parla di carattere analitico, anziché sintetico, della ragione islamica. Essa non può produrre
un Logos, ovvero un'intelligenza, così potente e fertile come il genio greco. Secondo lui, questa ragione
è condizionata dalle strutture del sacro, che impediscono di pensare in modo critico e razionale. […] Ma
Renan trascura la cosa principale: la dicotomia fra categorie del pensiero e del linguaggio. Ci sono certo
alleanze celate e profonde tra pensiero e linguaggio. […] Tuttavia, un dislivello impercettibile impedisce
una piena corrispondenza o una coincidenza latente. Effettivamente, le categorie del pensiero greco
trovarono sistematizzazione ed esito nel genio della lingua araba. Eppure, l'“inquadramento” di questa
lingua ha fatto sì che il Logos greco fosse assunto ed elaborato diversamente che nella lingua
originalexix.
Anche presso il filosofo egiziano Hasan Hanafi, autore fra l'altro di un'originale Introduzione
all'occidentalismo, la critica della percezione della cultura arabo-islamica da parte di Renan è di rito.
Nel suo contributo The Meaning of Cultural Conflict al convegno internazionale “Dialogue serving
Intercultural and Inter-religious Communication” (Strasburgo, 7-9 ottobre 2002), essa assume anzi toni
caricaturali. Il risentimento qui trasparente non è disgiunto dall'amara ironia di chi nello specchio della
coscienza altrui veda tradita, ridicolizzata o demonizzata, la propria immagine collettiva. Il riflesso che
egli vi scorge è una parodia fenomenica, fatta di stereotipi frammentari e generalizzanti:
A partire da Renan e da Léon Gautier, l'Islam è una delle religioni semitiche etichettata come irrazionale,
illogica, mitologizzante, superstiziosa e magica. Essa è simbolizzata dal tappeto volante, da Aladino e la
lampada magica, dalle Mille e una notte. Tutt'al più, i musulmani sono portatori di conoscenza. Al
contrario, l'Occidente è ariano, nazionale, scientifico e creatore di conoscenza. Questo immaginario è
alla radice e sottende l'attuale dicotomia tra Islam e Occidente, fra il Terrore e l'Illuminismoxx.
Riformismo e integralismo
Nel suo discorso originato dalla disputa con Joseph Ernest Renan, Jamal al-Din al-Afghani si
era rifatto a una problematica già dibattuta dalla minoritaria scuola araba medioevale mu'tazilita,
nell'ambito di una “teologia razionale”. A maggior ragione, la sua teoria non comportava un'adesione
acritica dello scrittore militante afghano all'eurocentrismo adottato da Renan (e, poi, ripreso da Max
Weber in veste estemporanea di orientalista). Né, tanto meno, alla logica allora trionfante del
capitalismo occidentale nella sua fase colonialistica e imperialistica.
A fianco dell'embrionale intuizione di un “socialismo islamico” -- Ishtirâkiyyat al-Islâm è il
titolo di un testo assai posteriore del siriano Mustafa al-Siba'i --, dottrina basata sull'individuazione di
precetti di giustizia sociale ed economica nel dettato coranico, Afghani si impegna ciononostante in
un'opera di “Confutazione dei materialisti”xxi. Essa parte da una contestazione del materialismo greco
di Democrito e di Epicuro, per giungere a confutare i materialisti contemporanei all'autore, fossero di
indirizzo positivistico e di ispirazione liberistica, fossero essi di altro orientamento.
Tanto accadeva, ben prima che il marxismo si affermasse in parte d'Europa e fuori dei suoi
confini. Intanto, poteva accadere che il darwinismo sociale venisse addotto a spiegazione
pseudo-scientifica di ingiustizie o violazioni nei rapporti internazionali. Secondo Afghani e i suo
simpatizzanti -- ´Abdu, in particolare --, il tutto richiedeva la riapertura di un processo di ijtihâd. Cioè
una nuova “interpretazione” dei precetti islamici, non più fissata una volta per sempre, ma fattasi
indifferibile alla luce dei mutamenti in atto e della loro incalzante portata. La religiosità torna a
realizzarsi nel divenire storico, inteso quale destino in costruzione e non come mera fatalità.
Sul piano politico, Afghani si fa fautore di un ideale pan-islamico (ittihâd al-Islâm), che
andasse al di là del califfato turco ormai in crisi e che fosse in grado di contrastare l'aggressività del
colonialismo occidentale in espansione. La nazione islamica estesa (umma, comunità dei fedeli) non
avrebbe dovuto porsi in conflitto con le insorgenti identità dei patriottismi locali (watan, patria), bensì
armonizzarsi con essi ed equilibrarne gli interessi in uno spirito di fratellanza. La polemica verso
l'esterno si fa appello a un risveglio culturale e politico, a una riforma sociale ed economica, diretto
all'interno del mondo islamico. Una sua rinascita (nahda), pronta a raccogliere la sfida lanciata dalla
modernità senza che esso fosse costretto a rinnegare le proprie basi o a rinunciare alla sua identità.
In Europa, la “Riforma” protestante era sorta all'insegna di un ritorno ai fondamenti della fede
cristiana. Ciò spiega la ricorrente ambiguità, tra riformismo e fondamentalismo, che caratterizza la
lettura del termine arabo, il quale designa la tendenza di pensiero inaugurata da Afghani: salafiyya.
Stando alla connotazione di ancestralità del significato, sebbene sia altro il vocabolo usuale per
“fondamenti” (usûl), la traduzione “fondamentalismo” è più aderente. Tra i seguaci del movimento,
l'egiziano Muhammad ´Abdu sarà stretto collaboratore di Afghani al Cairo e a Parigi. Insieme, vi
pubblicheranno la rivista Al-´urwa al-wuthqâ (“Il saldo vincolo”, espressione coranica). Egli si
avvicinerà sempre più a posizioni liberali, salvo una machiavellica accondiscendenza verso la
transizione di un dispotismo illuminato, per lui auspicabile e utile alla liberazione dal giogo coloniale.
Non ultimo, insieme all'allievo Mustafa ´Abd al-Raziq, il merito di ´Abdu di aver caldeggiato la
reintroduzione dell'insegnamento della filosofia negli studi superiori nel mondo arabo. In qualche
misura il suo “Trattato sull'Unità” divina (Risâlat al-tawhîd, Il Cairo 1897) e lo scritto giovanile Risâlat
al-wâridât (“Trattato delle ispirazioni” mistiche, Il Cairo 1874), influenzato da Afghani, segnano una
riconciliazione tra riflessione filosofica, teologia e gnosi mistica. Rashid Rida gli attribuisce un inedito
analogo, intitolato Risâla fî wahdat al-wujûd. E l'espressione wahdat al-wujûd, “unicità dell'esistenza”,
rimanda facilmente al neoplatonismo islamizzato del medioevale Ibn ´Arabi, non meno di Averroè
autore scomodo dal punto di vista dell'ortodossia di stretta osservanza.
Dall'evoluzionismo del libanese cristiano Shibli Shumayyil alla riflessione in persiano e in urdu
dell'indiano Muhammad Iqbal -- non esente da influssi nicciani --, dall'esistenzialismo dell'egiziano
´Abd al-Rahman Badawi al personalismo del marocchino Muhammad ´Aziz Lahbabi o
dell'egizio-libanese René Abachi, si era aperta una fertile stagione. I nomi qui scelti sono puramente
indicativi e certo insufficienti a illustrarne lo sviluppo e la varietà di indirizzi. Ma l'importante è che,
per un periodo abbastanza lungo, il pensiero riacquisterà attualità se non piena originalità e universalità,
senza che esso fosse sempre o quanto meno forzosamente subordinato al credo religioso di
appartenenza.
Le idee del siriano Muhammad Rashid Rida, già prossimo a ´Abdu, subiranno invece
un'involuzione verso l'integralismo, specie dopo la caduta del califfato ottomano in seguito alla Prima
Guerra Mondiale. Lo sconcerto suscitato dall'evento nel mondo islamico è stato spesso sottovalutato
dagli osservatori occidentali. In tale ottica Rida giungerà da un lato a riporre speranze nel wahhabismo
sa'udita affermatosi in Arabia, dall'altro a mostrare comprensione per la rivoluzione bolscevica russa,
pur condannandone l'ateismo ideologico. Inoltre, egli contrappose il pan-islamismo al nazionalismo
pan-arabo di tendenza laica, che iniziava a riscuotere simpatie concorrenziali nel Vicino Oriente.
In materia prettamente religiosa, la tradizione mistica del sufismo venne da lui bollata come
superstiziosa o implicante un atteggiamento passivo nei confronti della realtà circostante. Condanna
sommaria o eccessiva, almeno a prestare ascolto allo slancio evoluzionistico del sûfî persiano ´Aziz
al-Din Nasafi, già nel secolo XIII: “Nel mondo dell'esistenza tutte le cose sono in viaggio verso un fine.
Anche l'uomo sta compiendo questo viaggio. Ma suo scopo è la maturità. Suo fine, la libertà” (in Tanzîl
al-arwâh, “La discesa degli spiriti”). Chi pensi alle teorie del cristiano Teilhard de Chardin o
dell'induista Aurobindo Ghosh nel '900, non mancherà magari di rilevare qualche precoce affinità.
Storicismo e anti-storicismo
Fatto sta che, intorno alla rivista Al-manâr (“Il faro”) diretta al Cairo da Rashid Rida, si formò
anche l'estremismo sovente reazionario e settario dei futuri Fratelli Musulmani. Almeno in parte, gli
esiti contrastanti erano stati favoriti dal messaggio di Afghani. Il suo programma di riforma (islâh, o
tajdîd) verrà infatti sovente divulgato o recepito come utopico ritorno a una vagheggiata purezza delle
origini, garanzia oggi come ieri di rinnovo degli splendori della civiltà islamica, in maniera
provvidenzialistica e passibile di un'applicazione meccanica. Le sue aspirazioni a una forma di governo
democratico, monarchico costituzionale e parlamentare, vennero spesso ignorate o avversate.
Oltre ad apprezzamenti, non mancarono incomprensioni nei paesi in cui si esplicò la sua
instancabile azione: Iran, India, Turchia, Egitto, Europa. Afghani, il quale aveva lasciato l'Afganistan
fin dal 1869, morì nel 1897 a Istanbul in una condizione di libertà vigilata. Apertura mentale e
generosità di intenti gli valsero in compenso la stima del contestato Renan, durante il citato soggiorno
da esule a Parigi. Iperbolica ammissione di parziale consenso, lo studioso francese gli riconobbe di aver
ereditato lo spirito “redivivo” dei diletti Avicenna e Averroè.
Sarà piuttosto un discepolo adottivo di Renan proveniente dalla minoranza cristiana siriana, il
su citato Farah Antun, a far rivivere nella cultura politica araba contemporanea l'intuizione averroistica
di una distinzione tra sfera religiosa e ambito secolare, quale presupposto o requisito attendibile del
concetto di tolleranza e di una prospettiva di dialogo inter-confessionale. La cruciale controversia fra
Renan e Afghani avrà così un seguito significativo sulle riviste arabe Al-jâmi'ah e Al-manâr all'inizio
del '900, ad opera dei rispettivi seguaci Farah Antun e Muhammad ´Abdu.
Il primo dei due svilupperà il suo pensiero sia nel saggio dedicato a “Ibn Rushd e la sua
filosofia” (Ibn Rushd wa falsafatu-hu), sia nello scritto utopico “La nuova Gerusalemme” ('Ûrshalîm
al-jadîda). “Islam e Cristianesimo, nei confronti del sapere e della cultura”: è questa invece la
traduzione del titolo degli articoli qui pertinenti di ´Abdu, raccolti in volume nel 1902 xxii. Di lui va pure
ricordata la difesa pluralistica delle minoranze, nonché il corollario di un monito purtroppo sempre
attuale, affinché “il rancore verso una data persona non diventi un pretesto per attaccare una minoranza,
una comunità o una religione…”.
E' altrettanto vero di esponenti della corrente salafiyya, quali ´Ali ´Abd al-Raziq allievo di
´Abdu e il siriano ´Abd al-Rahman al-Kawakibi, che adottarono nelle loro opere una visuale
progressista e laicizzante. Essi procedettero a una revisione dei principi ereditati dall'Islam storico
attenta a non alterare il senso della dottrina originale. Accusati di ipocrisia i governanti che
confondevano religione e politica, mirando “al dominio sulle masse con lo schermo della religione”,
Kawakibi optò per l'autonomia del fattore religioso dal potere politico. Coerente col rispetto per le
libertà individuali, di lui si registra un commento dello scritto Sulla tirannide di Vittorio Alfierixxiii.
Rivisitando criticamente i fondamenti o le fonti del potere politico e religioso, ´Ali ´Abd
al-Raziq si spinse a dichiarare compatibile con l'Islam la separazione fra Stato e religione, elogiando
altresì quei lontani precursori che “si erano innamorati della scienza e della filosofia greche”. Altro
allievo egiziano di ´Abdu, Qasim Amin si occupò di questioni sociali, riguardo in particolare
all'istruzione femminile e alla promozione della condizione della donna, riconoscendo che ella era
penalizzata da una mentalità restrittiva e conservatrice.
In un convegno presso l'IPALMO a Firenze nel 1972, sul tema “L'incontro tra cultura araba e
cultura dell'Europa mediterranea nell'epoca contemporanea”, il marocchino Abdallah Laroui xxiv si
richiamava ancora ad Afghani nonché a Iqbal e perfino a Ibn ´Arabi. Razionalista convinto, nondimeno
egli giudicava paradossale che si seguitasse a imputare alla cultura araba la sua a-storicità, mentre gli
intellettuali europei cominciavano a dubitare della razionalità del loro stesso storicismo. Gli echi della
crisi del pensiero occidentale venivano così recepiti, in un diverso contesto.
Nella stessa occasione e muovendo da suggestioni heideggeriane, Antoine Makdici notava con
amarezza che la modernità, “nel momento in cui unifica (i mercati, i blocchi, le grandi formazioni
nazionali…), provoca in profondità e in ogni direzione grandi fratture […] e taglia la storia in due
tronconi, quella moderna e l'altra. In altre parole, essa è a compartimenti stagni”xxv. Questa storicità
traumatica non sarà una forma di a-storicità a sua volta, nella misura in cui la prima si conferma con
l'esigenza di configurare la seconda in quanto tale? Come uscire dal circolo vizioso?
Tanto più, l'intellettuale siriano avvertiva come proficuo e impellente il dialogo tra le diverse
culture. Alludendo a una tragica ricorrenza nel Vicino Oriente, dal canto suo il saggista e letterato
marocchino Mohammed Berrada obiettava che, “con una guerra in corso, solo chi ha coraggio e
audacia di essere a livello della storia può porre i problemi con la necessaria obiettività e gravità”. Già
in un saggio del 1963, intitolato Filosofia dell'angoscia xxvi , il siriano Muta' Safadi aveva tuttavia
sostenuto che l'intellettuale arabo è doppiamente vittima. In lui, le sensazioni di essere uno spaesato in
patria e un “sorvegliato” speciale si sommano all'ansia esistenziale e a un'angoscia della crisi.
L'impatto con una modernità d'importazione fa sì che la crisi di valori e di credenze non sia
maturata come in Occidente, ma che potenzi la propria carica traumatica. Miscela esplosiva, questa può
essere repressa o incanalata contro obiettivi diversivi e perfino auto-lesionistici. Il fallimento politico
della nahda ossia “Rinascita” era del resto dovuto a una mancata riforma radicale della società, ai
postumi del colonialismo, a una conflittualità endemica e alla discrepanza tra nazione e Stati. Né va
trascurata quella fra potenziale economico e soddisfazione dei bisogni elementari della popolazione. In
tali condizioni, è difficile che una nozione di progresso storico trovi effettivo riscontro. Più logico, che
esse siano le premesse per una confluenza tra fondamentalismo e integralismo.
Un giudizio anche più severo e aggiornato è stato espresso da Hasan Hanafi, in un articolo in
inglese intitolato Development from without - Development from within? Esso ripercorre l'evoluzione
della problematica, dal dibattito su sottosviluppo e Terzo Mondo negli anni Sessanta fino alle pressioni
culturali esercitate dal processo di globalizzazione mediatica, economica e politica. La visuale del resto
si amplia, dal mondo arabo abbracciando l'intero oriente islamico:
Per reazione, crebbe il conservatorismo. Il fondamentalismo è divenuto lo spirito dei tempi. Un processo
distorto di ritorno verso sé, a riaffermare la propria identità, è sato causato dalla spinta verso un tipo di
sviluppo estraneo e alienante. Gestito da burocrati senza ampia partecipazione di massa, tutto ciò
proviene dall'esterno, non emerge dall'interno. […] Di per sé la globalizzazione è egemonica, monolitica,
oppressiva. Lo scontro fra culture prepara il terreno per la globalizzazione. Mascherando il conflitto di
interessi con lo scontro fra culture, essa detta quanto l'Occidente ha sempre praticato oppure noxxvii.
Lo storicismo rielaborato da Hanafi evoca consapevolmente la contraddizione fra centro e
periferia del mondo, o tra “città e campagna”, tematica già enucleata dalla sinistra terzomondista e
marxista. Nemmeno è pensabile un'effetiva globalizzazione economica e politica, senza
internazionalizzazione dei rapporti culturali. Ma, perché lo “scontro fra culture” -- l'espressione è
polemicamente ripresa dal titolo di un noto saggio del politologo statunitense Samuel P. Huntingtonxxviii
-- si muti in confronto e dialogo, è prioritario che quest'ultimo avvenga su un piano paritario, nel mutuo
riconoscimento e rispetto delle soggettività in campo.
La via indicata da Hanafi è realistica, attribuendo giusto peso ai fattori religiosi i quali hanno
ripreso il sopravvento su quelli ideologici nel mondo contemporaneo. Prendendo atto del mutamento
fenomenico, non ci si pone però fino in fondo il problema se ciò abbia rappresentato un regresso o
meno. Fin dagli anni '30 e '50, nei saggi La coscienza nazionale e Noi e la Storia xxix , il siriano
Qustantin Zurayq aveva invitato a distinguere fra autentico spirito religioso e deleteria solidarietà
settaria, nonché a un equilibrio tra corretta storicizzazione e rivivificazione del proprio passato in
funzione del presente e dell'avvenire. Dall'evasione dalla storia o dalla sua distorsione alla fuga dalla
realtà, il passo viceversa è breve. E' quanto sottolineato da Muhammad ´Abid al-Jabiri, in Arab-Islamic
Philosophy: A Contemporary Critique: “La lettura della tradizione data dal fondamentalismo è
a-storica; può fornirne un solo tipo di comprensione. Quest'ultima è bloccata all'interno della tradizione
stessa. E' assorbita da una tradizione, che non riesce a sua volta a includere. Si tratta di una tradizione,
destinata a ripetersi”xxx.
Massimo Campanini ha studiato da tempo il fenomeno dell'Islam politico (Islam e politica è il
titolo di un suo recente saggio), ivi incluso un pensiero come quello di Nasafi, formatosi a contatto con
l'integralismo radicale dei Fratelli Musulmani e da esso emancipatosi in maniera non indolore.
Nell'intervista Islam e Occidente: tra accettazione e rifiuto radicale, è interessante notare come lo
studioso italiano sia portato a porre in relazione il fondamentalismo con gli effetti di deculturazione e
perfino di deleuziana “deterritorializzazione”, provocati dall'odierna globalizzazione:
Per quanto riguarda il rapporto con la globalizzazione, se vogliamo porre la questione in relazione con la
dimensione dell'Impero evocata dal libro di Michael Hardt e Toni Negri dobbiamo chiederci: questo
neofondamentalismo è un frutto dell'Impero o è una reazione all'Impero? Da un certo punto di vista, se
hanno ragione Hardt e Negri a costruire questa figura dell'Impero, si può dire paradossalmente che il
neofondamentalismo è il frutto dell'Impero, cioè non è una forma aliena a questa struttura imperiale ma è
una forma prodotta e alimentata da essa. Se questo è vero, il neofondamentalismo serve all'Impero e
quest'ultimo ha bisogno che esso non scompaia, pur combattendolo aspramentexxxi.
Tautologia e differenza
Sempre in un intervento al convegno citato dell'IPALMO, il filosofo Muhammad ´Aziz Lahbabi
riesaminava il vecchio discorso inaugurale di Renan al Collège de France. Il primo si adoperava a
focalizzare e a smontare l'accusa più inisidiosa ivi contenuta, rivolta alle religioni e culture semitiche in
blocco. Quella, cioè, di essere esse affette da un'ossessione tautologica, dal culto per la ripetizione
concettuale, da una fobìa per ogni differenza o mutamento. Ciò avrebbe reso lo spirito semitico
“anti-filosofico per natura e anti-scientifico”. Tutt'al più, teo-ontologico.
Renan aveva infatti incalzato, nei termini seguenti: “E' la paurosa semplicità dello spirito
semitico che restringe l'intelletto umano e lo chiude a ogni idea delicata, a ogni sentimento raffinato, a
ogni ricerca razionale, e lo pone di fronte all'eterna tautologia: Dio è Dio” xxxii . Evidente benché
approssimativa, l'allusione alla formula coranica “Non c'è dio se non Iddio” o all'equivalente biblica
“Iddio è l'eterno e non vi è altri che lui”. Allâh o Elohîm che lo si appelli, in due lingue e culture le
quali restano, nonostante tutto, intimamente collegate.
Passando allo specifico dell'Islam (“al presente, lo spirito semitico è rappresentato soprattutto
dall'Islam”), anche nella su citata conferenza all'Università della Sorbona il giudizio di Renan risulta
viscerale: “E' l'unione indistinguibile di spirituale e temporale, il regno del dogma, la catena più pesante
che l'umanità abbia portato. I primi secoli della civiltà nata dalla predicazione di Maometto conobbero
un certo splendore, poiché l'islamismo non era ancora in grado di ostacolare la scienza. In seguito, il
movimento scientifico fu soffocato”xxxiii.
In nome di quale ideale egli polemizzasse, Renan aveva spiegato in quel condensato di
“filosofia positiva”, che chiude la dissertazione De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la
civilisation: “Al posto dell'assoluto scolastico, alla filosofia noi chiederemo di schiudere spiragli sul
sistema generale dell'universo. In tutto e per tutto, noi ricercheremo le sfumature, la finezza anziché il
dogmatismo, il relativo invece che l'assoluto”xxxiv. Forse l'autore della Vie de Jésus non si accorse di
stare scivolando in un nuovo tipo di dogmatismo, lasciando ben poco spazio alla diversità culturale e al
relativismo delle credenze. Ma non poteva ignorare il rischio di indignare i credenti di ogni fede.
Ironia della sorte, il suo corso al Collège de France era stato soppresso con un pretesto religioso,
nel cuore d'Europa. Il suo attacco all'islamismo può suonare indiretta protesta contro l'integralismo
cattolico. Un giudizio icastico e alquanto tendenzioso, espresso su Averroè in L'islamisme et la science,
chiarisce come la sua polemica avesse per oggetto l'oscurantismo religioso in generale più che una
singola fede. Nella scia di un certo illuminismo francese e specialmente di Voltaire, la vocazione
all'oscurantismo veniva peraltro ricondotta a una radice semitica comune alle religioni monoteistiche:
Attribuire all'Islam il merito di aver prodotto Averroè e tanti altri pensatori illustri, i quali trascorsero
metà della vita in prigione, costretti a nascondersi o caduti in disgrazia, i cui libri furono bruciati e i cui
scritti vennero quasi cancellati dall'autorità teologica, sarebbe come voler ascrivere all'Inquisizione le
scoperte di Galileo, e l'intero sviluppo scientifico che essa non fu in grado di impedire.
Il parallelo qui stabilito non tiene nel debito conto la religiosità di Averroè e di Galileo. Né si
capisce bene perché l'irrazionalismo islamico dovesse essere ritenuto un prodotto dello “spirito
semitico”, a maggior titolo del razionalismo dei filosofi e scienziati arabi. Pur riconoscendo a essi piena
dignità e validità, Renan sostiene che il loro pensiero fiorì non grazie all'Islam bensì nonostante esso.
Fatto sta che, se egli si accanisce in particolare contro la religione musulmana, non è solo per una
forma trasversale e prudente di risentimento nei confronti della cristiana ecclesiastica. In quella stessa
mentalità, si sarebbero conservate e rafforzate le riserve medioevali verso ogni curiositas profana:
Ciò che distingue i musulmani è l'avversione per la scienza. E' la convinzione che la ricerca sia inutile,
frivola se non addirittura empia. Avversione per la scienza della natura, perché questa sarebbe una sorta
di concorrenza nei confronti di Dio. Per la scienza storica, perché essa, applicandosi ai tempi anteriori
all'Islam, può al limite ravvivare alcuni degli antichi errori.
A ogni modo, nella concezione complessiva di Renan traspare una “tautologia” della ragione
scientifica, assunta quale assoluto immanente. Riassorbita nel quadro del progresso civile, egli pure
ammise la spinta dell'uomo a trascendere se stesso: “La storia dimostra questa verità: nella natura
umana, un istinto trascendente la spinge verso uno scopo superiore”. In un suo saggio
sull'Orientalismo, il palestinese Edward W. Said annota che l'adesione di Renan alla filologia in quanto
“scienza laica” coincise col suo distacco dal cristianesimoxxxv. Non senza un residuo di integralismo.
Al di là delle posizioni particolari e dei ruoli di volta in volta rivestiti, a ben vedere un filo
sottile collega l'antica controversia, che aveva opposto Averroè ad Al-Ghazali, a quella moderna fra
Renan e Afghani o alla susseguente tra Farah Antun e Muhammad ´Abdu. A tal punto, che sembra
trattarsi di una sola antinomia, gravida di conseguenze prevaricanti personalità e intenzioni degli stessi
attori. Incrinatura fra due visioni del mondo, essa è destinata a riproporsi in momenti di crisi storica,
acuita da contraddizioni a carattere etico-politico o da stridenti interessi economici. In ciascuno di
questi momenti, viene messa in gioco la stessa libertà di ricerca e di pensiero.
Gli studi specialistici possono riattivare l'attenzione e la tensione verso l'altro da sè, far sì che le
differenze esistenti non siano recepite come semplice difetto o puro degrado, atteggiamento cui
facilmente indulgono i mezzi di comunicazione di massa. Quanto all'indagine filosofica, purché si
accantoni la pretesa di una sua tradizione esclusiva, essa può contribuire a chiarire concettualmente
l'alterità, scongiurando che questa non degeneri in alienità reciproca. Vale a dire, come si è già
accennato, in sterile e rischioso irrigidimento delle soggettività culturali in campo.
La messa a fuoco di matrici più o meno condivise e scontate, quali la filosofia ellenizzante e il
monoteismo semitico, risulta nel nostro caso una base di partenza utile a riscoprire un'alterità
storicamente affine. O, magari, una comune identità di fondo, che questo piaccia o no. Se non altro,
dalla lezione del sufismo islamico dovrebbe però potersi ricavare un “senso intimo”. Che il
riconoscimento di una tendenziale “unicità dell'esistenza” passi non tanto per la reductio ad unum
unilaterale dei teologi -- pur competenti, quali a suo tempo Al-Ghazali o il suo corrispettivo cristiano
Tommaso d'Aquino --, quanto attraverso l'accettazione e al limite l'esaltazione delle differenze.
Esse rimandano alla misura incolmabile della “differenza ontologica”, così come la pienezza
dell'Essere traspare in miriadi di forme (di più, il mistico Nasafi lo paragonava all'inchiostro con cui
sono scritte le lettere dell'alfabeto). O come la convergenza di una pluralità di vie concorre a definire la
meta. Un tawhîd peraltro dinamico, quale già intuito dalla gnosi arabo-iraniana di ascendenza
avicenniana, viene oggi riproposto in termini aggiornati e con energia da un pensatore di orientamento
fenomenologico come Hasan Hanafi. Sul piano dell'ente, il termine arabo tawhîd allude all'unità divina.
Se riferito all'esistente, esso esprime la tensione verso l'unità essenziale delle forme dell'esistenza,
caratteristica della religiosità e della cultura islamiche.
Senza voler risalire alla matrice neoplatonica, non è poi che nel pensiero europeo moderno
difettino suggestioni del genere. Spesso, queste sono però considerate con sufficienza o con diffidenza.
Per esempio, si confronti con l'“idealismo magico” del poeta romantico Novalis: “La regola della
natura è un'infinita varietà nelle forme, un'unità nel principio che tutto abbraccia”xxxvi. Si presume che il
pericolo in cui incorre una cultura, la quale si astragga da tale modello naturale, sia un'esistenza
svuotata di ogni vitale essenza. O, anche, l'immobilismo dell'entropia. Allo stato attuale, per la verità né
le società occidentali né quelle orientali paiono sottrarsi a tali eccessi opposti, ciascuna per il suo verso.
Almeno nelle sue punte più avanzate, o semplicemente più attente e imparziali, è dal pensiero
arabo che proviene un invito a riequilibrare le due tendenze. Nello stesso tempo si mette in guardia
dall'insidia del configurarsi di un nuovo assoluto, di un sistema di valori non meno statico e impositivo
di altri, benché esibito sotto mentite spoglie. E' il caso di un intervento del filosofo su citato Muta'
Safadi, intitolato La pensée contemporaine dans tous ses états. Esso è stato pronunciato il 2 ottobre
1998 al convegno Journées d`étude euro-arabes sul tema Tout est-il relatif?, organizzato a Casablanca
dalla “Fondation du Roi Abdul Aziz Al Saoud pour les Études islamiques et les Sciences humaines”:
Noi pensiamo le credenze attraverso sentimenti e valori, risultato in verità della storia del dogma. D'altra
parte, il prevalere della cultura dei relativismi non sempre libera i suoi adepti da un relativismo,
presupposto a sua volta in quanto nuovo assoluto. L'esperienza occidentale stessa ha dimostrato che il
relativismo in campo scientifico non implica necessariamente la negazione della soggettività. In realtà,
queste sfide del relativismo assoluto e delle credenze totalitarie non sono che convenzioni normative.
Esse devono essere ripensate dal pensiero, che le ha prodotte accidentalmente o cui vengono
attribuitexxxvii.
Differenza nella ripetizione
Nella sua Introduction à la poétique arabe, Adonis critica la cultura araba tradizionale nel suo
rapporto con la storia moderna e contemporanea, poiché congenitamente inadatta a cogliere le
differenze profonde che essa instaura. In quanto tale, essa non sarebbe stata neppure capace di proporre
un suo progetto valido di modernità, che sia esso opposto o complementare a quello imposto dalla
civiltà occidentale. Viceversa, il poeta siriano ritiene l'operazione non solo possibile ma auspicabile:
Tale medoto affida al pensiero il compito di spiegare e insegnare, anziché quello di dedurre nuove verità.
La complessità di questa pratica deriva dal fatto che noi viviamo in un'epoca in cui tale metodo, e la
cultura da esso derivata, appaiono -- malgrado tutti i cambiamenti avvenuti in quattordici secoli -- simili
a un teatro in cui la storia si ripeterebbe, ma con un'unica finalità: l'attualizzazione dell'antico, e, di
conseguenza, l'annullamento di tutto quello che vi si oppone, intellettualmente e culturalmentexxxviii.
Qualche argomento va tuttavia speso a favore della ripetizione. O, al contrario, a sfavore di quei
casi estremi, in cui la stessa può assumere toni ossessivi e caratteri deliranti. Essa non coincide
necessariamente con la tautologia né con la riproduzione seriale, prerogativa semmai delle società
industriali. Perfino la reiterazione di un ritornello può avere valore rassicurante o di ausilio mnemonico,
quando non sia assillo di propaganda o strumento per qualche campagna pubblicitaria. La tematica è
stata svolta a fondo nelle opere del filosofo francese Gilles Deleuze, da Differénce et répétition a De la
ritournelle, capitolo di Mille Plateaux. Ma, forse, più immediato e qui pertinente risulta il poeta italiano
Giuseppe Ungaretti, nella raccolta di prose Il deserto e dopoxxxix:
Ció che mi ha commosso, ció che avevo giá colto della poesia araba, che ha lasciato una traccia e senza
nemmeno che lo volessi, e lo sapessi, nella mia poesia, non é di colore. Non credo che la poesia araba sia
una poesia di colore. E' poesia di musica, non di colore. Quel vociare piano che torna, e torna e torna, nel
canto arabo, mi colpiva. Nell´accompagnamento di un morto, quella sorta di sostanza monotona che si
differenzia quasi insensibilmente per quarti di tono, quel borbottio lento, quella scoperta di quanto
potesse una persona commuoversi a un discorso dissimulato. In quel salmodiare s´insediava il valore
d´Essenza, e ne divenivo quasi inconsapelvomente consapevole.
Nelle culture orientali, spesso la ripetizione è sottrazione all'oblìo, spunto per la meditazione,
variazione su tema non priva di inventiva. In L'autore e i suoi doppi. Saggio sulla cultura araba
classica, il critico marocchino Abdelfattah Kilito dedica un capitolo all'Elogio della ripetizionexl. Egli
cita l'esordio di una famosa ode pre-islamica: “I poeti hanno lasciato ancora qualcosa da dire?”. E' un
espediente del poeta, per scusarsi di ripetere luoghi comuni della vita nel deserto. Subito dopo si passa
a cantare proprio quegli argomenti, che tanto spiaceranno al Petrarca in una lettera sulla poesia araba.
Ma il beduino 'Antara lo fa in maniera tale, da chiudere un'epoca e annunciarne un'altra, ormai
“classica”. E' bastato quel dubbio iniziale a innovare il senso del discorso, permeandolo di nostalgia.
Nel recente romanzo Il gioco dell'oblìo di Mohammed Berradaxli, al motivo della variazione
nella ripetizione si ricollega un'astrazione della memoria atavica e genetica. Attraverso essa, “i corpi si
sovrappongono e rinascono. Come potremmo vivere, senza custodire in noi la molteplicità dei corpi?”.
A maggior ragione, è possibile riflettere o credere, senza serbare e confrontare dentro di sé la
molteplicità delle tradizioni? Può ben darsi che, come suggerisce Kilito, quella che sembra una
connotazione sia una denotazione della cultura araba. La stessa, dell'eroina Shahrazad nelle Mille e una
notte, allegoria dell'insopprimibile varietà delle forme e della sfida che essa può condurre contro
l'ingiustizia e la mortexlii. Una cultura della differenza nella ripetizione, là dove la civiltà occidentale è
andata sviluppando una vocazione alla divaricazione -- a volte, alla prevaricazione -- della differenza.
Così come altrove, il pensiero critico -- non di rado, auto-critico -- ha attraversato non solo la
filosofia e la critica letteraria, bensì anche la letteratura contemporanea del mondo arabo. Nel romanzo
La civilisation, ma Mère!… del marocchino francofono Driss Chraibi, risalente al 1972, l'impatto con la
modernità era declinato al femminile, dato il sesso della protagonista. “Sai perché la nostra civiltà
islamica dopo tanta gloria è passata in coda al mondo intero?”: tale, il quesito formulato al termine
della vicenda. La singolare risposta è coerente con l'assunto iniziale della narrazione:
Alla base di tutte le società c'è la comunità. E il nocciolo della comunità è la famiglia. Se nel seno di
questa la donna è prigioniera e in più velata, sequestrata, come l'abbiamo tenuta noi per secoli, se lei non
ha nessun'apertura sul mondo esterno, nessun ruolo attivo, la società nel suo insieme fatalmente ne
risente, si rinchiude in se stessa, non ha più niente da apportare a se stessa né al resto del mondo. Tale
società non può quindi progredirexliii.
In un altro romanzo steso nel 1977, Sitt Marie-Rose xliv , la libanese Etel Adnan affronta in
termini drammatici il problema dell'integralismo religioso e politico. Tuttavia, poiché la storia è
ambientata durante l'allora recente guerra civile in Libano, l'autrice di estrazione cristiana non si limita
a contemplare quello islamico. Né a mettere sotto accusa il fattore religioso. In un “Oriente allo stesso
tempo nomade e immobile”, ella addebita parte della colpa della situazione al lascito latente di una
mentalità tribale: “Dopo diecimila anni, in questa parte del mondo siamo rimasti tribali, tribali, tribali”.
Solo in seguito si passa a stigmatizzare il fanatismo in sé, tramite l'attribuzione di quest'allucinata
dichiarazione ad una delle fazioni cristiane in lotta:
Abbiamo posto questa guerra non sotto il segno del politico, ma sotto quello del divino. Nessuno, in
questo secolo in cui viviamo, si è battuto con tante sante medaglie sul petto, la Vergine sul fucile, il
Crocefisso sul carro armato, il nome di Dio sulle labbra e la visione del cielo negli occhi, come fanno i
nostri giovani. E' un esercito di santi in marcia, il quale paga con la vita i peccati di un'umanità che non
cessa di crocefiggere il Cristo.
In effetti, la guerra civile di quegli anni in Libano finì di infrangere un sogno coltivato da non
pochi cristiani dell'oriente arabo, quali George Antonius, Michel ´Aflaq o Qustantin Zurayq, eredi di
Shibli Shumayyil e di Farah Antun. Un arabismo laico, in grado di riunire in forma moderna le membra
sparse dell'ex califfato musulmano. Redatto nel 1956 in piena “guerra fredda” tra paesi capitalisti e
comunisti, guidati rispettivamente da U.S.A. e U.R.S.S., uno scritto a sfondo politico di Mikha'il
Nu'ayma si intitolava Al di là di Mosca e di Washington. Che cosa potesse collocarsi oltre quelle realtà
egemoni e ideologie contrapposte, nelle speranze del poeta e narratore libanese, si deduce da un passo
dell'autobiografia intitolata Settanta, allusiva all'età dell'autore all'epoca della sua composizione:
Se gli arabi facessero della loro vasta terra un'oasi di salvezza, di reciproca intesa, di fratellanza, entro il
deserto delle cupidigie, degli odi, dei terrori in cui brancola il mondo odierno! Se sorgessero tra loro dei
capi di lungimiranza e intelligenza tale, da avviarli per quella via!xlv
Erano i tempi, in cui la precaria confederazione tra Egitto e Siria lasciava intravedere una
possibilità di realizzazione dell'obiettivo. Ma quale sostrato profondo potesse giustificare l'ingenuità
della prospettiva traspare, ancora una volta, in una testimonianza di tenore letterario più che politico.
Né è un caso, in una tradizione culturale in cui la poesia -- i pretesti per includerla nel mirino degli
integralisti hanno avuto scarso successo -- mostra un mordente propositivo o oppositivo, e gode di una
considerazione di autonomia, sovente maggiori di quanto sia concesso al pensiero. Sempre nella
Introduction à la poétique arabe, Adonis si è sforzato di illuminare quel remoto sottofondo a noi
comune, di quando in quando riaffiorante dall'inconscio collettivo:
Secondo la tradizione mediterranea, la vita è un vasto campo per la conoscenza umana. Questo campo
fertile contiene tutti i germi del progresso: così come li vediamo espressi nell'epopea di Gilgamesh e
nell'Odissea di Omero (ma Sindbad è davvero altro dal Gilgamesh sumerico o da un Ulisse greco
affabulato in arabo?). [...] Ora, i poeti arabi contemporanei vogliono restaurare questa vita dello spirito e
della libertà, e continuare nel senso in cui i loro predecessori si erano impegnati con profonda lucidità.
Essi vogliono superare questa spartizione fra culture, per cui il patrimonio arabo sarebbe considerato una
realtà conchiusa. [...] Essi la considerano piuttosto come manifestazione parziale di una civiltà globale,
che è nata prima della poesia araba. Questa civiltà è quella che sorse nell'Oriente mediterraneoxlvi.
Va da sé che di quell'Oriente fu parte integrante la civiltà ellenica, ancor prima che la sua
cruciale eredità fosse diversamente sviluppata nella sostanza, rivendicata o ripudiata nella forma. Il
tentativo di Adonis è stato condiviso da altri poeti simbolisti della sua generazione, dal libanese Khalil
Hawi all'iracheno Badr Shakir al-Sayyab al palestinese Jabra Ibrahim Jabra. Esso risponde al desiderio
di risalire a una dimensione, in cui non vi sia motivo o bisogno di distinguere fra “ragione araba” o
“ragione islamica” e “ragione occidentale”. Tanto meno, tra “spirito semitico” e “indo-europeo”, per
dirla con Renan. Antefatto forse mitico, ma in cui Gerusalemme, Roma e Baghdad, possano in qualche
misura riconoscersi. In confronto, può suonare stonata perfino la criptica ironia di un gioco di parole su
“integralismo” e “fondamentalismo”, formulato anni fa da un nostro insigne arabista:
Padronissimi quei taluni di porre al centro della storia del mondo la Mecca o Baghdàd […]; noi ci
manteniamo fedeli all'asse di Atene e Roma, considerando la vicenda arabo-musulmana, al cui studio
abbiamo consacrato la vita, come una preziosa, validissima integrazione, un complemento ineliminabile
di quell'altro itinerario dell'anima, che pur rimane per noi il fondamentalexlvii.
E' il caso di sfatare un ultimo possibile equivoco. Sia pure indirettamente, in politica non è tanto
la “ragione araba” a essersi rifatta a una matrice ellenica, quanto la così definita “ragione islamica”. Da
La città virtuosa di Al-Farabi alle Episole dei Fratelli della Purezza, alla parafrasi-commento di
Averroè della Repubblica di Platone, nel pensiero arabo prevalse un modelloxlviii. La “città virtuosa”
non è che una repubblica platonica, convertita all'Islam. Al posto del governo dei filosofi, la guida di
un imâm ispirato e di una gerarchia di sapienti dovrebbe garantirvi l'interpretazione della legge
coranica, promuovere felicità terrena e salvezza futura. Per loro stessa natura, gli ambienti shî'iti sono
stati meglio predisposti alla ricezione di tale utopia. Essa, che in Al-Farabi aveva attinto un notevole
grado di complessità, ha finito con l'influenzare teoria e prassi dell'integralismo islamico nel suo
complesso.
Ancor prima del rassegnato realismo di Ibn Khaldun, all'utopismo comunitario di Al-Farabi si
era opposto l'individualismo ascetico dell'andaluso Ibn Tufayl. Il suo romanzo filosofico Hayy Ibn
Yaqzânxlix, tradotto assai più tardi in latino come Philosophus autodidactus, non mancherà di giungere
a esercitare un ascendente sull'illuminismo europeo. Attraverso una griglia concettuale aristotelica, esso
ci mostra l'altra faccia dell'anima araba, attendibilmente rimasta più vicina allo spirito inquieto di una
sensibilità nomade. Il protagonista della metafora di Ibn Tufayl, così come la figura del saggio
delineata dal suo precursore Avempace/Ibn Bajja in Il regime del solitariol, è un perenne straniero in
una società imperfetta o corrotta. Egli è semmai cittadino di una irrealizzabile comunità secondo
natura, dove il contatto con l'“Essere necessario” renda non strettamente necessari teologi e giuristi.
Più complessa e anche opinabile appare la rivisitazione critica della filosofia araba classica,
operata da Muhammad ´Abid al-Jabiri nella sua trilogia sulla “ragione araba”, e sintetizzata in
Non sussistono, comunque, una “ragione islamica” o una “ragione araba” integrali. Così, non
esiste un pensiero unico, identificabile o meno con la “ragione occidentale”. Per la verità, non sussiste
un pensiero identificabile con la ragione tout court. In tal caso avremmo un integralismo della ragione,
i cui fondamenti e caratteri tornerebbero a essere oggetto di contesa in base alla propria tradizione o
convinzione. I concetto stessi di razionalità si sono prodotti storicamente e culturalmente. D'altro canto,
la tesi di un relativismo assoluto favorirebbe l'incomunicabilità tra culture, o accrediterebbe un criterio
assai discutibile di validità funzionale. Una ragione effettiva non può che essere dialettica, anzitutto nel
senso etimologico del termine, scaturendo dal dialogo, dall'ascolto e dalla critica reciproci.
Appunto in tal senso, va inteso l'appello di un filosofo arabo contemporaneo fra i più aperti e
aggiornati, sensibile all'esigenza di un ripensamento sia della tradizione sia della modernità in una
chiave di superamento e di sintesi di entrambe. Forse eccessivamente fiducioso se non ottimistico alla
luce degli sviluppi politici internazionali immediatamente successivi, il passo seguente è desunto da Le
discours des fins ultimes. Les conquêtes de la mondialisation et les impasses de l`identité del libanese
´Ali Harb. Il testo è stato tradotto in francese nel 2000, dall'algerino Mohammed Chaouki Zine:
E' certo possibile un ritorno al passato quale origine predestinante o archetipo da imitare, ma solo in
quanto sclerotica auto-esclusione. Sorte del fondamentalismo è di operare in una sorta di chiusura
dogmatica e regressiva, di terrorismo mentale e di sradicamento, siano quei fondamenti tradizionali
oppure moderni. L'accesso all'era dell'informazione planetaria non significa affatto prendere la
mondializzazione per ideale archetipico o modello precostituito, né per una promozione edenica. Si tratta
di accostarsi a essa piuttosto come possibilità e opportunità, come spazio aperto di un ampio orizzonteli.
i
Ernest Renan, Averroès et l'Averroïsme, Michel Lévy Fréres, Parigi 1852 (Calmann-Lévy Editeurs, Parigi 1949). Nel
1857, l'autore farà seguire il saggio Mahomet et les origines de l'islamisme, incluso nella raccolta Études d`histoire
religieuse pubblicata presso lo stesso editore parigino.
ii
Al-Ghazali, Tahâfut al-falâsifa: “The Incoherence of the Philosophers”, tr. ingl. a cura di Michael E. Marmura,
all'indirizzo Web http://www.muslimphilosophy.com/gz/ip.htm. Si confronti possibilmente, fra l'altro, con Al-´aql wa
al-imân bayn al-Ghazâlî wa Ibn Rushd (“Ragione e fede, tra Al-Ghazali e Averroè”), dissertazione del poeta e pensatore
libanese Khalil Hawi presso l'Università Americana di Beirut, 1955.
iii
Mohammed Abed al-Jabri (Muhammad ´Abid al-Jabiri, secondo una trascrizione più fedele) è autore del ciclo Naqd
al-´aql al-´arabi (“Critica della ragione araba”). Dell'opera sono usciti tre titoli, presso la casa editrice Markaz Dirasât
al-Wahda al-´arabiyya di Beirut: Takwin al-´aql al-´arabi (“Formazione della ragione araba”), 1984; Bunyat al-´aql
al-´arabi (“Struttura della ragione araba”), 1986; Al-´aql al-siyasi al-´arabi (“La ragione politica araba”), 1990. In lingue
europee, si hanno le seguenti traduzioni: Introduction à la critique de la raison arabe, La Découverte, Parigi 1994;
Arab-Islamic Philosophy: A Contemporary Critique, University of Texas Press, Austin 1999; La ragione araba, Feltrinelli,
Milano 1996.
iv
Abu al-Walid Ibn Rushd, Kitâb fasl al-maqâl wa taqrîr mâ bayn al-shari´a wa al-hikma min ittisâl; cfr. tr. it. Averroè, Il
trattato decisivo. Sull'accordo della religione con la filosofia, a cura di M. Campanini, Rizzoli, Milano 1994. Cfr. Farah
Antun, Ibn Rushd wa falsafatu-hu (“Averroè e la sua filosofia”), Alessandria d'Egitto 1903; Dâr al-Talî'a, Beirut 1981.
v
Avempace, Risâla fi tadbîr al-mutawahhid: tr. it. di M. Campanini Il regime del solitario, Rizzoli, Milano 2002.
vi
vii
Cfr. Mohammed Arkoun (Muhammad Arkun), Pour une critique de la raison islamique, Maisonneuve e Larose, Parigi
1984. Un'opzione decisamente laica è sostenuta dagli egiziani Fouad (Fu'ad) Zakariya, in Laïcité ou islamisme. Les Arabes
à l'heure du choix, La Découverte, Parigi 1989, e Muhammad Sa´id ´Ashmawi, in L'islamisme contre l'Islam, La
Découverte, Parigi 1989.
viii
ix
Al-Afghani, Lecture on Teaching and Learning, tr. ingl. a cura di Nikki R. Keddie, in An Islamic Response to
Imperialism: Political and Religious Writings of Sayyid Jamal al-Din al-Afghani, University of California Press, Berkeley
1983.
x
Agostino Spataro, Fondamentalismo islamico. L'Islam politico, Edizioni Associate, Roma 1995.
xi
xii
Adelardus Bathoniensis, nell'introduzione alle Naturales quaestiones: cfr. tr. ingl. a cura di C. Burnett, in Adelard of
Bath, Conversations with his Nephew, Cambridge University Press, 1998.
xiii
Ernest Renan, De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la civilisation, Michel Lévy Fréres, Parigi 1862, pp.
27 e 28.
xiv
E. Renan, L`islamisme et la science, in Oeuvres complètes, tomo I, Calmann Levy, Parigi 1947-61, p. 956.
xv
Abu al-Walid Ibn Rushd, Kitâb fasl al-maqâl…, op. cit. Cfr. L'intelligenza della fede. Filosofia e religione in Averroè e
nell'averroismo, a cura di M. Campanini, Lubrina, Bergamo 1989, e l'introduzione ad Averroè e l'intelletto pubblico.
Antologia di scritti di Ibn Rushd sull'anima, a cura di Augusto Illuminati, manifestolibri, Roma 1996. Di Massimo
Campanini, è pure la tr. it. di Tahâfut al-tahâfut: Averroè, L'Incoerenza dell'Incoerenza dei filosofi, UTET, Torino 1997.
xvi
Cfr. Erasmo da Rotterdam, Diatriba de libero arbitrio, e Martin Lutero, De servo arbitrio. La polemica rinascimentale
riprendeva antichi temi agostiniani, influenzata dallo scritto De libero arbitrio di Lorenzo Valla, a sua volta polemico nei
confronti del medioevale Severino Boezio. In De rationibus fidei contra Saracenos, Graecos et Armenos ad Cantorem
Antiochenum, già Tommaso d'Aquino aveva assunto una posizione critica verso l'opinione prevalente fra i musulmani. Nella
cultura arabo-islamica la questione aveva visto contrapposti i Qadariti, favorevoli al libero arbitrio (ikhtiyar), e i Jabariti,
partigiani della predestinazione (jabr). La posizione teologica degli Ash'ariti, sostenitori di una libertà umana condizionata
(qudra), sarà poi ereditata dall'ortodossia religiosa.
xvii
Adonis (´Ali Ahmad Sa´id “Adunis”), in Introduction à la poétique arabe, Sindbad, Parigi 1985.
xviii
xix
xx
Hasan Hanafi, The Meaning of Cultural Conflict, reperibile all'indirizzo Web
http://www.coe.int/T/E/Cultural_Co-operation/Culture/Other_projects/Intercultural_Dialogue_and_Conflict_prevention/Col
loquy/7Hanafi.asp. Dello stesso autore, cfr. Alternative Conceptions of Civil Society: A Reflective Islamic Approach, in
Islamic Political Ethics: Civil Society, Pluralism, and Conflict, a cura di Sohail H. Hashmi, Princeton University Press,
2002; in arabo: Muqaddima fi ´ilm al-istighrâb (“Introduzione all'occidentalismo”), Il Cairo 1989 e 1991, e Jamal al-Din
al-Afghani: al-mi`awiyah al-ulá, 1897-1997, Il Cairo 1998.
xxi
Jamal al-Din al-Afghani, Al-radd ´alâ al-dahriyyîn (“Confutazione dei materialisti”): già pubblicata in persiano con altro
titolo nel 1881, l'opera sarà tradotta in arabo dal discepolo Muhammad ´Abdu ed edita a Beirut nel 1886. Quanto al
“socialismo islamico”, la teoria sarà in effetti sviluppata a loro modo da ideologi della Fratellanza Musulmana quali Sayyid
Qutb in Egitto e Mustafa al-Siba'i in Siria.
xxii
Muhammad ´Abdu, Al-Islâm wa al-Nasrâniyya ma´ a al-´ilm wa al-madaniyya, Il Cairo 1902.
xxiii
xxiv
Abdallah Laroui (´Abd Allah al-´Arawi), in AA. VV., La coscienza dell'Altro. Contraddizioni e complementarietà tra
cultura europea e cultura araba, a cura di Liliana Magrini, atti di convegno dell'IPALMO a Firenze nel 1972, Cultura
Editrice, Firenze 1974. Tra le opere in francese di Laroui, sono da ricordare: L'idéologie arabe contemporaine, Maspero,
Parigi 1967; La crise des intellectuels arabes, traditionalisme ou historicisme?, Maspero, Parigi 1974; Islam et modernité,
La Découverte, Parigi 1987; Islam et histoire, Bibliothèque Albin Michel, Parigi 1999.
xxv
Antoine Makdici (Antun Maqdisi),
xxvi
Muta' Safadi, Falsafat al-qalaq (“Filosofia dell'angoscia”), Beirut 1963. Dello stesso autore, già impegnato
politicamente a sinistra e poco tradotto in lingue europee, si rammentano altre opere in arabo: Il rivoluzionario e l'arabo
rivoluzionario, Beirut 1966; Strategia dell'enunciazione, nel sistema dei sistemi del sapere, Beirut 1986; Critica della
ragione occidentale, fra modernità e postmodernità, Beirut 1989.
xxvii
Deutsche Stiftung für internationale Entwicklung
xxviii
Samuel P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York
1996: tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997 e 2001.
xxix
xxx
xxxi
M. Campanini, in Islam e Occidente: tra accettazione e rifiuto radicale, intervista a cura di A. Criscione e I. D'Isola,
all'indirizzo Web http://www.novecento.org/Campanini_2.htm. Dello stesso autore, cfr. Islam e politica, Il Mulino,
Bologna 1999. Il testo di Michael Hardt e Antonio Negri citato nell'intervista, e più volte nei capitoli qui precedenti, è
Empire, Harvard University Press, Cambridge 2000: tr. it. Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano
2002.
xxxii
E. Renan, De la part des peuples sémitiques dans l'histoire de la civilisation, op. cit., p. 28.
xxxiii
xxxiv
xxxv
Edward W. Said (Sa´id), Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, traduzione dall'inglese, Feltrinelli, Milano
1999.
xxxvi
Novalis, Fragmente: tr. it. di E. Pocar Frammenti, Rizzoli, Milano 1997, p. 253 (fr. 974). Il termine arabo tawhîd
esprime la tensione verso l'unità essenziale delle forme dell'esistenza, caratteristica della religiosità e della cultura islamiche.
xxxvii
xxxviii
xxxix
Giuseppe Ungaretti, in Il deserto e dopo, A. Mondadori, Milano 1961; con qualche variante, la silloge è stata inclusa
nel volume antologico Vita d'un uomo. Viaggi e lezioni, A. Mondadori, Milano 2000.
xl
Abdelfattah Kilito (´Abd al-Fattah Kilitu), in L'autore e i suoi doppi. Saggio sulla cultura araba classica, Einaudi, Torino
1988. Cfr. Francesco Petrarca, Seniles, XII, 2.
xli
Mohammed Berrada (Muhammad Ben Ghada), Lu'bat al-nisyân, Dâr al-Amân, Rabat 1987: tr. fr. Le jeu de l'oubli, Actes
Sud, Arles 1993.
xlii
Si veda l'interpretazione magistrale di Michel Foucault, in Le langage à l`infini (in Tel Quel, autunno 1963) e in
Qu`est-ce-qu`un auteur? (in Bulletin de la Societé française de Philosophie, luglio-settembre 1969): tr. it. di C. Milanese Il
linguaggio all`infinito e Che cos'è un autore?, in M. Foucault, Scritti letterari, Feltrinelli, Milano 1971, 1984 e 1996.
xliii
xliv
xlv
Mikhail Naimy (Mikha'il Nu'ayma), Sabûn. Hikayat umr, 3 voll., Dâr Sâdir, Beirut 1959-1960, vol. III: tr. it. del brano in
F. Gabrieli, L'autobiografia di Mikhaìl Nuàima, in Cultura araba del Novecento, Laterza, Bari 1983, nota 12. Dello stesso
autore, cfr. Ab´ad min Muscuw wa min Washintûn (“Al di là di Mosca e di Washington”), Beirut 1957 e 1966.
xlvi
Adonis, in Introduction à la poétique arabe, op. cit.
xlvii
Francesco Gabrieli, nella Premessa a Cultura araba del Novecento, Laterza, Bari 1983.
xlviii
Abu Nasr Muhammad al-Farabi, Risala fi mabadi `ara` ahl al-madîna al-fâdila: tr. it. a cura di M. Campanini, La città
virtuosa, Rizzoli, Milano 1996. Cfr. la tr. ingl. di Ahmad Shahlan del talkhîs di Averroè della Repubblica di Platone, in
Al-dharuri fi al-siyasa: mukhtasar kitab al-Siyasa li-Aflâtûn (“Basics of Politics: A summary of Plato's "Politics"”), con
introduzione di Muhammad ´Abid al-Jabiri, Arab Union Research Center, Beirut 1998.
xlix
Abu Bakr Muhammad Ibn Tufayl, Risâlat Hayy Ibn Yaqzân (“Epistola sul Vivente, figlio del Vigilante”), da non
confondere con l'opera omonima di Avicenna, al cui titolo Ibn Tufayl si è ispirato; cfr. tr. it. a cura di Paola Carusi, Epistola
di Hayy ibn Yaqzan. I segreti della filosofia orientale, con prefazione di Alessandro Bausani, Rusconi, Milano 1983. Una
parafrasi e commento in ebraico, di Mosè di Narbona, risale al 1349. La traduzione latina Philosophus autodidactus,
dell'inglese Edward Pococke, è del 1671. Nel 1708, segue la traduzione di Simon Ockley The Improvement of Human
Reason, che si suppone abbia influenzato il romanzo Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
l
Ibn Bajja (Abu Bakr Muhammad Ibn Yahya), Risâla fi tadbîr al-mutawahhid; cfr. tr. it. a cura di M. Campanini e A.
Illuminati: Avempace, Il regime del solitario, Rizzoli, Milano 2002.
li
´Ali Harb, nell'introduzione a Hadith al-nihayat. Futuhat al-awlama wa maaziq al-huwiyya: tr. fr. di M. C. Zine Le
discours des fins ultimes. Les conquêtes de la mondialisation et les incertitudes de l'identité, Centre Culturel Arabe, Beirut Casablanca 2000.