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LUISS Guido Carli
Istituto di Studi Giuridici – Facoltà di Giurisprudenza
Via Parenzo, 11 - tel. 06/85225.810
OSSERVATORIO COSTITUZIONALE
Seminario su:
I MUTAMENTI COSTITUZIONALI IN ITALIA NEL QUADRO DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA
Incontro del 14 gennaio 2000 sul tema
“Cittadinanza europea e rappresentanza”
(introdotto dal prof. Antonio Lòpez Pina)
Resoconto redatto dai dott.ri Giuseppe Allegri ed Elisabetta Canitano
Bollettino n. 1/2000
Il calendario e i resoconti delle iniziative dell’Osservatorio Costituzionale sono reperibili sul sito
Internet dell’Università Luiss Guido Carli (www.luiss.it).
Per informazioni e comunicazioni: e-mail: [email protected]
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Realizzato nell’ambito della ricerca di rilevante interesse nazionale cofinanziata dal Murst (1998-1999)
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SERGIO PANUNZIO, dopo aver presentato il Prof Lòpez Pina, ordinario di Diritto costituzionale nella
Università Complutense di Madrid e titolare nella stessa Università della Cattedra Jean Monnet di
Cultura giuridica europea, gli dà la parola per introdurre la riunione sul tema del Principio di
sussidiarietà come limite all'esercizio di competenze nell'Unione Europea.
ANTONIO LÒPEZ PINA inizia la sua relazione sottolineando che la costruzione dell'Europa è
l'affanno di questo periodo. In particolare il problema consiste nel sapere quale possa essere
nell'ordine politico in costruzione, per via delle mutate circostanze, la distribuzione formale del
potere pubblico, quali il suo significato e il suo fine.
Attraverso il conferimento di attribuzioni tassative, gli Stati membri hanno riconosciuto alla
Comunità il potere di esercitare determinate competenze sovrane. Quindi, l'invocazione assoluta del
principio delle competenze limitate (art. 5 TCE ) potrebbe esporre all'abbaglio di ritenere che con
esso si risolverebbe automaticamente la questione delle competenze tra la Comunità e gli Stati
membri. Lòpez Pina osserva che ovviamente non è così, e questo spiega l'accordo tra gli Stati per
inserire il principio di sussidiarietà nel Trattato di Maastricht (art. 3 B TCE). La questione di fronte
alla quale ci si trova attualmente è che tale decisione politica non ha risolto il problema; anzi, la sua
rilevanza ha determinato una ulteriore complessità nell'esercizio delle competenze.
Per questo motivo, ci si incontra oggi a Roma presso la LUISS; motivo per cui Lòpez Pina invita a
ringraziare il legislatore di Maastricht!
Il dato di fatto sul quale l’introduttore dell’incontro invita a riflettere è che nell'esercizio delle
competenze trasferite alla Comunità, si va incontro a conflitti normativi e ad incertezze che possono
turbare. Come spiegarli?
Innanzitutto, le limitate e specifiche attribuzioni conferite alla Comunità per l'esercizio di
determinate competenze al posto degli Stati, non frenano la natura dinamica di una Comunità
Europea funzionalmente integrata e orientata ad obiettivi. La Comunità risponde all'obiettivo di
unificare i mercati e le politiche nazionali, allo scopo di integrare gli importanti compiti che fino a
ieri spettavano agli Stati. Pertanto, le norme sulle competenze del diritto comunitario sono orientate
non a materie oggettive ma alle funzioni.
Competenze delineate in maniera indeterminata, e interpretate teleologicamente al servizio dei fini
della Comunità, portano di conseguenza ad un continuo incremento, "di soppiatto", dei poteri degli
organi comunitari -, con l'effetto simultaneo di barriera o limite per l'azione legislativa degli Stati
membri. Quanto più funzionali e indeterminate saranno le norme dei Trattati, tanta più incisività
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avrà questo processo continuo di espansione del diritto comunitario e delle conseguenti barriere per
il legislatore nazionale.
In particolare Lòpez Pina ci tiene a sottolineare che l'incremento delle competenze della Comunità,
l'espansione incontrollata del diritto comunitario, lo svuotamento del patrimonio di competenze
degli Stati membri e la conseguente residualizzazione del diritto nazionale, hanno provocato
malessere nelle società europee. Successivamente, la consacrazione giuridico-positiva del principio
di sussidiarietà a Maastricht ha dato luogo a una logica divisione di opinioni:
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secondo alcuni, il principio di sussidiarietà è l'architrave dell'ordine federale futuro in Europa
(risoluzione della Conferenza dei Presidenti dei Laender, del 20-21.XII.1990). Il principio di
sussidiarietà deve controbilanciare l'erosione delle competenze degli Stati membri e, quindi, lo
svuotamento dei compiti e delle competenze del Bundestag (BVerfG, NJW 1993, 3047/3057). Il
Bundesrat non avrebbe accordato il suo consenso al Trattato di Maastricht, senza una consacrazione
del principio di sussidiarietà –, in base alla richiesta dei Presidenti dei Laender tedeschi del
7.VI.1990.
- altri invece (Pierre Pescatore, 1995), mentre dubitano che il principio di sussiediarietà possa
realmente risolvere alcun problema, preconizzano che esso riporterà "all'anarchia" degli Stati
nazionali. Il principio di sussidiarietà collocherà la cura degli interessi generali dei cittadini europei
- che con tanto sforzo si era riusciti ad articolare istituzionalmente - nuovamente in mano agli
interessi centrifughi e incontrollati degli Stati membri.
Considerato che il dibattito si sta svolgendo in una forma inusuale rispetto alle consuete regole di
interpretazione costituzionale, Lòpez Pina considera che è probabilmente arrivato il momento di
riflettere ad alta voce, in qualità di giuristi, sulla problematica del principio di sussidiarietà. A tal
fine, il relatore tenterà di rispondere a tre domande: la prima, sulla natura giuridica del principio di
sussidiarietà; la seconda, sulla sua rilevanza costituzionale; la terza, sul suo controllo giudiziale.
In questa prima parte della introduzione Lòpez Pina analizza il principio di sussidiarietà nel diritto
positivo, partendo dalle previsioni normative, visto che è previsto in vari passaggi dei Trattati
dell'Unione e della Comunità. L'art. 5 TCE stabilisce la portata ed il contenuto di tale principio. In
base al tenore della disposizione, l'applicazione del principio presuppone che si tratti di ambiti che
non sono di competenza esclusiva della Comunità. In tali ambiti di competenze concorrenti, la
Comunità interverrà unicamente se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non
possono essere realizzati in maniera sufficiente dagli Stati membri e possono invece, in ragione
delle dimensioni o degli effetti dell'azione in questione, essere realizzati meglio a livello
comunitario.
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Lòpez Pina ricorda quindi che il principio di sussidiarietà è inoltre menzionato nel Preambolo del
Trattato sull'Unione: "decisi a portare avanti il processo di creazione di un' unione sempre più
stretta tra i popoli dell'Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini,
conformemente al principio di sussidiarietà".
Secondo l'art. 2 TUE, "Gli obiettivi dell' Unione saranno raggiunti secondo le disposizioni del
presente Trattato, alle condizioni e secondo i tempi previsti e nel rispetto del principio di
sussidiarietà, come definito nell' art. 5 del Trattato costitutivo della Comunità Europea".
Pur non essendo espresso letteralmente, il principio di sussidiarietà si trova, inoltre, alla base della
normativa sulla cooperazione intergovernativa in materia di Giustizia e Affari Interni: art. 34.2
TUE: "Il Consiglio disporrà e sosterrà …… la cooperazione per il raggiungimento degli obiettivi
dell' Unione. A tale fine, per iniziativa di qualunque Stato membro ……".
In "linguaggio palatino" Lòpez Pina osserva in particolare che l'art. 5 TCE definisce, destinatari,
oggetto, presupposti e strumenti d' azione:
- destinatari del principio di sussidiarietà sono gli organi comunitari nell'ambito dei rispettivi
compiti e competenze; specialmente, quando esercitano la potestà normativa.
- oggetto del principio di sussidiarietà sono le misure e le forme di azione degli organi comunitari
nell'ambito delle competenze concorrenti riconosciute dal Trattato. A differenza di un’asse di
competenze che distribuisce orizzontalmente i compiti pubblici, il principio di sussidiarità opera
verticalmente; in altri termini, le competenze già esistenti saranno esercitate unicamente in
determinate circostanze.
Il principio di sussidiarietà non inerisce, quindi, tanto all'attribuzione delle competenze, quanto al
suo esercizio. E' evidente che nel caso del principio di sussidiarietà, non si tratta nè di limitare
l'applicazione di norme di immediata e diretta applicabilità del Trattato, nè di distribuire le
competenze tra la Comunità e gli Stati membri: il suo oggetto è, così, solo il corretto esercizio delle
competenze. Il principio di sussidiarietà dovrà servire, più che altro, in relazione all'esercizio delle
competenze già esistenti, per salvaguardare l'equilibrio federale nell'ordine politico comunitario
(BVerfG, 1993; Everling, DVB1, 1993; Mitteilung der Kommission an den Rat und an das
Europaische Parlament vom 27.10.1992).
Tale principio dovrà preservare l'identità nazionale degli Stati e far sì che essi mantengano un
proprio patrimonio di competenze. Dipenderà soprattutto dall’azione pratica del Consiglio, quale
legislatore comunitario, la misura in cui il principio di sussidiarietà sarà capace di fare fronte
all'erosione delle competenze statali e allo svuotamento dei compiti e delle competenze dei
Parlamenti nazionali. La necessarietà di una determinata regolamentazione dipende dalle valutazioni
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degli organi coinvolti nell'esercizio della potestà normativa. Spetta agli Stati in seno al Consiglio
Europeo invocare il principio di sussidiarietà. Perciò, il Consiglio Europeo di Edimburgo ha
stabilito che la Commissione, il Consiglio e il Parlamento Europeo ne debbano tenere conto nelle
proposte e nelle risoluzioni e debbano in ogni caso motivare se le condizioni richieste dal principio
di sussidiarietà sono soddisfatte. La Commissione ha riconosciuto inequivocabilmente che l'onere
della prova grava sugli organi della Comunità; intanto, in materia esistono accordi interistituzionali.
Lòpez Pina, sottolineando la centralità dell'art. 5 TCE che positivizza il principio di sussidiarietà,
ricorda che non lo si deve leggere come una norma ordinaria del Trattato, solo da interpretare e
applicare; ma piuttosto tale disposizione normativa eleva il principio di sussidiarietà a parametro,
intendendolo come principio generale, in ogni occasione in cui si applicano le norme del Trattato
che abilitano la Comunità ad agire.
Presupposto per l'effettiva applicazione del principio di sussidiarietà è, in primo luogo, che si tratti
di attività in un ambito non di esclusiva competenza della Comunità. In questo modo, il Trattato
introduce un concetto di competenza inesistente nelle anteriori versioni del diritto comunitario
originario, che neanche il Trattato di Amsterdam definisce.
Ad ogni modo, anche se la Corte di Giustizia ha riconosciuto come esclusive determinate
competenze della Comunità, ad esempio la competenza per la politica commerciale, la fissazione
delle tariffe e del diritto materiale delle dogane, così come i ricorsi per la pesca (EuGH, Slg. 1975,
1355; Slg. 1970, 69; Slg. 1976, 1279), risulta tuttavia problematico stabilire quali materie o ambiti
ricadano all'interno delle competenze esclusive della Comunità, e bisognerà interpretarlo a partire
dai compiti e dagli ambiti politici di azione.
Innanzitutto, Lòpez pina ricorda che il concetto di competenza non esclusiva non è univoco nel
diritto comunitario; tanto più non è pacifico quando si tratti della delimitazione oggettiva delle
materie. Ben possono le politiche comuni in materia agricola, di circolazione, di libera concorrenza
e commerciale essere considerate come competenze esclusive; e tuttavia, nella pratica quotidiana si
ricorre al principio di sussidiarietà.
Nel caso della politica di libera concorrenza solo a partire da determinate grandezze la Comunità
esercita i suoi poteri, mentre per quanto concerne la politica commerciale, la Comunità si basa su
determinati accordi con gli Stati membri.
Lòpez Pina osserva quindi che specialmente nella realizzazione del mercato interno, che avviene
attraverso l'armonizzazione giuridica – essendo, questo, il principale motivo delle regolamentazioni
comunitarie -, il principio di sussidiarietà risulta poco efficace. In questo caso, infatti, non ha tanto
importanza se, in base all'art. 18 TCE (Trattato di Amsterdam; 8A TCE Trattato di Maastricht), la
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competenza per il mercato interno è una competenza esclusiva e se, contemporaneamente, serve per
la armonizzazione giuridica di cui all'art. 95 TCE (art. 100 A TCE versione di Maastricht), che per
sua natura può solamente avere luogo sul piano comunitario. In realtà questo si spiega con il fatto
che solo eliminando le differenze tra gli ordinamenti giuridici nazionali si possono raggiungere i fini
del mercato interno. In parte, si promuove l'armonizzazione delle regolamentazioni nazionali per
timore che gli altri Stati - la gente pensa alla Germania - mantengano le proprie regolazioni
nazionali per difendersi di fronte alla concorrenza. Questo, per esempio, è alla base dell'attacco
britannico contro le autorità tedesche di supervisione delle compagnie di assicurazioni (Everling,
1997).
In secondo luogo Lòpez Pina sottolinea che l'art. 5 TCE definisce finalisticamente il principio di
sussidiarietà. Decisivo è se al livello degli Stati membri si possono realizzare i presupposti per
raggiungere i fini della misura concreta; altrimenti, si tratta di vedere se gli obiettivi dell'azione in
questione si possano ottenere meglio a livello comunitario in ragione della dimensione o degli
effetti dell' azione contemplata.
Passando all’ultimo punto di questa prima parte della relazione introduttiva, Lòpez Pina sottolinea
che il principio di sussidiarietà non opera solamente per "sbloccare" a favore della Comunità
materie rientranti nell' esercizio concorrente della potestà normativa. Opera anche riguardo alla
scelta dei mezzi, ovvero degli strumenti dell'azione previsti dall'art. 249 TCE. Caratterizzare la
direttiva come un tipico strumento per l'esercizio del principio di sussidiarietà (vd. Kommission in
Mitteilungen an den Rat und an das Europaische Parlament vom 27.10. 1991) è affermazione tanto
corretta quanto incompleta. La direttiva che obbliga lo Stato membro destinatario riguardo al
risultato da raggiungere, e che però, d'altra parte, lascia alle autorità nazionali la scelta della forma e
dei mezzi (art. 249 TCE), è, rispetto al regolamento (art. 249 TCE), una figura giuridica con la quale
se, da un lato, si può imporre il raggiungimento del fine; dall'altro lato si fa sì che l' azione della
Comunità non vada oltre quello che sul piano comunitario è necessario fare per ottenere tale fine.
Al momento di adottare una misura per il raggiungimento di un fine, nel caso in cui ci sia da
decidere se raggiungerlo attraverso regolamento o attraverso direttiva, il principio di sussidiarietà
opererà sfavorevolmente rispetto al ricorso al regolamento.
A ogni modo Lòpez Pina osserva che non si deve ridurre il principio di sussidiarietà alla relazione
tra il regolamento e la direttiva. Il principio di sussidiarietà opera per tutte le azioni nelle quali
interviene la comunità; quindi il principio di sussidiarietà obbliga a gerarchizzare in senso contrario
la relazione tra le misure previste all' art. 249 TCE ( in tale direzione procedevano le conclusioni sul
principio di sussidiarietà del Consiglio Europeo di Edinburgo, del 12.12.1992). Questo significa che
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se è sufficiente una direttiva, non c'è la competenza per ricorrere al regolamento; quando basta una
decisione, non c'è la competenza per adottare una direttiva; quando è sufficiente una
raccomandazione, non c' è competenza per una decisione; se infine è possibile ridursi a un parere,
non c' è posto per una raccomandazione.
Dal principio delle competenze limitate posto in relazione con il senso e la finalità del principio di
sussidiarietà, discende un diritto di preferenza degli Stati membri di fronte ad azioni della
Comunità. L'onere delle motivazioni e della prova che sussistano le condizioni per una azione
sussidiaria dell'organo comunitario (art. 5 TCE) sono in capo all'organo comunitario che vuole far
uso di una competenza concorrente (Commissione nella sua comunicazione al Consiglio e al
Parlamento Europeo, del 27.X.1992). Bleckmann è arrivato a sostenere l'esistenza di una
presunzione di competenze nell'esercizio di competenze concorrenti a favore degli Stati membri.
Secondo Kirchhof, la combinazione del principio di sussidiarietà con il principio delle competenze
limitate fa in modo che le tendenze centralizzatrici a favore della Comunità si invertano in senso
opposto.
Con queste considerazioni Lòpez Pina affronta la seconda parte della sua relazione soffermandosi
sulla rilevanza costituzionale del principio di sussidiarietà, visto che il Trattato di Maastricht ha
posto il principio di sussidiarietà come architrave per il successivo sviluppo della "casa europea".
Esso, in aggiunta, ha valore di principio costituzionale per l' esercizio delle competenze trasferite: in
questo modo la Comunità si vide arricchita di un elemento strutturale di natura federale.
Certamente, la Comunità Europea o l' Unione Europea non sono uno Stato; e nessuno si azzarderà a
pronunciarsi sul fatto se gli Stati Uniti d'Europa saranno la conclusione del processo di integrazione.
In ogni caso, la Comunità Europea è una federazione sovranazionale (von Bogdandy, 1999), non
riducibile ancora per molto a una mera alleanza internazionale di Stati.
Quando si vuole che alcuni Stati si compongano in una unità superiore, ovvero, dal basso verso
l'alto, e si conferiscono a tale unità sovranazionale competenze sovrane, in particolare competenze
per l'esercizio autonomo, immediato e diretto dalla potestà normativa, generalmente vigono per tale
delegazione due elementi giuridico-costituzionali: il principio dell'attribuzione definita delle
competenze (principio delle competenze limitate), che vieta specialmente di inferire competenze a
partire dalla esistenza di fini o compiti, ed il principio di sussidiarietà. Quest'ultimo serve
all'esercizio di competenze normative concorrenti.
A tal proposito Lòpez Pina ricorda che la Costituzione spagnola abilita al trasferimento di tali
competenze: "Mediante legge organica si potrà autorizzare la stipulazione di trattati con cui si
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attribuisca a un' organizzazione o istituzione internazionale l'esercizio di competenze derivate dalla
Costituzione" ( art. 93).
Senza ulteriori precisazioni, l'esercizio di competenze concorrenti da parte di organi comunitari in
base al principio di sussidiarietà ha senza dubbio rilevanza costituzionale. Tanto più che fino ad ora
il Tribunale Costituzionale, il legislatore e la dottrina spagnola non si sono espressi sul punto.
All'estremo opposto del caso spagnolo quanto a consapevolezza della problematica, Lòpez Pina cita
il caso della Germania, che considera un interesse proprio il principio di sussidiarietà: il concorso
della Germania all'Unione Europea è vincolato, dall' art. 23.1 GG, a che l'Europa unita acquisisca il
principio di sussidiarietà. In questo senso, il trasferimento di competenze all'Unione Europea viene
condizionato costituzionalmente dall'esistenza di determinati elementi di base, tra i quali si trova il
principio di sussidiarietà. Ne consegue che, da parte tedesca, si impedisce qualsiasi intento di
ridurre l'efficacia pratica del principio di sussidiarietà, sia mediante un' interpretazione estensiva
delle competenze esclusive della Comunità, sia attraverso un' interpretazione restrittiva della sua
giustiziabilità.
Quest’ultima riflessione porta Lòpez Pina ad analizzare la tematica della giustiziabilità di una
azione comunitaria sussidiaria, tenuto conto che l'art. 5 TCE non ha solo il carattere di un proclama
politico, poiché è allo stesso tempo una norma giuridica del Trattato; pertanto è sottomesso al
giudizio della Corte di Giustizia delle Comunità, in base all'art. 220 TCE.
Questo è il punto di partenza del Bundesverfassungsgericht nella sentenza sul Trattato di
Maastricht; infatti il Tribunale federale costituzionale tedesco afferma che la Corte di Giustizia deve
vigilare perché si applichi il principio di sussidiarietà, ma dice anche che la giurisprudenza della
Corte di Giustizia è vincolata dal principio di sussidiarietà. Con tali affermazioni, il
Bundesverfassungsgericht non vuole solo sottolineare la giustiziabilità giuridico-comunitaria del
principio di sussidiarietà; esse evidenziano inoltre che l’assolvimento di tale compito da parte della
Corte di Giustizia ha rilevanza costituzionale. Diventa perciò molto difficile rispondere alla
questione di quali siano i margini del sindacato giudiziale del principio di sussidiarietà. Senza
dubbio, la questione preliminare sulla natura della competenza è esaminabile giudizialmente.
Bisogna anche esaminare giudizialmente se la motivazione della misura in questione soddisfa le
esigenze dell'art. 253 TCE. Questa norma contiene una clausola formale essenziale (criterio di
conformità formale al diritto), e serve alla trasparenza e al controllo degli atti giuridici comunitari.
Tale obbligo di motivazione vale allo stesso modo nel caso di competenze concorrenti, nelle
circostanze in cui l'organo comunitario che interviene pretende si diano i presupposti per una azione
sussidiaria. In questo contesto, la Corte di Giustizia potrebbe chiedersi se i criteri di valutazione e di
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motivazione della Commissione (esame comparato di efficienza) soddisfano la triplice condizione
posta dall' art. 5 TCE.
Lòpez Pina sottolinea che il problema centrale sta nella verifica materiale, concreta, del fatto che il
fine della misura da adottare non possa essere raggiunto sufficientemente dagli Stati membri e che,
di conseguenza, possa essere raggiunto meglio da un'azione comunitaria. Qui ci troviamo dinanzi a
concetti giuridici indeterminati, pur se il Consiglio Europeo (Impostazione generale del Consiglio
europeo di Edinburgo sull'applicazione del principio disussidiarietà, 12.12.1992 ) ha cercato di
concretizzarli.
La decisione sul fatto se sussistano le caratteristiche dei presupposti di fatto dell' art. 5 TCE, e
sull’eventualità che la Comunità sia chiamata ad intervenire, esige una valutazione di dati e
circostanze di speciale complessità, di natura politica, aperti alla discrezionalità oggettiva e politica
di coloro che decidono (Hirsch, 1996).
Lo stabilire se e in che misura gli obiettivi dell'azione non possano essere raggiunti in maniera
sufficiente dagli Stati membri ( art. 5 TC) richiede una valutazione politica, i cui contenuti potranno
sempre essere diversi. Questo accade anche con la questione relativa al “se” e “fino a che punto” si
possano raggiungere meglio tali obiettivi a livello comunitario, in ragione della dimensione o degli
effetti dell'azione contemplata, (art. 5 TCE): a tal proposito Lòpez Pina osserva che bisognerà
giudicare secondo criteri politici, per i quali è difficile trovare parametri oggettivi.
L’aspetto sul quale il relatore invita a riflettere è che sicuramente tali valutazioni varieranno tra i
diversi Stati membri: infatti, presumibilmente alcuni di loro sono più “capaci” in certi ambiti, e
rispetto a determinate materie sono in grado di adottare le misure necessarie; altri Stati, invece, no.
In particolare, la capacità di azione è diversa a seconda che si tratti di Stati grandi o piccoli, o di
Stati finanziariamente forti o deboli. E così accade che agli Stati membri con maggiori capacità di
intervento è vietato invocare il principio di sussidiarietà, poichè altri Stati membri sono privi di tale
capacità. Questo non risulta tanto dal testo dell'art. 5 TCE, quanto dalla solidarietà comunitaria, che
in maniera simile alla lealtà comunitaria è un principio cardine della Comunità.
Da quanto finora esposto sulla natura del principio di sussidiarietà, Lòpez Pina ne fa conseguire la
necessità di riconoscere agli organi comunitari una ampia discrezionalità nel suo apprezzamento.
Tale discrezionalità del legislatore comunitario, concerne la tanto discussa questione della
giustiziabilità. Al momento di esaminare gli atti giuridici, la Corte di Giustizia dovrà tenere conto
del rispetto del principio di sussidiarietà, però potrà solo sindacare una violazione dei limiti della
discrezionalità.
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Generalmente, la Corte di Giustizia ha evitato di sostituire con il suo giudizio la discrezionalità
degli organi; e non dovrà neanche farlo quando si applicherà il principio di sussidiarietà. In questo
senso, la Corte di Giustizia segue la tradizione degli ordinamenti giuridici dei paesi latini; tuttavia,
anche il Bundesverfassungsgericht riconosce discrezionalità al legislatore quando non interviene sui
diritti fondamentali.
Analogamente al principio di proporzionalità, il principio di sussidiarietà esige una ponderazione
delle misure da adottare, e richiede che la regolamentazione della Comunità non vada oltre la
misura necessaria al raggiungimento dei fini del Trattato (Everling, 1997).
Esiste un ulteriore problema, sottolinea Lòpez Pina, associato alla natura finalistica del diritto
comunitario: considerata l'ampiezza, nella descrizione del Trattato, dei fini da perseguire,
l'orientamento finalistico delle competenze comunitarie porta per principio ad una interpretazione
estensiva. Non bisogna andare così lontano per inferire competenze a partire dall'enunciazione dei
compiti: per restrittiva che sia una norma sulla competenza, la sua connessione a un fine o a compiti
di ampia portata comporta una interpretazione estensiva. Per di più, l'orientamento finalistico fa si
che la questione della competenza dipenda dalla valutazione sul fatto se la misura in questione
favorisca l'obiettivo finale, ovvero se tale misura sia necessaria per il raggiungimento del fine. In
ogni caso, si concede al legislatore comunitario un margine considerevole di discrezionalità. Questo
conduce tendenzialmente, da un lato, a un ampliamento delle competenze comunitarie, dall' altro,
alla non giustiziabilità dell'atto (Jarass, 1996).
Su questi profili, secondo Lòpez Pina risulta interessante l'esperienza tedesca: l'art. 72.2 GG fu
concepito come limite a una legislazione federale eccessiva in ambiti di competenze concorrenti.
Ebbene, proprio ricorrendo alla giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht, la clausola di
necessità dell' art. 72.2 GG non ha mai potuto dispiegare tale funzione “protettrice”. La necessità di
una regolazione legislativa federale fu interpretata come necessità di regolazione giuridica
(attraverso il diritto) federale; dall'altra parte, rispetto alla obbligata discrezionalità del legislatore
(ovvero, della istanza che dovrebbe limitare tale precetto), il Tribunale dichiarò che essa per natura
non è giustiziabile, rimanendo di conseguenza sottratta all'esame del Bundesverfassungsgericht.
Perciò agli occhi di Lòpez Pina l'efficacia pratica del principio di sussidiarietà dipenderà molto
dall’eventualità o meno di poter sottomettere al controllo giudiziale l'esercizio di competenze
attribuite in base a tale principio. La maggior parte degli studiosi ne dubita; soprattutto in
considerazione del fatto che il giudizio sul se un argomento può essere affrontato sufficientemente
dagli Stati membri o meglio sul piano comunitario, può essere rimesso dalla Corte di Giustizia - a
giudicare dalla giurisprudenza finora resa - alla discrezionalità degli organi politici.
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Altro aspetto sul quale Lòpez Pina si sofferma è quello della relazione tra diritto comunitario e
diritto costituzionale, e quindi tra la Corte di Giustizia delle Comunità e i Tribunali costituzionali
dei singoli Stati membri: infatti non si deve escludere l’ipotesi che l'esercizio di competenze
concorrenti per gli organi comunitari dia luogo a interpretazioni diverse del principio di
sussidiarietà tra la Corte di Giustizia e il Tribunale costituzionale di uno Stato membro, ad esempio
il Bundesverfassungsgericht.
Alla constatazione che, in base all' art. 220 TCE, la Corte di Giustizia deve vigilare sul rispetto del
principio di sussidiarietà - ovvero, sui limiti dell'esercizio delle competenze riconosciute dal
Trattato -, la sentenza tedesca oppone l’affermazione secondo la quale compete al
Bundesverfassungsgericht esaminare se gli organi comunitari si sono attenuti al rispetto dei limiti
delle competenze che sono state loro trasferite. Rimane dunque aperta la questione relativa a quale
soggetto sia chiamato a constatare con forza vincolante se un atto giuridico della Comunità europea
trasgredisce le competenze trasferite dal Trattato: la Corte di Giustizia, il Bundesverfassungsgericht
o anche qualsiasi organo statale tedesco?
Partendo dalla prospettiva tedesca, Lòpez Pina osserva che difficilmente si potrà sopravvalutare la
rilevanza costituzionale del principio di sussidiarietà. Se ci atteniamo alla logica del MaastrichtUrteil, l’esercizio di competenze comunitarie sulla base di un’applicazione non stringente dell'art. 5
TCE, avrebbe le stesse conseguenze dell'autoassunzione delle competenze non trasferite. Tali atti
giuridici - secondo il Bundesverfassungsgericht - non risulterebbero vincolanti nel territorio sovrano
tedesco; di conseguenza, per ragioni costituzionali, ogni autorità tedesca potrebbe non applicarli in
Germania. Per valutare se gli atti giuridici degli organi comunitari ledano il principio di
sussidiarietà, il Bundesverfassungsgericht ha previsto la propria competenza.
Nel particolare Lòpez Pina fa riflettere che, dato un conflitto normativo tra il diritto costituzionale e
il diritto comunitario, se ci domandiamo quale Tribunale possa decidere in forma vincolante su tale
scontro o contraddizione, la logica giuridica risponde che la Corte di Giustizia è chiamata a
constatare la violazione del Trattato, mentre invece spetta al Tribunale Costituzionale dello Stato
membro registrare la violazione della Costituzione. La Corte di Giustizia decide secondo il diritto
comunitario, non in base al diritto costituzionale; i Tribunali Costituzionali giudicano secondo il
proprio diritto costituzionale, non in base al diritto comunitario. Perciò, ipotizzando un atto
giuridico viziato in materia di esercizio di competenze in base al principio di sussidiarietà, esso
dovrebbe essere oggetto di una doppia valutazione: da un lato secondo i corrispondenti parametri
del Trattato e, dall'altro, in base alla legge parlamentare di “ratifica”. Non si dovrebbe escludere che
Corte di Giustizia e Corti costituzionali degli Stati membri arrivino a conclusioni discordanti sul
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punto. In tale caso, secondo Kirchhof, la natura di "comunità di Diritto" dell’Unione Europea
richiede di considerare le diverse pronunce in modo tale da risolvere la contraddizione. Secondo
l'idea dello Staatenverbund, i conflitti tra le norme non si evitano nè si risolvono con lo scontro, la
sovraordinazione e la deroga delle norme, ma attraverso il rispetto reciproco e la cooperazione. Il
parametro giuridico della cooperazione attribuisce alla Corte di Giustizia la competenza ultima per
l’interpretazione del Trattato, e assicura attraverso la Corte di Giustizia una interpretazione e
applicazione del diritto Comunitario unitaria nella misura del possibile. D’altra parte le Corti
costituzionali degli Stati membri hanno la responsabilità del Diritto costituzionale europeo nonché
di vigilare affinché si rispetti il mandato costituzionale di applicazione del diritto.
Secondo Lòpez Pina l’obbligo di cooperare (BVerfGE 89,155,175) dà una risposta innovatrice alla
questione del "controllo sui controllori": sia la Corte di Giustizia che i Tribunali costituzionali
hanno una responsabilità propria circa il buon esito della costruzione della Comunità Europea come
comunità di Diritto. Ciò dà luogo ad un sistema di equilibrio di poteri tra la Corte di Giustizia e i
Tribunali Costituzionali degli Stati membri: dal valore del diritto costituzionale come parametro
ultimo per l'applicazione del diritto comunitario in ogni Stato membro, non è leggittimo inferire il
dominio del Tribunale costituzionale; dalla dipendenza della Comunità Europea dai Trattati non
sarebbe legittimo dedurre la supremazia della Corte di Giustizia (Kirchhof, 1998).
A tal punto Lòpez Pina, ferme restando molte possibilità aperte e questioni irrisolte, prova a
riassumere quanto ha fin qui sostenuto, abbozzando tre tesi come ipotetica conclusione.
Con la prima tesi sottolinea che tutte le competenze sono concorrenti nel loro esercizio, fatta
eccezione per la politica monetaria. Il principio di sussidiarietà ha avuto un'influenza benefica,
malgrado sia una risposta insufficiente nel momento in cui c'è da configurare giuridicamente una
federazione sovranazionale per l'Europa.
Con la seconda tesi si afferma che la giustiziabilità del principio di sussidiarietà dipende dai limiti
alla discrezionalità del legislatore.
La tesi conclusiva ruota intorno al fatto che gli atti giuridici adottati dagli organi comunitari
nell'esercizio di competenze concorrenti secondo il principio di sussidiarietà, sono destinati a essere
giudicati da due sedi in base a diversi parametri giuridici. Concretamente, da un lato, dalla Corte di
Giustizia in base al Trattato; dall'altro, dai tribunali costituzionali degli Stati membri sulla base della
Costituzione e della corrispondente legge parlamentare di ratifica.
Il relatore invita a considerare che se tali conclusioni contengono un messaggio, questo potrebbe
essere: da una parte, una solida costruzione giuridica dell'Europa con la quale si voglia concretizzare
nei Trattati le tradizioni costituzionali comuni ai nostri Stati e, quindi, la nostra idea di Diritto. In
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materia di competenze, non sembra esserci alternativa a una distribuzione per materie obiettive tra
la Comunità e gli Stati membri. Dall'altra parte, non si intravede una soluzione dogmatica nè
giurisdizionale sia alla soluzione del conflitto tra disposizioni normative, sia alla diversità di
interpretazione tra la Corte di Giustizia e i nostri Tribunali costituzionali. Il principio di
cooperazione diviene gradualmente il nuovo paradigma del nostro tempo storico.
Tuttavia, Lòpez Pina consiglia di non drammatizzare sulla situazione attuale; infatti secondo il suo
punto di vista tale situazione implica sia la difesa della nostra idea del Diritto che la preservazione
dei nostri Stati, ultima garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini. Se ciò deve essere interpretato
nel senso che le comuni tradizioni costituzionali ai nostri Stati non ammettono il dominio
economico (Kirchhof, 1998) e la connessa relazione di sottomissione della politica al potere
economico che caratterizza il Trattato di Maastricht e che ispira l'Organizzazione Mondiale del
Commercio, allora il relatore sarebbe l'ultimo a negare tutto ciò.
PAOLO RIDOLA prende spunto dalle considerazioni conclusive di Lòpez Pina nelle quali era
sottolineata la valenza del principio di sussidiarietà quale "nuovo paradigma", a conclusione di in un
quadro estremamente problematico in merito alla sua applicazione nell’ordinamento comunitario. In
proposito ricorda una recente opera del filosofo del diritto Höffe, che prospetta una ricostruzione del
futuro della democrazia nell’epoca della globalizzazione fondata sul principio di sussidiarietà.
Tornando al tema della relazione, quindi all’art. 3B del Trattato della Comunità, osserva che il
dibattito è oscillato tra due prospettive alternative: da un lato la tendenza a ricostruire la
sussidiarietà comunitaria in termini di efficienza dei processi decisionali, come strumento per
individuare il livello più adatto per adottare decisioni, quasi in applicazione del criterio delle
economie di scala. E questa è l’interpretazione del principio di sussidiarietà sostenuta recentemente
da gran parte degli economisti e degli studiosi di economia pubblica. Tuttavia Ridola sostiene che il
principio di sussidiarietà non ha una valenza neutrale rispetto a un sistema di valori, e quindi non
può essere letto soltanto in chiave di efficienza, anche nell’ordinamento comunitario. Lòpez Pina,
riferendosi all'esperienza della BRD, ha ricordato la Neue Fassung dell'art.72 della Legge
fondamentale del 1994: ma proprio in questo caso, il profilo efficientistico della sussidiarietà è stato
notevolmente ridimensionato con il richiamo alle condizioni di vita equivalenti e alla clausola della
necessarietà. Ridola sottolinea che nell’art. 3B è contenuto non solo il riferimento al livello più
adeguato rispetto al quale certe decisioni possono essere meglio assunte, ma anche al principio della
necessarietà dell’intervento comunitario: ciò anche perché il principio di sussidiarietà si inserisce
nella cornice dell’art. A del Trattato sull’Unione, e quindi è considerato come strumento di una
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democrazia vicina ai cittadini. Appare poi particolarmente significativo che, nel Protocollo sulla
sussidiarietà e sulla proporzionalità annesso al Trattato di Amsterdam, il principio stesso viene
concepito come criterio di salvaguardia dei livelli di governo inferiori, anche a livello infrastatuale,
con un riferimento importante ai sistemi autonomistici presenti all'interno degli Stati. Ridola
condivide tuttavia la cautela di Lòpez Pina nei confronti delle incognite che presenta il panorama
della sussidiarietà, e che derivano in primo luogo dalle incertezze sulla giustiziabilità del principio
di sussidiarietà. D’altra parte la flessibilità rappresenta anche la risorsa del principio stesso, che è il
motore di integrazione piuttosto che di allocazione di competenze tra enti, tra gli Stati e l'Unione. A
tal punto Ridola richiama l’attenzione su un’altra incognita di notevole rilievo che si collega al
rapporto fra principio di sussidiarietà e deficit democratico dell’Unione Europea; a questo
proposito, egli considera prematuro affermare sia che il principio di sussidiarietà sarà uno strumento
di potenziamento delle tendenze centralistiche e burocratiche dell’Unione, sia che svolgerà una
funzione di allargamento della partecipazione democratica in ambito comunitario. Conclude
osservando che il nodo che si dovrà affrontare in futuro è quello della procedimentalizzazione del
principio di sussidiarietà; Lòpez Pina ricordava nella sua relazione introduttiva le incognite che
presenta una sussidiarietà interamente affidata al ruolo delle Corti e Ridola sottolinea i limiti di una
soluzione di questo tipo. Quindi appare opportuno ripensare ad una procedimentalizzazione del
principio di sussidiarietà: muovendo dalla premessa che il procedimento non è solo, secondo
l'interpretazione di Luhmann, strumento di riduzione della complessità, ma anche, secondo la
prospettiva habermasiana, strumento di espansione della comunicazione pubblica, e quindi di
costruzione di una Europäische Öffentlichkeit. Per concludere, sembra che le incognite sulla
sussidiarietà possono essere riassunte intorno a due alternative: il principio di sussidiarietà come
strumento di un assetto fondato su relazioni centralizzate e gerarchizzate ovvero come strumento di
un processo politico articolato su più livelli; in ogni caso l’attenzione si concentrerà in futuro sul
problema della procedimentalizzazione.
ANTONELLO D’ATENA si sofferma sul profilo giuridicamente più rilevante della questione
emerso sia dalla introduzione di Lòpez Pina che dalle considerazioni di Ridola: quello della
giustiziabilità del principio di sussidiarietà. A tal proposito osserva che partendo dal punto di vista
della non giustiziabiltà si giunge alla conclusione che tale principio è regolato esclusivamente dai
rapporti di forza delle istituzioni politiche, viceversa se si riconosce che il principio di sussidiarietà
sia giustiziabile, questo stesso principio assume una valenza giuridica. Come ha opportunamente
sottolineato Lòpez Pina, è da considerare che allo stato attuale il sindacato giurisdizionale si può
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ricollegare principalmente a due elementi: in primo luogo alla natura della competenza, in quanto il
principio di sussidiarietà non opera per quelle competenze che il Trattato qualifica come esclusive e
in secondo luogo alla motivazione degli atti. La prima strada può essere definita non ‘conducente’,
infatti, esclusa la materia monetaria tutte le competenze comunitarie sono concorrenti e ciò
comporta una obiettiva difficoltà nella costruzione di una figura della competenza esclusiva
comunitaria dal punto di vista sistematico. In merito si è sviluppato un dibattito per la integrazione
del Trattato e sui criteri per l’individuazione delle competenze a carattere esclusivo, seguendo una
divisione per materia e non per funzione in modo da giustificare qualsiasi intervento. Per quanto
riguarda l’altra strada, quella della motivazione dell’atto, che a D’Atena sembra più produttiva, la
Corte di giustizia non formula indicazioni incoraggianti, altresì riconosce che la motivazione del
principio di sussidiarietà non è necessaria negli atti comunitari e si preclude così lo strumento di
maggiore intervento. D’Atena è d’accordo con Ridola nell’affermare che la strada maestra da
percorrere è quella della procedimentalizzazione, in quanto questa può favorire la composizione dei
conflitti di interesse e il raggiungimento di accordi; si consideri che il principio di sussidiarietà
interviene solamente nel caso di un mancato accordo e non nel caso si raggiunga l’unanimità.
D’altra parte la procedimentalizzazione consente l’emergere di elementi di giudizio che rendono
meno arbitraria la valutazione della Corte di giustizia e il riferimento al testo dell’articolo del
Trattato apre spazi di valutazione creando un self-restraint nel giudice, che non vuole avventurarsi
nel terreno del politico. E’ interessante osservare che la Comunità si è andata orientando verso la
procedimentalizzazione a partire dal Consiglio Europeo di Edimburgo del 1992, passando per
l’accordo interistituzionale, giungendo infine al Protocollo allegato al Trattato di Amsterdam. In
questa fase sono state elaborate delle modalità procedimentali di straordinario interesse: per
esempio nel Protocollo di Amsterdam viene specificato che il procedimento deve arrivare a
motivazioni, non solo quantitative, ma anche qualitative della valutazione e si è affermata la
necessità di dimostrare il valore aggiunto degli interventi comunitari, nonché di compiere un’analisi
dei costi; inoltre, si è andata affermando nella prassi degli uffici un’istruttoria notevolmente
articolata in sette punti. L’emergere di tali elementi può fornire una trama per un giudizio alla Corte
di giustizia, quindi, appare opportuno che la Corte prenda in considerazione l’esistenza di qualcosa
di diverso dal generico parametro del Trattato, come ad esempio la motivazione o il procedimento.
A proposito del procedimento, è da considerare che la fase delle consultazioni è lasciata
completamente alla discrezione della Commissione, viceversa si stabilisce l’obbligatorietà di
indicare i soggetti da consultare in relazione alle materie, così anche quella di stabilire un termine
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per la presentazione delle osservazioni, in modo da dar vita ad un contraddittorio nella fase
ascendente dell’atto che consenta un riscontro alla Corte di giustizia.
ANDREA MANZELLA osserva in primo luogo che nella introduzione di Lòpez Pina viene
posta giustamente una pietra tombale sull’idea di un catalogo di competenze materiali dell’Unione
Europea e ritiene al tempo stesso che il modello di Stato federale o di Stati Uniti d’Europa non si
addica all’Unione Europa, in quanto questa appare più che altro un’unione di ordinamenti, resa
plastica e visibile da un insieme di obiettivi che si caratterizzano per la loro generalità. Si pensi
all’art. 2 dell’Unione in cui si stabilisce che sia l’Unione che gli Stati sono enti a competenza
generale; l’inutilità del catalogo delle competenze deriva dalla sua scarsa rispondenza alla realtà
dell’attuale costruzione europea e dal fatto che si è dimostrata un’inutile forzatura il voler ricavare
delle competenze esclusive da quelle generali previste dai Trattati. Nelle ventidue materie indicate
nei Trattati della Comunità sono incluse delle competenze procedurali e una articolata distribuzione
di compiti tra l’Unione e gli Stati, che va dalle mere raccomandazioni in campo culturale alla
materia monetaria. A tal proposito Manzella non concorda con Lòpez Pina e ritiene che non si possa
individuare una competenza esclusiva neanche in materia monetaria, in quanto questa riguarda
anche la fissazione del cambio e la vigilanza bancaria, funzioni che, come è noto, non competono
alla Banca Centrale Europea, nonché il back-ground, definito come governo economico: Padoa
Schioppa ha denunciato, in merito, la solitudine della Banca Centrale Europea rispetto alla Banca
Centrale degli Stati Uniti o a quella del Giappone. Muovendo da tali presupposti Manzella giunge
alla conclusione che le competenze dell’Unione sono tutte concorrenti compresa quella monetaria.
A proposito del principio di sussidiarietà, come ha evidenziato Ridola, sottolinea che questo funge
più da motore di integrazione che da principio di allocazione. Come è stato riconosciuto nel Trattato
di Maastricht e in quello di Amsterdam, nel cui protocollo sono state chiarite molte questioni in
merito al principio di sussidiarietà e in particolare ne è stata riaffermata la bilateralità: nel
Protocollo viene specificato che la sussidiarietà ha come fine ultimo - ricorrendo determinati
presupposti - quello di ‘prendere’ competenze procedurali dell’Unione che non sono solamente
quelle del art. 3B; vi sono limiti ulteriori come i diritti consolidati degli stati, il rispetto di tradizioni
peculiari. D’altra parte, la bilateralità del principio di sussidiarietà, che si realizza verso l’alto e
verso il basso, e la mancanza di competenze esclusive dell’Unione pongono l’accento su due
questioni fondamentali che sono l’importanza del procedimento e l’interrogativo relativo a quali
siano i soggetti legittimati a vigilare sul principio stesso. Attualmente si riscontrano delle forme di
controllo affidate da un lato alla Commissione, che ogni anno formula un rapporto sull’Unione e
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dall’altro al Parlamento europeo, il quale in una clausola prevede che avvengano controlli preventivi
prima di giungere a decisioni conclusive. Quindi, esiste una gamma variegata di clausole di
vigilanza, di forme di attenzione al principio di sussidiarietà e soprattutto di impulso alla
motivazione sia da parte della Commissione che da parte del Parlamento, che forniscono materiale
motivazionale alla Corte di giustizia. Manzella pone in evidenza che in merito alla Corte di
Giustizia vi è una suggestione di notevole interesse del Prof. Tesauro, attuale presidente
dell’Autorità indipendente antitrust, il quale ritiene che la Corte può adottare per il principio di
sussidiarietà i medesimi parametri che venivano utilizzati per il vecchio art. 235. Per concludere
ribadisce l’opportunità che la procedimentalizzazione e la vigilanza sul principio di sussidiarietà
rimangano in un ambito europeo, affidati ad organi dell’Unione Europea; viceversa agli stati
nazionali e alle singole Corti costituzionali spetta il controllo sulla valenza del principio così come è
stato recepito nei diversi ordinamenti nazionali
GAETANO AZZARITI, ricollegandosi alle considerazioni di Ridola e di D’Atena, manifesta
alcune perplessità nei confronti dell’idea che considera la procedimentalizzazione quale unico
strumento adatto a risolvere il problema della giustiziabilità del principio di sussidiarietà. Luhmann,
ha giustamente osservato Ridola, era convinto che il procedimento rappresentasse lo strumento
legittimo per ridurre la complessità sociale, questa interpretazione non è condivisibile, poiché, come
ricordava Habermas, tale concezione comporta l’esclusione dei soggetti sociali, della dinamica
politica, della complessità delle società pluraliste, che invece devono essere considerate e che si
pongono a fondamento della vitalità delle nostre democrazie. Gli attuali dibattiti dei giuristi sul
principio di sussidiarietà risultano avere, in fondo, una certa assonanza con il confronto che ebbe
luogo tra Luhmann e Habermas: anche per il principio di sussidiarietà si tratta di valutare se esso
può essere preso in considerazione esclusivamente sotto l’aspetto tecnico-procedimentale.
Probabilmente seguendo la prospettiva di Habermas, non solo si dovrebbe affermare che il principio
di sussidiarietà non può essere concepito solo nell’ottica della procedimentalizzazione (il che appare
ad Azzariti corretto), ma anche che esso non è giustiziabile. Quest’ultima conclusione sarebbe però
eccessiva, poiché sottende l’idea che la sussidiarietà sia l’espressione di un dato puramente politico
o genericamente culturale, e ciò non è vero. La difficoltà di rendere giustiziabile il principio di
sussidiarietà nasce invece dall’essere un principio ancora slegato da solidi e riconosciuti principi
costituzionali europei. In proposito può essere utile richiamare la storica discussione sulle norme
programmatiche della nostra Carta costituzionale, che si è ormai definitivamente conclusa, essendo
oggi tutte le norme costituzionali giustiziabili di fronte alla Corte costituzionale; ma – è da
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osservare - la giustiziabiltà delle norme programmatiche è stata resa possibile dal loro legame con i
principi costituzionali e dalla loro collocazione nel testo costituzionale. Non può dirsi altrettanto per
il principio di sussidiarietà, che rischia invece di rimanere un “valore” isolato e vuoto (“assoluto e
tirannico”) nel contesto dell’ordinamento europeo. Né, d’altronde, appare convincente ritenere che
il principio guida della procedimentalizzazione sia quello dell’efficienza. In proposito, riprendendo
gli spunti conclusivi di Lòpez Pina, Azzariti non nasconde il suo timore nei confronti
dell’interpretazione che assume la sussidiarietà come strumento per garantire l’efficienza
dell’organizzazione comunitaria; in pieno accordo con Lòpez Pina, Azzariti ritiene invece che, in
primo luogo, appare opportuno tutelare i diritti fondamentali dei cittadini europei (e, più in generale,
dell’uomo), diritti che non si pongono in opposizione al principio dell’efficienza, ma che non
possono neppure ridursi entro quest’ultimo principio. Perciò, concludendo, Azzariti ribadisce la
necessità di far prevalere i principi espressi nelle Carte costituzionali degli Stati europei – oltre che
nelle dichiarazioni europee ed ormai richiamati anche dai Trattati - e relativi ai diritti dell’uomo, al
di là del principio di efficienza: ai primi e non al secondo il principio di sussidiarietà deve
sottostare.
ANTONIO LÒPEZ PINA sottolinea che nei puntuali e interessanti interventi si riscontra un
denominatore comune: il considerare il principio di sussidiarietà sia dal punto di vista giuridico che
dal punto di vista politico. Volendo soffermarsi soltanto sul problema giuridico e
sull’individuazione degli elementi che contribuiscono alla giustiziabilità del principio, a Lòpez Pina
sembrano siano orientate in questo senso anche le diverse considerazioni espresse da D’Atena sulla
questione della motivazione e del contraddittorio, da Manzella sulla riforma del Trattato in favore
di una distribuzione di competenze per materie, e da Ridola e Azzariti sulla questione della
procedimentalizzazione. Lòpez Pina, riprendendo l’ultima osservazione di Azzariti in merito al
principio di efficienza, sottolinea che tale principio non è sufficiente, ma è piuttosto da considerarsi
complementare, in quanto alla base dell’Unione vi sono i valori e i principi fondanti, nonché i diritti
fondamentali; e i valori dell’economia privata quali l’efficienza, l’operatività, la funzionalità, che
esistono di fatto, non possono fungere da parametri esclusivi di giudizio per il diritto. Il nodo della
questione si trova nel rapporto tra Corte di Giustizia e Corti nazionali che raramente viene definito
in modo puntuale; solamente il Tribunale Costituzionale federale tedesco ha fatto riferimento ad un
criterio teorico come il principio di cooperazione, evidenziando che vi deve essere comunicazione
fra le due Corti, anche se il Tribunale Costituzionale tedesco fino ad oggi si è mostrato restio a
sollevare questioni di costituzionalità presso la Corte di Giustizia nella convinzione che il
riferimento ultimo della stessa Corte tedesca sia la Legge fondamentale e non il diritto comunitario,
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principio condiviso anche da Lòpez Pina. Appare evidente la necessità di superare questa difficoltà
strutturale. Lòpez Pina riferisce che è stato ospite il mese scorso presso il Tribunale Costituzionale
federale tedesco e ha potuto constatare che i giudici e la dottrina, nonostante le divergenze, per la
maggioranza sono legati alla sentenza di Maastricht: ciò significa che riconoscono l’esistenza di due
sedi per la risoluzione dei contrasti fra norme, non individuando una soluzione né dogmatica né
giurisdizionale per i conflitti. La scelta adottata dal Tribunale Costituzionale federale tedesco appare
una soluzione radicale; in proposito Lòpez Pina ha proposto ad alcuni giudici tedeschi - si tenga
presente che questa è la prima volta che ne fa dichiarazione in pubblico - di introdurre un sistema
alternativo per sollevare le questioni di legittimità: l’idea è che sia la Corte di Giustizia ad avere
l’iniziativa per la questione pregiudiziale, andando ad interpellare le Corti nazionali e chiamandole a
dibattere su eventuali conflitti, e non l’inverso. Anche se i colloqui su questa nuova soluzione si
sono svolti in modo informale, sembra esservi una disposizione favorevole di alcuni giudici. Per
concludere questa è solamente una possibilità di risolvere il dualismo e i conflitti fra le Corti, ma
attualmente è un ipotesi che va sviluppata.
ANNA MOSCARINI invita Lòpez Pina a riflettere sul fatto se il principio di sussidiarietà sia
effettivamente riconducibile al criterio della competenza, nel senso che possa essere inteso come
una specificazione del criterio di competenza. Riguardo a tale impostazione Moscarini ritiene di
avanzare qualche dubbio, infatti osserva che l’idea di sussidiarietà implica la possibilità di
sostituzione tra fonti diverse tutte competenti all’adozione dell’atto, perciò non essendoci
competenze riservate, secondo quanto sostenuto anche da Crisafulli, si è fuori del concorso
vincolato tra fonti e si è invece nell’ambito del concorso libero tra fonti, dove il principio di
competenza non può essere assunto come misura di validità dell’atto, il che apre automaticamente la
strada alla operatività del principio di gerarchia tra le fonti. Alla luce di questa ricostruzione
Moscarini considera che per interpretare il principio di sussidiarietà, sia dal punto di vista del
rispetto del Trattato sia dal punto di vista costituzionale interno, sarà probabilmente necessario fare
ricorso ad una qualche idea di gerarchia tra le fonti, e non a ritenere, come comunemente si fa, che
sussidiarietà significhi semplicemente attribuzione di competenze.
Salvatore Alberto ROMANO riallacciandosi alla questione posta nel precedente intervento
rileva come effettivamente il principio di sussidiarietà possa essere inteso come un mezzo per creare
una gerarchia delle competenze di ciascuna Autorità in un’area nella quale le competenze
reciproche sono indefinite, per cui non si può parlare veramente di competenza spettante a ciascun
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potere, poiché risultano tutti tra loro concorrenti. In altre parole: il principio di sussidiarietà non
serve per risolvere gli eventuali conflitti all’interno dell’ordinamento secondo la gerarchia creata dal
criterio di “sussidiarietà”?
Tornando al discorso sulla giustiziabilità o meno del principio di sussidiarietà, e della
presunta decisiva rilevanza di tale problema in quanto soltanto la giustiziabilità del principio di
sussidiarietà sarebbe in grado di rendere effettivo il principio stesso consentendo di risolvere in base
ad esso i conflitti tra Stato e Comunità, Romano ritiene che si debba prendere atto che i conflitti non
possono che risolversi in base al peso politico del singolo Stato, essendo inevitabile che la posizione
assunta dal singolo Stato di forte peso politico, risultando maggiore rispetto agli altri, gli permette di
prevalere anche rispetto alla Corte di giustizia, quale che sia la tesi giuridica in tema di
giustiziabilità del principio di sussidiarietà. Alla luce di tutto ciò è evidente che il problema della
giustiziabilità diventa meramente secondario; mentre per Romano - che tiene a precisare il suo non
essere un costituzionalista ma di parlare come amministrativista – viene ad assumere rilevanza
decisiva l’esistenza stessa del principio di sussidiarietà, l’applicazione del quale permette di essere
molto flessibili nel giudicare le diverse situazioni, tenendo in considerazione tutte le peculiarità del
singolo caso e non generando mai situazioni limite che possano portare alla rottura del processo di
integrazione. Perciò il principio di sussidiarietà, a seconda dei momenti e delle materie, può essere
interpretato (di fatto) politicamente nel senso di favorire gli Stati membri, ovvero viceversa, nel
senso di ampliare la competenza europea, a vantaggio della Comunità. In questo senso la semplice
esistenza del principio di sussidiarietà può essere valutata come un fattore di flessibilità, una
“valvola” essenziale dell’intero sistema istituzionale comunitario.
ANTONIO LÒPEZ PINA risponde con due considerazioni alle questioni poste negli ultimi
interventi, cominciando con il sottolineare che il principio di sussidiarietà non opera solamente per
"sbloccare" a favore della Comunità materie rientranti nell'esercizio concorrente della potestà
normativa, ma opera anche riguardo alla scelta dei mezzi, ovvero degli strumenti dell'azione previsti
dall'art. 249 TCE. Caratterizzare la direttiva come un tipico strumento per l'esercizio del principio
di sussidiarietà è affermazione tanto corretta quanto incompleta. La direttiva che obbliga lo Stato
membro destinatario riguardo al risultato da raggiungere, e che però, d'altra parte, lascia alle autorità
nazionali la scelta della forma e dei mezzi (art. 249 TCE), è, rispetto al regolamento (art. 249 TCE),
una figura giuridica con la quale, se da un lato si impone il raggiungimento del fine, dall'altro si fa
in modo che l'azione della Comunità non vada oltre quello che sul piano comunitario è necessario
fare per ottenere tale fine. Al momento di adottare una misura per il raggiungimento di un fine, se
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c'è da decidere se raggiungerlo attraverso regolamento o attraverso direttiva, il principio di
sussidiarietà opererà sfavorevolmente rispetto al ricorso al regolamento.
In ogni modo Lòpez Pina esorta a non ridurre il principio di sussidiarietà alla relazione tra il
regolamento e la direttiva. Il principio di sussidiarietà opera per tutte le azioni nelle quali interviene
la comunità; quindi il principio di sussidiarietà obbliga a gerarchizzare in senso contrario la
relazione tra le misure previste all'art. 249 TCE. Questo significa che se è sufficiente una direttiva,
non c'è la competenza per ricorrere al regolamento; quando basta una decisione, non c'è la
competenza per adottare una direttiva; quando è sufficiente una raccomandazione, non c'è
competenza per una decisione; infine, se è possibile limitarsi a un parere, allora non c'è posto per
una raccomandazione.
Per quanto concerne l’interpretazione del principio di sussidiarietà come valvola di
equilibrio del sistema, Lòpez Pina tiene a sottolineare che si tratta di una questione eminentemente
politica, e che perciò questo criterio risulta eccessivamente vago. A tal proposito egli ricorda
l’esperienza costituente spagnola, laddove si sottolineò la necessità di raggiungere un accordo
anziché cercare di imporre una posizione sulle altre, vista la incapacità da parte di ciascuna forza
politica di affermare univocamente il proprio disegno istituzionale: in questo senso si può sostenere
che la Costituzione spagnola è al contempo rigida, ma anche aperta. Si tratta di una contraddizione
solo apparente, che invece permette un’apertura nella distribuzione territoriale dei poteri, laddove
assume un peso straordinario il principio dispositivo delle Comunità autonome, le quali hanno
stabilito le attribuzioni delle competenze. Questa è l’evoluzione che si è affermata a tutt’oggi con il
rifiuto, da parte delle autonomie territoriali, di accettare come un principio immodificabile
l’esistenza di competenze esclusive spettanti allo Stato; ciononostante esistono degli ambiti di
intervento esclusivo statali, che devono però esser letti alla luce dell’art. 148 Cost. spagnola, in cui
si prevede l’eventualità di delegare alle Comunità autonome delle competenze statali. L’evoluzione
pratica del sistema spagnolo ha visto affermarsi un’alta conflittualità in mancanza di una chiara
disciplina normativa, come potrebbe essere quella del principio federale, tramite il quale si afferma
la prevalenza del diritto federale su quello degli Stati federati. In tal senso il principio di
sussidiarietà può essere interpretato come un passo avanti, ma non sufficiente, nella ricerca di una
valvola (o clausola) di equilibrio del sistema; infatti, anche a causa della sua complessità pratica,
sembra impossibile il suo utilizzo come strumento esclusivo per la realizzazione di una solida
Unione europea.
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L’Avv. BACCHETTI vorrebbe dare il suo contributo alla discussione sia in qualità di
operatore del diritto (in considerazione della sua professione di avvocato), sia come cittadino
(precisando a riguardo che il termine "cittadino" non va inteso in senso tecnico perché ovviamente
non esiste una cittadinanza europea, ma come espressione del sentimento di appartenenza ad una
comune patria ideale europea per identità culturale e storico politica), invitando a riflettere
sull’effetto prodotto nell’immaginario collettivo dall’introduzione del principio di sussidiarietà (con
l’art. 3 B del Trattato di Maastricht) nel processo di integrazione istituzionale dell’Unione europea;
andando a valutare l’efficacia di tale principio come strumento per far progredire ulteriormente il
procedimento di unificazione. In particolare Bacchetti osserva come ci sia stata, a suo parere,
un’evoluzione delle istituzioni europee più lenta di quanto potesse prevedersi dieci anni fa per
quanto concerne la cessione di sovranità da parte degli Stati membri agli organi comunitari; infatti
egli sostiene che alla fine degli anni ’80 fosse prevedibile una maggiore assunzione di sovranità da
parte delle istituzioni comunitarie (quasi a prefigurare una mutazione della Comunità europea che
da organizzazione derivata potesse giungere a disporre di una propria sovranità), con attribuzione di
poteri sostanziali al Parlamento europeo. In realtà le tappe successive del processo di integrazione
sembra abbiano comportato quasi un regresso dell’ordinamento comunitario, specificamente se si
comincia a guardare, rispetto all'originaria formulazione dell’art. 235 sui poteri impliciti, alle
modifiche introdotte con l’art. 3 B del TUE e da ultimo con il recente Protocollo al Trattato di
Amsterdam; infatti in questi ultimi testi si rinviene il tentativo di recupero, da parte degli Stati
membri, di quelle porzioni di sovranità che avevano in precedenza devoluto alle istituzioni
comunitarie. Perciò attualmente l’Unione europea non sembra più fondata sulla valorizzazione delle
istituzioni comunitarie, ma appare piuttosto come una Europa di singoli Stati che si danno alcuni
obiettivi tra loro condivisi al fine di raggiungerli in comune: o almeno questa è la ricostruzione
secondo il punto di vista di Bacchetti, sulla quale invita il relatore a pronunziarsi.
Altro punto di estrema rilevanza sul quale riflettere è la problematica della
procedimentalizzazione - intesa come strumento che permetterebbe una maggiore democraticità, e
al contempo maggiore efficienza, dell’ordinamento - perché l’introduzione di questo principio nel
contesto dell’art. 3 B TUE genera soltanto un ulteriore livello di complessità del fenomeno a scapito
della chiarezza e della semplificazione. Specificamente, se la procedimentalizzazione è da
intendersi come uno strumento di garanzia, tale funzione, come la certezza del quadro giuridico,
viene a perdersi dinanzi all’introduzione di concetti come la "proporzionalità" e la "necessità", data
la loro ampiezza e genericità. Inoltre Bacchetti sottolinea come tutto ciò comporti una inevitabile
opera di interpretazione tramite la quale si finirà sempre con il far prevalere la sovranità e i poteri
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del singolo Stato membro, a fronte di poteri solo residuali da parte delle istituzioni comunitarie. A
questo punto egli pone il quesito se non sarebbe stato più funzionale l’introduzione del principio di
sussidiarietà
mantenendo
l’art.
235
TCE
e
prevedendo
al
contempo
una
sua
procedimentalizzazione; visto soprattutto che la delibera ex art. 235 TCE impone l’unanimità, una
garanzia insomma che si ricerchi una partecipazione di tutti i soggetti al fine di dare vita ad un
accordo che non escluda alcun Paese.
Da ultimo Bacchetti pone la questione se il principio ex art. 3 B debba essere inteso
esclusivamente come sussidiarietà verticale tra istituzioni, ovvero se possa intendersi come
sussidiarietà in senso orizzontale, che comporta la possibilità di prendere decisioni ad un livello più
prossimo ai cittadini, con la conseguenza di ridurre il peso delle burocrazie statali e dare maggior
rilievo alla società civile nelle scelte di interesse generale.
SERGIO LARICCIA si ricollega al passo della relazione in cui Lòpez Pina afferma che il
principio di cooperazione rappresenta il nuovo paradigma dei nostri tempi e considera tale
espressione come un'affermazione importante e centrale dell’intera esposizione, ricordando inoltre
che tale principio di cooperazione è un’espressione non del tutto nuova nei rapporti tra ordinamenti
giuridici; infatti nello stesso ordinamento spagnolo è assai comune trattare il rapporto tra lo Stato e
le confessioni religiose sulla base della esigenza di "cooperazione".
Un aspetto rilevante sul quale si è soffermato il dibattito ha riguardato l’eventualità di
qualificare la cooperazione come un principio giuridico, ovvero come un principio più afferente alla
sfera politica, questione sulla quale si è discusso particolarmente anche in Italia: basti ricordare la
relazione dell’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi quando, a proposito del Concordato del
1984, fece valere il «grande progresso di un patto di cooperazione». Questo per sottolineare che tale
principio è di carattere prevalentemente politico, perché nei rapporti tra ordinamenti vige il criterio
della relatività delle valutazioni giuridiche: la cooperazione è ben accetta, ma nel momento in cui si
crea un conflitto di valutazioni su temi centrali (come l’aborto o il divorzio) ciascun ordinamento
mantiene il proprio autonomo punto di vista; e questo approccio non può non valere anche nel
rapporto tra ordinamento comunitario e Stati membri. Premesse queste considerazioni Lariccia,
condividendo anche la riflessione di Lòpez Pina sulla insufficienza del principio di sussidiarietà per
una progressiva evoluzione dell’integrazione europea, ritiene necessaria e ormai improrogabile
l’elaborazione e l’approvazione di una Costituzione europea; come del resto notava Andrea
Manzella in un recente articolo su la Repubblica, in cui sottolineava l’impegno da parte dei governi
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europei a prendere in considerazione tale obiettivo nell’impostazione del programma da attuare
nell’anno da poco iniziato.
LÒPEZ PINA prima di tutto ci tiene a tranquillizzare l’Avv. Bacchetti osservando che
l’Unione europea non si trova in un processo di dissoluzione: in particolare l’incidenza del principio
di sussidiarietà è talmente ridotta che risulta difficile pensarlo come uno strumento che possa
mettere in crisi l’intero procedimento di unificazione. Riguardo all’art. 235 Lòpez Pina, che si
definisce un giurista europeo, manifesta una certa diffidenza nei confronti dei c.d. poteri impliciti,
tenuto conto che questa sembra più che altro una tradizione americana. In realtà l’art. 235 era da
intendersi come un’apertura nei confronti di uno scambio di competenze e relazioni tra la comunità
e gli Stati membri; ma ormai, dopo la sentenza del Tribunale Costituzionale federale tedesco
dell’ottobre 1993, tale disposizione è divenuta vuota dal punto di vista normativo, forse anche per
un eccesso di applicazione avuto in precedenza. Ciononostante, nel momento in cui gli organi
comunitari ritengano necessaria l’attribuzione di una competenza alle loro istituzioni, ciò rende
possibile proporre una riforma del Trattato, tenuto conto del fatto che l’Unione europea è costituita
da quindici Stati membri che possono ulteriormente accordarsi per ampliare le competenze degli
organi comunitari.
Attualmente l’evoluzione dell’ordinamento non sembra orientarsi nel senso della residualità
delle istituzioni comunitarie, e a tal proposito Lòpez Pina svolge una considerazione di carattere non
prettamente giuridico, osservando che i governi nazionali hanno troppo interesse a tutelare la
disponibilità ad avere due sedi per svolgere la loro politica: una nazionale nella quale sono
politicamente responsabili, e poi un'altra a livello europeo, nella quale non risultano politicamente
responsabili. In tal senso tutti i governi dell’Unione hanno interesse a mantenere le due sedi, per
adottare decisioni politicamente popolari nell’ambito della sede nazionale e per spostare le decisioni
impopolari a livello comunitario. Questa condizione attuale delle istituzioni comunitarie risulta
insoddisfacente agli occhi dei giuristi che vorrebbero mutare tale condizione rendendo politicamente
responsabili sia il Consiglio europeo, che la Commissione europea; anche se agli occhi di Lòpez
Pina la soluzione più appropriata sembra essere quella di estendere la cittadinanza dell’Unione
europea, che attualmente rappresenta solo una caricatura. In particolare egli mostra diffidenza nei
confronti di una conferenza intergovernativa che, oltre a farsi garante di interessi già previsti e
tutelati, accentuerebbe la tendenza corporativa fortemente presente all’interno delle istituzioni
comunitarie; e in questo contesto il principio di sussidiarietà non è lo strumento che permette una
democratizzazione dell’ordinamento europeo, cosa che invece potrebbe essere realizzata tramite la
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generalizzazione della cittadinanza europea, aspetto riguardo al quale Lòpez Pina dimostra
particolare sensibilità.
Rispetto alle osservazioni di Lariccia, c’è da considerare che il conflitto tra la Corte di
Giustizia di Lussemburgo e il Tribunale Costituzionale Federale tedesco oltre ad essere un conflitto
evidente e manifesto, risulta anche insolubile; da ciò si evince che la soluzione a questo contrasto
può essere rintracciata nel tentativo di dare vita ad una Costituzione federale per l’Unione europea.
Ciò non toglie che il progetto di una Costituzione per una Repubblica europea sembra un’ipotesi a
lungo termine, mentre la soluzione più a breve termine Lòpez Pina la rintraccia nella già citata
generalizzazione della cittadinanza, insieme con un suffragio politico universale per il Parlamento
europeo; nella previsione della responsabilità politica della Commissione; nonché nella
trasformazione del Consiglio europeo in una Camera della rappresentanze territoriali. La
realizzazione pratica di questi ultimi passaggi è estremamente difficile, e per la loro affermazione si
dovrà, nei prossimi dieci anni, assistere a molti conflitti; mentre potrebbe aprirsi una diversa e più
proficua evoluzione del sistema europeo nel momento in cui si riuscisse a sviluppare
completamente lo statuto politico e giuridico dei cittadini, tramite il quale questi ultimi proveranno
ad affermare un’Europa diversa dagli interessi corporativi dei singoli governi nazionali.
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