DIALOGO SOPRA UN MINIMO SISTEMA DELL`ECONOMIA

gfp.125 – Marxismo oggi, 3, Milano 1993
DIALOGO SOPRA UN MINIMO SISTEMA DELL’ECONOMIA
a proposito della concezione di Sraffa e degli “economisti in libris” suoi discepoli *
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Al discreto lettore.
Qual proporzione ha da uno a mille?
E pure è proverbio vulgato,
che un sol uomo vaglia per mille,
dove mille non vagliano per un solo.
Tale differenza dipende dall’abilità diversa degl’intelletti,
il che io riduco all’essere o non essere filosofo:
poiché la filosofia, come alimento proprio di quelli,
chi può nutrirsene, il separa in effetto dal comun esser del volgo.
[Galileo Galilei, Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo]
Macredo. Fu la conclusione e l’appuntamento di ieri, che noi dovessimo in questo giorno discorrere,
quanto più distintamente e particolarmente per noi si potesse, intorno alle ragioni economiche e loro
efficacia, che per l’una parte e per l’altra sin qui sono state prodotte da i fautori della posizione
marginalistica keynesiana e sraffiana e dai seguaci del sistema marxista. E perché, collocando il Marx la
forza-lavoro tra i capitali come lor parte variabile, viene a farla essa ancora una merce simile alle altre, sarà
bene che il principio delle nostre considerazioni sia l’andare esaminando quale e quanta sia la forza e
l’energia de i progressi degli economisti peripatetici nel dimostrare come tale assunto sia del tutto
impossibile; attesoché sia necessario introdurre in economia sustanze diverse tra di loro, cioè il capitale e il
lavoro, quella impassibile e immutabile, questa alterabile e caduca. Il quale argomento tratta egli nei libri
del Capitale, insinuandolo prima con discorsi dipendenti da alcuni assunti generali, e confermandolo poi
con esperienze e con dimostrazioni particolari.
Noi, seguendo l’istesso ordine, proporremo e poi liberamente diremo il nostro parere; esponendoci alla
censura dello sraffiano signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore della nuova dottrina
peripatetica. È il primo passo del progresso peripatetico quello dove l’“economia politica” prova l’integrità e
perfezione del modo di produzione capitalistico coll’additarci come le dimensioni armoniche non son più che
tre - capitale-interesse (o profitto), lavoro-salario, e terra-rendita; e perché egli le ha tutte, nella formula trinitaria, avendo il tutto è perfetto. Che poi, venendo dal semplice capitale quella magnitudine che si chiama
interesse o profitto, aggiunto il lavoro si costituisca il salario, e sopraggiunta eventualmente la terra ne risulti
la rendita [ciò che il Keynes trascura e lo Sraffa divisa come inessenziale], e che doppo questi tre fattori non
si dia passaggio ad altro, alcuna trasformazione e movimento, sì che in questa sola trinità si termini
l’integrità e per così dire la totalità, avremmo ben desiderato che da Sraffa e “tutti quanti” ci fusse stato
dimostrato con necessità, e massime potendosi ciò eseguire assai chiaro e speditamente.
Palviati. Il signor Simplicio dovrebbe sapere che l’illustrissimo signor Lunghini ebbe a dire che Sraffa
sapeva quali fossero i limiti del suo discorso, “che probabilmente vale come glossa ricardiana al secondo
punto del capitolo cinquantesimo del libro terzo del Capitale, circa la "parvenza della concorrenza"”. Questa
è la ragione per cui, decidendo di discorrere particolarmente e distintamente intorno alla nuova dottrina
peripatetica sraffiana, si è convenuto di definirla come “sistema minimo dell’economia”.
Nel “luogo” ricordato, Marx scrisse che “un aumento o una caduta generale del salario, provocando, se rimangono invariate le altre circostanze, un movimento in senso opposto del tasso generale del profitto,
modifica i prezzi di produzione delle diverse merci. L’esperienza mostra che il prezzo medio di una merce
aumenta o diminuisce, perché il salario è aumentato o diminuito. Ma ciò che l’"esperienza" non mostra, è che
queste modificazioni vengono regolate segretamente dal valore delle merci, che non dipende dal salario. La
causa può sembrare l’effetto e l’effetto sembrare la causa, come avviene anche nel caso del movimento dei
prezzi di mercato. Tutte queste esperienze confermano la parvenza propiziata dalla forma autonoma e
rovesciata delle parti costitutive del valore, come se il salario solo, o il salario e il profitto insieme,
determinassero il valore delle merci. Quando ciò accade in generale in rapporto al salario, così che il prezzo
del lavoro e il valore prodotto dal lavoro sembrano coincidere, va da sé che tale parvenza si crei anche per il
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profitto e la rendita. I loro prezzi, vale a dire le loro espressioni in denaro, devono venire regolati
indipendentemente dal lavoro e dal valore da essi prodotto”. La parvenza è contrabbandata come il “dover
essere” della realtà.
Questa “trinità” (eventualmente sminuita della rendita-terra) - che proviene dritta dritta dall’economia
volgare e dal marginalismo-keynesismo, in una armonica obnubilazione della struttura di classe della società
- ricompare in Sraffa come mera “aritmetica possibile”. Ciò rende vano qualsiasi riferimento al neo-ricardismo, rabbassando la di lui teoristizzazione a un insignificante post-ricardismo “senza valore”, se ci capite!
Simplicio. L’indagine del Maestro Sraffa riguarda esclusivamente quelle proprietà di un sistema
economico che sono indipendenti da variazioni nel volume della produzione e nelle proporzioni tra i “fattori”
impiegati. E questo punto di vista - a nostro avviso - è proprio quello degli economisti classici, da Adamo
Smith a Ricardo, che è stato sommerso e dimenticato in seguito all’avvento della teoria “marginale”. Sotto
questo riguardo, perciò, occorre controbattere la teoria marginale sul suo stesso terreno, e non serve affatto
riferirsi al sistema economico nei termini della teoria delle classi.
Mac. Al contrario, signor Simplicio, si impone subito la domanda: quale è la funzione di classe che
sottende il sistema sraffiano? Quello che sostiene il signor Palviati al proposito è senza dubbio vero, ma
occorre anche dire che è la “sraffologia”, più che Sraffa, a divenire protagonista di discorso. Anche perché
Sraffa fece una scelta da anacoreta. Prevalse il suo aspetto caratteriale, confinante con lo scetticismo,
sentimentalmente sinistreggiante e nel contempo ipotetico-formalizzante in bilico fra alta filologia,
filologismo e storiografia, inconsapevole della distinzione fra le tre prese.
Fin dagli anni ‘20 - in cui lui si occupava attentamente di Gramsci, traduceva Keynes, copiava Dmitrev,
ecc. - cominciò a rimuginare il materiale che poi fu dato alla luce nel 1960. È veramente sconcertante che nei
23 anni di vertiginosa sraffian economics succeduta al 1960, Sraffa (che è morto nel 1983) non abbia emesso
fiato su come lui interpretava se stesso - costringendo la sraffologia a includere nella di lui mitizzazione il
suo stesso silenzio. Come dobbiamo interpretare psicologicamente questo astenersi, e come epistemologicamente? E soprattutto, come interpretarlo nei contenuti, per quale tipo di classi e di società scriveva l’amico di
Gramsci e di Keynes?
Simpl. Qui non si tratta di questioni né psicologiche né sociologiche. Sono problemi di pura teoresi,
perciocché, avendo il Maestro espresso compiutamente il suo pensiero, non havvi bisogno alcuno di scendere
nelle polemiche; affidando più tardi l’ulteriore critica, se la sua base terrà, a qualcuno meglio attrezzato per
l’impresa. Procediamo dunque con ordine.
Noi rigettiamo le obiezioni svolte secondo il riferimento alla “formula trinitaria”, nel senso marxiano testé
ricordato dal signor Palviati, e rimandiamo unicamente alla forma di relazione inversa fra salario e profitto.
Infatti, è la scarsità di terra che crea la situazione da cui sorge la rendita: se non vi fosse scarsità, sarebbe
usato il metodo che produce grano a più buon mercato, e non vi potrebbe essere rendita. Ma le restanti
risorse naturali che, essendo scarse, ricevono una rendita non possono aver alcun effetto sui prezzi delle
merci e sul tasso del profitto: non c’è bisogno di soffermarsi su tale dottrina. Sicché la terra che non dà
rendita è eliminata dalle equazioni dei prezzi e della distribuzione, così come avviene per tutte le altre risorse
“gratuite” le quali, pur essendo necessarie alla produzione, non vengono annoverate fra i mezzi di
produzione.
Restiamo fermi, allora, al problema della distribuzione del reddito nazionale: la questione si pone, come
diremo, solo in presenza del sorgere di un sovrappiù (o profitto). Evitiamo perciò l’uso del termine “capitale” e supponiamo che il “salario” comprenda anche una parte del sovrappiù prodotto. Dunque, quando
veniamo a esaminare la ripartizione del sovrappiù fra “capitalisti” e “lavoratori” la questione che si pone è
squisitamente teoretica, e non pertiene al movimento antagonistico delle classi sociali. Noi dobbiamo solo
tentare di scoprire quale sia la “proporzione” matematica che assicuri l’equilibrio distributivo.
Sappiamo che, ove si prenda il salario come unità di misura dei prezzi, viene a stabilirsi un rapporto di
proporzionalità fra una qualsiasi riduzione del salario e il corrispondente aumento del tasso del profitto;
ovvero, più in generale, che si stabilisce una relazione inversa tra salario e profitto. Al punto che si può
rovesciare l’uso seguito di trattare il salario, e non il tasso del profitto, come la variabile indipendente. Tanto
più che quest’ultimo è suscettibile di essere determinato da influenze esterne al sistema della produzione, e
particolarmente dal livello dei tassi dell’interesse monetario.
Mac. Così, l’unico “ricardismo” rimasto a Sraffa è l’antagonismo puramente formale fra salari e profitti.
Dico: puramente formale, poiché esso si estrinseca indipendentemente dalla collocazione ricardiana, secondo
la quale il profitto (industrioso) corrente era condizionato tanto dal tasso di interesse medio quanto dal
conflitto sussistenze-rendimento sulla terra “marginale”. Escludendo la rendita sulla terra, le si attribuisce
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esclusivamente un ruolo di consumo improduttivo, mentre il solo - proprio il solo - punto malthusiano di
Ricardo era il popolazionismo (che però a Ricardo serviva contro il landlordismo).
Non si capisce, perciò, come gli sraffiani pretendano ora al titolo di neo-ricardiani, ora a quello di neomarxisti. Ma l’ambigua moda di far ricorso a quel prefisso significa guardarsi indietro per vedere se gli
antenati avrebbero o no autorizzato la prosecuzione in neo. Dire che il concetto di sovrappiù è neo-marxiano
significa vedere se in Marx c’è qualcosa che autorizzi a definire il plusvalore come sovrappiù; inoltre, se la
radice gnoseologica e storico-critica del plusvalore marxiano coincida con la radice di plusvalore = sovrappiù, o se invece il concetto di sovrappiù non serva a prendere una pignatta (il plusvalore) svuotandola
del suo contenuto per mettervi un diverso composto che conservi la pignatta come forma costante del nuovo
commestibile messovi dentro dichiarandolo neo; infine, se l’uso critico di plusvalore trasmutato in sovrappiù
serva come prima oppure diversamente: supporre che intorno al sovrappiù si possa imbastire antagonismo
sociale, come intorno al plusvalore, significa che basti “antagonismo sociale” per fare del marxismo teorico,
il che Marx, proprio, respingeva.
Il “sovrappiù” andrebbe piuttosto appiccicato alle scuole marginaliste (i cosiddetti neo-classici) assai più
che a Ricardo o a Marx: visto che normalmente - in equilibrio concorrenziale neo-classico, nella
postulazione walrasiana l’imprenditore-capitalista concorrenziale chiude la sua giornata operativa facendo ni
profits ni pertes, contento del solo lavoro di direzione - i profitti tendono a zero, questo significa introdurre
un sovrappiù come concetto, sul quale si incarna una sorta di contesa distributiva fra capitalisti e classe
operaia. Cosicché si possa salvare anche teoristicamente, perdippiù, la capra (l’imprenditore, come servizio
sociale rischioso, perché concorrenziale) e i cavoli (i lucri temporanei, soltanto, per carità!, temporanei).
L’impostazione, puramente teoristica e equilibristica dell’antagonismo serve o per dichiarare il salario
variabile indipendente oppure il profitto. È questo il senso da attribuire all’asserzione del signor Simplicio
secondo cui “il discorso non cambierebbe se si prendesse, invece che il salario espresso in termini di una
qualsiasi merce, il tasso del profitto come variabile indipendente”. Ora è di moda la seconda; in particolare,
più che in termini di tassi di profitto, attraverso la più robusta sopravvivenza dei tassi di interesse sui diversi
mercati che, insieme, costituiscono il mercato dei teorici. Perciò oggi è il signor Abete che potrebbe
avvalersi, a contrario, della stessa categorizzazione di “variabili indipendenti” usata dal pierre-carnitismo
anni ‘70, sull’onda intersoggettivistica dell’ultrasindacalismo “catartico”: potendosi ciò eseguire assai chiaro
e speditamente, sostituendo al salario, allora di moda, il profitto, oggi prevalente, in una logica di pura “forza
contrattuale” che farebbe da referente implicito delle equazioni sraffiane.
Cosicché il tentativo, intrecciato col pierre-carnitismo, che pretendeva di migliorare (o “rafforzare”, come
dice sovente il signor Simplicio) Marx liberandolo dal fardello del valore-lavoro, per renderlo gagliardo di
“aggressività sindacale”, di “autunno caldo”, di “contrattazione a livello aziendale” - gagliardo, in una
parola, di salario come variabile indipendente - si è inevitabilmente rovesciato, al ristabilimento della “forza
contrattuale” del capitale, in “aggressività padronale”, “congelamento delle lotte”, “corporativizzazione della
contrattazione nazionale”: in una parola, nel profitto come variabile indipendente! Con il che si è
dimenticato anche che fra le molte rationes che inducevano Marx-Engels ad optare pel valore-lavoro c’era
anche che una classe operaia priva di una teoria generale del valore perde la “coscienza di classe” e diventa
pura combattività sindacale, e cioè unicamente un elemento di compromesso interno al sistema capitalistico,
oscillante tra luddismo e tradeunionismo.
Pal. Ma in che mondo vive il signor Simplicio? Un mondo in cui vi possa essere un uso “gratuito” della
terra e delle risorse naturali non è certo quello del modo di produzione capitalistico. [Ma, allora, non è un
caso che Sraffa attribuisca la rendita “differenziale” alla “scarsità” delle risorse naturali, in piena sintonia con
l’ideologia marginalistica, perdippiù appiccicandola alla medesimezza delle risorse in quanto tali, e non alla
loro forma storica di appropriazione privata].
Così pure è un mondo inesistente quello in cui viene calata l’ipotetica funzione di una “variabile
indipendente” - quale che essa sia, salario o profitto. Quanto a quest’ultimo, l’assurdità dell’argomentazione
sraffologica è stata giustappunto messa ben in luce dal signor Macredo. Rimarrebbe da chiedere al signor
Simplicio che cosa intenda dire allorché va affermando che i tassi dell’interesse monetario sono determinati
“da influenze estranee al sistema della produzione”!? E, di grazia, da quali mai altre “influenze” astrologiche, forse, o della dea bendata - sarebbe toccato il governatore della banca centrale quando sceglie
di fissare il tasso dell’interesse monetario? Ma ciò non stupisce, sapendo bene che la moneta per gli
“economisti in libris” non è merce, merce generale, denaro, e che dunque per loro essa cade sulla produzione
dall’esterno, dal più alto dei cieli.
Per ciò che attiene al salario, invece, l’erroneità è anche - per così dirla, in termini graditi pure agli esegeti
(post)moderni - epistemologica. Appellarsi al salario come variabile indipendente è innanzitutto un’imprecisione semantica, dappoiché per poterlo dire “dipendente” o “indipendente” quel salario, così considerato,
dovrebbe trovarsi nelle condizioni di poter essere presupposto “variabile”. La qual cosa è letteralmente
indicibile. Non ha alcun senso discutere sui possibili “aggettivi”, quando è il “sostantivo” stesso a essere
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messo in questione. Insomma, in una parola, con buona pace del pierre-carnitismo, qui il salario non è una
variabile, semplicemente perché non può esserlo, se non nell’idealtipo del sistema sraffiano. Ma proprio in
quel sistema tutte le grandezze sono date: cioè, si vogliono studiare le conseguenze della distribuzione di un
prodotto netto già dato, ottenuto in condizioni date di mezzi di produzione e lavoro, giusta l’opportuna scelta
teorica di Sraffa. [I risultati di questo studio dovranno dare la grandezza del tasso di profitto e l’insieme dei
prezzi corrispondenti].
Ora, se tutto ciò è dato, è anche perché lo è il lavoro in quanto attività nella sua complessiva
organizzazione sociale. Non si capisce come si possa sensatamente pensare, in siffatta “fotografia” della
società, che solo al salario sia consentito di variare tra zero e l’intero prodotto netto (che Sraffa aggrega
come 1 - unità di conto). Se sono date le norme storiche di produzione, in un dato luogo e in un dato periodo,
saranno date in media (consentendo solo piccolissime e irrilevanti oscillazioni) anche le possibilità e le
abitudini di consumo dei lavoratori. Già a James Mill - che trasformava l’operaio in semplice venditore di
merce, in cambio della “partecipazione” a una quota del prodotto, per cancellare il carattere specifico del
rapporto di capitale - Marx rispondeva che “il salario, grande o piccolo che sia, non è determinato dalla sua
quota di prodotto, ma, al contrario, la sua quota di prodotto è determinata dalla grandezza del suo salario”:
che è storicamente data - checché ne pensi la sraffian economics.
Forse il signor Simplicio non ha capito che quando Marx definiva il salario innanzitutto come capitale
variabile, quella “variabilità” si riferiva al suo valore iniziale (dato) capace - attraverso l’uso della forzalavoro di cui può disporre il capitalista - di accrescersi nella produzione di plusvalore. Codesta non è la
“variabilità” del salario. Allora, la dipendenza o l’indipendenza del salario riguardano altre quistioni, che non
la sua variabilità. Il salario è sicuramente indipendente dai risultati del processo lavorativo; se qualcuno invece pensasse di intenderlo come “quota” di milliana memoria - in una moderna ripresa post-marginalistica
della cosiddetta economia della partecipazione (o share economy). Viceversa è dinamicamente dipendente,
come avvertì Marx, dai movimenti assoluti dell’accumulazione di capitale. [Corollario, troppo lungo per
discuterlo ora, di questi fraintendimenti sraffiani è l’uso surrettizio che in quel sistema viene fatto - dicendolo
e negandolo - dell’ipotesi di rendimenti costanti e di artificiose proporzionalità].
Ma da quanto appena detto circa il salario (di un lavoro che realmente non appare mai, in quanto tale, nel
suo uso, ma solo come quota di spesa per la “produzione di merci a mezzo di merci”, senza lavoro e senza
valore) emerge come immediata conseguenza tutta la banalità della tanto conclamata relazione inversa tra
salario e profitto. Seguendo il depistaggio del vecchio Mill, quella relazione può dirsi “inversa” per aver
scambiato ancora una volta la causa con l’effetto. Quando una grandezza è data, è ovvio che, qualora venga
divisa tra due persone (lavoratore salariato e capitalista, a esempio), la frazione dell’uno può crescere o
diminuire solo nella proporzione in cui quella dell’altro diminuisca o cresca. Non occorre essere Marx per
dire ciò, ma Marx fu costretto a spiegarlo, e noi a ripeterlo, per gli evidenti tratti demenziali che
caratterizzano l’economia politica peripatetica.
Cosicché, il paziente Karl fu costretto a precisare quanto segue: poiché il valore delle merci è dovuto al
lavoro degli operai, ciò che in ogni caso ne costituisce il presupposto è questo lavoro stesso, che però è
impossibile senza che l’operaio viva e si mantenga, e quindi riceva il salario necessario. Salario e plusvalore
- queste due categorie in cui si distribuisce il valore della merce e lo stesso prodotto - stanno dunque non solo
in una relazione inversa l’uno con l’altro, ma il prius, ciò che è determinante, è il movimento dei salari. Il
salario non aumenta o diminuisce perché il profitto (si dovrebbe dire plusvalore) diminuisce o sale, ma,
inversamente, è perché il salario aumenta o diminuisce che diminuisce o sale il plusvalore (profitto).
Altrimenti, va detto che anche nei marginalisti (come insegna la neutra freddezza di Wicksell) c’è, in
forma corrispondente privata della sua genesi causale, l’analoga relazione inversa tra salario e profitto:
come vuole M. de la Palice.
Perfino il “plagiato” Dmitrev, che non è mai stato marxista, avvertì (inascoltato) che si attribuisce spesso
un’importanza esagerata alla proposizione, stabilita da Ricardo, concernente quella relazione inversa. D’altronde, Marx aveva già completato il suo commento critico, constatando come la scuola ricardiana avesse
ridotto, e giustamente, il problema a questa insulsaggine o esagerazione: poiché la comprensione di questo
fatto l’avrebbe costretta a scorgere che tra capitale e lavoro si istituisce un rapporto del tutto diverso da
quello della permuta. E costoro non possono ammettere che il sistema borghese degli equivalenti si rovesci
in una appropriazione senza equivalenti. Il signor Simplicio - che almeno da questo limitatissimo e distorto
punto di vista non può non riconoscersi nella “scuola ricardiana” - dovrebbe notare quel “giustamente”, per
nulla ironico. Giustamente, dal punto di vista di classe: e giustamente due volte, attesoché nel sistema
sraffiano è soppresso anche il lavoro come presupposto del valore delle merci; facendo sì che il nesso causale di quella relazione inversa, vieppiù insulsa, divenga oltremodo invisibile - sotto il falso nome di
“sovrappiù”.
Simpl. Al Maestro non sono mai piaciute le polemiche, preferendo procedere normativamente e
kantianamente - come ebbe a scrivergli l’amico Gramsci - per classificazioni e definizioni. Dunque,
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atteniamoci a codeste norme. Se l’economia produce più del minimo necessario per la sua reintegrazione, vi
sarà un sovrappiù da distribuire: a noi basta sapere questo, e non ci interessa assolutamente indagare il
perché e il come, ma soltanto il fatto che questo sovrappiù “sorga”. La determinazione del sovrappiù è in
linea di principio assai semplice. Si suppongono noti: il salario reale specificato in termini fisici, come
aggregato di merci; il prodotto sociale, anch’esso espresso come aggregato di merci; le condizioni di
produzione, vale a dire le quantità di mezzi di produzione e di lavoro necessarie alla produzione. Ergo, i
profitti hanno origine nel fatto che ai lavoratori va meno di quanto viene prodotto (meno dell’intero prodotto
netto).
Pal. Veramente una bella scoperta, questa del signor Simplicio, per essere fatta nella seconda metà del
XX secolo! Il povero vecchio e malato Marx fu costretto, contro voglia e non per suo piacere, a scrivere il
lungo “scartafaccio” contro il programma socialdemocratico del partito operaio tedesco, riunito a Gotha nel
lontano 1875: per tentare di impedire che, in alto sulla bandiera del partito, fosse scritta la parola d’ordine
lassalliana del “prodotto integrale del lavoro” (che, secondo quella falsa interpretazione, spetterebbe ai
lavoratori). Non a caso anche i lassalliani, come gli sraffiani, blaterano di “giusta ripartizione” del prodotto
netto. E Marx - con insofferente pazienza - mostrò che neppure nella società comunista i lavoratori
avrebbero potuto ottenere il “prodotto integrale del lavoro”. Cioè, avrebbero necessariamente ricevuto “meno
dell’intero prodotto netto” - a dispetto della conclusione del discorso sraffiano, perdippiù applicato al modo
di produzione capitalistico - poiché le detrazioni dal prodotto netto sono una necessità economica di qualsiasi
società, che non hanno niente a che vedere con l’equità. Dunque, che ai lavoratori vada meno di quanto viene
prodotto è ovvio: e, perdippiù, non dice niente.
Altro che sovrappiù! Non a caso fu una delle cialtronate di Proudhon dire che, dal punto di vista “soggettivo” - come da lui erano interpretate le forme sociali borghesi - la merce, il denaro e il capitale sono “identici”. Da tale “soggettivismo” secondo cui tutte le vacche sono grigie - come ebbe a notare Marx - discende
inevitabilmente un’imperativa e categorica definizione di “sovrappiù” in chiave di bellissimo comandamento
morale: “ogni lavoro deve fornire un’eccedenza”. Se si rimuove il discorso marxiano sull’indeterminatezza
in sé e per sé della giornata lavorativa (di cui una sola parte può costituire il lavoro necessario), la cui
determinabilità pratica costituisce un’antinomia, si sopprime di fatto la lotta - non sul salario, valore di
scambio della forza-lavoro, ma sul suo uso - tra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e
l’operaio collettivo, cioè la classe operaia. Non rimane che la miseria categoriale del “sovrappiù”: la cui
grandezza relativa al prodotto nel quale è rappresentato il lavoro necessario, senza minimamente badare agli
uomini che vi stanno dietro, è lo scopo determinante della produzione di ricchezza per la classe dominante come sosteneva l’acritico e prolisso Arthur Young, contemporaneo di Smith, definito da Marx “il fanatico
del sovrappiù”. È un fanatismo il cui contagio è giunto fino ai giorni nostri.
Continua, peraltro, a rimanere un mistero gelosamente conservato dagli “economisti in libris”, anche
nella nuova dottrina peripatetica, il perché essi si ostinino a non dire realmente donde “sorga” codesto
sovrappiù. Ma non si avvede il signor Simplicio delle implicazioni di ciò che dice? Le condizioni di
determinazione del sovrappiù - da lui supposte, e con le quali non si può che consentire appieno - sono
precisamente le medesime che stabiliscono, presso Marx, la determinazione del concetto (come direbbe il
vecchio Hegel) del valore, fornendo altresì la base per procedere dal concetto alla determinazione possibile
della grandezza del valore medesimo (e di qui delle sue forme mutevoli). Codeste condizioni
rappresentano, dunque, i fondamenti stessi della teoria del valore e del plusvalore, sia nel loro aspetto
qualitativo sia in quello quantitativo, che nel passaggio di forma dall’uno all’altro e nelle loro
trasformazioni interne a ogni grado dell’analisi della realtà.
Perché allora la sraffologia si danni l’anima per confutare la teoria marxiana del valore e del plusvalore al fine di “rafforzarla”! - complicandosi la vita, fino a impiccarsi con subsistemi virtuali e fittizi e
trasparenze ambìte, circoli viziosi e simultaneità formali surrettizie, prezzi “relativi” e variabili
indipendenti, diventa un mistero nel mistero. La realtà vera del modo di produzione capitalistico, così
com’è, con quelle condizioni poste, è lì bell’e pronta per essere spiegata compiutamente - come Marx ha
insegnato, senza complicazioni inutili ed errori - ma gli “economisti in libris” si ostinano a non vederla, e
soprattutto a non farla vedere agli altri.
Gli è che - come ebbe a sostenere ripetutamente un allievo russo di Marx - la verità è rivoluzionaria, e ciò
a molti peripatetici non fa piacere. Dappoiché la domanda posta dalle condizioni, sociali e teoriche, di
vigenza della teoria del valore e del plusvalore di Marx contiene già in sé, implicitamente, la risposta. E la
risposta inequivocabile è: il comando sul lavoro altrui da parte della classe proprietaria dei mezzi di
produzione trasformati in capitale, a fini di ottenimento di un plusvalore mediante sfruttamento della classe
affatto priva di proprietà. Non si tratta, cioè, né di un generico e anodino “sovrappiù” fuori della storia, né
pure di una romantica lamentazione sullo “sfruttamento” dei lavoratori, recuperato a posteriori come
giudizio etico, bensì della sola possibile dimostrazione scientifica delle modalità di funzionamento di tale
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rapporto sociale - ossia della comprensione della teoria del valore e del plusvalore in quanto teoria
economica delle classi sociali.
Alle spalle di tutto ciò c’è l’individuazione del processo di formazione del prodotto netto (e non, ancora
una volta, del “sovrappiù”) in qualsiasi forma della produzione sociale organizzata - massime in quella
capitalistica - e della sua origine. Basta chiedersi, molto semplicemente, a fronte di che sta il prodotto netto
[e poi il plusprodotto - che, insieme al pluslavoro, non è stato “inventato” dal capitale, ma da esso solo
trasformato in plusvalore, conforme alla trasformazione del prodotto in merce]. Non c’è molto margine di
scelta, ed essa è tra l’altro molto facile: basta essere chiari ed espliciti. O si dice esplicitamente che a fronte
del prodotto netto c’è il lavoro vivo [ciò che diventa neovalore e lavoro astratto nella forma sociale
capitalistica e nella corrispondente teoria scientifica del valore], cosicché a fronte del plusprodotto si abbia il
pluslavoro [ciò che diventa, nell’omonima teoria scientifica, plusvalore e dunque anche lavoro alienato non
pagato], o si incorre nell’obbligo di apporre qualcos’altro di fronte a ciò.
Ecco allora che l’erronea “vulgata” fisiocratica vi pone la terra, détta così a mo’ di metonimo quale “madre” di tutte le ricchezze della natura, per non lasciar al solo lavoro vivo il merito della trasformazione attiva
di essa e dunque della produzione sociale - come invece realmente concepivano la cosa gli illuministi dell’encyclopédie. E quel che più importa è che l’ideologia borghese, fattasi dominante, col marginalismo neoclassico e col keynesismo di varia sponda, non abbia esitato neppure un istante a generalizzare quella “vulgata” onde giustificare il prodotto sociale con una supponente pluralità dei fattori produttivi, più o meno
definiti “originari”: la formula trinitaria - terra, capitale, lavoro - rammentata all’inizio della discussione è la
rappresentazione compiuta dell’imbroglio. In codesta “vulgata” tendente alla “pluralità” delle fonti di valore
si trova a suo perfetto agio Sraffa, in una logica che potremmo dire tecnocratica, giacché fa appunto derivare
il suo sovrappiù (immediatamente chiamato profitto) dai “metodi di produzione” di cui consiste lo stato della
tecnica - in una rappresentazione onnicomprensiva e globale della società - già prima che appaia il lavoro!
Mac. Le grandezze macroeconomiche di Sraffa sono espresse in 1 [unità] e quelle microeconomiche
come frazioni di 1 [unità]. In tal modo Sraffa dà per note le grandezze macroeconomiche ... che poi sono
fintamente macroeconomiche. Da dove venga quel massimo R, tasso di profitto o di sovrappiù, che Sraffa dà
come parametro, da quali processi che stiano alle spalle del parametro e delle equazioni stesse, Sraffa non ci
dice. Egli definisce il profitto corrente r=R-Rw, come percentuale massima ridotta di una percentuale su di
essa che va al salario, facendo operazioni concettuali che non hanno nulla a che fare con le operazioni
concettuali che servivano a Ricardo o a Marx. Non si riesce a capire, allora, in che senso sia utile disquisire
sul neo-ricardismo o meno, sul neo-marxismo o meno, di Sraffa.
In generale in Sraffa, e in genere nei formalisti, c’è la tendenza a misurare una quantità con un numero: il
numero può esprimere una quantità, ma la quantità ha una sua provenienza storica traducibile in numero
senza che, peraltro, perda i propri diritti di specifica provenienza. In effetti, nella realtà, il Pil globale,
certamente algebrizzabile come 1 [unità] da spartire, è, nella realtà, un risultato (e non un dato)
statisticamente cumulativo, mentre nel discorso sraffiano diventa una quistione di ripartizione di entità
(ipoteticamente) note. Oppure, quanti sono i lavoratori costituenti la mano d’opera totale? Sono 1, per Sraffa,
che si frazionano in singole industrie - un trucchetto per rendere unità di conto la massa dei salariati, renderla
non solo data ma nota. Leggendo Sraffa, sembra che egli abbia, piuttosto, “sraffizzato” Ricardo per ottenere
un nuovo ramo del sapere intitolato, appunto, sraffian economics, fornito, all’occorrenza, di cattedre, riviste
e così via. [Quindi, fa molto peggio di quanto gli sraffiani suppongono che facesse Marx nella
“trasformazione”, muovendo da grandezze date senza nessuna indagine sul loro costituirsi].
Pal. Che un tal risultato riesca sorprendente, non v’è da farne un gran caso - direbbe Hegel - ma vi
sarebbe piuttosto da meravigliarsi di quella meraviglia che si mostra nella coscienza ordinaria e nel
cosiddetto senso comune, il quale non è precisamente il buon senso. Non basta che le cose siano “note” per
essere “conosciute”. “E la determinazione mi pare che si deva prendere da quel che è uno e certo” osservava giustamente Sagredo al Simplicio dell’altro più famoso dialogo.
E quel che è uno e certo, ma che deve ancora essere conosciuto o riconosciuto da tutta l’economia
peripatetica, è il lavoro nella sua centralità a fronte della formazione di valore: e non a parole - magari sotto
la metafora sraffiana del “salario del lavoro” che prende il posto del lavoro come attività, ridotto a mera
frazione di 1 nella ripartizione dei costi salariali tra le diverse industrie - ma ripetendo, da Marx, che il lavoro
è l’unica fonte di valore e l’unica fonte attiva di valore d’uso. Dunque è da questa caratteristica generale
della produzione centrata sul lavoro - la quale diventa determinazione particolare ricompresa e sussunta alle
categorie del capitale - che trae il proprio “cominciamento” la riflessione sul processo della produzione
sociale, e perviene attraverso lo sviluppo dialettico delle contraddizioni al “fondamento” della teoria del
valore (prima, nella forma semplice di merce) e del plusvalore (poi, nella sua forma capitalistica).
Il valore, e la sua “legge”, non può essere rabbassato a una quistioncella di “misura” - talché Sraffa,
malamente mutuando il primo Ricardo, possa impunemente pensare di sostituire il lavoro col grano o con
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una “merce composita” idealtipica, addivenendo al nulla di una “produzione di merci a mezzo di merci”,
anziché produzione di merci a mezzo di lavoro. [La curiosa doppia incongruenza sulla “merce” forza-lavoro
discenderà proprio di qui]. Ma, suvvia, il signor Simplicio che cosa crede che intendesse dire Marx quando,
fin dalle prime pagine del Capitale, avvertiva che la duplicità del lavoro (seguita alla duplicità della merce) è
il perno intorno al quale ruota la comprensione dell’economia politica?
Simpl. La distinzione tra lavoro concreto e lavoro astratto, nei termini in cui la formulava Marx,
chiaramente non è accettabile, in quanto non si può identificare valore e lavoro (astratto). Dato che la
confusione tra i due tipi di lavoro fatta dall’economia volgare è stata superata dalle moderne teorie
marginalistiche, che hanno abbandonato la teoria del valore-lavoro, la loro critica oggi non può più essere
condotta con le categorie di Marx, per cui occorre abbandonare sia quella distinzione sia la teoria del valorelavoro.
Un’analoga funzione di chiarificazione della confusione del sistema marxiano del valore-lavoro sembra
essere fornita dallo spiegare l’importanza che Marx attribuiva alla distinzione tra lavoro e forza-lavoro:
l’estensibilità, in verità dubbia, della legge del valore alla forza-lavoro non è argomentabile come per le altre
merci, perché la forza-lavoro non è prodotta da capitalisti come tutte le altre merci. Dovrebbe essere ora
comprensibile come mai vi sia stata una diffusa resistenza da parte marxista a riconoscere il contributo di
Sraffa come un rafforzamento dell’impostazione di Marx.
Pal. Quel “perché” è mirabile! Dunque voi, per cercare di venire a capo di un impiccio, ne aggiungete un
altro. Si contempla qui il mistero della merce. Sraffa muove da lontano, da “una società primitiva che
produce appena il necessario per continuare a sussistere”, definendo ciononostante questi prodotti senz’altro
come merci che “vengono scambiate l’una con l’altra al mercato”: dunque concependo la necessità dello
scambio come innata e primigenia e caratterizzando così la forma di merce del prodotto non già come un
attributo sociale e storicamente determinato ma solo come una definizione “tecnica” neutra. [È ovvio che una
simile deformazione debba avere conseguenze ancor più deleterie sull’annullamento della forma di merce
riferita alla forza-lavoro].
Infatti, codesta concezione singolare si trasmuta subito nell’idea, sbagliata, che la merce sia definita solo
dall’esser prodotta capitalisticamente: col che si deve presumere che quella “società primitiva” tecnicamente
neutrale sia già fin dall’inizio capitalistica. A tale idea si affianca l’altra, come corollario dell’errore, secondo
cui sembra che la “legge del valore” sia di pertinenza precipua del modo di produzione capitalistico: laddove
Marx è ben attento ad avvertire che, parlando di valore nei primi tre capitoli e mezzo del Capitale, non si ha
ancora a che fare con il rapporto di capitale (e dunque neppure con la trasformazione del lavoro in lavoro
salariato e la riduzione della forza-lavoro a merce).
Proprio per questo - errore nell’errore - la sraffologia esclude dapprima la forza-lavoro dal novero delle
merci (in quanto non prodotta da capitalisti come tutte le altre merci: e questa, tra parentesi, è l’unica
affermazione giusta) - con un’operazione non degna di uno scienziato, quanto piuttosto del vescovo di Roma,
Karol Wojtyła, che parlando di “mercato” del lavoro afferma contestualmente il lavoro (o la forza-lavoro)
non essere una “merce”: mercato senza merce, e di che, allora? Dappoi la sraffian economics, per
concludere, smentisce se stessa - con un ulteriore errore elevato a potenza - attesoché tra merci a mezzo delle
quali si producono le altre merci ci sarebbe anche il lavoro (non più nomato forza-lavoro). È così completata
l’intera fallacia proprio nell’unico punto in cui il lavoro - in quanto attività, ossia valore d’uso della forzalavoro - ha da essere considerato come non-merce.
In tutto ciò - nonostante il gran parlare di salario, variabile indipendente, lavoro più o meno trascorso, e
via inversamente relazionando - nel sistema sraffiano, in conformità con gli occulti dettami marginalkeynesiani, non solo non opera mai il lavoro vivo in quanto attività, come abbiamo già discusso, ma si perde
anche ogni traccia del rapporto di lavoro salariato in senso proprio. Se infatti il lavoro non si scambia contro
capitale - capitale variabile, per la precisione - ma “partecipa” semplicemente alla ripartizione di una “quota”
del reddito nazionale, il “salario” è un puro nome, flatus vocis, essendo per definizione immediatamente
reddito senza mai essere stato prioritariamente mediato dalla forma di capitale. Quel “salario del lavoro” non
è lavoro salariato, ossia in nessuna sua determinazione appare la forma “dipendente” del lavoro e la sua
sottomissione al capitale.
È questa appunto la rappresentazione di una società di liberi e uguali produttori indipendenti, fonte di
ogni mistificazione ideologica borghese, che tenta di ignorare le contraddizioni specifiche del modo di
produzione capitalistico, risolvendo i rapporti degli agenti di tale processo nelle relazioni semplici che
sorgono dalla circolazione delle merci: mistificazione contro cui Marx costruì tutta la sua critica, divenuto
invece luogo comune con cui anche Sraffa cerca di darsi importanza. La specificità dello scambio tra lavoro
e capitale viene dissolta nella genericità dello scambio semplice di merci, azzerando la dimostrazione
analitica dello sfruttamento nella sua specifica forma capitalistica - forma, appunto, cui occorre togliere la
maschera di equità dello scambio. Verbigrazia, che resta di Marx senza quella da lui stesso indicata come la
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sua sola “scoperta” - la merce forza-lavoro, appunto - unica connotazione scientifica per l’identificazione
oggettiva della classe operaia?
Simpl. Ma tutto questo discettare sul lavoro e sul valore che lo incorpora sembra essere fatto più per le
implicazioni civili e politiche che non per il rigore analitico. La matematica non è un’opinione. Non
nascondiamoci che lo stesso Marx si era accorto che le sue equazioni erano difettose. La corretta
determinazione dei rapporti di scambio, dunque, mostra la presenza di un errore nella determinazione del
tasso di profitto in Marx, e mostra inoltre la superfluità delle misurazioni in termini di lavoro incorporato,
che Marx riteneva essenziali. Il nostro risultato è che i valori-lavoro non sono necessari per la
determinazione del tasso di profitto e dei prezzi di produzione: queste grandezze possono infatti essere
determinate a partire direttamente da coefficienti espressi in unità fisiche, piuttosto che in lavori contenuti.
La nostra dimostrazione si basa sul seguente sillogismo: il ruolo della teoria del valore-lavoro in Marx è
essenzialmente lo stesso che in Ricardo, ossia quello di permettere una determinazione del tasso di profitto
e dei prezzi entro l’impostazione del sovrappiù; la sostituzione di equazioni simultanee per la
determinazione di prezzi e profitto senza valori-lavoro alle equazioni di Marx consente un calcolo corretto
e rappresenta un “rafforzamento” della teoria economica di Marx; quindi, la teoria marxiana del valorelavoro è superflua e inutile.
Pal. Benissimo, veramente. E che dite voi signor Simplicio? Poco fa ammettevate che le condizioni per la
soluzione del sistema sraffiano sono le stesse determinanti del valore in Marx, e ora al contrario dite che la
teoria del valore è inutile. Regola eccellente per non saper mai conoscere né i valori né i prezzi; cosicché,
senza determinazione del plusvalore mediante il tempo di lavoro, il vostro profitto medio - come scrisse
Marx a difesa di Ricardo contro l’economia volgare - è media di niente, pura fantasia!
Sraffa - mutuandola da Leontiev, von Neumann & co. - assume come “nota” (ma non conosciuta!) la
cosiddetta matrice della tecnica. La trova bell’e pronta, come tabella di “coefficienti” e l’eleva insediandola
a livello di “sistema”. Ma gli sraffiani non dicono mai una parola sulla nascita oscura di quella “tecnica”.
Siccome essa rappresenta la matematizzazione di un problema economico (dunque sociale), essa non dice
nulla finché non si chiarisca la natura di questo problema. I coefficienti o parametri di quella matrice non
sono numeri qualsiasi, che si possano supporre “calcolati” da un ingegnere. Essi sono il risultato di una
articolata elaborazione che commisura una particolare massa dei mezzi di produzione al volume del prodotto
lordo sociale (preso come unità). Ciò che andrebbe spiegato - e che tutta quanta l’economia peripatetica “in
libris” tace - è il fatto che quella trasformazione dei mezzi di produzione in prodotto è tale, per quantità e
composizione, solo in virtù del lavoro erogato. La differenza tra quelle due masse è la massa del prodotto
netto, di fronte al quale c’è il lavoro vivo e basta, come abbiamo già argomentato.
Allora, la misura di quei coefficienti “tecnici” della matrice è tanto poco tecnica quanto invece è sociale nel senso che in tali elementi è già incluso tutto ciò che serve per la determinazione del concetto di valore,
dianzi ricordata, talché l’effettuarne o no il “calcolo” diventa del tutto inessenziale. Ciò che è essenziale è
che, nelle condizioni storicamente determinate del modo di produzione capitalistico, la “conoscenza” (e non
semplicemente la “notorietà”) di codesti elementi vale come rispecchiamento analitico del porre teoreticamente il valore: se gli sraffiani pensano, negandolo verbalmente, di sfuggire a ciò, è solo affar loro.
D’altronde, alla radice del tutto, c’è un problema di principio molto più profondo. Anche la sraffologia,
normativa e kantiana, dovrebbe interrogarsi su che cosa sia una “grandezza” e perché essa sia “misurabile”.
Inserendosi criticamente nella disputa - un po’ “caprina”, e sulla quale non è qui possibile insistere più di
tanto - tra Ricardo e Bailey, circa la considerazione del carattere, assoluto o relativo, del valore, Marx critica
quel “cacasenno di Samuel Bailey” perché vorrebbe determinare il valore delle merci mediante il valore di
un altra merce [il non meglio identificato “valore del lavoro”, il che significa già presupporre il lavoro in
quanto merce]: ma lo sraffismo non fa altrettanto? Anzi, peggio: attesoché, avendo eliminato il valore, passa
direttamente ai prezzi, si costringe così da se stesso a ricercare spasmodicamente una “misura invariabile” di
tali prezzi.
Non comprendendo il problema di una misura immanente - che non può essere il valore o prezzo di un’altra merce, perché chiunque dovrebbe sapere che il concetto e l’unità di misura devono essere indipendenti da
ciò che si vuole misurare - quel problema viene identificato, ed è perfino istintivo che sia così, finché le due
cose vengano confuse, con la ricerca di una “misura invariabile”. Seppure il valore di una merce espresso in
rapporto al tempo di lavoro (che non è merce) può essere convenzionalmente definito valore “assoluto”, va
da sé che il valore di una merce in termini di un’altra merce è necessariamente, per definizione, “relativo”:
tanto che riferirlo al valore di scambio delle merci diventa perfino un nonsenso, non potendo essere
altrimenti. Ma, frastornati dal loro abbandono della base di valore e confusi nella ricerca dell’invariabilità di
una misura di cui non conoscono l’immanenza, gli sraffiani pleonasticamente insistono a definire i loro
rapporti di scambio come prezzi relativi - come se il prezzo potesse avere un altro carattere!
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Simpl. No, è la necessità in cui ci troviamo di dover esprimere il prezzo di una merce in termini di un’altra - la quale viene scelta arbitrariamente come misura dei valori - che complica lo studio dei movimenti di
prezzo che accompagnano ogni cambiamento nella distribuzione del reddito nazionale. Se potessimo scoprire
una merce composita, le cui variazioni di prezzo rispetto ad altre merci abbiano origine esclusivamente nelle
peculiarità di produzione delle merci con cui essa è confrontata, e non nelle sue proprie, saremmo in
possesso di una misura invariabile dei valori capace di isolare le variazioni di prezzo di qualsiasi altra merce,
in modo da poterle osservare come in vacuo. Una mescolanza di tal genere - in cui le varie merci vengano
prodotte nelle stesse proporzioni in cui si ritrovano nel complesso dei mezzi di produzione - costituisce la
merce composita tipo o merce-tipo. I matematici, interrogati come esperti, ci assicurano che nell’individuazione formale della merce-tipo non si incorre in incongruenze matematiche.
Mac. C’è da cadere dalle nuvole, all’affermazione del signor Simplicio: che c’entra un discorso di
congruenze realmente plausibili (di realizzabilità possibili) con un discorso di congruenze algoritmiche?
Sraffa muove dalla merce invariabile di valore enfatizzando una preoccupazione teorica di Ricardo, da cui
nei fatti Ricardo era assai meno preoccupato. Il che significa rendere formale - teoristizzare - la mancanza
reale di tale merce. Chiamerei questo, piuttosto, un trabocchetto-tipo dell’economia formale.
Supposto un Ricardo preoccupatissimo di una possibile merce invariabile di valore, è conseguenza ovvia
per Sraffa accedere alla strampalatissima fabbricazione di un submercato fornitore di merce-tipo. Ovverosia,
una volta deciso che la merce invariabile del valore sia la preoccupazione principale di Ricardo (e che Sraffa
sia da interpretare, secondo gli sraffologi, in chiave di “problema della trasformazione”) non rimane che
vedere se, manipolando il mercato dato, lo si possa ridurre in un altro mercato che possieda le stesse
equazioni pur essendo vincolato ad avere paniere di valore immutabile. Il matematico ci informa che la cosa
è possibile. Se ho ben capito il salariato sarà pagato nel mercato originario in unità di merce-tipo - diciamo
“sesterzi-tipo”. Ma qui c’è qualcosa ce non mi è chiaro.
Pal. Chiariamolo subito, allora. Sraffa stesso definisce il marchingegno del sistema-tipo come ausiliario,
virtuale e immaginario. In effetti è facile mostrarne l’incoerenza e l’inutilità, poste le condizioni che sono
richieste per individuarlo a confronto con le tre condizioni accettate dal signor Simplicio per determinare
facilmente il sovrappiù. Orbene, date queste ultime, non c’è nessunissimo bisogno di inventarsi alcun sistema
sub-normale da scovare in nuce nel sistema reale, con la presunzione di rendere questo più “trasparente”.
Esso è già di per sé trasparentissimo, basta avere occhi per vedere. Già Marx criticava così il “programma di
Gotha”: “il socialismo volgare (e con esso una parte della democrazia) ha ereditato dagli economisti borghesi
l’abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di
rappresentare il socialismo come qualche cosa che riguarda essenzialmente la distribuzione. Ma dato che i
rapporti reali sono stati da molto tempo messi in chiaro, perché tornare indietro?”.
A maggior ragione risulta assurda e incomprensibile la conseguente misurazione, anche del salario, in
merce-tipo. Sraffa dice, en passant, che le proprietà del sistema immaginario corrispondono a quelle del
sistema reale alla sola condizione che il salario sia espresso in termini di prodotto-tipo. Molto si è discusso
sul significato da attribuire a quel “espresso in termini” - tanto che il signor Macredo ebbe a chiedersi che
senso potesse avere, rispetto alla realtà della società civile, ipotizzare la corresponsione del salario in
“sesterzi-tipo”. Senza dilungarsi su quest’altra futile quistioncella sraffologica, basterà dire che quella “sola”
condizione invalida tutta la costruzione virtuale dello sraffismo.
Infatti si danno i seguenti casi: uno. se si pensasse di “esprimere”, misurare o pagare, i salari in mercetipo (che include bulloni, olio combustibile e quant’altro) non si saprebbe mai che cosa potrebbero farci con
tutto ciò i lavoratori, se non scambiarli con mezzi di sussistenza; per la qual bisogna si dovrebbero conoscere
proprio quei rapporti di scambio o prezzi da cui la sraffologia è rifuggita per gingillarsi col marchingegnotipo; due. se invece, come preferiscono fare alcuni allievi del Maestro per invocare maggiore credibilità, si
partisse dalla composizione data e nota (ma, ahinoi, evidentemente non conosciuta) del salario nei cui
termini esprimere, questa volta a contrario, il prodotto-tipo, si perverrebbe a due sottocasi, diversi ma
entrambi distruttivi del subsistema virtuale sraffiano; ossia, due-bis. si scivolerebbe in una variante
simmetrica al caso uno, giacché questa volta sarebbero i capitalisti che non saprebbero cosa farsene di
aringhe affumicate, olio d’oliva e manicaretti vari, se non scambiarli con mezzi di produzione; con tutto ciò
che segue per quanto riguarda il ruolo dei prezzi; due-ter. si può, invece - “e massime potendosi ciò eseguire
assai chiaro e speditamente” - partire dalla vera conoscenza del salario materiale, nella sua composizione
merceologica media, per determinare tutte le “grandezze” che si desiderino o che occorrano direttamente nel
sistema reale, con assoluta “trasparenza”; e ciò per la banale ragione che le informazioni necessarie, rientrate
dalla finestra nella composizione merceologica del salario materiale, sono in numero esattamente uguale a
quelle date dai prezzi cacciati dalla porta: con il che il presunto vantaggio chiarificatore del sistema-tipo e dei
suoi ammennicoli vari di salario-tipo, rapporto-tipo, eccetera-tipo, si dissolve come neve al sole.
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In effetti, con quei medesimi dati che servono per determinare il sovrappiù del sistema reale - ordinati e
disposti in una diversa maniera, adeguata al nuovo scopo [ma la matematica serve a questo, anzi solo a
questo, e non a farne corpo mistico del falso scientismo] - è possibile, all’occorrenza qualora lo si desideri,
calcolare tasso di profitto e prezzi, senza nessuna interferenza o ambiguità e, soprattutto, senza doversi
appellare a nessuna “misura invariabile”. D’altronde, sarebbe bastato ricordare che le “conoscenze” che stanno alla base di quegli eventuali calcoli pseudo-ingegneristici sono proprio quelle della teoria del valore,
opportunamente predisposte.
Ecco perché del trentacinquennale libro di Sraffa bastano le prime ventuno proposizioni e pagine
corrispondenti. Il signor Macredo ha opportunamente rammentato dianzi, all’inizio della discussione, che
Sraffa negli anni ‘20, quando aveva appena cominciato il suo definitivo romitaggio cantabrigense,
occupandosi attivamente di Gramsci, studiando Walras e Ricardo e traducendo il suo carissimo amico
Keynes, leggeva con grande attenzione le pagine dell’originale russo di un libro - la cui unica copia
disponibile in occidente era in suo possesso, non essendone reperibile ancora neppure alcuna traduzione dell’economista matematico Vladimir Karpovič Dmitrev. Ma non sa, forse, il signor Simplicio che cosa
contenesse quel prezioso libriccino?
Dmitrev fu il primo ad analizzare comparativamente le opere di Ricardo e di Walras, allo scopo esplicito
di mettere - abbastanza arbitrariamente, ma con molta originalità per l’epoca - le vesti formali del secondo
sul corpo del primo, per costruire una teoria formale della distribuzione e dei prezzi “senza valore”, in una
configurazione algebrizzata di equilibrio economico generale. Vladimir Karpovič dimostrò colà la perfetta e
completa equivalenza tra il calcolo dei prezzi come lavoro di epoche diverse (in un corretto sviluppo in serie
di Taylor, e cioè senza presunti “residui” di merci) e la loro soluzione come sistema di equazioni lineari
omogenee (ossia, come soluzione solo formalmente simultanea) - ciò che includeva anche i casi-limite
matematici, evitando così di scivolare in interpretazioni mistiche sui supposti meriti del lavoro “datato”
trascorso. Costruì pure una “merce composita”, ma solo per misurare “invariabilmente”, a posteriori, i
prezzi. Mise in luce l’importanza della composizione merceologica del prodotto globale rispetto all’insieme
dei mezzi di produzione (ciò che in seguito sarebbe stata chiamata merce-base), e soprattutto della
composizione del salario rispetto alla soluzione del sistema [per queste motivazioni puramente matematiche,
sottolineò i vantaggi, appena formali, della possibile individuazione di un sub-sistema economico virtuale
che producesse solo, direttamente e indirettamente, le merci per il salario]. Date queste basi analitiche, non
commise neppure l’errore dell’economia peripatetica sraffiana sull’individuazione delle determinanti del
tasso del profitto, potendo indicare perciò pure il senso - invero da lui stesso considerato del tutto limitato della “relazione inversa” tra salario e profitto.
Ma tutto questo lavorìo fu progettualmente svolto da Dmitrev proprio con l’intento di svuotare la pignatta
ricardiana del valore (e a fortiori quella marxiana del plusvalore) per metterci dentro il commestibile
walrasiano. Ricardo era ridotto a un caso particolare di Walras. Il signor Simplicio si chiederà che cosa
c’entri Sraffa in tutto ciò. Bene: innanzitutto, quanto ai contenuti teoristici, il suo stesso sistema postricardiano senza-valore, pallida copia di quello, è destinato a seguire la medesima sorte, senza poter dunque
accampare nessuna ragione per pretendere un qualche riferimento a Marx e al marxismo; e ciò giacché, in
secondo luogo, tutte le trovate di Dmitrev appena elencate sono esattamente quelle che Sraffa ha travasato
senza pudore nel suo scritto lungo 35 anni. Né interessa ora più di tanto accusar Sraffa di plagio - che pur è
ravvisabile, anche se nessuno nella ricerca scientifica inventa mai qualcosa di assolutamente nuovo - ancor
che non finisca di stupire la circostanza misteriosa per cui Sraffa, nei suoi acknowledgements, non fece la
menoma menzione di quel libro più unico che raro: a meno di pensare che ciò non fu tanto per questione di
immagine personale, bensì per salvaguardar l’operazione “politica” di “rafforzamento” del marxismo
perseguita dai nuovi peripatetici, che altrimenti sarebbe stata svilita e impedita pregiudizialmente per
l’appartenenza “walrasiana” della fonte primaria medesima.
Mac. In tal modo, dunque, la nuova economia peripatetica, la sraffian economics congiuntamente con la
sraffian mathematics [occorre abituarsi all’idea che esiste il matematico-economico professionista (pagato
come tale, come in un nuovo “mandarinato”) addetto a controllare la congruenza formale dei papers] ha
trasformato un problema sociale in un problema algebrico. Noi siamo garantiti dalla possibilità algebrica che
un mercato dato sia riducibile ad un altro mercato che possieda le stesse equazioni di struttura pur essendo il
mercato “ridotto” (ovvero manipolato) possessore di una merce-tipo con cui pagare i salari in quello dato.
Simpl. Il Maestro ha già dimostrato che con i prezzi si può fare benissimo a meno dei valori, e che, grazie
all’esperimento in vacuo del sistema-tipo, non c’è altro da aggiungere. Ma se i signori Macredo e Palviati
hanno ancora soverchi dubbi in merito al significato del sistema sraffiano, occorrerà spiegar loro che cosa
noi intendiamo, nella nostra soluzione formale, per simultaneità. Le cose, a nostro parere, stanno nel modo
seguente.
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La difficoltà non può essere superata col distribuire il sovrappiù prima che i prezzi siano determinati. La
ragione di ciò è che il sovrappiù dev’essere distribuito in proporzione ai mezzi di produzione, e una siffatta
proporzione fra due aggregati di merci eterogenee (e cioè il tasso del profitto) non può essere determinata
prima che si conosca il prezzo delle merci. D’altra parte, non si può differire la ripartizione del sovrappiù fin
dopo che i prezzi siano conosciuti, perché i prezzi non possono essere determinati prima che sia conosciuto il
tasso del profitto. Ne risulta che la ripartizione del sovrappiù deve avvenire attraverso lo stesso meccanismo
e nello stesso tempo in cui avviene la determinazione dei prezzi delle merci.
Il problema sorge dunque perché la misurazione del tasso del profitto è fatta come rapporto di due
aggregati di merci (profitti e capitale anticipato) di cui occorre conoscere i prezzi; ma nella determinazione di
questi entra necessariamente quel tasso del profitto, che è così da determinare simultaneamente con quei
prezzi, onde evitare un pericolo di circolarità.
Mac. Tramite questa preoccupazione Sraffa (o la sraffologia) passa al “problema della trasformazione”. E
cioè arriva al problema della trasformazione con preoccupazioni assai diverse da quelle di Marx. Per la
verità, Sraffa neppure accenna al problema di Marx [di cui fa appena il nome solo tre volte nell’appendice
sulle fonti, ma a proposito del sovrappiù in agricoltura, del tasso massimo del profitto e del capitale fisso]. È
stata la sraffologia che gli ha affibbiato questo proposito come un merito, dal momento che Sraffa avrebbe
finalmente risolto l’annoso problema: facendolo scomparire in una sorta di “chi l’ha visto?” teorico.
Il “tragico dilemma” della trasformazione in Marx? Esiste? Marx muove dal concetto base che i capitalisti
costituiscono una classe (macrosociologia) la quale sfrutta un’altra classe (macrosociologia), in quanto direbbe oggi Marx, osservando nell’empirìa odierna le multinazionali e le finanziarie, e poi il piccolo ch’è
bello subalterno al grande ch’è meglio - una classe capitalista, sia pure algoritmicamente non precisabile,
deve pur esistere da qualche parte, pur a dispetto di un tasso di profitto concorrenziale. Più che mai appare
che questa macrosociologia - muovendo da pluslavoro, forza-lavoro, ecc., per postulare l’esistenza di un
monte profitti (chiamabile plusvalore) da parte di una classe (chiamabile capitalista) - sia oggi fortemente
esplicativa del reale. La classe capitalistica sfrutta la classe fornitrice di forza-lavoro, e, tramite, la
concorrenza, ripartisce la massa del profitto in tasso corrente medio.
Pal. Signori, non vorremo di certo qui impelagarci mica nell’annoso e sconveniente “problema della
trasformazione”? Quanto c’era da dire è stato detto da tutti, e anche da noi, altrove. Inutile rimbalzarci le
accuse, tanto più che le orecchie dei peripatetici sembrano vieppiù sorde per intendere il senso proprio della
quistione. Vorrei piuttosto solo ricordare che di ogni domanda si conviene discernere il grado di semplicità nel senso hegeliano - per adeguarvi la risposta, anziché procedere all’opposto, capovolgendo l’ordine logico
delle cose e complicandone inutilmente il senso. In ciò dicendo, mi piace rammentare il motto del signor Galilei secondo cui “conviene che i movimenti semplici sieno de i corpi semplici”: altrimenti, si rischia di
favorire i trucchi del peripatetico, il quale con “tutti gli indizi che egli ha, mira di cambiarci le carte in mano,
e di voler accomodare l’architettura alla fabbrica e non costruire la fabbrica conforme ai precetti dell’architettura”.
Ciò che non comprendono gli “economisti in libris” è il fondamento di valore del modo di produzione
capitalistico, epperò anche il suo cominciamento di lavoro. Sicché la cecità loro rende impossibile vedere che
la trasformazione - anche quella del valore, in grandezza di valore, in forma di valore, in valore di scambio,
in prezzi (monetari), in prezzi di produzione, di riproduzione, di mercato, ecc. - non è altro che mutamento di
forma, per l’appunto “tras-forma-zione”. E che natura e proprietà di ciascuna forma mutevole non è per
niente indifferente, bensì è essenziale, adeguata alla “semplicità” che si conviene. Prima di giungere allo
stadio in cui il passaggio ai prezzi diviene un problema “puramente matematico” - come anche Marx indica occorre aver esaurito l’esame di tutti i “movimenti semplici” di forma dietro ai quali è in agguato la peculiare
domanda sul cui contenuto la mente che riflette è chiamata a rispondere. Tale è la natura del processo di
svolgimento dei prezzi. Rabbassarlo ad algoritmo numerico significa perderne ogni contenuto e non capirne
l’essenzialità della forma. Ma di ciò è inutile discutere coi formalisti.
La circolarità viziosa della determinazione dei prezzi e del tasso del profitto, temuta dal signor Simplicio,
è appunto una conseguenza di quel formalismo, con l’aggravante che la semplicità necessaria vien fatta
scomparire anche nel ritenere, senza alcuna motivazione plausibile, che il tasso del profitto debba
necessariamente calcolarsi come rapporto di due aggregati: di due “ferri di legno”, direbbe Hegel. In realtà,
perciò, quella è solo una circolarità viziosa del suo discorrere. Lo stesso Sraffa avvertì, nella nota sulle fonti,
che il processo economico da lui esaminato è caratterizzato da un flusso di circolarità reale della
produzione, anziché essere connotato, come nei marginalisti, quale percorso a “senso unico” da fattori di
produzione a prodotti. Ma poi, di tale avvertimento, tutta la sraffologia, incluso il suo fondatore, sembra non
tenere conto.
Quel conclamato vizio di circolarità del ragionamento - che gli sraffiani non riescono a far corrispondere
alla circolarità delle cose economiche - essi cercano di risolverlo algebricamente attraverso una concezione
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mistica della simultaneità formale della soluzione. Non si avvedono, cioè, che quella simultaneità delle equazioni lineari raggruppate in un sistema omogeneo è, per l’appunto, solo formale - ovverosia, detto altrimenti,
è solo una simultaneità di scrittura. Per esser più chiari [anche nei confronti di chi non sia avvezzo ai giochi
matematici, tra i quali vi sono tuttavia anche molti di coloro che credono opportuno seguire le peripezie
sraffiane]: è fatto ordinario che un “sistema” di equazioni - per esser definito tale e non inteso appena come
“mucchio” di equazioni - ancorché omogeneo, sia scritto mettendo simultaneamente sulla carta tutti i
parametri e tutte le variabili, sia quelle additive, che conferiscono l’attributo di linearità, sia quell’unica
moltiplicativa che ne designa l’omogeneità. Ma, fatto ciò, il problema va oltre la scrittura.
È una questione di logica, e non solo e non tanto di logica formale. La logica del reale - la dialettica delle
cose - richiede, come Marx indica chiaramente, che il tasso del profitto venga determinato prima dei prezzi,
poiché i prezzi (di produzione) non rappresentano altro che le grandezze relative capaci di garantire che quel
tasso di profitto che li ha definiti abbia effettivamente a verificarsi, nella circolazione e nello scambio reali.
Se la matematizzazione del processo reale è corretta, la medesima successione logica non può che
rispecchiarsi anche nella forma algebrica. E così è, in quanto alla “scrittura simultanea” del sistema di
equazioni corrisponde una priorità di determinazione della variabile moltiplicativa (che rappresenta
appunto il tasso di profitto, senza che occorra addivenire al “ferro di legno” del “rapporto tra aggregati”)
rispetto alle variabili additive (che rappresentano i prezzi). Pur essendo costoro formalisti, è stato finora
impossibile riuscire a far capire agli sraffiani una tale semplice e inconfutabile verità “formalmente
formale” (come la chiamerebbe Marx).
Da tale impoverimento della dialettica materialistica della storia del capitale - in cui la relazione tra i
diversi capitali (o “industrie”, come preferisce chiamarle Sraffa) si riduce alla regola aurea dell’uniformità
contabile del tasso di profitto affinché si abbia equilibrio armonico - deriva che, nell’economia
peripatetica, anche della concorrenza vi sia assoluta mancanza reale o semplice parvenza formale. Essa è
detta, ma non opera.
Simpl. Se mi si chiede ora, a sproposito, che cosa sia la concorrenza, stento a capire la domanda. Va da sé
che il tasso di profitto debba essere uniforme per tutte le industrie, se si vuole spiegare l’equilibrio del
sistema. D’altronde, mi pare che anche Marx fosse del medesimo avviso quando parlava del tasso generale
del profitto. È patrimonio comune di tutta l’economia politica considerare la concorrenza come quella legge
di mercato in virtù della quale le decisioni prese indipendentemente dai diversi agenti economici divengono
reciprocamente compatibili e conducono a un equilibrio armonico del sistema. Pregio fondamentale di questa
legge è che secondo essa il comportamento concorrenziale risulta essere l’unico perfettamente razionale, e
dunque vantaggioso, tanto per i consumatori quanto per i produttori.
Sembra una naturale conseguenza di ciò, allora, che anche tutte le altre situazioni, più o meno concrete,
che si allontanano da quell’ipotesi teorica, siano definite “in negativo” rispetto al caso ideal-tipico. Peraltro,
anche il mio amico baronetto Keynes - al pari dei suoi maestri neoclassici - considera talmente implicita
nelle cose economiche l’ipotesi concorrenziale in funzione della stabilità sociale, da non darle una specifica
rilevanza. A parte un paio di rimandi storici e una considerazione di eccezione alla regola concorrenziale,
Keynes vi fa riferimento due volte soltanto - come semplici condizioni di regolare funzionamento del sistema
e in via del tutto inessenziale.
Mac. Ma non si avvede, il signor Simplicio, che proprio di qui sorge il dilemma della concorrenza: come
sfuggire alle leggi della concorrenza. Per ricondizionare i tassi di plusvalore diversamente lucrabili per
aziende a diverse composizioni organiche del capitale, il problema centrale marxiano per il cosiddetto “imprenditore rappresentativo” si presenta come quello di lottare contro la libera concorrenza nel momento
stesso ch’egli è in lizza per la libera concorrenza. Gli sforzi del singolo capitalista consistono nel lottare con
accorgimenti (plusvalore relativo, cottimi, straordinari, sviluppo tecnologico del capitale costante,
concentrazione, fusioni, assorbimenti, investimenti in aree depresse, appalti, ricorso a legislazione protetta,
abolizione dello sciopero, ecc.) tutti rivolti al perseguimento di quel fine: ma il risultato è che la
concorrenza mangia se stessa.
Pal. La lotta mortale tra “fratelli nemici” è ciò che Marx intende per concorrenza. Ristabilendo, ancora
una volta, il corretto rapporto tra causa ed effetto, capovolto dall’ideologia borghese, Marx mostra come sia
la discesa del tasso di profitto a scatenare la lotta, ossia la concorrenza, e non già quest’ultima a operare al
fine di livellare verso il basso - il mitico livello zero! - il cosiddetto tasso di profitto di equilibrio di lungo
periodo. Di nuovo, soltanto nell’analisi marxiana, e non nell’economia peripatetica tutta, sraffian economics
inclusa, il discorso muove dalla sfera della produzione dove realmente lottano i diversi capitali; mentre nell’altro caso si riduce la concorrenza a una mera “forma di mercato”, nella sfera della circolazione.
È la molteplicità dei capitali che caratterizza la peculiarità effettivamente operante del contesto marxiano:
quella molteplicità che, a ben guardare, al di là delle dichiarazioni verbali e delle formule, non c’è da nessuna
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parte nell’economia borghese. Non sembri un paradosso. Gli “economisti in libris” di tutte le scuole trattano
in effetti come oggetto della loro analisi un ipotetico “Capitale” con la C maiuscola senza contraddizioni
interne e operante come unico centro di decisione - anche quando c’è la parvenza dell’infinità di capitali
atomistici, non a caso raffigurati nella metafora dell’“impresa rappresentativa”, o l’empirìa del capitale
oligopolistico, regolarmente confluente in modelli cosiddetti “collusivi”, ossia non conflittuali.
Una teoria segnata dalla mancanza di molteplicità, di conflittualità e di contraddizioni dei capitali, non
può neppure pensare di formulare il concetto di crisi - come categoria immanente e dunque necessaria, non
già accidentale e perciò solo empiricamente possibile. [È questo il caso keynesiano, che può trarre in inganno
per il suo pragmatismo aconcettuale: ma un sistema in cui si prevede che una situazione (di crisi) possa
essere evitata a priori non può includere tale situazione tra le proprie categorie scientifiche - e, a dire il vero,
non assurge neppure al rango di “teoria”]. L’interesse del capitale è uno - contro il lavoro salariato - e come
tale viene rappresentato dai suoi accademici. Non stupisca neppure, allora, che il “capitale” sia scritto solo
come una parola, poiché come rapporto sociale esso di nuovo non c’è. Sraffa non fa eccezione.
Mac. Discettare sull’algebra della trasformazione e teoristizzare sulla forma, senza indagare sulla
struttura sociale di classe significa evadere dal marxismo e dalla realtà concreta. Con la disoccupazione
femminile e giovanile, il dilagare di nuove caterve di miserabili, con frammezzo le categorie più o meno
protette degli occupati-in-regola, e via dicendo, a che servirebbe a Marx sapere che Sraffa gli ha “risolto”,
ridotto ad algoritmo, il problema della trasformazione? Quale trasformazione? Facendo scomparire il
problema nel neo-ricardismo (quale neo-ricardismo?) o nelle elaborazioni della sraffian economics,
omologata all’economia politica accademica?
Il marxismo in Italia ebbe, sia pure con molte incertezze ed eccessiva episodicità, ben altre fortune. Certo,
nel campo che per esso sarebbe dovuto essere quello principe - l’economia politica e la sua critica - quelle
incertezze e quell’episodicità sono state anche maggiori di quanto lo siano state sul versante, per così dire,
umanistico. Prima i preoccupanti neo-marxismi variamente assortiti, poi gli pseudo-marxismi coniugati
infelicemente con attribuzioni spurie (dal cattolicesimo al keynesismo), fino alle più recenti demenziali derive post-marxiste, hanno tenuto largamente il campo: il che significa, senza nessuna ironia, che chi non ha
capito nulla sono (siamo) i marxisti, dappoiché in ogni esercizio è la riuscita che conta. Cionondimeno, la
“riuscita” di codeste tendenze è stata effimera: e dunque, in una rivisitazione ponderata delle sorti del
marxismo in Italia - anche dell’economia marxista - c’è grande spazio da restituire a quegli insegnamenti e a
quei nomi che più di altri oggi possono guidare ancora nella comprensione della nostra realtà.
Primo fra tutti Pietro Grifone, di cui troppo presto si è accantonato e dimenticato il magistrale studio del
capitale finanziario; o Giulio Pietranera, nonostante certe sue incongruenze teoriche, forse dovute a uno
spurio sincretismo tra la sua pregressa formazione culturale e l’invadente non sempre felice influenza
dellavolpiana; o puranche Antonio Pesenti, il meno dimenticato perché più “ufficiale”, e perciò forse un po’
troppo scolastico (ma ce ne fosse oggi di tale “scolasticismo”!); o perfino Raniero Panzieri, il quale - nonostante la sua grave insufficienza dialettica accoppiata all’esasperazione di una “soggettività inorganizzata”
che era, invero più che a lui, attribuibile post mortem al successivo panzierismo operaistico, in quanto basato
sulla “scoperta” del grundrissismo intersoggettivistico e insubordinazionistico, contrapposto surrettiziamente
all’oggettivismo del Capitale [fino all’ultima deriva fenomenologica irrazionalistica, che potrebbe
denominarsi husserlgrundrissismo, di cui Panzieri non può certo ritenersi responsabile] - fu tuttavia presente
alle trasformazioni storiche del modo di produzione capitalistico, con l’intelligenza del Capitale e di Lenin,
alla quale è importante ricondursi, liberando così anche il suo pensiero preso in ostaggio dal movimentismo
superpartitico. Su tutte queste tendenze - piuttosto che su Sraffa, sraffismo e sraffologia - sarebbe utile
riflettere, discutere e anche criticare.
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* NOTA
La parafrasi del Dialogo galileiano qui scelta trae spunto da una serie di circostanze. Innanzitutto, è da
considerare in maniera un po’ sarcastica l’esagerata importanza che, per seguir le mode, negli anni
trascorsi fu data all’opera di Sraffa che, conseguentemente è stata qui definita come “sistema minimo” dell’economia; all’opposto, ma forse proprio per quell’esagerazione pregressa, è altrettanto ingiustificata la
dimenticanza in cui essa è stata poi gettata, tanto più se la si compara con le “nuove” mode dell’economia
neoliberista dai “tratti demenziali”, come la connoterebbe Brecht. Tuttavia, l’abbandono e la successiva
sedimentazione del dibattito intorno a Sraffa può oggi costituire un elemento vantaggioso per riparlarne
post festum.
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In secondo luogo, per ciò che interessa maggiormente i comunisti, vi è da soppesare il ruolo, che è stato
attribuito alla teoria di Sraffa e alla “sraffologia” in genere, da giocare contro il marxismo in un
supponente “superamento” o “approfondimento” o “rafforzamento” o “miglioramento” di quest’ultimo; e
quel ruolo, in quanto assegnato allo sraffismo nei caldi anni sessanta e settanta in Italia, ha da essere
guardato con legittimo sospetto, in quanto l’ideologia dominante, mascherata a sinistra, cercava di
accreditare così la presunta “crisi del marxismo”, epperò presentandola dal di dentro di quella che veniva
suggerita come una delle possibili letture del marxismo senza Marx. Ora, in una riflessione sul marxismo in
Italia nell’ultimo mezzo secolo, questo “dialogo” su Sraffa può contribuire a diradare le nebbie di quella
confusione, risarcendo anche il marxismo italiano nella critica dell’economia politica.
Non è un caso che in quegli anni, anche nella cultura di “sinistra”, il tentativo di distinguere nettamente
Marx da Sraffa (e da Ricardo, ma anche lo stesso Ricardo da Sraffa, nei termini della teoria del valore e del
plusvalore) fu minoritario ed emarginato - avendo “avuto ben poca eco, sopraffatto dal miracolo sraffiano”,
per dirla con Macchioro - al punto da non ricevere mai adeguata risposta dalla sraffologia prevalente,
adagiata nel solco del revisionismo [ancor’oggi, le “celebrazioni sraffiane” pel decennale della morte non
contemplano alcun possibile intervento critico sulla sua opera, venendo escluse a priori]. Quindi, la censura
di quelle diverse opinioni e interpretazioni che rammenta - alla lontana e in maniera farsesca, certo, fatte le
proporzioni storiche e scientifiche - toni da sant’inquisizione accademica, suggeriscono istintivamente, in
terzo luogo, la loro esposizione nella forma del dialogo galileiano.
Cosicché, i critici Palviati (in forma esplicita e immediata) e Macredo (per via maggiormente dubitativa,
ancorché sintetica) possano “proporre e poi liberamente dire il loro parere; esponendosi alla censura dello
sraffiano signor Simplicio, tanto strenuo campione e mantenitore della nuova dottrina peripatetica”.
Scimmiottando Galileo, ciò consente a un tempo, al di là della critica analitica di Palviati, di mettere nelle
parole di Macredo un condensato di alcune tra le prevalenti obiezioni che da più parti sono state mosse a
Sraffa e agli sraffologi, e di far parlare il signor Simplicio con i detti autentici del “Maestro” o dei suoi
allievi [a maggior beneficio del lettore, che comunque non potrà mai essere sollevato dall’onere di
conoscere da sé la gran mole di retroscena che accompagnarono quel dibattito, impossibile da riassumere].
Nell’elaborazione delle considerazioni che stanno dietro alla stesura del “dialogo” - e delle altre
considerazioni sullo “sraffismo” precedentemente e altrove svolte - mi sono avvalso enormemente della
consuetudine di discussione, dibattito a volte anche reciprocamente critico, e proficuo scambio di idee, con
Aurelio Macchioro, al quale esprimo qui tutto il mio apprezzamento e gratitudine - sollevandolo al
contempo, tuttavia, da ogni responsabilità, che rimane interamente mia, circa la maniera in cui io abbia
saputo intendere e utilizzare indirettamente le sue acute osservazioni. [D’altronde chiunque può leggere
esaurientemente i suoi scritti in proposito: segnalo in particolare il saggio, subitaneamente licenziato per le
stampe a immediato ridosso dell’uscita del libro di Sraffa, a mo’ di recensione, Premesse ad una critica della
teoria economica e il sistema tipo, in Annali Feltrinelli, Milano 1961 (ripubblicato in Il dibattito su Sraffa - a
cura di Franco Botta - De Donato, Bari 1974); l’intervento al III convegno degli storici del pensiero
economico, Rileggendo tra Ricardo e Sraffa, in Neo-ricardiana: Graziadei e Sraffa (a cura di Roberto Finzi),
Il Mulino, Bologna 1977; il paragrafo Soggettivismo e sraffologia, del capitolo-saggio Oggettivismo e
soggettivismo negli anni ‘70, dal volume Il momento attuale - saggi etico-politici, Il poligrafo, Padova 1991;
e l’articolo Da Sraffa a Marx, in Mondoperaio, ottobre 1991: da quest’ultimo - ultimo anche in ordine di
tempo - sono tratte molte delle più importanti considerazioni e citazioni testuali (ancorché non
“virgolettate”, data la forma espositiva scelta) riportate nelle parole attribuite al signor Macredo].
Uno dei costumi più volgari e meschini degli intellettuali parvenus nel “mondo accademico” è l’uso
ripetuto fino all’abuso delle autocitazioni: mi si perdoni per una volta l’unica eccezione che sono indotto a
fare, rinviando il lettore - eventualmente interessato a uno sviluppo analitico delle critiche qui suggerite, e
necessariamente non argomentate approfonditamente per risparmio di spazio e di inutili ripetizioni - al
volume in cui ho raccolto sistematicamente tutte le considerazioni che sono andato elaborando per anni
contro lo sraffismo, Pierino e il lupo - per una critica a Sraffa dopo Marx (ovvero, come fu che Pierino S
salvò il lupo Marxicano dai fucili dei cacciatori, epperò lo fece rinchiudere in gabbia), Contraddizione, Roma
1988. Va da sé che in questa sede non occorra dare riferimenti bibliografici sull’opera di Sraffa e degli
sraffiani, in quanto si presumono ampiamente noti e pubblicizzati, al contrario degli scritti critici.
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