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Ritiro per impegnati nel sociale e nel politico – Brescia 14 dicembre 2003
IL CONCETTO DI PERSONA E LE RADICI CRISTIANE DELL’EUROPA
1. Senza radici non c’è identità.
Scrive M. Scheler: «Mai e in nessun luogo i semplici trattati creano da soli una vera comunità.
[…] al massimo essi la esprimono»1. Commenta G. Reale: «Una comunità ha radici culturali e
spirituali che trascendono i principi razionali puramente astratti e la dimensione delle leggi
giuridiche ed economiche. Una Costituzione rischia di rimanere una costruzione “geometrica”
artificiale se non fa riferimento ad un soggetto che, al di là di ogni diversità, possieda un’unità
spirituale di fondo»2.
Senza radici non c’è identità. Vogliamo perciò guardare una di queste radici alla quale ci
rimanda il concetto di persona, caposaldo delle più solenni carte delle società moderne, come ad es.:
a) Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (10 dicembre 1948)
Preambolo: Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro
fede nei diritti fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'eguaglianza dei
diritti dell'uomo e della donna, e hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior
tenore di vita in una maggiore libertà…
b) Costituzione Italiana (7 dicembre 1947)
Principi Fondamentali: Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
c) Bozza della Costituzione Europea (18 luglio 2003)
Preambolo: Consapevoli che l’Europa è un continente portatore di civiltà; che i suoi abitanti,
giunti in ondate successive fin dagli albori dell’umanità, vi hanno progressivamente sviluppato i
valori che sono alla base dell’umanesimo: uguaglianza degli esseri umani, libertà, rispetto della
ragione; Ispirandosi alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, i cui valori, sempre
presenti nel suo patrimonio, hanno ancorato nella vita della società il ruolo centrale della persona,
dei suoi diritti inviolabili e inalienabili e il rispetto del diritto […]
Ora, in questi testi, tranne il riferimento all’‘eredità religiosa’ nella bozza della C.E., non si
menziona esplicitamente il cristianesimo, che è di fatto la vera radice del concetto di persona. Ora,
se anche non si esplicita tale riferimento, il tacerne non può assolutamente essere inteso come la
negazione dell’effettivo ruolo svolto dal cristianesimo nell’elaborazione del concetto di persona. Per
rendercene conto, ricostruiamo brevemente il percorso, attenendoci alla prospettiva di questo
intervento, che è una meditazione e non uno studio su tale problematica, benchè si intersechi con la
riflessione filosofica.
2. L’assenza del concetto di persona nella filosofia antica (greco-romana).
Osserviamo dai testi costituzionali sopra indicati che il concetto di persona include le seguenti
caratteristiche: la considerazione della ragione come specifico dell’uomo, la libertà, la dignità, il
valore che gli appartengono in proprio, e quindi il suo essere soggetto di diritti inviolabili ed
inalienabili. Tutto ciò fa della persona qualcosa che non solo si distingue dagli altri esseri, come
ogni individuo si distingue da un altro (anche un gatto è un individuo), ma si staglia nettamente su
tutti gli altri esseri (naturali o artificiali, comprese le istituzioni) e ad essi non può venire asservita,
bensì questi sono a suo servizio. Qual è il fondamento di questa concezione? A quali condizioni la
1 L’eterno nell’uomo, Milano 1972, p. 550.
2 Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’“uomo europeo”, Milano 2003, p. XXIV.
2
persona gode di tali prerogative, non semplicemente riconosciutele da qualche parlamento? Dove
sta in ultima analisi la radice del valore assoluto della persona, che è uno dei cardini della nostra
società?
Nessuno nega la radice culturale greca nella formazione dello spirito europeo. Consideriamo
allora alcuni punti nodali di tale pensiero, scorgendone l’arricchimento per il cammino di
civilizzazione dell’uomo, ma anche un’intrinseca povertà proprio a riguardo della nostra tematica.
A questo punto apparirà la novità apportata dal cristianesimo.
a. Il pensiero greco è cosmocentrico, non antropocentrico.
La domanda che ha dato l’avvio alla riflessione filosofica greca verte sul cosmo: qual è il
principio (o arché), da quali elementi è costituito? Per l’antico non l’uomo ma il cosmo fa
problema. In questa problematica è assorbito anche il problema dell’uomo, come parte del cosmo.
L’uomo è un individuo che in quanto tale si distingue dagli altri, ma che non si differenzia quanto
alla natura. Anch’esso è composto degli elementi di cui è composto il cosmo nel suo insieme.
Per i filosofi greci il mondo non è opera di nessuno, è sempre esistito e un greco si chiede «che
cosa è e come è fatto il mondo», piuttosto che «perché il mondo esiste». Inoltre per i greci l’eternità
del mondo conduce ad una visione sostanzialmente ciclica del tempo, legata al fato e alla necessità,
che impone al “mondo sublunare” di dipendere dai movimenti dei vari cieli incorruttibili e dalle
varie congiunzioni degli astri. La storia dell’uomo non ne è esente ed è fondamentalmente
irrilevante rispetto al sapere «scientifico» del necessario e dell’universale. L’uomo, come ogni altro
essere, emerge ed è condotto dal flusso perenne degli elementi cosmici.
b. L’uomo è la sua anima razionale (svalutazione del corpo)
Con Socrate vi è da una parte il risveglio dell’attenzione all’uomo, ma dall’altra di esso si ha una
considerazione parziale. Se l’uomo si differenzia dagli altri esseri per la sua anima razionale, con
ciò tuttavia non vuol dire che sia superiore ad essi.
Socrate pone attenzione a ciò che differenzia l’uomo da tutti gli altri esseri: la sua anima. Ma di
quale anima si tratta? Anche le piante e gli animali sono animati, cioè viventi. Ciò che differenzia
l’uomo da questi viventi è l’anima razionale. L’uomo è dunque la sua ragione. Nell’uomo ci sono
però un corpo e un’anima; quindi, l’uomo è o corpo o anima o l’insieme di corpo e anima. Ma
l’anima è quella che comanda, mentre il corpo è comandato ed è al servizio di essa: il corpo è come
uno strumento a disposizione dell’anima. L’uomo, pertanto, non può essere se non l’anima. Inoltre,
poiché l’anima non ha nulla a che fare con la materia che è corruttibile, mentre la ragione è
puramente spirituale e perciò incorruttubile, l’anima è immortale, mentre il corpo è mortale. Il
dovere dell’uomo è, conoscendosi per ciò che è, di prendere cura di se stesso, cioè della sua anima;
se invece si prende cura del proprio corpo e dei beni, cura ciò che ha e possiede, ma non ciò che è.
I concetti di anima, di “cura dell’anima”, e della sua immortalità, sono una scoperta dei Greci. Il
pensiero tardogiudaico e in seguito il cristianesimo se ne appropriarono non senza difficoltà
(pensiamo ad es. alla controversia di Gesù con i Sadducei – Mt 22, 23 e par.). È solo tardiva infatti
la concezione dell’immortalità (attorno al II sec. a. C., col II libro dei Maccabei).
Dalla identificazione dell’uomo con la sua anima razionale deriva, però, il dualismo platonico,
secondo il quale la composizione di anima e corpo è destinata a dissolversi, essendo il corpo
semplicemente il ricettacolo, anzi il carcere o la tomba dell’anima, da cui occorre liberarsi.
Giocando sull’assonanza dei termini soma (=corpo) e sema (=tomba), scrive Platone: «Alcuni
chiamano il corpo [soma] tomba [sema] dell’anima, come se essa vi si trovasse sepolta nella vita
presente. […] Tuttavia, mi sembra che questo nome sia stato assegnato soprattutto dai seguaci di
Orfeo, dato che per essi l’anima sconta la pena delle colpe che deve espiare, e ha questo involucro,
immagine di una prigione, affinché si salvi. Questo, pertanto, come suggerisce il nome stesso, è
“custodia” [soma] dell’anima, finchè essa non abbia pagato il suo debito»3.
3 Cratilo, 400 C.
3
Il corpo viene visto addirittura come la causa di tutti i mali. Scrive ancora Platone: «In effetti,
guerre, tumulti e battaglie non sono prodotti da null’altro se non dal corpo e dalle sue passioni.
Tutte le guerre si originano per brama di ricchezze, e le ricchezze noi ce le dobbiamo procacciare a
causa del corpo, in quanto siamo asserviti alla cura del corpo»4.
Per Aristotele inoltre, l’uomo, nella sua composizione di anima e corpo, non è l’essere di
maggiore dignità. Per lui infatti «Vi sono altre cose più divine dell’uomo per natura, come, per
restare alle più visibili, gli astri di cui si compone l’universo»5.
Così pure Plotino, a cavallo tra il II e il III sec. d.C., scrive che «[…] l’uomo non è il migliore
degli esseri viventi»6. E, in evidente opposizione alla dottrina cristiana della risurrezione della
carne, sosteneva la tesi antitetica della risurrezione dalla carne.
Per cui per il greco l’uomo è o semplice materia animata, o semplice spirito imbrigliato. Non v’è
la concezione dell’uomo come unità di materia e spirito; semmai c’è momentanea composizione. Se
quindi da una parte è capitale la scoperta dell’anima spirituale per la comprensione dell’uomo
stesso, dall’altra è impoverente e pericolosa la frattura dell’uomo in se stesso.
c. L’ideale della ragione: la contemplazione del perfetto
La mente speculativa greca, massimamente esemplificata da Aristotele, tende alla conoscenza
del generale, non del particolare. Solo a questa condizione può esserci scienza, cioè sapere
dell’universale. Qui si gettano le basi del sapere scientifico, anche odierno, che mira a scoprire le
leggi dei fenomeni, e non solo a descriverli. Ora, per raggiungere ciò che è universale e necessario
occorre superare la particolarità, la frammentarietà. È assurdo per la mente antica che l’infinito e
l’universale possano esprimersi compiutamente in qualcosa di determinato. Il pensiero greco è
pensiero delle forme, delle essenze, che in quanto tali sono perfette. Mentre le singole cose sono
imperfette, la loro idea (o forma, o essenza) è perfetta; nessun triangolo disegnato è perfetto, mentre
lo è la sua idea. Il fine del pensiero è dunque la contemplazione del perfetto, e, in ultima analisi, del
Perfetto per eccellenza che è Dio stesso. Questi, essendo pensiero puro, cioè non frammisto a
nessun corpo, non può rivolgersi all’imperfetto, ma contemplerà solo se stesso. Mentre l’imperfetto
tende al perfetto, il Perfetto non può conoscere l’imperfetto. Dio non conosce il mondo; tanto meno
conosce i singoli elementi che lo compongono, uomo compreso. Dio ignora gli uomini. Non è
degno di Dio conoscere l’uomo.
Scrive infatti Aristotele nella sua Metafisica: «L’Intelligenza divina o pensa se medesima,
oppure qualcosa di diverso; e, se pensa qualcosa di diverso, o pensa sempre la medesima cosa, o
qualcosa sempre diverso. Ma è o non è cosa ben differente il pensare ciò che è bello, oppure una
cosa qualsiasi? O non è assurdo che l’Intelligenza divina pensi certe cose? È pertanto evidente che
essa pensa ciò che è più divino e più degno di onore e che l’oggetto del suo pensare non muta: il
mutamento, infatti, è sempre verso il peggio»7. Dio pensa solo il perfetto, l’immutabile, cioè se
stesso; Dio è pensiero di Pensiero8.
Per cui, da una parte questo ideale della ragione, e cioè la comprensione dell’universale,
permette lo sviluppo del sapere scientifico, dall’altra il nobile lignaggio della ragione che mira al
perfetto porta a distanziarsi dall’umile realtà ritenuta povera e indegna di considerazione.
d. La concezione dell’amore come bisogno e l’impossibilità del rapporto Dio-uomo
Analogamente per la concezione dell’amore. Nel pensiero greco classico, l’amore è inteso come
desiderio di ciò di cui si è privi. L’amore è indice di mancanza, di bisogno, perché si ama, si
desidera, ciò che non si ha. Scrive ad esempio Platone nel Simposio: «“Considera allora [Agatone] –
proseguì Socrate –, se anziché verosimile, non sia proprio necessario che colui che ha desiderio
4 Fedone, 66 C-E.
5 Etica Nicomachea, VI 7, 1141 a 34 sgg.
6 Enneadi, III 2, 10, l. 20.
7 Metafisica, IX, 1074 b 22-27.
8 Metafisica, XII, 1074 b 34.
4
abbia desiderio di ciò di cui è mancante, e invece non abbia desiderio se non ne sia mancante”. […]
[Agatone] “Dici bene! Uno che sia grande, desidera forse di essere grande, o uno che sia forte
desidera forse di essere forte?”. […] “Suvvia – disse Socrate –, ricapitoliamo le cose che abbiamo
detto. Eros non è forse, innanzitutto, amore di alcune cose e, inoltre, di quelle cose di cui sente
mancanza?”. “Sì”, rispose».
In questa concezione dunque, Dio, essendo perfetto, cioè non mancando di nulla, non può amare;
è amato, come perfezione, ma non può amare, perché amare vorrebbe dire piegarsi su ciò che è
inferiore a Lui. Era quindi un assurdo per il greco anche solo pensare che Dio potesse amare, che
potesse andare alla ricerca dell’uomo: l’amore non è degno di Dio, perché Dio non ha bisogno di
nulla. Dio basta completamente a se stesso, è autarchico. Dio è amato ma non può amare: attrae a sé
senza saperlo e senza volerlo. Per il greco l’amore è elevazione, e ciò è positivo, ma nello stesso
tempo è anche separazione, distacco e, in ultima analisi, chiusura.
La filosofia antica ha rifiutato di immaginare un’amicizia, nel senso proprio del termine, tra Dio
e l’uomo, perché l’amicizia suppone una certa uguaglianza. Scriveva Aristotele: «Sarebbe ridicolo,
accusare Dio perché l’amore che riceviamo da lui non è uguale all’amore che gli doniamo, come
sarebbe ridicolo per il soggetto fare un simile rimprovero al suo re. Perché la parte del re è di
ricevere l’amore, non di donarlo, o almeno di amare in un altro modo»9.
Analogamente l’uomo, più si avvicina a Dio, cioè più diviene perfetto, più si distanzia dagli
uomini, cioè meno ne ha bisogno. L’ideale del greco non è amare gli uomini, ma bastare a se stesso,
essere autarchico, il più possibile similmente a Dio che basta del tutto a se stesso. Per gli stoici ad
esempio, – il cui ideale morale era l’apatia, cioè l’imperturbabilità – la misericordia e la
compassione non erano virtù ma difetti dell’anima.
E così, l’avvicinamento a Dio coincide con un allontanamento dagli uomini, dalla storia.
L’amore, per il greco, porta a disincarnarsi dalla storia.
e. I diritti attribuiti (e non propri) dell’uomo.
Se l’ideale è l’autarchia, cioè il bastare a se stessi, l’uomo greco, pur avendo scoperto le altezze
della sua ragione, è un essere chiuso in se stesso. Lo si vede anche nel risvolto sociale: è vero che,
come dice sempre Aristotele, l’uomo è per natura sua un essere sociale; ma questa socialità è
delimitata dai confini della polis, della città stato: vengono riconosciuti uomini solo i cittadini; di
conseguenza solo questi hanno dei diritti. Questo è un passo avanti rispetto all’assoluta arbitrarietà
della legge della giungla dove prevale il più forte. Ora è la forza della legge a prendere il posto della
legge della forza. E in ciò l’uomo fa progredire l’opera di umanizzazione, di civilizzazione. È una
delle conquiste ad esempio del diritto romano. Ma questa legge vale solo per i cittadini. I barbari
(=gli stranieri), non appartenendo alla polis, all’impero, non sono uomini. Non vi sono diritti propri
all’uomo in quanto tale, ma solo diritti attribuiti, cioè derivanti dall’appartenenza ad una polis
(stato). Il diritto romano, ad es. riconosceva i diritti solo al cittadino; lo schiavo aveva solo doveri,
era ritenuto instrumentum vocale (‘strumento che parla’ – noi diremmo robot). È vero che c’era
l’istituto dell’affrancamento; ma questa è l’eccezione che conferma la regola, perché in questo
istituto la libertà è appunto concessa da un altro uomo, non appartiene al singolo in quanto tale.
f. L’assenza del concetto di persona.
Il concetto di persona non compare nella filosofia greca, non con il significato che noi le
riconosciamo oggi (soggetto di dignità e di diritti propri, non semplicemente in quanto riconosciuti).
Il termine persona, pur presente, è inteso in un senso molto povero, e cioè essenzialmente come
maschera. Scrive il filosofo stoico romano Epitteto: «Sovvengati che tu non sei qui altro che attore
di un dramma, il quale sarà o breve o lungo secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu
rappresenti la persona di un mendico, studia di rappresentarla acconciamente. Il simile se ti è
assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si spetta
9 Cf Etica eudemia, VII, 1238 b 26-29.
5
solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si
appartiene ad un altro» (Manuale, 17, trad. Leopardi). Sostituiamo a ‘poeta’ il termine ‘fato’ e ci
risulta chiara la concezione: l’uomo recita la parte assegnatagli dal fato. Non ha altra possibilità;
non spetta a lui scegliere chi essere. Non è posto in essere da Dio (manca il concetto di creazione),
ma è solo un momento dello sviluppo eterno della materia, per cui è vincolato, come la materia
appunto, alle leggi della natura.
Per cui in sintesi, il mondo greco si pone domande fondamentali: com’è formato il cosmo? Cos’è
l’uomo? Qual è il suo ideale? Grazie a ciò la cultura compie notevoli passi in avanti e acquisisce
dati capitali. D’altro canto però le risposte mostrano anche una consistente povertà. Il cosmo è visto
nella sua cieca e fatale autosufficienza; l’uomo è solo un momento di questo processo nel quale
deve recitare il suo dramma, senza diritti propri. Non sorge la domanda sull’origine (creazione) e
sul fine, perché tutto è già dato come esistente e seguente una legge necessaria.
3. L’arricchimento della filosofia da parte del cristianesimo10
Anche se il cristianesimo è propriamente una comunicazione divina, un’azione e un messaggio
di salvezza e non una filosofia, contiene un repertorio di verità che costituiscono una
sovrabbondante risposta alle più ardue questioni poste dal mondo classico. Perciò non può risultare
strano, contrariamente a quanto si è affermato per parecchio tempo, che il contributo del
cristianesimo alla filosofia occidentale sia stato determinante.
Questo contributo è essenzialmente duplice. Da un lato, il contenuto della rivelazione conferma e
conferisce il giusto valore ai risultati raggiunti in modo incerto e poco chiaro dai pensatori
precedenti: ad esempio, tutto ciò che si riferisce alla sfera spirituale, alle relazioni tra anima e corpo,
all’esistenza di un aldilà oltre la morte... Dall’altro, apre la strada alla comprensione di nuove
categorie che in precedenza erano state completamente ignorate o solo intraviste: il concetto di
persona, la creazione dal nulla, la comprensione di Dio come Essere e Amore, la piena realizzazione
dell’uomo nel dono di sé e altre ancora in grado di arricchire la conoscenza teoretica e pratica dei
popoli che le accolgono11.
Oggi la questione dell’arricchimento (e non dell’inquinamento) della filosofia grazie al
cristianesimo non viene più messa in discussione, eccetto da alcuni che, mossi più o meno
coscientemente da pregiudizi ideologici, continuano ad affermare contro ogni evidenza l’inesistenza
di una grande e feconda filosofia nel periodo che va dalla fine dell’ellenismo all’inizio del
rinascimento.
4. L’affermazione cristiana
Se, sin dalla sua comparsa, il cristianesimo ha fatto scandalo anche sul piano intellettuale, è in
ragione del contenuto stesso delle sue affermazioni maggiori.
a. La demitizzazione del cosmo e la giusta relazione Dio-uomo
A.T. e N.T. demitizzano il cielo e innalzano l’uomo: «Non avere altri dei di fronte a me. Non ti
farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di
ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai» (Dt 5,710 Cf A. LÉONARD , Foi et philosophies. Guide pour un discernement chrétien, Bruxelles 1991, ristampa 2001.
11 Scrive A. LIVI, Tommaso d’Aquino. Il futuro del pensiero cristiano, Milano 1997, p.155: «[…] le più importanti
nozioni metafisiche che la filosofia moderna ha ereditato dal Medioevo […] sono nozioni che i Greci ignoravano e che
solo la Rivelazione cristiana ha reso evidenti come conquiste della ragione. Tali nozioni sono: anzitutto quella di Dio
come l’Essere da cui tutti gli enti finiti derivano e dipendono per partecipazione entitativa; poi la nozione di libertà
(propria dell’azione di Dio che crea) e di contingenza del mondo, che, unitamente alla nozione di libertà umana, dà
origine alla nozione di storia come effettiva produzione di novità; poi ancora la nozione metafisica di persona, che
caratterizza l’antropologia e muta tutto il quadro delle relazioni dell’uomo con il cosmo e con lo Stato; quindi la nuova
concezione della natura, non più divinizzata (perché Dio è trascendente) ma vista nella sua intrinseca positività e nella
sua inesauribile potenzialità (donde il carattere positivo della scienza e della tecnica)».
6
9). Il cielo non è divino; Dio e le sfere celesti non si identificano; Dio è trascendente i cieli (cf
Salmo 8). Di conseguenza, l’uomo, posto in essere da Dio, non è immagine del cosmo, ma di Dio:
«Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza» (Gen 1,26-27).
Scrive Gregorio di Nissa: «Filosofi pagani hanno immaginato cose meschine e indegne della
magnificenza dell’uomo nel tentativo di innalzare il momento umano; hanno detto, infatti, che
l’uomo è un microcosmo composto degli stessi elementi del tutto e con questo splendore del nome
hanno voluto fare l’elogio della natura, dimenticando che in tal modo rendevano l’uomo simile ai
caratteri della zanzara e del topo; infatti, anche in essi vi è la mescolanza dei quattro elementi
perché certamente negli esseri animali si vede una parte più o meno grande di ciascuno degli
elementi, senza di cui qualsiasi essere partecipe della sensibilità non ha natura per sussistere. Quale
grandezza ha dunque l’uomo, se lo riteniamo figura e similitudine del cosmo? […] Ma in che cosa
consiste, secondo la Chiesa, la grandezza dell’uomo? Non nella somiglianza con il cosmo, ma
nell’essere immagine del Creatore della nostra natura […] L’immagine porta in ogni momento il
carattere della bellezza prototipa»12.
b. La sacralità dell’uomo nella sua unità di corpo e anima
Ciò che annuncia il cristianesimo nel bel mezzo dell’ambiente greco e romano, è a ben dire
scandaloso per l’uomo antico, ed è quanto andiamo riaffermando nel mistero del Natale:
l’incarnazione. Con la venuta di Cristo, ossia con il Figlio di Dio che si fa uomo, con il Verbo
Eterno che si incarna assumendo un corpo umano, viene conferita all’uomo stesso, nella sua unità di
anima e corpo, una sacralità in senso totale, impensabile nel contesto del pensiero dei Greci. Dio
non è solo ciò che di più perfetto si possa pensare, ma è colui che ha assunto il corpo dell’uomo, e
non solo le sembianze (come gli dèi pagani). «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a
noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità»
(Gv 1, 14). Che l’infinito mostri la sua gloria nella finitezza della carne è semplicemente assurdo
per il greco. Da qui prende una luce del tutto nuova la comprensione dell’uomo anche come corpo.
Scrive s. Paolo nella 1 Cor 6,13-15.19-20: «il corpo poi non è per l’impudicizia, ma per il
Signore, e il Signore è per il corpo. Dio poi, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con
la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? […] O non sapete che il vostro
corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi
stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!».
I corpi umani sono membra di Cristo. Da “carcere”, il corpo diventa “tempio dello Spirito”: una
tesi, questa, davvero sconvolgente e dirompente nell’ambito del pensiero greco e occidentale.
Aver cura di sé non vuol dire per il cristiano semplicemente curare la propria anima, ma tutto se
stesso, anima e corpo. Dove e come si esprime questa unità? È nell’azione che l’anima prende corpo
e il corpo prende anima. È nel nostro agire dunque che incarniamo il nostro spirito ed eleviamo il
nostro corpo. Non è rispettoso della realtà umana né uno spiritualismo disincarnato né un salutismo
fine a se stesso. Due estremi presenti nel nostro tempo. Ci risulta tutto sommato semplice valutare
che non è rispettoso dell’uomo come persona, e cioè come unità psicofisica, curarsi di una
dimensione trascurando l’altra. E da dove ci viene questa consapevolezza se non dal cristianesimo?
c. L’ammirabile scambio
Ciò che proclama il N.T. è, secondo l’espressione liturgica, l’«ammirabile scambio» tra Dio e
l’uomo. Non solamente Dio è un Padre per l’uomo, poiché l’ha creato, ma, come dirà S. Agostino,
«Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio». Questo meraviglioso incontro avviene in Gesù
Cristo che, vero Dio e vero uomo, è il luogo vivente ove Dio e l’uomo possono incontrarsi e
scambiarsi. L’essenziale del messaggio cristiano sta dunque nell’affermare che l’uomo, e con lui
l’universo intero grazie appunto al corpo dell’uomo (Cf Rm 8, 18-23), è invitato ad entrare
nell’intimità stessa di Dio e così essere divinizzato, condividendo la beatitudine di Dio stesso. E
12 L’uomo, Roma 1982, pp. 72-73.
7
questo non vale solamente per l’«umanità» in generale, ma per l’individuo, che è personalmente
conosciuto e chiamato alla gloria: «Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure
nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio. Anche i capelli del vostro capo sono tutti contati.
Non temete, voi valete più di molti passeri» (Lc 12,6-7).
Dio ama talmente l’uomo che questi è chiamato, nella sua integralità, ad essere divinizzato
vivendo la vita stessa di Dio. Scrive S. Agostino: «Rallegriamoci, dunque, e rendiamo grazie a Dio:
non soltanto siamo diventati cristiani, ma siamo diventati Cristo stesso. Capite, fratelli? Vi rendete
conto della grazia che Dio ha profuso su di noi? Stupite, gioite: siamo diventati Cristo! Se Cristo è il
capo e noi le membra, l’uomo totale è lui e noi»13.
Ecco ciò che introduce, nelle prospettive umane e religiose dell’antichità, un capovolgimento
inimmaginabile, il capovolgimento dell’amicizia.
d. Il capovolgimento dell’amicizia
Nel pensiero cristiano, l’amore non indica anzitutto ciò di cui si ha bisogno, bensì la ricchezza di
cui si è dotati e che può quindi essere donata; l’amore è dunque espressione e dono, invece di essere
indice di povertà. In questo senso, Dio, essendo vita sovrabbondante, fa dono di sé alle creature,
non per necessità, ma per libera volontà. Egli non ha bisogno delle creature, in quanto non manca di
nulla; ma non si chiude nella sua autosufficienza, bensì fa libero dono della sua ricchezza alle
creature, per invitarle a partecipare alla sua stessa vita. Egli va in cerca dell’uomo non per colmare
una sua solitudine, ma per portare a compimento la vita delle creature donando la sua stessa vita.
L’amore, nella prospettiva cristiana, ha perciò inscritta la dinamica dell’incarnazione. La logica
dell’Incarnazione è la logica dell’amore che si fa dono, e affonda le sue radici nell’essere stesso di
Dio che è carità (Cf 1Gv). Tanto il dono di sé alle creature quanto l’invito rivolto ad esse di
partecipare alla sua stessa vita sono liberi: Dio qui mostra di trattarci come persone.
Ciò che il giudeo-cristianesimo annuncia è precisamente l’amicizia propriamente detta tra Dio e
l’uomo. E c’è amicizia solo dove c’è libertà. Dio è certamente trascendente, ma la sua trascendenza
è propriamente quella del suo amore. Ci supera infinitamente, ma è proprio per il potere ch’egli ha
di amare e dunque di comunicarsi. Scrive Kierkegaard: «Il cristianesimo non soltanto ha in sé
qualcosa che l’uomo non si è dato da sé, ma contiene cose che mai sarebbero venute in mente
all’uomo, neppure come desiderio ideale»14. E aggiunge: «La vera ragione per cui l’uomo si
scandalizza del cristianesimo è perché esso è troppo alto, perché la sua misura non è la misura
dell’uomo, perché vuol fare dell’uomo qualcosa di così straordinario che supera ogni mente
umana»15. Lo scandalo è tanto più grande in Gesù, che è il volto umano dell’amore di Dio, perché
in lui questa amicizia sconvolgente assume la forma dell’umiltà e della debolezza.
e. L’umiltà di Dio
Al centro della rivelazione cristiana si trova la figura sfigurata di un Dio crocifisso, «scandalo
per i Giudei e follia per i pagani» (1 Cor 1, 23). Ciò che si rivela è certo la «potenza di Dio» (v. 24),
ma non una potenza come la concepiva la filosofia pagana. Perché Dio è Amore (1 Gv 4, 16) e
l’amore è certo la più alta potenza che vi sia, ma si tratta di una potenza che include, per natura, la
disponibilità e dunque la vulnerabilità. Colui che non ama non rischia niente, è protetto dalla
corazza della sua indifferenza. Ma amare è rischiare di essere ferito. È questo che si manifesta nella
Croce del Figlio, in coerenza con la logica dell’incarnazione: la tenerezza di Dio e la sua fedeltà
fino in fondo giungono sino all’estrema povertà e all’umiliazione. Dio si mostra come l’umile
grandezza di un amore interamente espropriato di sé. Lo scopo del Vangelo è che all’umiliazione
volontaria del Dio crocifisso corrisponda nell’uomo l’umiltà della fede e dell’adorazione.
13 Commento al Vangelo e alla prima epistola di Giovanni, Roma 1968, trattato 21, 8, vol. I, pp. 481-483.
14 Diario, Brescia 1980-1983, vol. II, p. 178.
15 Malattia mortale, in Opere, Casale Monferrato 1995, vol. III, p. 95.
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Ancora Kierkegaard osserva che Cristo non soltanto si ferma ad attendere il “figliol prodigo”,
come fa il padre della parabola, ma si mette in moto alla maniera del pastore e della donna in cerca
della pecorella e della dracma smarrite: «Egli va, anzi è già andato, ed è andato infinitamente più
lontano della donna e del pastore: ha seguito un cammino infinitamente più lungo: quello che,
dall’essere egli Dio, l’ha portato a farsi uomo per mettersi in cerca dei peccatori!»16. Possiamo così
comprendere appieno il nucleo essenziale del passo dei Diari: «Cristo non trovò mai un tetto tanto
misero che gli impedisse di entrarvi con gioia, mai un uomo tanto insignificante da non voler
collocare la sua dimora nel suo cuore. […] Quando tu starai per dubitare, nell’ora opportuna sentirai
la certezza celeste»17. Questa è la sfida ad ogni sapienza puramente umana ad opera
dell’affermazione cristiana. Dio si occupa anche di me, di me singolarmente.
Da questi tratti ricaviamo anzitutto la constatazione di una relazione del tutto particolare tra Dio
e l’uomo, che rende possibile anche la relazione reciproca uomo-Dio. Ma questa relazione è
successiva e derivata da una relazione prima che la pone in essere ed è la creazione, che vedremo
essere il vero fondamento della persona e quindi del suo valore e della sua dignità.
5. La nozione di persona come proprium dell’antropologia di ispirazione cristiana
Come si è giunti dal senso greco-latino di persona (=maschera) a quello che noi usiamo oggi nel
linguaggio comune, quale soggetto di diritti inalienabili e di valore assoluto?
L’evoluzione dal concetto greco-latino di persona a quello che noi usiamo è merito del pensiero
cristiano delle origini. Questo passaggio si deve alla riflessione teologica per la sistematizzazione
del dogma trinitario durante i secoli IV e V. La difficoltà era quella di riuscire a definire
l’“individualità” di ciascuna delle Tre Persone Divine, malgrado la comunanza della natura che li
faceva tutti, ugualmente, Dio. Occorreva da una parte superare la difficoltà di ritenere Padre-FiglioSpirito come tre individualità a se stanti (cioè tre dèi), e dall’altra semplicemente come tre
espressioni (maschere) di un unico Dio.
Bisogna aspettare l’insegnamento di tre padri della Chiesa della Cappadocia (Basilio, Greorio di
Nazianzo e Gregorio di Nissa) che nella seconda metà del IV secolo chiarirono definitivamente il
problema distinguendo ciò che, fino ad allora, nemmeno nella speculazione filosofica greca di un
Platone e di un Aristotele era chiaro: la distinzione fra “natura” (ousìa) e “sostanza” (ypostasis).
Secondo il magistero di questi Padri della Chiesa, applicando natura (ousìa) e sostanza (ypostasis)
alla Trinità, si indicava col termine natura ciò che può essere comune a più individui, mentre col
termine sostanza la realizzazione concreta, individuale dell’essenza comune. In tal modo il termine
latino persona assunse questo nuovo senso. Da allora in poi, insomma, con “persona” non si intende
più la maschera del teatro greco, ma, innanzitutto nella teologia, l’“individuo” nella sua irriducibile
peculiarità che realizza in concreto, come “soggetto” irripetibile, una natura comune ad altri
individui.
Si deve soprattutto ad Agostino l’estensione analogica anche all’uomo del termine persona, che,
malgrado le differenze fra l’essere persona in Dio e nell’uomo, tuttavia mantiene anche per l’essere
umano questo nuovo senso di soggetto individuo irriducibile (singolarità), che tale termine aveva
assunto nella speculazione teologica sulla Trinità: Ogni singolo uomo è una persona [De Trinitate,
XV, 7, 11]. La persona è la realizzazione singolare della comune natura umana.
Ora, l’uomo non è semplicemente tratto dalla materia; prova ne è il fatto che ha facoltà che non
dipendono semplicemente da organi corporei, ma esplicano potenzialità superiori e irriducibili a
questi: ad es., uno stomaco non lo si può riempire, anche esagerando, oltre un certo limite; la
volontà, invece, non è mai sazia; e nemmeno l’intelletto arresta il suo desiderio di conoscenza.
Queste facoltà spirituali richiedono un principio di ordine superiore alla materia, che chiamiamo
anima. Ma se è appunto superiore alla materia, non può derivare da essa. E se non deriva da essa,
può averla creata solo chi è Spirito e cioè Dio stesso. Dio crea l’uomo come persona infondendo
16 Esercizio di Cristianesimo, in Opere, vol. III, p. 165.
17 Diario, vol. II, p. 187.
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l’anima nella materia (corpo). Ora, se la materia è legata alle leggi della natura, l’anima, non
essendo materiale, è invece libera. Per cui, ciascun uomo anziché trovare definito il suo ruolo da un
fato impersonale e ineluttabile (noi diremmo oggi dalle leggi fisiche o psichiche), è viceversa
chiamato alla propria esistenza irripetibile dalla libera iniziativa del Creatore personale, che affida
altresì alla libera risposta dell’uomo la continuazione del dialogo salvifico con Lui. Sicchè, se il
rapporto creaturale costituisce l’uomo nella sua realtà personale, non lo fissa però in una situazione
statica e definita deterministicamente, ma affida alla sua libertà il compito di realizzare le sue
potenzialità e la sua vocazione. Inoltre, poiché la persona è circondata dal mistero di Dio creatore e
fatta a Sua immagine, non bisogna dimenticare che partecipa alla Sua profondità insondabile e
misteriosa e, per libero dono della sua grazia, alla sua vita senza fine.
La definizione completa di “persona” è opera di altri due eminenti medievali: Severino Boezio e
Tommaso d’Aquino. Questi, in estrema sintesi, definiscono la persona come una sostanza che ha
l’essere per sé (non dipendente da altri), perciò autonoma, dotata di ragione e perciò aperta (in
relazione) all’Assoluto, libera, formante unità col proprio corpo. Costitutivo della persona umana è
la sua unità psicofisica: la persona umana indica il singolo soggetto in tutta la sua concretezza fisica
e spirituale.
6. Valore assoluto della persona18
Qual è il fondamento del valore assoluto della persona?
Solo perché l’anima di ciascun uomo ha ricevuto l’essere indipendentemente dagli altri enti che
compongono l’universo fisico (= ha l’essere per se stessa, è cioè una forma non-materiale o
“spirituale”), l’uomo può agire indipendentemente dal resto dell’universo materiale (= può agire
per se stesso è cioè “persona”). Il fondamento dell’irriducibilità, della dignità, del valore assoluto
della persona, è dunque il fatto che essa riceve il suo essere specifico direttamente da Dio con un
atto creativo unico per ciascuna persona umana (= creazione dell’anima spirituale di ciascuno). Il
fondamento sta dunque nella relazione del tutto singolare che sin dall’inizio il Creatore stabilisce
con questa creatura che è l’uomo.
Perciò, definendo l’uomo come persona, si intende designare il singolo uomo nella sua interezza,
concretezza ed unità psicofisica, capace di pensiero e libertà e per questo capace di relazionarsi
come tale nei confronti di Dio, degli altri uomini e del resto degli enti che compongono l’universo.
Per queste sue proprietà la persona umana si caratterizza come unica e irriducibile nei confronti di
tutte le altre sostanze che compongono l’universo fisico e come tale soggetto di inalienabili diritti e
doveri nei confronti della società e dello stato. Con la nozione di persona si possono così criticare
tre forme di riduzionismo:
1. Riduzionismo naturalista. Ogni persona umana in quanto “individuo” è parte dell’universo
fisico di cui condivide problemi e destini. Ma, come sappiamo, “persona” dice di più di
“individuo”, dice sostanza di natura razionale, dice “colui che ha il dominio dei propri atti” e per
questo, “persona” dice anche colui che, mediante la sua intelligenza e la sua libertà, può
esercitare anche un dominio responsabile, non certo assoluto, sullo stesso mondo a cui
appartiene mediante il suo corpo. Quindi contro la pretesa di ridurre l’uomo a sola materia
biologica si deve affermare che l’uomo, in quanto persona, è una totalità in sé completa, che
ultimamente può entrare in relazione con tutte le realtà esistenti, ma proprio per questo non
dipende né da nessuna di esse in particolare né dalla totalità di esse, come appunto una “parte”
dipende invece dal “tutto” cui appartiene. Grazie a questa sorta di “trascendenza” dell’uomo sul
resto del cosmo, anche se “tutto” fosse tolto ad una persona umana o a “tutto” essa rinunciasse,
essa non cesserebbe per questo di essere “persona completa”. È l’ultimo, il più povero, il
baluardo della dignità della persona.
18 Sul tema cf G. BASTI, Filosofia dell’uomo, Bologna 1995, cap. 6, pp. 316-364; A. LOBATO, La dignità della
persona umana. Privilegio e conquista, Bologna 2003.
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2. Riduzionismo sociologista. L’“essere persona” non è mai proprietà che può essere attribuita ad
una collettività, etnica, sociale, statale o religiosa di individui umani, di cui i singoli
parteciperebbero, così da divernire “persone-per-appartenenza” a quel gruppo o comunità. Non
sono le istituzioni che danno valore alla persona, ma è la persona che dà senso alle istituzioni.
Questo principio è stato fatto proprio dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del
dicembre 1948.
3. Riduzionismo psicologista. Non si deve confondere la “persona” con la “personalità”: le
relazioni manifestano e caratterizzano, ma non costituiscono la persona. La persona umana non
è costituita come tale dalle sue relazioni, bensì da quell’essere per se stessa ma non da se stessa
che consegue all’atto creativo. È vero, come hanno notato gli psicologi, che l’uomo scopre e
sviluppa il proprio io attraverso le relazioni con gli altri, quelle parentali anzitutto. Ma si può
scoprire e sviluppare solo qualcosa che già esiste. La persona non è la sua personalità! Se si
cadesse in questa identificazione, il termine persona riacquisterebbe il senso originario pagano
di ruolo, maschera o rappresentazione: la persona riceverebbe valore dal ruolo sociale che
svolge o dai tratti amabili o meno della sua personalità.
Da quanto abbiamo detto derivano i diritti e doveri della persona. Se è fine in se stessa, nessuno
può adoperarla come mezzo. Dio stesso le conferisce il valore assoluto dal momento della
creazione, e nemmeno Lui può adoperarla come mezzo.
Spetta alla persona, in se stessa, compiere la propria realizzazione. La persona nasce con la
pienezza della natura realizzata a livello di costituzione ontologica, ma non a livello di costituzione
psichica e morale; in questo senso, deve percorrere un cammino che la porta alla piena
realizzazione: nell’esercizio dell’autocoscienza e dell’autodeterminazione. Ciò la differenzia da
Dio, che è perfezione in atto. Perciò la persona ha il diritto di pretendere che vengano rispettati tutti
gli elementi costitutivi che le garantiscono questa realizzazione.
I diritti naturali costituiscono l’affermazione della persona e la garanzia del suo pieno sviluppo:
diritto al proprio pensiero, al proprio corpo, alla proprietà privata, al matrimonio, alla famiglia ...
Poiché molte sono le persone nella specie umana, molti sono pure i fini in se stessi; di qui la
necessità di un diritto positivo (leggi) che regoli l’attività degli uomini nelle cose comuni. Così, le
leggi dello Stato sono ordinate al bene delle persone e al conseguimento dei loro fini. Così, il valore
assoluto della persona è il fondamento prossimo dell’etica, mentre il fondamento ultimo è Dio.
Tutte queste sono le acquisizioni che il pensiero moderno ha sviluppato partendo dal concetto di
persona, la cui radice sta però nel cristianesimo. Togliamo il concetto di persona e recidiamo
l’albero dalle sue radici, perdiamo cioè la nostra identità. Chi si riconoscerebbe in uno stato o in una
comunità di nazioni che misconosce il valore della persona, il suo valore, i suoi diritti? La nostra
coscienza a buon diritto si rivolterebbe immediatamente. Ma togliamo la radice cristiana del
concetto di persona e perdiamo la sua verità e la nostra identità.
Il mistero del Natale che ci apprestiamo a celebare ci riporta alle vere radici spirituali della
nostra dignità. Dio nella creazione ci rende persone e ci tratta come tali, chiamandoci ad un rapporto
del tutto singolare con Lui. Di fronte a ciò possiamo chiuderci nello scandalo della ragione per la
quale è inaccettabile che Dio si renda uomo, oppure possiamo con umiltà aprirci alla meraviglia del
mistero, che ci mostra la nostra vera identità e il nostro destino. Scrive S. Agostino: «Dio si è fatto
uomo; che cosa diventerà l’uomo, se per lui Dio si è fatto uomo?»19. E S. Leone Magno ci
ammonisce: «Cristiano, diventa ciò che sei».
Concludo con una citazione di Jan Patočka20: «Si parla senza fine dell’Europa in senso politico,
ma si trascura la questione di sapere cosa sia realmente, e da dove è nata. Noi vogliamo parlare
dell’unificazione dell’Europa. Ma l’Europa è qualcosa che si può unificare? Si tratta di un concetto
19 Commento al Vangelo e alla prima epistola di Giovanni, Roma 1968, trattato 10, 1, vol I pp. 495-497.
20 Nato nel 1907 e morto nel 1977, Jan Patočka è il maggiore pensatore ceco del XX secolo. Si oppose a Praga al
regime comunista, subendo numerose persecuzioni; fu uno dei fondatori della “Charta 77”. Morì tragicamente, in
conseguenza di un violento interrogatorio della polizia di Stato.
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geografico o puramente politico? No, e se vogliamo affrontare la questione della nostra situazione
presente, dobbiamo innanzitutto comprendere che l’Europa è un concetto che si basa su fondamenti
spirituali, e ora si capisce che cosa significa questa domanda»21.
21 Platone e l’Europa, Milano 1997, p. 208.
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