Diocesi di Piacenza-Bobbio Seminario Urbano

Diocesi di Piacenza-Bobbio
Seminario Urbano - Aggiornamento per il clero
“Siamo in debito del Vangelo verso tutti”
19 gennaio 2000
Borsato don Battista
Parroco a Vicenza, esperto di pastorale familiare
“Essere pastori accanto alla famiglia di oggi”
Ci inseriamo nel nostro cammino della Settimana ecumenica e di preghiere fra le Chiese, di cui
certamente la famiglia e il matrimonio è il segno sacramentale di questa unione da creare e costruire.
Non so se le vostre attese corrisponderanno anche a ciò che io ho riflettuto per questa occasione,
perché non sempre c’è sintonia fra chi attende e chi propone, eventualmente nel dibattito possiamo
maggiormente tarare le nostre idee e pensieri.
Parto da due premesse, che indubbiamente entrano già nel tema, ma che fanno da cornice al nostro
discorso. Poi presento due punti come messaggi. Quindi indico come oggi educare i giovani e gli
sposi a vivere in senso autentico dentro a questa realtà in cui ci poniamo a vivere, per come educarci
in alcuni atteggiamenti di fondo, perché diventino formazione di una nuova famiglia per il 2000.
1.1 Premessa: come vincere la mentalità pessimistica
Aleggia un po’ dappertutto un’aria pessimistica nei riguardi della famiglia e del matrimonio. Sembra
che la disgregazione stia attraversando e lacerando le nostre famiglie. È proprio così? È proprio vero
che viviamo un tempo fallimentare del matrimonio e della famiglia?
Tento di contrastare questa mentalità pessimistica attraverso due osservazioni di due notevoli
personalità del nostro mondo italiano culturale, sia per un verso sia per l’altro.
• La prima persona che cito è Luigi Acattoli, giornalista vaticanista del Corriere della Sera, oggi
molto conosciuto per il suo ultimo libro che ha avuto un grande successo “Io non mi vergogno del
Vangelo”. Questo giornalista, che ho avuto modo di conoscere, in un suo intervento afferma: “È bello
essere cristiani oggi. Lo si può essere non perché obbligati dall’ambiente sociale e culturale, ma per
una propria libera scelta. Non condizionati o in qualche modo obbligato da un clima sociale e
culturale, ma per una propria libera determinazione”.
Per quanto riguarda la famiglia diceva: “La famiglia oggi sta vivendo una stagione promettente,
estremamente nuova e positiva, perché è pienamente affermata l’identità e la parità tra l’uomo e la
donna. È vero che oggi ci si sposa meno, senza tante o troppe convinzioni; è vero che ci si separa.
Quindi questo può gettare una luce negativa un’ombra sull’amore di coppia. Però è anche vero che la
piena affermata parità dell’uomo e della donna rende avvincente l’avventura sponsale, che un tempo
non era quasi possibile. Quindi oggi essere padri e madri non è più un frutto di un portato sociologico
o di una necessità dell’ambiente contadino o dell’azienda artigianale o per il bisogno della patria;
oggi chi vuole essere padre e madre lo è per una propria libera determinazione; è partecipare all’opera
creatrice di Dio. Quindi non possiamo dire di vivere un’epoca post-moderna o post-cristiana. Fosse
post-moderna certamente anche sì, ma non post-cristiana”.
Cosa vuole dire: che siamo in un momento in cui il cristianesimo sta uscendo e liberandosi dai
condizionamenti culturali, sociologici ed economici del passato, per intraprendere un nuovo
cammino di dialogo con le religioni, di impegno per chi è nel bisogno e per difendere gli oppressi.
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Quindi una Chiesa profetica. Anche perché si ripropone in maniera nuova l’amore di coppia e l’amore
di famiglia, come comunione e condivisione in piena parità e libertà. Potremmo dire che non siamo in
un’epoca post-cristiana, oppure lo possiamo dire se intendiamo il cristianesimo vissuto in quel modo;
ma certamente non in un’epoca post-evangelica. Oggi il Vangelo sta avendo e suscitando delle attese
e delle propensioni certamente nuove.
• Il secondo punto, contrapposto alla mentalità pessimistica, lo prendo da Pier Paolo Donati di
Bologna. Due anni fa, presentando il suo rapporto sulla famiglia a Milano, faceva alcune conclusioni:
la famiglia italiana non si sta disintegrando, nonostante le cronache dei single o dei divorzi, la
famiglia sembra acquistare valore. C’è un’inversione di tendenza: dall’individualismo degli anni ’80
si sta cercando e recuperando il valore della relazione, della coppia, dell’amicizia. Inoltre i più
giovani (qui si riferisce piuttosto ai giovanissimi di 14/18 anni) considerano la famiglia la cosa più
importante della loro vita, prima ancora del lavoro”. E cita alcune frasi di questi giovani. Poi dice: “I
legami affettivi, molto intensi con i genitori e con i nonni, sono rimasti l’unico aggancio sicuro in un
momento in cui la scuola, le istituzioni e lo stato appaiono luoghi incerti e disorientati. Quindi la
famiglia è vista come la sede degli affetti, luogo di presenza contro il vuoto della vita sociale e
politica. E il matrimonio è visto come luogo importante per ricostruire il senso del vivere e vincere e
superare il mal di esistere”.
In questa visione di fiducia nella famiglia (che vedremo anche alla fine) potrebbe anche annidarsi un
tipo di “famiglia rifugio”, più che “famiglia promozione”. Il rischio ci può essere: di fronte a certi
luoghi incerti e disorientati andiamo nella famiglia per trovarci il rifugio. Ma è un tipo di famiglia che
certamente abbiamo anche noi molto ben diversa per intravedere e per superare.
Dice ancora Donati: “Oggi c’è la differenza tra il passato e il presente nei riguardi del matrimonio. In
passato il matrimonio era visto come punto di partenza per costruire la vita propria, quindi era il luogo
della libertà, dell’indipendenza e dell’autonomia. Oggi invece il matrimonio è visto come punto di
arrivo, per cui s’investe tutto e molto sul matrimonio, che viene così fortemente idealizzato. E le
aspettative sono elevatissime, quindi di conseguenza sono più facili le delusioni e i fallimenti.
Comunque, la crisi della famiglia non sta portando alla sua estinzione, ma alla sua trasformazione”.
Qui toccherà anche a noi come pastori accompagnare questa trasformazione, indubbiamente senza
pessimismo, pur guardando i limiti e le carenze che vi possono essere.
1.2 Premessa: le carenze nella famiglia
La seconda premessa riguarda il problema delle carenze nella famiglia. Prima ho accennato di vincere
una mentalità pessimistica, però è giusto guardare i difetti e le carenze esistenti oggi nella famiglia;
non possiamo accompagnare una famiglia se non abbiamo la fiducia e la speranza di vedere i segni
positivi, ma anche ciò che può essere negativo nella famiglia di oggi.
La riflessione ci fa rilevare tre carenze oggi presenti nella famiglia.
1.2.1 La fragilità dell’amore
Questa fragilità, la più grossa e la più vasta, è evidenziata dalle separazioni e dai divorzi, che tutti
quanti noi soffriamo; e dalla constatazione della stanchezza di molte coppie che vivono stancamente
la loro relazione, e questo è il terreno certamente più formale e forte per la separazione.
Domandiamoci insieme: da dove deriva e perché c’è questa fragilità?
- Deriva dall’ambiente culturale che privilegia il provvisorio di fronte al definitivo, i rapporti
instabili di fronte alla stabilità, la reversibilità di fronte a scelte irreversibili di un tempo e che, a
partire dalla cultura di oggi, “delude la gente” (uso un termine popolare).
- Oppure deriva dall’amore stesso; cioè la fragilità appartiene all’elemento culturale, ambientale e
sociologico.
- Oppure appartiene anche all’amore stesso.
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Certamente il primo aspetto culturale ha un’influenza oggi determinante, ma sottolineo che la
fragilità appartiene anche, se non soprattutto, a un modo di intendere l’amore, sia nel presente come
nel passato. (poi vedremo che nel passato era coperto). Cioè oggi l’amore è visto primariamente come
sentimento, emozione e innamoramento. Io dico spesse volte che molti si sposano perché sono
innamorati, ma non perché si amano. Questo sentimento-emozione, che chiaramente è pure un valore,
è fragile. La mobilità appartiene al sentimento, che è mobile, fluido e mutevole. Questa fluidità una
volta era corretta dalla legge e dal dovere, che sostenevano questa mobilità capricciosa e scatenata.
Ma voglio dire una parola a favore del passato. Il dovere e la legge sostenevano l’amore non soltanto
esternamente (in tanti casi era un puro fatto esteriore, non si amavano più, però per legge e per dovere
la cultura nonostante tutto portava a vivere insieme, era anche un discorso di copertura, invece oggi
c’è la possibilità economica e culturale di poter recedere) – per cui senz’altro molti matrimoni
avevano più di parata esterna che non di amore autentico interno –, ma imponevano ai due di volersi
bene e un po’ alla volta riscoprivano l’amore (non mollavano facilmente), quindi era anche un modo
di riscoprire, di riapprofondire e di rimettere il proprio amore.
Comunque è chiaro che un matrimonio che fosse puramente spento e freddo non sarebbe il segno di
Dio; perché Dio vuole manifestarsi non attraverso la freddezza di un rapporto ma davanti il calore,
l’entusiasmo e la passione dell’amore.
Se invece “l’amore è prendersi cura del destino dell’altro” (questa frase è di Leninas), se è
condividere la vita dell’altro, se si va all’altro non per servirsene ma per accoglierlo e promuoverlo,
allora questo amore è molto più stabile. Non si tratta di negare il sentimento e l’emozione, ma
certamente di abbinare o di mettere insieme, l’uno per l’altro, l’amore come promozione. Io parlo di
“intelligenza dell’amore”.
1.2.2 L’incapacità di soffrire
Questo pensiero lo prendo da un libro del teologo Metz Johannes Baptista, che dice: “Il nostro tempo
è segnato da due limiti e grandi difetti: di non essere capaci di soffrire, e di non essere capaci di
lasciarsi consolare”. Tra questi difetti certamente il più importante è l’incapacità di soffrire. Vuole
dire: oggi c’è la tendenza al benessere, non solo economico, ma fisico e psicologico, per cui la New
Age è un po’ il segno. Cercare il benessere del tuo corpo e della tua persona certamente non va visto
negativamente, ma se il centro è soltanto il proprio benessere, allora ciò che fa soffrire e fa problema
viene eliminato. Io vedo in questa tendenza la fuga nella droga, come il non aver problemi, né
conflitti, né sofferenze per sfuggire in un “paradiso inventato”.
Quindi anche nella famiglia, nei confitti dei coniugi o tra sposi e genitori, si tende a togliere il
conflitto, oppure se c’è il conflitto lasciarsi mollare. Con la nostra pastorale non si riesce a cogliere
che è dentro ai conflitti che si approfondisce l’amore, che l’incomprensione può chiarirsi e
promuovere l’amore. Il passaggio dall’innamoramento all’amore, esige che l’altro sia accolto così
com’è nella sua realtà, anche se a volte ti può pungere. Quindi il tema sarà di sostarsi nei conflitti e
nelle sofferenze e non mollare di fronte a queste difficoltà.
1.2.3 La fede e la religiosità
Religiosità e fede vanno distinte, ma in questa mia osservazione le abbino insieme. Noi sentiamo o
avvertiamo che oggi c’è l’assenza della trascendenza (che richiamerò più avanti) non soltanto
religiosa, che è quella più importante per quello a cui mi riferisco, ma anche trascendenza culturale
nel cercare nuovi pensieri, prospettive e progetti. Cioè si tende a vivere una vita piatta, perché c’è
l’assenza o la carenza di progettualità di tensioni spirituali, e non c’è la ricerca di nuovi pensieri.
Di conseguenza manca nella famiglia la dimensione liturgica, la vita orante (tutti recitavano i rosari),
il recupero della vita di preghiera, della liturgia e della Parola di Dio. Intendo questo recupero, non
tanto perché la religione possa in maniera magica far nascere l’amore dove non c’è, o tenere insieme
le due persone in maniera religiosa dove l’amore non si costruisce con intelligenza e con il proprio
impegno; ma nel senso che nella fede uno non dà primato al denaro e al lavoro ma alla persona; che
nella fede il lavoro non è l’idolo a cui tutto si sacrifica, ma si cerca lo spazio e il tempo del dialogo per
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stare con la sposa, con lo sposo e con i figli. Recuperare la fede o la religione, che non è un
rispolverare i divieti e la legge ma lo Spirito Santo, per recuperare la nostra anima in senso globale
(non in senso greco o platonico); senza questa anima la persona e la coppia non cresce. Ecco, che la
Chiesa è chiamata a dare spiritualità, non il senso della legge o dei divieti, ma di dare un’anima al
nostro mondo occidentale.
Cito una frase del famoso romanziere Einrich Böl che dice: “Il nostro mondo occidentale sta
perdendo l’anima”. Questo è un discorso importante.
2. La famiglia è il centro della pastorale ecclesiale
Fatto queste due premesse presento il primo punto. Perché impegnarsi per la famiglia e con la
famiglia? Perché essere accompagnatori della famiglia?
Per quanto voglio dire spero di non essere partigiano, perché pur avendo maturato una certa
competenza in campo matrimoniale, però la mia propensione non sarebbe essere uno che assolutizza
la famiglia e il matrimonio. Ma è nel rapporto Chiesa-mondo che io inserisco il matrimonio. La mia
visione, non è matrimonialista in senso stretto, ma è nel rapporto Chiesa-mondo – la Chiesa
all’interno e la Chiesa nel rapporto con l’esterno, la laicità – che inserisco la vita di coppia e di
famiglia.
Oggi viviamo tre grandi sfide, e puntare sulla famiglia, e sulla coppia in modo particolare, è il modo
più giusto per affrontarle. Quali sono queste sfide?
- L’indifferenza religiosa (cui ho già accennato nella carenza), e anche dell’ateismo (anche se
pochi si dichiarano atei, però di fatto vivono come se Dio non ci fosse).
- Privatismo e individualismo.
- Intolleranza e guerra. All’inizio abbiamo letto il Salmo che diceva: “Più untuosa del burro è la
sua bocca, ma nel cuore ha la guerra” (Sal 55, 22). Alle volte anche noi nei nostri rapporti sociali e
forse anche ecclesiali, abbiamo la bocca untuosa di burro, ci lodiamo, ci diamo le stime… ma poi
dentro abbiamo forse anche la guerra. Quindi la guerra è una realtà molto presente, alle volte cruente
e altre volte incruente.
2.1 La sfida dell’indifferenza religiosa
Dicevo: se partiamo dalla coppia, dall’amore tra uomo e donna e quindi dalla famiglia, questo è il
modo per poterla affrontare e superare. Accennavo e lo ripeto che oggi c’è l’assenza di tensione al
trascendente, perché l’uomo sembra accontentarsi del presente senza avvertire la spinta a superarsi, e
che la nostra cultura occidentale è segnata dal silenzio di Dio. Allora la domanda che dobbiamo farci
è questa: perché Dio fa silenzio? Non è Dio che fa silenzio, ma è l’uomo che fa silenzio su Dio. Come
risvegliare questa tensione? La domanda che ci si pone è questa: può l’uomo vivere senza la domanda
religiosa? Può l’uomo vivere senza porsi il problema del trascendente? Perché oggi questa domanda
veramente ci fa soffrire. L’uomo vive senza rapporto con la sua morte, con l’al di là. Può vivere
l’uomo così? Oppure c’è una strada per risvegliarla per essere più uomini e più felici?
La strada sembra essere quella del parlare dell’amore dell’uomo e della donna. Indagando, studiando,
riflettendo e analizzando il rapporto dell’amore uomo-donna, noi tocchiamo la struttura dell’essere
umano come aperto all’altro. L’amore è percepire che l’io non è tutto (perché l’io è tremendo), non è
sufficiente, non basta a se stesso, ma sente il desiderio e la voglia dell’altro. Nell’amore l’io perde la
sua sovranità e onnipotenza e scopre il senso del limite; allora esce da sé in cerca di una pienezza che
viene dal di fuori, dall’alterità. Ora è evidente che quando l’io perde la sua onnipotenza e non insegue
fantasmi di autosufficienza, questo io si apre ad accogliere l’altro e non soltanto l’altro con la “a”
minuscola, ma anche l’Altro con la “A” maiuscola, che parla dentro all’altro con la “a” minuscola.
Cito un’espressione (anche se di alcuni anni fa ma ancora oggi interessante) di Padre Raniero
Cantalamessa (che ha avuto in questi anni una celebrità giusta e dovuta), che dice: “Personalmente
più rifletto sul fenomeno dell’innamoramento tra due persone, più mi appare un atto di umiltà, forse il
più radicale. È una resa spesso senza condizioni, è un ammettere che tutto l’essere dell’uomo non
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basta a se stesso, che ha bisogno dell’altro. Una porta questa dietro alla quale se ne possono aprire
tante altre fino a quell’altra che immette all’Altro che è Dio”.
Io credo che il nostro compito – come educatori e pastori – con i fidanzati e gli sposi, sarebbe di fare
rilevare che loro, vivendo questo rapporto l’uno verso l’altro, è già vivere la fede. Quindi se noi
guidassimo i fidanzati e gli sposi a capire che nel loro rapporto l’io non ci basta e che ci vuole la
ricerca dell’altro, perché la pienezza viene dal di fuori e in questo altro c’è un Altro con la “A”
maiuscola. C’è quindi un processo, un esodo di fede implicito, che poi va esplicitato, ma è un fatto
importante cogliere che due, se si amano realmente, già vivono la fede. Qui la fede è molto più ampia
di quanto si pensi; certamente va esplicitata, annunciata e cresciuta con l’annuncio del Vangelo, ma è
già un atto presente.
2.2 La sfida del privatismo
È giusto non leggere in maniera univoca questa chiusura oggi esistente. Perché in questo riflusso nel
privato c’è anche la componente di una persona che vuole essere se stessa, che non vuole essere
assorbita dal politico e dal sociale. Quindi c’è la voglia di una propria identità personale, che non deve
essere confusa con l’ideologia. Però è anche vero, e dobbiamo tutti quanti ammettere, che oggi questo
riflusso nel proprio interesse e nella privatezza è disegnato al negativo. C’è l’indifferenza verso il
sociale e i problemi degli altri, c’è l’apatia. Il card. Martini in un discorso fatto in occasione di
Sant’Ambrogio, parla di “accidia” nel rapporto con la politica; quindi c’è questo individualismo.
Ora è chiaro che se noi puntiamo sulla relazione uomo-donna e poi sui genitori-figli, è una relazione
che porta a convocarsi. Il matrimonio è una convocazione della persona con i figli. È un dialogo per
prendersi cura l’uno dell’altro. Non farsi solo dei servizi, ma condividere la propria vita. È un uscire
da sé per interessarsi dell’altro. La coppia diventa Sacramento di una convocazione innanzitutto della
Chiesa e poi degli uomini chiamati a condividere insieme le speranze, i problemi, i bisogni. Quando
uno impara a condividere dentro la famiglia, facilmente imparerà a condividere anche fuori; se non la
condivide dentro, non la condividerà neanche fuori, non si può condividere fuori se non si sperimenta
dentro. Allora ci sarà una emigrazione di questa esperienza di condivisione.
2.3 La sfida della intolleranza e della guerra
Oggi si dice che vivere in coppia è vivere rispettandosi la differenza e l’alterità. Infatti, Leninas
diceva: “Il matrimonio, come l’amore, è un incontro di una separatezza; due che rimangono separati
ma che sono sempre se stessi, perché dialogano, si salutano, si condividono la vita, anche se sono
diversi, altri”. Quando c’è la cattura del voler possedere e omologare, non si crea la coppia né
l’amore. L’amore non è omologante, ma è differenziante, perché l’io nell’altro è sempre unico,
irripetibile e originale. Più ci si ama e più ci si sprigiona i propri io diversi, altri.
Quindi il matrimonio è l’incontro di due persone che rimangono se stesse, però senza
contrapposizione, sapendosi scambiare le loro ricchezze e i doni. Questo è l’amore.
La pace oggi è definita come la convivialità delle differenze. La famiglia è il grembo che accoglie e
genera le differenze, non le proibisce ma le trattiene. “Le genera” perché rimangono differenze che si
parlino, che si confrontino. Quando parliamo di “fecondità della coppia”, non soltanto dobbiamo
pensare una fecondità di figli che è certamente importante; ma la fecondità che fa crescere un mondo
conviviale in cui le differenze si rispettano e si accolgono e non si scontrano.
Il rapporto uomo-donna è un rapporto sacramentale. Se i nostri Vescovi già nel ’79 hanno detto in un
Documento sulla famiglia: “La famiglia è il centro della pastorale ecclesiale” (“Pastorale delle
situazioni matrimoniali non regolari” - CEI 1979). Voleva dire: non il centro soltanto nel senso
dell’importanza della famiglia, ma che attraverso la famiglia e l’amore di coppia si possono affrontare
questi problemi ecclesiali e sociali.
3. L’azione pastorale verso la famiglia “ferita”
Un secondo punto. Quale attenzione e come atteggiarsi? Quale azione pastorale avere verso le
famiglie ferite e divise? Questo è un altro problema. Al primo punto parlavamo della costruzione e
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del come vivere la famiglia, ma abbiamo da fare i conti anche con la realtà di sofferenza, di fallimento
e di ferimento. Come porsi? “Ferite” vuole dire certamente le famiglie disgregate, divise e separate,
ma può significare anche le vedove e i vedovi sono famiglie ferite.
Noi parliamo chiaramente del caso di maggior sofferenza e di inquietudine pastorale e mentale, che è
quello del problema delle separazioni, dei divorziati e dei risposati. Presento alcuni punti di questo
livello:
3.1 I divorziati risposati fanno ancora parte della Chiesa
Fra i tanti livelli questo primo punto è quello su cui io insistito molto. A questo livello i Documenti
ecclesiali degli ultimi anni sono largamente e straordinariamente innovativi, ma questa innovazione
non viene colta, perché non si guardano, si fanno morire nel passato. Certamente sappiamo che il
problema fondamentale è l’Eucaristia e la Riconciliazione, però il fermarsi lì significa non cogliere la
novità di questi Documenti. Dico questo perché nel vecchio Codice canonico (che è stato tolto nel
’83, quindi non sono secoli fa) i divorziati risposati erano considerati pubblici peccatori, chiamati
“infames”. Non era “infame” come diciamo noi in maniera dispregiativa, ma nel senso di senza fama,
senza considerazione, però… Quindi “pubblici peccatori”. Non erano chiamati “scomunicati”, ma
praticamente erano considerati tali, fuori della Chiesa; tanto è vero che quando morivano di per sé,
stando al Diritto Canonico, non potevano avere una sepoltura ecclesiastica.
(Ricordo da ragazzo, quando mons. Fiordelli nel ’53/’54 in maniera solenne ha dichiarato concubini due persone
divorziati che erano presenti. A quel tempo era ancora venuto a Vicenza in Seminario, ero anch’io presente, al che in
un’assemblea rigurgitante di persone (circa 600), lo abbiamo accolto con un applauso come fosse l’eroe, l’araldo, il
coraggioso e il profeta… Ma i tempi cambiano).
Di fronte a questa situazione i Documenti ecclesiali dicono (specialmente la “Familiaris consortio”
del 22 novembre 1981): “I divorziati risposati fanno ancora parte della Chiesa”. Sono Chiesa, anche
se in maniera non totale, ma parziale. Quindi io lo dico sempre: fate attenzione, se sono Chiesa, non
sono solo oggetto di attenzione, ma soggetto di pastorale nella Chiesa, quindi quasi inseriti nella
pastorale in quei posti e luoghi che i “Documenti” ci consentono di poter fare.
Dice la “Familiaris consortio”: “I divorziati non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi
dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla Chiesa. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a
frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di
carità e di giustizia, a implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio” (FC n. 84). Se possono
“implorare la grazia di Dio”, sono quindi riconciliati con Dio, c’è un incontro con Lui.
Da questa situazione a quella passata c’è una vulcanica innovazione. D’accordo uno può dire: ma non
c’è la comunione, non c’è l’Eucaristia, non c’è la liturgia. Questo è vero, ma già questo è una grande
novità, che anni fa era quasi impensabile, e che va detta alla gente – e non soltanto a chi si trova in
queste condizioni – delle nostre comunità, che non lo sanno e guardano ancora queste coppie con
rifiuto e con respinta.
Ultimamente in Vicenza si è svolto un corso di aggiornamento sul matrimonio con più voci e rivolgevo queste parole: “I
divorziati-risposati possono partecipare in vari modi alla parrocchia nel gruppo sposi, dove c’è questa possibilità,
chiamarli per l’ascolto della Parola di Dio, per la preghiera, partecipare al tempo libero dell’oratorio, alla Commissione
economica…”. Ma un prete presente interviene e dice: “No, questo mai!” Per voler dire che tutto sì, ma...
Secondo i Documenti ecclesiali, non possono partecipare al Consiglio pastorale, non fare gli elettori,
i catechisti e da padrini; ma ci sono posti, anche numerosi, in cui possono partecipare alla vita della
Chiesa; e questo entra nell’accoglienza misericordiosa.
Su questo punto vorrei dare alcuni suggerimenti:
• Per quanto è possibile alimentare una pastorale di guarigione delle coppie per risvegliare
l’amore, la comunione. Non sempre le crisi sono fallimentari, ma possono essere salutari, perché
consentono di rivedere il proprio amore, di chiarirlo e di approfondirlo. Quindi di fronte a queste crisi,
anzitutto bisogna guarire, anche prima che ci sia la separazione.
• Ci sono delle situazioni irreversibili, e noi parroci vediamo che sono e devono essere
irreversibili, perché ci sono in mezzo dei figli ancora bambini o neonati, quindi non si può dire ad una
persona di lasciare l’attuale marito o moglie per andare con un altro o un’altra. In questi casi di
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situazioni irreversibili ci deve essere l’accoglienza e la misericordia. Lasciamo a Dio giudicare. A noi
tocca inserirli nella vita comunitaria, fare capire la grandezza di Dio, che è più grande del nostro
peccato, del nostro fallimento.
Inoltre a noi tocca aiutare queste coppie nuove, ormai irreversibili, a fare crescere il loro amore di
coppia; questa nuova coppia, da cui possa sbocciare e arrivare a raggiungere quella fedeltà e
indissolubilità che nel precedente matrimonio fu infranta.
Il Documento di Vicenza, su questo tema dei divorziati e risposati, ha un appunto molto interessante,
perché dice: “Il divorzio non toglie la fede, esso esprime la debolezza della persona che non sempre
per vari motivi riesce a raggiungere l’ideale proposto dalla fede. Però esso rimane in loro anche
dentro l’esperienza della propria povertà. Uno sbaglio non interrompe il rapporto con Dio. Dunque le
persone devono coltivare questo rapporto attraverso l’ascolto della Parola, con incontri di catechesi,
con la preghiera personale di coppia e di comunità”.
• Oggi c’è bisogno di stabilità nella famiglia. Il rapporto stabile che fa crescere le persone e
l’amore non deve essere predicato con indissolubilità come legge, ma come opportunità di una via per
far crescere l’amore. L’amore si approfondisce con un rapporto stabile. I rapporti provvisori sono
sempre buoni, ma non guariscono la persona; invece viene guarita e curata con un rapporto continuo
stabile e progressivo.
3.2 Il bisogno di spiritualità nella famiglia
Nella famiglia c’è bisogno di spiritualità, non nel senso soltanto delle preghiere, ma intendo quel
cammino che deve fare la persona dall’io all’altro. Mettere al centro, non il proprio io, le attese e le
pretese; ma mettere al centro le attese dell’altro.
Leminas, l’autore più grande su questo aspetto dell’alterità, dice: “Occorre deporre il proprio io;
depotenziare il proprio io”. Direbbe san Paolo che occorre vivere non secondo la carne, ma secondo
lo spirito (cfr. Rm 8, 5); non secondo il proprio io, la tendenza naturale carnale; ma secondo lo spirito,
secondo l’interesse dell’altro, perché in questo altro c’è innanzitutto Dio. Quindi “deporre il proprio
io”, è l’opera spirituale più importante.
Il grande teologo ortodosso Evdokimos dice: “Ogni grande amore è crocefisso”. Vuole dire: nasce da
un crocefisso, da un io che si ritira e si depone per fare centro all’altro, e viceversa nell’amore
coniugale.
4. Verso quali atteggiamenti sponsali educarci ed educare
Ultimo punto: verso quali atteggiamenti sponsali educarci ed educare?
• Bisogna educarci alla differenza e all’alterità, cioè è necessario che ci educhiamo e educhiamo
i giovani e gli sposi alla differenza e alla alterità.
“Differenza” molto semplicemente vuole dire: lasciare che l’altro sia diverso, non volerlo assimilare
né omologare, senza ridurlo. Perché quando uno è ridotto si ribellerà e si stancherà, quindi la
differenza rispettata crea fervore di comunione.
Invece “alterità” è un più, perché significa: depotenziare il proprio io, destituirlo e porsi in ascolto
dell’altro considerato il maestro. Depongo le mie idee per ascoltare altre prospettive. Se ciascuno è
maestro per l’altro, questo crea la comunione, crea un rapporto di alterità.
C’è un amore-sentimento e c’è un amore di giustizia o di alterità. L’amore-sentimento è quello che va
all’altro per le proprie attese e bisogni; è un procedimento istintivo ma avido.
Invece l’amore di giustizia e di alterità, è l’amore che va all’altro, non ricercando le proprie
soddisfazioni o attese, ma per rispondere alle sue attese.
• Un secondo atteggiamento verso cui andare per educare: è amarci da peccatori.
Cioè l’uomo è un essere aperto e vuole dire: che è un essere in cammino e se cammina può sbagliare.
L’uomo non può crescere senza mai sbagliare; l’uomo è fallibile. Le ammaccature, le deviazioni
fanno parte della crescita della vita di una persona. La fallibilità è un dato di fatto che va accolto.
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Amare se stessi (e lo dico anche a me prete) è accettare anche i propri fallimenti, senza danni né
drammi, vincendo le proprie immagini idealizzate. Così amare una persona è accettare che essa possa
sbagliare. Il pretendere che sia perfetta o che non deve mai peccare o sbagliare, non è un amore
adulto, non è amore all’altro nella sua concretezza e realtà. Questo non vuole dire rassegnarsi di
fronte agli sbagli o alle sconfitte, ma riconoscere che ci costruisce anche attraverso gli sbagli e le
sconfitte.
Ho trovato due anni una famosa lettera in un libro di Milena Jesenska, quella scrittrice del 1920 che
ha avuto una relazione amorosa molto lunga con Kafka Franz, in cui si domanda: “Perché sposarsi?
Per essere felici?”. E fa un grande bellissimo ragionamento cercando di capire il senso dell’amore.
Uno è con i sensi; e qui si riferisce a noi, in questo caso amarci da peccatori. Poi dice: “L’amore è il
sostegno per una inferma coscienza di sé”. Cos’è che vuole dire? Che ogni persona sa di essere
infermo; ha la coscienza di essere inferma. Ogni persona sa di sbagliare e che può sbagliare. Sposarsi
vuole dire: incontrare una persona che ti accetta anche nello sbaglio, che non ti molla nei peccati, che
sta con te comunque, e questo sentirsi amati comunque dà alla persona la voglia di rinascere e di
affrontare i problemi.
• Terzo e ultimo atteggiamento verso cui educarci ed educare i giovani, i fidanzati e gli sposi. La
coppia e la famiglia impegnate per un mondo nuovo di giustizia.
All’inizio accennavo che nella dichiarazione di Donati c’è questa voglia dell’intimità familiare, che
potrebbe essere vista anche come rifugio. Il discorso è pericoloso. Su questa idea, nello scorso anno in
gennaio/febbraio, sono stati editi alcuni articoli “sui giovani e la stampa” e “il matrimonio e la
stampa”, in cui c’erano preoccupanti osservazioni, con il mettere in rilevo che i giovani sono una
generazione sperduta e che non sanno dove andare. Questi articolisti dicono: “La società è negativa;
la politica è un gioco sporco; la scuola è estranea; anche la religione non interessa ai giovani. Occorre
trovare un rifugio e questo rifugio è la famiglia, l’amicizia e gli affetti. L’icona sembra essere il
tinello di casa, la famiglia, il divano”.
Una seconda idea che mi sopravviene è che i giovani hanno paura di diventare adulti. La giovinezza è
il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ma questo passaggio sta dilatandosi e diventa sempre più
faticoso. La famiglia del futuro dovrà vivere di più il senso dell’impegno nel mondo politico per non
essere impaurito da questo ambito sociale del mondo esterno, per non essere vissuta come rifugio. Le
famiglie devono riprendere il gusto di fare politica. Per “politica” s’intende la costruzione della città,
dell’ambiente, perché essi diventino uno spazio di promozione umana a tutti i livelli.
Se un genitore vuole amare suo figlio, non deve solo pensare al figlio, chiudersi nel figlio, altrimenti
è un disastro. Io dico una frase, ma non la commento: il modo per amare i figli e di non amarli. Perché
se vogliamo amare i figli occorre impegnarsi perché questi figli trovino un domani un’occupazione,
un ambiente ecologicamente sano, la possibilità di vivere e di esprimere le proprie progettualità.
Ormai, solo impegnandosi all’interno della famiglia, si ama e si educa il figlio, anche modificando e
purificando il contesto sociale e ambientale nella sua globalità. Questo è il modo per non rubare il
futuro ai figli.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore.
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