Omelie per un anno - vol. 2
28ª Domenica del Tempo Ordinario
 2 Re 5,14-17 - Ritornato Naaman dall’uomo di Dio, confessò il
Signore.
 Dal Salmo 97 - Rit.: La salvezza del Signore è per tutti i popoli.
 2 Tm 2,8-13 - Se con Cristo perseveriamo, con lui anche
regneremo.
 Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Voi siete stirpe eletta,
sacerdozio regale, nazione santa: proclamate le grandezze di Dio,
che vi ha chiamato dalle tenebre all’ammirabile sua luce. Oppure:
In ogni cosa rendete grazie: questa è la volontà di Dio in Cristo
Gesù verso di voi. Alleluia.
 Lc 17,11-19 - Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio
all’infuori di questo straniero.
Partecipazione alla vita di Cristo
L’Apostolo, per animare il discepolo a predicare generosamente il
Vangelo pure in mezzo alle sofferenze, gli rappresenta la gloria di
Gesù Cristo risorto, e come esempio propone se stesso che patisce,
combatte e si affatica, benché carico di catene; gli mostra inoltre la
gloria eterna come frutto della sofferenza.
Dalla croce alla risurrezione (v. 8)
Paolo presenta a Timoteo i motivi di coraggio: Gesù, solidale con noi
perché della stirpe di Davide (cf At 13,22-23), è risorto. Pertanto
quello che avvenne nel capo, avverrà anche a noi che siamo suoi
soldati e membra del suo corpo. Passando con generosità attraverso
le prove della vita giungeremo alla gloria della risurrezione.
Gesù è risorto, afferma Paolo, “secondo il mio vangelo”. Formula da
non confondere con l’altra: “è risorto secondo le Scritture” (cf 1 Cor
15,4), che significa: in conformità di quanto l’Antico Testamento
aveva predetto. L’affermazione di Paolo significa: “secondo quanto
insegna il vangelo predicato da me” (cf 1 Cor 15).
In effetti la verità della risurrezione costituisce il centro dell’evangelo
di Paolo, cioè della sua predicazione. La risurrezione di Cristo è per
Paolo una forza efficace che ci rende certi della nostra giustificazione
e risurrezione (cf Fil 3,10).
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Soffro per gli eletti (vv. 9-10)
Per la predicazione del suo vangelo l’Apostolo sopporta fatiche e
travagli fino a essere imprigionato e incatenato come un malfattore.
Forse questo appellativo è un richiamo alla morte di Cristo in croce,
come un malfattore (cf Mt 27,38; Lc 22,37; Is 53,9-12).
In verità, sotto Nerone i cristiani erano arrestati con l’accusa di delitti
personali. Paolo soffre di apparire accusato non per il cristianesimo,
ma per i suoi supposti crimini.
Ma che gli importano le sue catene? La Parola di Dio non è
incatenata, e la sua prigionia non gli impedisce di annunciarla. Era
divenuto ben noto infatti ai soldati che si avvicendavano nella sua
guardia e anche altrove che le sue catene erano per la causa di
Cristo, e un buon numero di fratelli, incoraggiati nel Signore dal fatto
stesso della sua prigionia, ardivano maggiormente annunciare senza
timore la Parola di Dio (cf Fil 1,12-14).
Paolo si anima a soffrire i suoi travagli nella certezza che essi
procurano la vita eterna nella gloria del Cristo Gesù. Già prima,
scrivendo ai Romani, aveva detto: “Se siamo morti con Cristo,
crediamo che anche vivremo con lui” (6,8).
Per il cristiano il sacrificio non ha senso separato dai suoi frutti
spirituali e la croce è inseparabile dalla risurrezione. Il cristiano nei
suoi dolori vive nella certezza della sua definitiva partecipazione al
destino di Cristo che si realizzerà nella risurrezione finale. Dopo la
morte con Cristo vivremo parimenti con Cristo.
In questo brano Paolo afferma qualche cosa di più che nella lettera ai
Romani: egli non solo sopporta i propri travagli nella speranza della
propria glorificazione con Cristo, ma li sopporta perché anche gli eletti
raggiungano con Cristo la salvezza con la gloria celeste. Vi è qui una
solenne affermazione del dogma della comunione dei santi.
In sostanza è come se Paolo così esorti il discepolo Timoteo: “Come
un agricoltore, io Paolo, con le mie sofferenze semino il seme della
beata eternità. Fortificato dunque dalla considerazione della gloria di
Gesù Cristo e animato dal mio esempio, patisci, lavora, predica per la
salvezza di quelli che Dio vuole salvare per mezzo delle tue
predicazioni, dei tuoi patimenti e delle tue fatiche. La ricompensa non
mancherà né a te né a me”.
Per animare il discepolo, l’Apostolo gli rappresenta la gloria di Gesù
Cristo risorto e come esempio propone se stesso che patisce,
combatte e si affatica, benché carico di catene, e gli mostra la gloria
eterna della sofferenza.
Morte e risurrezione con Cristo (vv. 11-13)
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L’espressione: “certa è questa parola” si trova più volte nelle lettere
pastorali (cf 1 Tm 1, 15) e serve a sottolineare il carattere solenne di
una dichiarazione. L’espressione può riferirsi tanto a ciò che
immediatamente precede quanto a ciò che segue, dove i pratici effetti
delle verità di fede sono espressi in brevi frasi cadenzate, che ai
moderni danno la sensazione di una strofa d’inno liturgico, a
somiglianza di 1 Tm 3,16 o anche di Ef 5,14.
Paolo cerca di inculcare a Timoteo delle massime degne di eterna
memoria per incoraggiare lui e i fedeli nella persecuzione. L’essere
con Cristo comprende tutte le fasi della vita cristiana: perseverare,
morire, vivere e regnare.
La comunione con la morte di Cristo nel battesimo comporta la
partecipazione alla vita del risorto. Tutta la vita del cristiano deve
essere una realizzazione di questo, fino alla fine, in una fedeltà
assoluta, magari arrivando alla reale comunione del battesimo di
sangue.
“O non sapete – scrive altrove Paolo – che quanti siamo stati
battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per
mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella
morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della
gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita
nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte
simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,33).
Patire e morire con Gesù è motivo di sicura speranza di risorgere con
lui. La prospettiva certa della risurrezione gloriosa deve servire di
conforto e di incoraggiamento nelle tribolazioni e nelle lotte.
Anche nel caso della nostra infedeltà alle promesse battesimali, Cristo
da parte sua resta fedele alle sue promesse di misericordia, poiché
non può rinnegare se stesso, cioè la sua natura divina di essere
immutabile. Non bisogna quindi disperare. Nell’Antico Testamento si
ribadisce continuamente la fedeltà di Dio, anche quando l’uomo
diventa infedele (cf Nm 23,19).
Riflessioni pratiche
Tutta la nostra vita deve essere una comunione con la vita di Cristo,
fino alla fine, in una fedeltà assoluta, magari arrivando alla reale
comunione col battesimo di sangue.
Ognuno rifletta seriamente sopra la sua condotta, per conoscere,
dagli effetti, se è persuaso della verità di queste massime celesti e
divine.
Anche se siamo venuti meno alle nostre promesse battesimali, Cristo
da parte sua resta fedele alla sua parola: premierà i buoni e punirà i
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cattivi; egli infatti non può rinnegare se stesso, cioè la sua natura
divina di essere immutabile.
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