CIRCE E IL PAVONE L’IMMAGINARIO BAROCCO Ferdinando, ti vedo assai turbato, come sgomento: non aver paura. I giochi di magia son terminati. Come t’avevo detto, quegli attori erano solo spiriti dell’aria, ed in aria si son tutti dissolti, in un’aria sottile ed impalpabile. E come questa rappresentazione - un edificio senza fondamenta così l’immenso globo della terra, con le sue torri ammantate di nubi, le sue ricche magioni, i sacri templi e tutto quello che vi si contiene è destinato al suo dissolvimento; e al pari di quell’incorporea scena che abbiam visto dissolversi poc’anzi, non lascerà di sé nessuna traccia. Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita. William Shakespeare, La tempesta in breve… Il barocco è la cultura dominante del Seicento europeo. Circe e il pavone rappresentano due aspetti centrali dell’immaginario barocco: L’immaginario barocco oscilla tra due poli contrapposti: da una parte il fascino dell’effimero, del travestimento, dell’esibizione; dall’altra l’inquietudine, il desiderio di certezze, la paura dell’inconsistenza; da una parte la metamorfosi, dall’altra l’ostentazione. Nell’immaginario barocco è fondamentale la sovrapposizione tra vita e teatro: il mondo è un immenso palcoscenico, sul quale ognuno recita la sua parte; vivere significa recitare. Alcuni dei temi principali delle opere barocche sono: la morte, la follia, il mondo alla rovescia, lo sdoppiamento e il mascheramento, il sosia. Il barocco [Il significato del termine] Il termine «barocco» è utilizzato ancora oggi per indicare qualcosa di eccessivo, pomposamente addobbato, fuori dalla norma. Come altri termini analoghi (ad esempio ‘romantico’) è passato a indicare delle caratteristiche astratte, a prescindere da qualsiasi riferimento storico preciso; alcuni intellettuali contemporanei hanno persino proposto di definire l’età contemporanea «neobarocca», sottolineando così le analogie esistenti, secondo loro, con la cultura e l’immaginario dominanti nel Seicento. [L’etimologia di ‘barocco’] Sull’etimologia (cioè sull'origine) del termine esistono diverse ipotesi: 1. potrebbe derivare da un termine francese («baroque»), che significa appunto «stravagante, bizzarro»; 2. potrebbe riprendere un’antica parola portoghese («barroco») che indica una perla irregolare, non simmetrica; 3. si rifarebbe al nome di una forma ingannevole di ragionamento descritto dal filosofo greco Aristotele. Nonostante le differenze, tutte e tre le ipotesi mettono in evidenza gli stessi caratteri: la bizzarria, la stravaganza, l’irregolarità, il gusto per le forme complicate e non lineari. [La diffusione storica e geografica] Il barocco può essere considerato la dominante culturale del Seicento europeo: esistono certamente linee diverse e contrastanti, ma tutti gli autori dell’epoca vi partecipano e tutte le forme di espressione artistica e letteraria ne sono in qualche modo interessate: dalla letteratura all’architettura, dal teatro alla scultura, dalla musica alla pittura. Anche se il periodo di riferimento va dalla fine del Cinquecento alla fine del Seicento, l’arco cronologico è diverso a seconda dei paesi: in generale il momento di maggiore intensità e compattezza è la prima metà del Seicento. Lo stesso si può dire della diffusione geografica: l’area mediterranea è la più coinvolta (Spagna, Portogallo, Italia, in parte la Francia), ma esiste anche un barocco inglese e un barocco tedesco. Circe e il pavone: metamorfosi e ostentazione [Circe e il pavone] Per introdurre la nostra analisi dell’immaginario barocco ci siamo rifatti a uno dei più importanti studiosi del barocco europeo, Jean Rousset, che ha indicato nelle figure di «Circe» e del «pavone» gli emblemi essenziali dell’immaginario barocco. Circe è la maga di cui si narra nell’Odissea, che trasformava in animali gli uomini che avevano la sventura di incontrarla; il pavone è fin dall’antichità il simbolo della vanità e dell’ostentazione. Circe rappresenta il mondo delle forme in movimento, delle identità instabili e mutevoli: è l’emblema di un universo sottoposto a una continua metamorfosi, dove tutto si trasforma senza sosta in qualcos’altro. Il pavone incarna invece il culto delle apparenze, l’attenzione riservata alla messa in scena e all’esibizione. [I due poli dell’immaginario barocco] Insieme, Circe e il pavone proclamano che tutto è mobile, inconsistente, precario, illusorio. Agli occhi degli uomini del Seicento rappresentano da una parte il fascino dell’effimero, il gusto del travestimento e dell’esibizione; dall’altra l’inquietudine, il senso di precarietà, il desiderio inappagabile di stabilità e assolutezza. Sono questi i due poli tra cui oscilla l’immaginario barocco: il culto delle apparenze e l’orrore del vuoto che si cela dietro di esse; il fascino della metamorfosi e il rimpianto della stabilità; l’inseguimento dell’effimero e la ricerca di un punto fermo e definitivo; la follia e la saggezza; il desiderio di accedere a una spiritualità superiore, ascetica e il richiamo dei sensi e dei piaceri. [Un nuovo giudizio sul barocco] La cultura barocca ha dato voce a queste oscillazioni fondamentali, ha espresso il senso più profondo di un’epoca animata da spinte contrastanti, stretta tra il trionfo dell’aristocrazia e dell’assolutismo e le prime, embrionali manifestazioni di una cultura di massa; tra il ritorno a superstizioni medievali e il sorgere del pensiero scientifico moderno. Per secoli è stata oggetto di una feroce censura, disprezzata dallo spirito razionalista dell’illuminismo, considerata incompatibile con il culto romantico della spontaneità e della naturalezza, giudicata solo in base ai suoi difetti: l’ampollosità, il disordine, il culto delle apparenze, l’ipocrisia, l’instabilità. Ma oggi si è imposta una valutazione più equa e variegata: se è vero che molti degli autori del barocco non ci dicono più nulla e le loro opere risultano di fatto illeggibili, è altrettanto vero che sono riconducibili al barocco alcuni dei più grandi capolavori artistici di tutti i tempi: le opere teatrali di Shakespeare e di Molière, i quadri di Rubens, alcuni dei più belli tra i monumenti romani. Il gran teatro del mondo [Vivere/recitare] Un tema centrale e quasi onnicomprensivo da cui possiamo partire per descrivere l’immaginario barocco è l’equivalenza tra mondo e teatro. Vivere significa recitare una parte, la vita è una messa in scena ricca di inganni e di colpi di scena; come afferma uno dei personaggi shakespeariani (nella commedia Come vi piace), «Il mondo è tutto / un palcoscenico, e uomini e donne, tutti sono attori; / hanno proprie entrate e proprie uscite; nella vita / un uomo interpreta più parti». La ‘dissimulazione’, grande virtù dell’epoca, non è che la capacità di recitare al meglio la propria parte, di portare con estrema abilità la maschera prescelta o imposta dalle circostanze. L'uomo accorto non fa mai capire ciò che vuole veramente, fa dell'arte di dissimulare la propria arte suprema, perché nella lotta perenne che oppone uomo a uomo occorre mascherarsi e nascondersi per meglio svelare la maschera degli altri. [La spettacolarizzazione dell’esistenza] Da una parte si ha una continua ‘spettacolarizzazione’ dell’esistenza: i nobili, i sovrani e la chiesa investono ricchezze enormi negli spettacoli, siano essi riservati alla corte o aperti al grande pubblico, destinati a celebrare i fasti dei potenti o a irretire e tenere sotto controllo le coscienze degli umili. L’arrivo a corte di un monarca amico, un matrimonio che sancisce l’alleanza tra diverse case regnanti, la nascita dell’erede sospirato, la celebrazione del santo del paese: tutto diventa occasione di spettacolo, pretesto per una nuova messa in scena. La tecnica teatrale diventa sempre più raffinata: vengono messi in pratica macchinari portentosi, in grado di dare forma a qualsiasi meraviglia immaginaria (sirene, mostre volanti, fiumi che scorrono al contrario...). [Il teatro come forma artistica privilegiata] Dall’altra parte, il teatro è la forma artistica privilegiata dell’epoca. I generi teatrali (commedie, balletti, quadri animati, tragicommedie, tragedie, drammi musicali, spettacoli pastorali) sono tra i più diffusi e praticati, a tutti i livelli sociali (dal chiuso delle corti alle piazze di paese), e alcuni aspetti specificamente teatrali (il tema della maschera e del mascheramento, lo sdoppiamento di ruoli, la riflessione sull’arte della recitazione) diventano pervasivi, si diffondono ovunque. La teatralità contagia anche generi non teatrali, diventa ricerca dell'effetto, spettacolarità, suspense narrativa; persino nell’ambito dell’architettura il colonnato progettato da Gian Lorenzo Bernini per piazza San Pietro viene definito «Theatrum mundi», «teatro del mondo». [Metateatro, teatro nel teatro] La punta estrema di questa equivalenza tra vita e teatro è il ricorso frequente al «metateatro» (teatro che parla di sé) e al «teatro nel teatro»: oggetto dello spettacolo è l’allestimento dello spettacolo stesso, cosicché lo spettacolo diventa a sua volta rappresentazione di uno spettacolo, in un gioco di specchi al quadrato o al cubo. Questo meccanismo è stato definito molto efficacemente «myse en abime» (letteralmente 'messa nell'abisso') perché crea una specie di voragine potenzialmente infinita (gli attori recitano la parte di attori che a loro volta recitano la parte di attori, che anch’essi recitano la parte di attori…). Una simile tendenza al rispecchiamento e all’auto rappresentazione esprime senza dubbio una presa di coscienza: il teatro, raggiunta una certa maturità, comincia a osservarsi con maggiore attenzione, si interroga sulla propria natura, riflette su se stesso. Ma dà voce anche a un’incertezza più radicale sulla possibilità di stabilire dei confini netti tra realtà e finzione: dove finisce la vita ‘vera’ e dove inizia la finzione? È tutto finzione? O non c’è nessuna differenza tra realtà e finzione? La vita è sogno [Sogno, teatro, spettacolo] Complementare all’equivalenza tra vita e teatro è quella tra vita e sogno (e, di conseguenza, tra vita, sogno e teatro). Sogno, realtà e spettacolo si confondono in maniera inestricabile: il sogno diventa specchio esemplare dell’instabilità proteiforme del reale, messa in scena dell’ambiguità sostanziale della condizione umana. La vita è sogno di Calderon de la Barca (1635) esplicita in forma quasi proverbiale questa identificazione, mettendo in rilievo il carattere illusorio della realtà. Il principe Sigismondo è tenuto prigioniero in catene dal suo stesso padre, che ne teme la possibile malvagità; liberato e condotto a palazzo, assume il potere mostrandosi effettivamente violento e dispotico; addormentato, viene riportato in prigione e si convince di aver sognato, fin quando viene liberato dal popolo in rivolta e si mostra infine degno di essere principe. Anche se non ci sono dubbi sull’effettiva natura dell’accaduto (Sigismondo non sogna, ma così è indotto a credere, nel passare da una condizione all’altra), il protagonista stesso sottolinea il carattere effimero della distinzione tra sogno e veglia e considera la sua vicenda esemplare della reale condizione umana: tutti sognano di essere quello che sono, cosicché vivere significa sognare, e la vita in sé è solo «illusione, chimera e ombra vana». [Sogno di una notte di mezza estate] La stessa identificazione si ha nel Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, opera costruita sull’alternanza di tre differenti trame: gli amori incrociati di Lisandro, Ermia, Demetrio ed Elena (Ermia ama Lisandro, ma il padre vuole costringerla a sposare Demetrio, amato a sua volta da Elena); la baruffa coniugale tra Oberon, re degli Elfi, e la moglie Titania, re delle Fate, a causa della quale Oberon decide di ricorrere ai servizi del folletto Puck per dare una lezione alla donna e ricondurla a più miti consigli; i preparativi compiuti da un gruppo di artigiani per allestire una rappresentazione teatrale in onore delle nozze di Teseo e Arianna. Sogno è in primo luogo la rappresentazione teatrale stessa (o almeno, questo – secondo il folletto Puck – potranno sostenere gli spettatori, se annoiati dallo spettacolo); ma è anche l’alternanza tra i diversi piani di realtà, che rende quasi impossibile distinguere ciò che è realmente accaduto da ciò che è frutto di illusione o di magia. Sogno, realtà e spettacolo si equivalgono: «Noi siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e la nostra breve vita è circondata da un sonno», dirà il protagonista di un’altra celebre opera shakespeariana, La tempesta. Il mondo è destinato a dissolversi al pari dei sogni e degli spettacoli (sogno e spettacolo esso stesso), senza lasciare alcuna traccia di sé. La follia e il mondo alla rovescia [Follia e saggezza] La sensazione perenne di instabilità e precarietà si traduce nel grande interesse dedicato al tema della follia. In una realtà senza regole, in preda alla confusione e ai capovolgimenti, la follia è misura delle cose e strumento di conoscenza. Il folle è uno dei personaggi privilegiati dell’universo barocco: quasi sempre è l’unico che possiede la vera saggezza, l’unico in grado di dire le cose come sono realmente, di accettarle nella loro incongruenza. Giullare, attore di strada, mendicante, picaro, bandito, il folle può rimanere ai margini dello spettacolo che è la vita, e così denunciarne l’inconsistenza. [Il mondo alla rovescia] Il folle è anche l’incarnazione e il portavoce di un mondo alternativo, che è il mondo carnevalesco. Quanto più il controllo sociale e religioso si fa stringente e repressivo, tanto più si rafforzano le situazioni e i momenti istituzionalizzati di evasione e di ribellione. Per questo la tradizione medievale del Carnevale acquista rinnovato vigore: è il momento del mondo alla rovescia, in cui è consentito – sia pure per un breve lasso di tempo – ribaltare le gerarchie tradizionali, irridere i potenti e innalzare gli umili. Gli straccioni diventano re, i matti sono ascoltati e riveriti come maestri di saggezza. Gli opposti si toccano e si scambiano: vecchi e giovani, servi e padroni, malati e medici, ricchi e mendicanti. [Sosia, doppi, sdoppiamenti] Il culmine di questa inversione di ruoli è rappresentato dal tema del doppio e degli sdoppiamenti: nelle opere barocche non si contano i doppi, i sosia, gli scambi di persona, i personaggi che compaiono in un duplice ruolo, recitando due parti o travestendosi. Tutti possono fingere di essere quello che non sono: i re si ‘mascherano’ da mendicanti, i mendicanti possono farsi passare per re; la stessa persona può assumere di volta in volta il ruolo di re o di mendicante. Il trionfo della morte [Il pensiero onnipresente della morte] La consapevolezza della precarietà e della fugacità della vita si accompagna a una presenza ossessiva della morte. In parte questa insistenza morbosa deriva anche dalle oggettive condizioni storiche: guerre, carestie e pestilenze avevano infatti reso la morte uno spettacolo familiare e frequente, molto più che in passato. Ma l’ossessione barocca per la morte rimane in primo luogo indice di una profonda crisi spirituale: nonostante la ferrea disciplina religiosa imposta dallo scontro in atto tra protestanti e cattolici, la morte appare sempre di più come uno scandalo inaccettabile – non il passaggio necessario per accedere alla vita eterna, ma la fine violenta e dolorosa del proprio essere terreno. [La morte spettacolarizzata] Anche la morte viene spettacolarizzata: i funerali e i cortei funebri acquistano una dimensione teatrale, sono trasformati in sontuose scenografie; tombe e monumenti funebri sono progettati e costruiti per destare ammirazione e stupore. Parallelamente, si ha una grande diffusione dei «memento mori», cioè degli oggetti che avevano lo scopo esplicito di ricordare in continuazione la necessità della morte ('ricordati che devi morire' è la traduzione del motto latino): teschi e scheletri effigiati dovunque, usati come macabro ornamento delle case e delle chiese. [suggerimento iconografico: la chiesa dei Cappuccini a Roma]. Le immagini della morte invadono la vita degli uomini, che con esse alimentano le loro fantasticherie, sia per stimolare un salutare e delizioso spavento, sia per stordirsi, per confondersi, per scuotere le certezze quotidiane, per insinuare ovunque illusione ed equivoco. [L’esibizione del dolore e dello strazio] Cambia anche il modo di descrivere la morte. Mentre nel Cinquecento prevale l’iconografia classica della morte composta e serena, nel barocco si ha invece un’insistenza marcata sulla sofferenza fisica, sui particolari macabri (teste tagliate, ferite sanguinolenti, corpi scempiati, piaghe orripilanti), anche per la suggestione dei contemporanei studi di anatomia [suggerimento iconografico: Rembrandt, lezione di anatomia]. Si spiega così la predilezione per le scene di tortura, di martirio, di agonia; o il grande successo dei drammi ‘di vendetta’ nel teatro elisabettiano, che permette l’esibizione abbondante di corpi straziati, forche, morti, supplizi, sofferenza protratta e amplificata. Emblemi del barocco [Le figure emblematiche del barocco] Le ‘ossessioni’ che compongono l’immaginario barocco (l’equivalenza mondo/teatro, la follia, il sogno, il mondo alla rovescia, la morte…) si concretizzano in alcune figure emblematiche, che ricorrono frequentemente nelle opere di questo periodo. Possiamo così elencare alcune delle principali: l’acqua in movimento. L’acqua che scorre è il simbolo per eccellenza dell’instabilità delle forme, della continua trasformazione a cui sono sottoposte tutte le cose, viventi o inanimate che siano. Si spiega così la predilezione barocca per le fontane, che trasformano l’acqua in mirabolante opera d’arte, a sua volta in eterna trasformazione, destinata a non essere mai la stessa. le nuvole, il vento, la bolla di sapone. La stessa idea di precarietà e di fugacità si incarna nelle immagini legate all’aria e ai fenomeni atmosferici: cosa c’è di più impalpabile e fugace delle nuvole, del vento, delle bolle di sapone, dell’arcobaleno? Fenomeni che compaiono per un attimo, e poi si dileguano senza lasciare traccia… la decomposizione dei corpi e delle cose. Frequentissime sono le immagini di deperimento e decomposizione: la neve che si scioglie, la rosa che sfiorisce, il cadavere in putrefazione. Strettamente connesse sono anche le immagini legate al trascorrere del tempo, che esprimono la medesima ossessione per la fugacità. Nella ricca serie di orologi e calendari di tutti i tipi predomina nettamente la clessidra: lo scorrere lento ma costante della sabbia dall’una all’altra parte diventa il simbolo prediletto della precarietà della vita, della inevitabile decomposizione a cui sono soggetti gli esseri viventi e non viventi. il cannocchiale. Il cannocchiale diventa invece l’emblema della distorsione a cui può essere sottoposto sistematicamente lo sguardo. Più che le implicazioni scientifiche della scoperta, agli artisti del barocco interessa soprattutto la capacità di modificare la capacità visiva e dunque l’oggetto stesso della visione. Il suo potere metamorfico (di ingrandire le cose piccole e rimpicciolire le grandi – se capovolto) ne fa il simbolo delle poetiche barocche. ellissi, curve, spirali. Se lo spirito classico rinascimentale predilige la compostezza e il rigore geometrico, il barocco ama invece tutto ciò che è difforme, irregolare: la curva prevale sulla linea retta, l’ellisse sul cerchio. Uno dei tratti geometrici preferiti è la spirale: molla che si distende, movimento senza fine, oppure fine a se stesso. La mappa Barocco Etimologia:eccessivo, pomposo, irregolare, fuori dalla norma, bizzarro Circe: inabilità e mutevolezza delle forme Pavone: Vanità e ostentazione Costanti dell’immaginario barocco: Equivalenza vita-sogno-teatro Teatro come forma privilegiata dell’epoca Spettacolarizzazione dell’esistenza Mondo alla rovescia e coincidenza degli opposti Mito della metamorfosi e precarietà dell’esistenza Figure emblematiche: acqua, nuvole, vento, bolle di sapone, clessidra, corpi in decomposizione, orologi, cannocchiali Presenza ossessiva della morte Costanti stilistiche: metafora e argutezza. Testo 1. Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne Apollo e Dafne è un gruppo scultoreo realizzato da Gian Lorenzo Bernini tra il 1621 e il 1623, su commissione della nobile famiglia romana dei Borghese. Il soggetto deriva da un celebre testo del poeta latino Ovidio, all’epoca molto noto: Apollo si è innamorato della ninfa Dafne, dedita esclusivamente alla caccia e consacratasi al culto della dea Diana, e la insegue senza concederle requie, finché Penéo, dio dei fiumi e padre della ninfa, la trasforma per salvarla in una pianta di lauro. Per Bernini il soggetto si traduce in una sfida ai limiti del possibile: fissare il movimento stesso (la trasformazione della protagonista in pianta) nell’immobilità del marmo. Il gruppo scultoreo rappresenta infatti proprio il momento in cui Dafne si sta trasformando, mentre Apollo cerca inutilmente di trattenerla. Bernini riesce così a mettere in scena uno dei temi dominanti dell’immaginario barocco – la metamorfosi – attraverso una soluzione tecnica di grande originalità. [Immagine] Osserviamo insieme. Un manifesto dell’immaginario barocco Apollo e Dafne: movimento e incompiutezza Il gruppo scultoreo rappresenta i due protagonisti nel momento in cui si sta compiendo la trasformazione di Dafne in una pianta. Apollo osserva con stupore la metamorfosi in atto, mentre la ninfa sembra quasi trattenere un grido di doloroso sgomento nel constatare quanto sta capitando al suo stesso corpo: le dita dei piedi stanno diventando radici, la corteccia lignea sta ricoprendo il corpo, i capelli e le mani stanno diventando rami e foglie. Il carattere mostruoso e quasi raccapricciante della scena è reso però senza puntare sugli effetti patetici, ma anzi mettendo in evidenza la grazia sinuosa dei corpi e dei gesti, che risalta in virtù della estrema levigatezza del marmo. Allo stesso modo la connotazione meravigliosa è stemperata dal minuzioso realismo dei particolari (basti pensare alla precisione con cui sono riprodotte le innumerevoli foglioline che partono dai capelli e dalle mani). A prevalere è la sensazione di movimento: Apollo ha ancora il piede sollevato nella corsa per inseguire la ninfa, e a sua volta Dafne si avvita su se stessa nel tentativo di sfuggire al suo inseguitore, protendendo le braccia verso il cielo in un estremo gesto di difesa, prima che la trasformazione si compia. Il movimento, a sua volta, trasmette una sensazione di incompiutezza: lo spettatore ha quasi l’impressione di assistere in diretta alla scena, mentre si sta svolgendo; può immaginare quale sarà la conclusione (Dafne trasformata interamente in una pianta di alloro), ma deve completare idealmente l’azione sino alla fine. Si tratta di un’opera spettacolare, costruita ad arte per suscitare la meraviglia dello spettatore; attentamente studiata, infatti, è anche la collocazione della statua nella Galleria: rispetto all’ingresso il gruppo appare di spalle, e bisogna girarci attorno per coglierne tutti i particolari. Il mito della metamorfosi, tra sensualità e moralismo Il gruppo scultoreo di Bernini si può considerare la realizzazione perfetta di un tema centrale nell’immaginario barocco, qual è appunto quello delle metamorfosi. Attraverso il mito di Apollo e Dafne l’autore mette in scena l’instabilità delle forme, mostrando il loro perenne mutare e disfarsi: tutto è precario e incerto, persino il confine tra animato e inanimato, tra mondo umano e mondo vegetale. Tipica del barocco è anche la mescolanza tra fascino della sensualità e esaltazione del rigore morale. I corpi nudi e sinuosi dei due personaggi evocano infatti un mondo primitivo in cui i piaceri materiali e la corporalità non sono soggetti ad alcuna censura, e possono manifestarsi liberamente. Del resto nel mito classico non vi è alcuna connotazione moralistica: Dafne non è interessata né all’amore, né ad Apollo, e solo per questo rifiuta la proposta del dio, non per scrupoli morali e religiosi di varia natura. Al contrario, nell’opera di Bernini la rappresentazione del conflitto passionale è subordinata all’intenzione moralistica, che viene dichiarata esplicitamente nei versi latini che il cardinale Barberini (committente dell’opera) scrive e fa incidere sul basamento dell’opera, che suonano in italiano: «ogni amante che insegua i piaceri della bellezza fuggente / afferra con le mani la fronda, o meglio gusta bacche amare». Il mito di Apollo e Dafne diventa così il pretesto per un encomio della virtù femminile: la donna deve essere pronta a tutto – anche a sacrificare la vita – pur di proteggere la sua virtù. Contemporaneamente, lo scorno di Apollo dovrebbe essere un invito a non inseguire i piaceri effimeri della carne, che prima o poi si rivelano per quello che sono – cioè un fuggevole inganno. Esercizi Per capire 1. Che cosa rappresenta il gruppo scultoreo di Bernini? 2. In che posizione è raffigurato Apollo? 3. Perché Apollo sta inseguendo Dafne? 4. Qual è la posizione del corpo di Dafne? Per approfondire 1. In che modo Bernini riesce a rendere l’idea della metamorfosi? 2. Qual è l’interpretazione allegorica in chiave morale e cristiana del mito? 3. Ti proponiamo l’episodio delle Metamorfosi di Ovidio dedicato ad Apollo e Dafne. Illustra le analogie tra questo testo e l’opera di Bernini. Dopo aver ucciso il serpente Pitone, Apollo si sentì particolarmente fiero di sé, perciò si vantò della sua impresa con Cupido, dio dell’Amore, sorridendo del fatto che anche lui portasse arco e frecce, ed affermando che quelle non sembravano armi adatte a lui. Cupido indignato, decise allora di vendicarsi: colpì il dio con la freccia d’oro che faceva innamorare, e la ninfa, di cui sapeva che Apollo si sarebbe invaghito, con la freccia di piombo che faceva rifuggire l’amore, per dimostrare al dio di cosa fosse capace il suo arco. Apollo, non appena vide la ninfa chiamata Dafne, figlia del dio-fiume Peneo, se ne innamorò. Tuttavia, se già prima la fanciulla aveva rifiutato l’amore, dedicandosi piuttosto alla caccia come seguace di Diana, essendo stata colpita dalla freccia di piombo di Cupido, quando vide il dio, cominciò a fuggire. Apollo iniziò allora ad inseguirla, elencandole i suoi poteri per convincerla a fermarsi, ma la ninfa continuò a correre, finché, ormai quasi sfinita, non giunse presso il fiume Peneo, e chiese al padre di aiutarla facendo dissolvere la sua forma. Dafne si trasformò così in albero d’alloro prima che il dio riuscisse ad averla, egli, tuttavia, decise di rendere questa pianta sempreverde e di considerarla a lui sacra: con questa avrebbe ornato la sua chioma, la cetra e la faretra; ed inoltre, d’alloro sarebbero stati incoronati in seguito i vincitori e i condottieri. Per scrivere 1. Descrivi con parole tue il gruppo scultoreo di Apollo e Dafne (min 400 parole). 2. Il tema di Apollo e Dafne è stato ripreso più volte dal punto di vista iconografico. Ti proponiamo alcune delle occorrenze. Osservale con attenzione e cerca di individuare analogie e differenze rispetto all’opera di Bernini VEDI DOCUMENTO ALLEGATO. Testo 2. Piazza Navona Piazza Navona è il simbolo per eccellenza del barocco romano. Sorta sulla pianta dell’antico stadio di Domiziano, ha assunto il suo aspetto monumentale per iniziativa di papa Innocenzo X, che voleva così glorificare la potenza della sua famiglia, i nobili Pamphili. A questo scopo ordinò la demolizione di alcuni dei fabbricati esistenti e fece erigere affacciato sulla piazza il palazzo di famiglia, commissionando ai più famosi artisti del tempo (Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona) le opere d’abbellimento: la Fontana dei Quattro Fiumi e la Fontana del Moro, la Chiesa di Sant’Agnese, gli affreschi di Palazzo Pamphili. [Inserire immagini. Suggerimento iconografico: sarebbe forse opportuno inserire un’immagine completa, magari la pianta vista dall’alto, della piazza, e poi delle figure in dettaglio dei monumenti e delle opere di cui si parla: la fontana dei fiumi, la facciata di Sant’Agnese, l’interno di Palazzo Pamphili] Osserviamo insieme. Il capolavoro del barocco romano La struttura della piazza La piazza ha una caratteristica pianta ovale e allungata, che discende dalla sua originaria funzione (era appunto uno stadio, dove si svolgevano i giochi sportivi), e che già di per sé realizza la predilezione barocca per le figure asimmetriche (ellisse e ovale piuttosto che cerchio); il nome originario della piazza era infatti «in Agone» (agones erano le competizioni sportive di età imperiale), a ricordo della sua primitiva destinazione. Al centro della piazza è posta la monumentale Fontana dei Quattro fiumi, opera di Bernini, che sorregge l’obelisco (di stile egiziano, ma risalente all’epoca imperiale), il quale a sua volta porta in cima una colomba, simbolo dello Spirito Santo, ma anche della famiglia Pamphili. Le figure allegoriche che compongono il gruppo scultoreo rappresentano i quattro fiumi più grandi allora conosciuti (Danubio, Gange, Nilo e Rio della Plata), simbolo dei quattro continenti (Europa, Asia, Africa e America). Alla grandiosa fontana centrale corrispondono le altre due fontane situate a Nord e a Sud, di minore ambizione: la Fontana del Moro e la Fontana del Nettuno, di seguito più volte ritoccate. Sulla piazza si affacciano numerosi palazzi nobiliari, di cui il principale è quello della famiglia Doria Pamphili, edificato nel 1630 e poi ampliato grazie all’annessione di alcuni edifici adiacenti nel 1650, in occasione dell’elezione al seggio pontificio di Giovanni Battista Doria, con il nome di Innocenzo X. Concepito come celebrazione del casato dei Pamphili, il palazzo domina la parte settentrionale di Piazza Navona, davanti alla Fontana del Nettuno. L’ingresso è costituito da tre grandi portali, che danno accesso a due cortili su cui si affacciano gli ambienti interni, tutti affrescati dai più grandi artisti del momento; celebre è soprattutto la galleria progettata dal Borromini e affrescata da Pietro da Cortona con le Storie di Enea. Accanto a Palazzo Pamphili sorge la Chiesa di Sant’Agnese in Agone, dedicata alla giovane santa che – secondo la leggenda – avrebbe subito il martirio proprio nello stadio, il cui assetto definitivo si deve a Francesco Borromini, eterno rivale del Bernini (tanto che, secondo una diffusa credenza popolare, il Nilo porta una benda sulla testa per non essere costretto a fissare per l’eternità la facciata della Chiesa e il Rio della Plata sembra accennare un gesto di difesa, come se fosse preoccupato per il possibile, imminente crollo della Chiesa stessa). Un monumento alla instabilità L’insieme degli edifici e dei gruppi scultorei sembra concepito come un monumentale elogio dell’instabilità. Nella Fontana dei Fiumi l'acqua dei quattro fiumi «imita le sorgenti e i torrenti di montagna, sorge dalla roccia, trabocca, ricade a getti o a cascate, traccia ovunque delle curve che prolungano quelle del tumultuoso edificio» (Battistini); tutte le forme sembrano incrinarsi, quasi si sciogliessero fino a liquefarsi o a diventare evanescenti. A mezza altezza, sui fianchi della grotta rocciosa, sono collocati i quattro personaggi allegorici, tutti e quattro in movimento, come se stessero aspettando qualcosa o volessero proteggersi da qualcosa. L’unica linea retta in questo trionfo di linee curve è l’obelisco, che si staglia verso l’alto, quasi a far risaltare, per contrasto, il groviglio sottostante. Le linee curve e instabili della Fontana sono poi riprese dalla facciata di Sant’Agnese, concepita come una triplice onda: al centro un semicerchio concavo, fiancheggiato da due avancorpi convessi. Tutte le linee rette sembrano spezzarsi e diventare sinuose, come se fossero immerse nell’acqua; i confini dei corpi si fanno indefiniti, instabili. Si tratta di una rappresentazione dello spazio completamente diversa da quella classica e rinascimentale, che mira a dare un’illusione di indeterminatezza e di infinito. Arte e potere D’altra parte, non bisogna dimenticare che la sistemazione urbanistica di Roma rientrava in un preciso programma politico della Chiesa cattolica, che voleva così dare una prova del suo splendore e della sua potenza: la città doveva diventare una «città di rappresentanza, una sorta di gigantesco spettacolo storico» (Paolo Portoghese) volta a glorificare il Cattolicesimo e a rafforzare la devozione dei fedeli, conquistandone il consenso. Programma che si scontrava non solo con il degrado economico e sociale dell’intera penisola italiana, ma anche con le gravi contraddizioni dello Stato Pontificio, celebre per il malgoverno e l’immobilismo sociale. Non a caso proprio sul torso della statua posta all’angolo di Piazza Navona, e ancora oggi chiamata popolarmente Pasquino, continuarono a comparire per tutto il secolo misteriosi foglietti anonimi contenenti versi di critica e di dileggio (le famose ‘pasquinate’), come quello che celebra a suo modo il completamento della fontana centrale: «noi volemo altro che guglie e fontane / Pane volemo, pane, pane, pane». Esercizi Per capire 1. Che cosa rappresentano le quattro figure che compaiono nella Fontana dei Fiumi? 2. Quali sono le altre due fontane presenti a Piazza Navona? 3. Da che cosa dipende la pianta caratteristica della piazza? 4. Quali sono i principali palazzi che si affacciano sulla piazza? 5. Cos’ha di caratteristico la facciata di Sant’Agnese in Agone? Per approfondire 1. Considerata nel suo insieme, possiamo dire che Piazza Navona è da una parte un monumento all’instabilità e alla precarietà, dall’altro uno strumento di propaganda, volto a glorificare la Chiesa di Roma e la famiglia del pontefice. Quali caratteristiche della piazza possono essere ricondotte all’uno e all’altro aspetto? 2. In che modo Bernini gioca sul contrasto tra il solido (la pietra, la roccia) e il non solido (l’acqua) nella fontana dei fiumi? Rispondi facendo riferimento alle immagini riportate. Per scrivere 1. Svolgi una ricerca iconografica sulle fontane di Bernini, scrivendo per ognuna di esse una breve descrizione. [Verso l’esame] Prima prova, saggio breve. «Il tema dell’infinito o, meglio, il problema della illusiva rappresentazione dello spazio come infinita continuità spaziale in cui si concretizzava e si manifestava il continuo divenire della natura, delle sensazioni, delle emozioni, e quindi dell’esistenza e della storia dell’uomo costituì uno degli elementi fondamentali della poetica e della civiltà figurativa del barocco». Spiega e commenta questa affermazione del critico Nicola Spinosa, facendo riferimento alle opere esaminate in questo capitolo.