del file completo RTF - Digilander

Bozze di stampa riservate agli istruttori e allievi dei corsi di partito
Luciano Gruppi
La concezione dello Stato
- in Marx ed Engels
- in Lenin e Gramsci
Lezioni tenute presso l'Istituto Togliatti,
Frattocchie, 1978
SOMMARIO
La concezione dello Stato
I - IN MARX ED ENGELS
Cenni a:
Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Kant, Rousseau, Constant, Tocqueville,
Croce, Hegel
La critica di Marx
Genesi dello Stato secondo Engels
L'eguaglianza giuridica
Estinzione dello Stato e libertà dell'uomo
La dittatura del proletariato
Sulla Comune di Parigi
II. - IN LENIN E GRAMSCI
Kautsky, « rinnegato» e non
Il Bernstein-debatte
Stato e rivoluzione
Un parallelo tra i Soviet e la Comune
Non tutto è da spezzare
Democrazia e dittatura del proletariato
Contro il burocratismo
Da Lenin a Gramsci
I consigli di fabbrica
Necessità della ricognizione nazionale Egemonia e blocco storico
La nozione di intellettuale
Il partito, moderno «Principe»
Quale pluralismo
La concezione dello Stato
I.-in Marx ed Engels
Prima di arrivare alla teoria dello Stato in Marx ed Engels, vorrei dare un'idea
di come si sia sviluppata tale teoria nella fase precedente, cioè un'idea, sia pure
sommaria, delle grandi concezioni cui si trovò di fronte Marx: la concezione liberale
dello Stato e la concezione democratico-borghese.
Quando si compie una ricerca è bene che indaghiamo, sapendo che una prima
definizione non può che essere provvisoria e può, nel seguito della ricerca, rivelarsi
completamente sbagliata e da cambiare.
Partirei quindi da una definizione di che cosa si in. tende per Stato.
Nella Treccani si legge: «con la parola Stato si designa modernamente la
maggiore organizzazione politica che l'umanità conosca, riferendosi tanto al
complesso territoriale e demografico su cui si esercita una signoria, il potere politico,
quanto al rapporto di coesistenza e di coesione di leggi e di organi che su quello
imperano».
Lo Stato è cioè un potere politico che si esercita su un territorio e su un
complesso demografico, cioè su una popolazione o un popolo, e lo Stato è la
maggiore organizzazione politica che l'umanità conosca. Forse è bene analizzare
questa definizione.
Essa ci dice che nello Stato sono presenti tre elementi: il potere politico, il
popolo, il territorio. È necessaria la presenza di questi tre elementi perché si possa
parlare di Stato in senso proprio. Quindi, per esempio, il Vaticano non è uno Stato nel
senso proprio della parola, ma lo è per convenzione, nel senso che ha il potere, nel
senso che ha il territorio (è piccolo, ma questo non ha rilevanza), però non ha il
popolo.
Questa, tuttavia, è semplicemente una descrizione esteriore dello Stato; non
una spiegazione della sua intima natura.
Nella nostra ricerca partirei dallo Stato moderno.
Lo Stato moderno, lo Stato unitario, dotato di un suo
potere indipendente da qualsiasi altro potere (su questo ritornerò), comincia a
nascere nella seconda metà del 1400 in Francia, in Inghilterra, in Spagna e poi si
allarga gradatamente all'Europa e molto più tardi all'Italia.
Ora, quando si formano gli Stati nel senso moderno della parola nasce, come
sempre avviene, anche una riflessione sullo Stato. Dagli inizi del 1500 ci troviamo di
fronte al nostro Machiavelli che è il primo a riflettere sullo Stato. Nel Principe di
Machiavelli voi trovate questa affermazione: «tutti gli Stati, tutti i domini che hanno
avuto ed hanno imperio sopra gli uomini sono stati e sono o repubbliche o principati
».
Anche qui lo Stato è il dominio e quello che viene sottolineato è il dominio
sugli uomini. Quello che interessa è questa sottolineatura dell'elemento del dominio e
del dominio esercitato più sugli uomini che non sul territorio.
Gramsci, in tutta la sua lunga ed attenta riflessione sul Machiavelli, dice come
il Machiavelli sia il teorico della formazione degli Stati moderni. Egli riflette vivendo
in una Italia dove è fallita la rivoluzione comunale, dove il paese è spezzettato in tanti
staterelli, dove vi è una perdita dell'indipendenza nazionale con !'ingresso in Italia dei
francesi, delle truppe di Carlo VIII, alla fine del 1400. Riflette sull'esperienza di altri
Paesi: la Francia, la Spagna, l'Inghilterra, particolarmente la Francia, e vede il modo
con cui si dovrebbe in Italia costituire uno Stato moderno ed unitario per iniziativa
del Principe.
Machiavelli è in realtà un repubblicano e un democratico legato all'esperienza
della Repubblica fiorentina, del Comune fiorentino, è anche un uomo che afferma che
nessun principe, per saggio che sia, può essere saggio come il popolo. Ma quando
scrive invece il Principe parte della consapevolezza che vi è in Italia una situazione di
crisi di tutti i vecchi ordinamenti e che si può uscire dalla crisi, si può ricostruire lo
Stato, rinnovare la società, solo se vi è un potere assoluto di un principe che si ponga
alla testa di questo movimento".
Vi è in un altro scritto del Machiavelli, nei suoi commenti alla storia di Roma,
La prima decade di Tito Livio, una riflessione su Romolo e Remo, su questa
leggenda. Egli dice: Romolo fece bene ad uccidere Remo, perché quando si fonda
oppure si rifonda o si rigenera uno Stato uno solo deve comandare.
Qui in Italia si trattava di fondare uno Stato e di rifondare una organizzazione
politica della società italiana. Per questo, un repubblicano e democratico come il
Machiavelli, legato nel sentimento alla repubblica fiorentina, pensa invece al potere
di un Principe.
Un momento importante della formazione dello Stato moderno è la ribellione
dell'Inghilterra, più esattamente di Enrico VIII, al potere del Papa. La Chiesa
d'Inghilterra si separa dalla Chiesa cattolica e il monarca Enrico VIII viene
proclamato capo della Chiesa anglicana. Siamo nel 1534.
È chiaro che la questione del divorzio dalla moglie spagnola per sposare Anna
Bolena, divorzio che gli viene rifiutato dal Papa, perché il Papa non vuole perdere
l'amicizia con la Spagna (essendo la prima moglie di Enrico VIII una principessa
spagnola e la Spagna un grande impero che aveva una sua presenza in Italia), per una
motivazione politica, è una cosa puramente occasionale. In realtà, è ma tura la
proclamazione di una piena indipendenza inglese e di una piena sovranità dello Stato
e del monarca che impersona, rappresenta e realizza la sovranità dello Stato,
proclamandosi anche capo della Chiesa Anglicana (una formula che, giuridicamente,
verrà perfezionata dopo). Ma di fatto che cosa si dice? Che il potere dello Stato è
assoluto, che la sovranità statale è assoluta e non deriva da altra autorità, cioè non
deriva dall'autorità del Papa; la sovranità del monarca è sovranità in quanto egli è
monarca e non in quanto la riceve dal Papa; si proclama l'assoluta autonomia dello
Stato, l'assoluta sovranità dello Stato.
Ci sono già, quindi, nel nascere dello Stato moderno, due elementi diversi
rispetto agli Stati del passato, che non troviamo nello Stato antico greco-romano.
Questa autonomia, piena sovranità dello Stato, che non fa dipendere da alcuna altra
autorità la propria autorità, è la prima caratteristica dello Stato moderno.
La seconda, che si delineerà nel XVII secolo, prima di tutto in Inghilterra, con
l'emergere della borghesia è la distinzione tra lo Stato e la società civile. Lo Stato è
una organizzazione distinta dalla società civile anche se ne è l'espressione.
In terzo luogo si delinea una differenza rispetto allo Stato medievale.
Lo Stato medievale è proprietà del signore. Lo Stato medievale è Stato
patrimoniale, lo Stato è patrimonio del monarca, del marchese, del conte, del barone,
ecc., e il signore è padrone del territorio con quello che esso comprende (uomini e
ricchezze). Può venderlo, può regalarlo, alienandolo in qualsiasi momento, come si
trattasse di una riserva di caccia.
Con lo Stato moderno invece vi è un'assoluta identificazione tra lo Stato e il
monarca, che rappresenta la sovranità statale.
più tardi, alla fine del 1600, Luigi XIV di Francia dirà: l'Etat c'est moi, lo
Stato sono io, nel senso che io ho il potere assoluto, ma anche nel senso che io mi
identifico completamente nello Stato.
Machiavelli
Ora, con il Machiavelli, che riflette su queste realtà, noi abbiamo non una
teoria dello Stato moderno, ma una teoria di come si formano gli Stati, di come in
realtà si forma lo Stato moderno. Abbiamo già l'inizio della scienza della politica o,
se volete, della teoria e della tecnica della politica, come una tecnica autonoma che si
distingue dalla morale e dalla religione.
Lo Stato non ha la funzione di assicurare la felicità e la virtù, come per
Aristotele. Non è, come per i pensatori medioevali una preparazione degli uomini al
regno di Dio. Lo Stato ha una sua caratteristica; fa politica, segue una sua
tecnica e sue leggi. Proprio all'inizio del Principe Machiavelli scrive: «Sendo
l'intento mio, [essendo l'intento mio] scrivere cosa utile a chi l'intende, mi è parso più
conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che all'immaginazione di
essa [cioè io studio la realtà effettiva] ».'
È già la linea del pensiero sperimentale, in cui Machiavelli si ricollega a
Leonardo da Vinci: lo studio delle cose come esse sono, la realtà politica, sociale
come essa è, occorre studiare la verità effettuale.
Egli infatti dice: «e molti si sono immaginati repubbliche e principati che non
si sono mai visti né conosciuti essere in vero », molti si sono immaginati stati ideali
che però non sono mai esistiti, per esempio la Repubblica di Platone.
E poi: «perché egli è tanto discosto [c'è tanta differenza] da come si vive a
come si dovrebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si
dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perseverazione sua [che la sua
salvezza] perché un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono
conviene rovini in fra tanti che non sono buoni ».
Noi cioè dobbiamo studiare le cose come sono e dobbiamo vedere quello che
si può e si deve fare, non quello che si dovrebbe, dobbiamo considerare il modo in cui
si vive, non come si dovrebbe, perché uno che volesse essere buono tra tanti uomini
che non sono buoni andrebbe in rovina. Bisogna tener conto della natura dell'uomo e
muoversi nella realtà effettuale.
In questo modo viene ripreso qui un tema che è di Aristotele: la politica è
l'arte del possibile, è l'arte della realtà effettuabile, che tiene conto di come le cose
stanno e non di come dovrebbero essere. Poiché è la morale che si occupa del « dover
essere », c'è qui una distinzione netta tra politica e morale.
La politica tiene conto di una natura degli uomini che per Machiavelli è
immutabile, sicché la storia ha alterne vicende, ma è sempre la medesima, e la tecnica
della politica è sempre la medesima (il che non è vero). Machiavelli dice: «nasce da
questo una disputa se gli è meglio essere amato che temuto o il converso [il
contrario], rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro, amato e temuto, ma perché
gli è difficile accozzarlo insieme [mettere insieme le due cose] è molto più sicuro
essere temuto che amato quando si abbia a mancare dell'uno dei due», se si deve
scegliere tra l'essere temuto e l'essere amato allora è meglio essere temuto.
E continua; «perché degli uomini si può dire questo generalmente; che siano
ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene sono tutti tua, offerenti il sangue [ti offrono il sangue], la roba,
la vita, i figlioli, quando il bisogno è discosto [quando tu non ne hai bisogno] ma
quando
ti si appressa [quando tu hai bisogno di loro] essi rivoltan».
Il Principe, che per i benefizi fatti ai sudditi spera
gratitudine, sarà invece sconfitto.
« Gli uomini hanno meno rispetto ad offendere uno che
si faccia amare che uno che si faccia temere perché l'amore è tenuto da un
vincolo di obbligo il quale per essere degli uomini tristi [malvagi] da ogni occasione
di propria utilità è rotto [l'amore è tenuto da un vincolo che gli uomini essendo
malvagi infrangono, un vincolo morale di sentimento], ma il timore è tenuto da una
paura di pena che non ti abbandona mai» e allora tu devi instaurare il timore, il potere
dello Stato è fondato, lo Stato moderno è fondato sul timore.
Con questo il Machiavelli contraddice profondamente le cose che aveva detto
invece nei Discorsi sulle decadi di Tito Livio, cioè che il potere è fondato sulla
democrazia, sul consenso del popolo, intendendosi per popolo la borghesia dei suoi
tempi. Ma qui egli pensa alla costruzione di uno Stato unitario moderno, quindi dello
Stato assoluto e descrive quello che sarà il processo reale della formazione degli Stati
unitari.
A ben vedere, Machiavelli non si occupa della morale, si occupa della politica
e studia le leggi specifiche della politica, comincia a fondare la scienza politica. In
realtà (come osservarono Hegel e poi De Sanctis e Gramsci) fonda una nuova morale
che è la morale del cittadino, dell'uomo che costruisce lo Stato; una morale
immanente, terrena, che vive nel rapporto tra gli uomini e non è più la morale
dell'anima individuale da presentare al giudizio divino «bella », pulita.
Bodin
Machiavelli ci dà una teoria realistica, è il primo a vedere scientificamente,
criticamente, sperimentalmente, la politica. Non ci dà però una teoria dello Stato
moderno, bensì di come si costruisce uno Stato. Una riflessione su che cosa è lo Stato
moderno la ritroviamo un po' più tardi in Francia, con Bodin [Jean Bodin, filosofo ed
economista francese, 1530-1596], Bodinus, alla latina. Nei suoi sei libri sulla
Repubblica, del 1576, Bodin polemizza contro il Machiavelli. Gramsci dice:
Machiavelli doveva costruirsi lo Stato, progettarlo, Bodin invece teorizzava uno Stato
unitario come quello francese, già esistente, e quindi per lui si poneva soprattutto il
problema del consenso, dell'egemonia.
Bodin è il primo che comincia a teorizzare la autonoma sovranità dello Stato
moderno, nel senso che il monarca interpreta le leggi divine, ad esse obbedisce, ma in
modo autonomo. Non ha bisogno di essere investito dal Papa del suo potere. Lo Stato
è essenzialmente costituito dal potere, non è tanto il territorio e il popolo a fare lo
Stato quanto il potere.
Egli dice: è la sovranità il vero fondamento, il cardine su cui poggia tutta la
struttura dello Stato e da cui dipendono i magistrati, le leggi, le ordinanze; è essa, la
sovranità, il solo legame e la sola unione che fa di famiglie, corpi, collegi singoli, un
unico corpo perfetto, quale è appunto lo Stato, lo Stato come sovranità, come potere
assoluto, come coesione di tutti gli elementi della società.
Hobbes
Cominciano così a gettarsi le basi della teoria moderna dello Stato che poi
troverà una formulazione più compiuta nel '600 e nel '700 con Hobbes [Thomas
Hobbes, filosofo inglese, 1588-1679], filosofo inglese, che ha già di fronte la
rivoluzione democratica inglese del 1648, guidata dai puritani di Cromwell [Oliver
Cromwell, 1599-1658] e che ad essa si oppone da un punto di vista aristocratico.
Questa la teoria dello Stato secondo Hobbes: quando gli uomini primitivi vivono allo
stato di natura, come animali, sono l'uno contro l'altro, per il desiderio di possesso, di
potere, di ricchezza, di proprietà. L'impulso alla proprietà guida gli uomini: già si
sente la società borghese che si sviluppa in Inghilterra e, Homo homini lupus, l'uomo
è per l'uomo un lupo. Ma, poiché, a questo modo, gli uomini si distruggono a vicenda,
essi sentono il bisogno di stabilire tra loro un accordo, un contratto. Un contratto per
costituire uno Stato che tenga a freno i lupi, che impedisca lo scatenarsi degli egoismi
e la distruzione reciproca. Il contratto che si stabilisce fra gli uomini per costituire lo
Stato ne fa uno Stato assoluto, di assoluto dominio. (Vi sono accenti in Hobbes che
ricordano il Machiavelli). La nozione dello Stato come contratto rivela il carattere dei
rapporti sociali borghesi, il loro carattere mercantile. Il fine o il disegno degli uomini,
che per natura non sarebbero portati a dar vita ad uno Stato che limita la loro libertà,
nell'introdurre le restrizioni entro cui vivono nello Stato, è di ottenere in tal modo la
propria conservazione e una vita più confortevole. Di uscire dalla miserabile
condizione di guerra che è la necessaria conseguenza delle passioni naturali.
E poiché i patti senza le spade sono solo parole prive di forza, il patto sociale
che consenta agli uomini di vivere in società e di superare i loro egoismi deve dare
luogo ad uno Stato assoluto, durissimo nel suo potere.
Rousseau più tardi rivolgerà un'obiezione brillante a Hobbes: quando questi
dice che l'uomo allo stato di natura è per l'altro uomo un lupo, non descrive l'uomo
allo stato di natura, ma descrive gli uomini del suo tempo. Rousseau non dice che
Hobbes descrive i borghesi del suo tempo, ma in realtà egli descrive i borghesi, il
sorgere del mercato, il formarsi della borghesia, la lotta di mercato e la sua
spietatezza.
Locke
Non dimentichiamo che l'Inghilterra è già diventata un impero mercantile
nella seconda metà del '500 con la grande regina Elisabetta. È quindi una concezione
tipicamente borghese quella che troviamo in Locke [John Locke, filosofo inglese,
1632-1704] il caposcuola dell'empirismo filosofico moderno ed il teorico della
rivoluzione liberale inglese. Non della rivoluzione del 1648, ma della seconda
rivoluzione che si conclude nel 1689. Una rivoluzione di tipo liberale che segna un
accordo tra la monarchia e l'aristocrazia, da un lato, e la borghesia, dall'altro, l'inizio
di norme parlamentari, una direzione dello Stato fondata su una dichiarazione dei
diritti del parlamento che viene definita nel 1689 e che era stata preceduta, negli anni
settanta, dall'habeas corpus (che tu abbia corpo), cioè da una legge che prescrive che
nessuno può essere arrestato arbitrariamente, senza una precisa denunzia, che deve
essere presentata in tribunale entro un determinato tempo, e con alcune garanzie che
fanno del «suddito» un « cittadino ». Nasce il cittadino, il primo Paese in cui nasce è
appunto l'Inghilterra, e Locke ne è il teorico.
Egli osserva che l'uomo che vive allo Stato di natura è pienamente libero, e
tuttavia sente la necessità di porre un limite alla propria libertà. Perché?
Per garantire la propria proprietà. Finché gli uomini sono totalmente liberi vi è
tra di loro una lotta che non garantisce la proprietà e di conseguenza una libertà
durevole.
Il fine maggiore e principale, dice sempre Locke, del fatto che gli uomini si
uniscono in società politiche e si sottopongono ad un governo è la conservazione
della proprietà, mentre lo stato di natura (cioè la mancanza dello Stato) non garantisce
la proprietà. È necessario quindi il costituirsi di uno Stato che garantisce l'esercizio
della proprietà, la sicurezza della proprietà.
È per questa ragione che si stipula fra gli uomini un contratto che dà luogo sia
alla società che allo Stato (per Locke le due cose vanno insieme). Il contratto,
l'accordo dà luogo alla società e allo Stato. Qui è evidente il fondamento borghese di
tale concezione. Siamo ormai in una società in cui è nato il mercato, in cui il rapporto
tra gli uomini è un rapporto tra individui che stabiliscono tra di loro dei contratti di
compra-vendita, di passaggio di proprietà, ecc. ecc. È questa realtà individualistica
della società borghese, che è tutta fondata su rapporti mercantili e di contratto, che si
esprime nell'ideologia politica, nella concezione dello Stato. Anche lo Stato nasce da
un contratto, ma, mentre per Hobbes il contratto dà luogo ad uno Stato assoluto, per
Locke, invece, lo Stato, come ogni contratto, si fa e si scioglie. Cioè, se lo Stato, il
governo non rispetta il contratto, questo viene sciolto; quindi il governo deve
garantire determinate libertà, deve garantire la proprietà, e deve anche garantire quel
margine di libertà politiche e di sicurezza personale, senza cui l'esercizio della
proprietà e la tutela della libertà non sono possibili. C'è già implicito il fondamento di
alcune libertà politiche che vanno garantite: di assemblea, di parola e così via, in
primo luogo la libertà dell'iniziativa economica.
Cosicché, da un lato abbiamo l'individualismo tipico borghese, nel senso che
l'individuo umano preesiste alla società, preesiste allo Stato, gli uomini partono da
uno Stato di natura in cui sono individui singoli. (Nella visione di Marx invece l'uomo
è un essere sociale e si fa uomo solo in quanto vive in società e in società lavora,
altrimenti sarebbe una bestia, un bruto). Per questi pensatori c'è un individuo umano
che preesiste alla società umana ed è dal contratto tra individui che nasce la società.
Questo è chiaramente fantastico dal punto di vista storico, non si può pensare che
l'uomo diventi uomo se non vivendo in società con altri uomini, se non organizzando
socialmente la propria vita. Prefigurare questo individuo umano come già uomo
prima di organizzarsi in società è una tipica proiezione ideologica dell'individualismo
borghese, perché nel rapporto economico borghese ogni individuo si pone in rapporto
con un altro individuo e non ha coscienza del carattere sociale dei rapporti economici.
Lo Stato è sovrano, ma la sua autorità deriva soltanto dal contratto che lo fa
nascere: questo è il fondamento liberale, senza dubbio progressivo, del pensiero di
Locke. Lo Stato non riceve la sua sovranità da altra autorità. Il curioso è che infatti
Locke non polemizza contro l'assolutismo di Hobbes, come si potrebbe pensare,
essendo egli un liberale, ma polemizza contro un altro autore, il Filmer [Robert
Filmer, inglese, 1588-1653], secondo cui il potere statale deriva dal potere divino.
Contro questi polemizza per affermare proprio la piena autonomia, l'assoluta
sovranità dello Stato moderno, come Hobbes.
Il nesso quindi proprietà-libertà è evidentissimo: il potere supremo non può
togliere ad un uomo una parte della sua proprietà senza il suo consenso, perché dal
momento che il fine di un governo e di tutti quelli che entrano in società è la
conservazione della proprietà, ciò necessariamente presuppone ed esige che il popolo
abbia una proprietà, senza di che si dovrebbe supporre che, con l'atto di entrare nella
società, si perda ciò che costituisce il fine per cui si entra in società. Lo Stato quindi
non può togliere il potere sovrano ad un uomo sulla sua proprietà. Non è possibile
nessun atto arbitrario dello Stato in violazione della proprietà, quindi, per esempio, le
imposte devono essere approvate in parlamento: il monarca non può stabilire le
imposte senza il consenso del parlamento, tradizione ormai già affermatasi in
Inghilterra, e così via.
Vi è una stretta connessione proprietà-libertà: la libertà è in funzione della
proprietà e la proprietà è il fondamento della libertà borghese progressiva in quel
momento.
Ripeto, è la visione borghese che sta alla base di questa concezione. È
interessante osservare però come, in Locke, si afferma già una distinzione tra lo Stato
e la società civile, quella che poi si chiamerà la società civile del '700, quindi tra il
pubblico e il privato, tra la società politica e la società civile. In che senso nasce
questa distinzione?
Egli dice: la proprietà si eredita, il padre trasmette ai figli in eredità la
proprietà; il potere politico, invece, il governo non si trasmette in eredità, deve avere
una sua origine democratica, parlamentare.
L'elemento interessante qui è che nello Stato medievale si trasmette in eredità
e la proprietà e il potere politico: il re trasmette ai suoi figli la proprietà patrimoniale
dello Stato e il potere; il latifondista trasmette la terra, il marchese il marchesato, il
conte la contea, cioè tutti i beni e tutto il potere su questi beni e sugli uomini che
vivono nella contea e nel marchesato.
Nella società medievale società e Stato, potere politico, sono inseparabili, si
connettono insieme, vengono trasmessi insieme; nella società borghese moderna i due
momenti si separano, nella società civile c'è la trasmissione della proprietà, non c'è la
trasmissione del potere politico. Società politica e società civile obbediscono a norme
e a leggi diverse e tutti i diritti di proprietà si esercitano nella società civile. Lo Stato
non deve intromettersi, lo Stato deve garantire l'esercizio della proprietà, la sua tutela
e il suo libero esercizio.
La separazione delle due sfere sta pure a fondamento delle stesse libertà
politiche, che sono le garanzie necessarie per poter tutelare a livello politico la
proprietà e quindi la libera iniziativa economica.
Anche il matrimonio viene concepito da Locke come un contratto fra
individui. La mentalità mercantile si riflette sulla concezione del matrimonio. Il
matrimonio appartiene alla società civile, al diritto civile non al diritto pubblico, è un
fatto esclusivamente privato. Così non era, per esempio, nella società antica, nella
società greca, romana, in cui il matrimonio è un fatto pubblico che interessa lo Stato.
Kant
Si ha una separazione formale, non reale, tra Stato e società civile. Si ha un
diverso modo di manifestarsi della società civile e dei rapporti economici al livello
del potere statale. La borghesia comincia a forgiare il proprio Stato. Ciò si vede anche
più lucidamente in Kant [Immanuel Kant, filosofo prussiano, 1724-1804].
Kant parte da una affermazione che tiene conto della rivoluzione francese e
delle teorizzazioni di Rousseau, come vedremo. Kant afferma che la sovranità
appartiene al popolo, il che è già un principio democratico. In Locke non lo si trova:
la società nasce da un contratto, ma la chiara affermazione che la sovranità appartiene
al popolo non c'è, perlomeno così distintamente, mentre in Kant è esplicita.
Affermato questo, ci dice però che ci sono cittadini indipendenti e cittadini
non indipendenti. I cittadini indipendenti, che possono esprimere un giudizio politico,
che possono decidere della politica dello Stato, sono i cittadini che non dipendono da
altri cittadini, cioè i proprietari.
Non si può pensare che sia capace di giudizio indipendente il servo della
fattoria, il garzone della bottega artigiana. Questi quindi non possono avere il diritto
di voto e non possono essere eletti. I diritti politici attivi appartengono soltanto ai
proprietari.
Questo è il criterio che guiderà tutta la concezione liberale. In Italia nel'800 ha
diritto di eleggere e di essere eletto solo chi paga un determinato livello di imposte,
cioè solo i proprietari. Questa distinzione tra proprietari e no è a fondamento del
liberalismo, e viene con estrema lucidità espressa da Kant.
Dopo aver affermato che la sovranità appartiene al popolo, nega in realtà
l'effettivo esercizio della sovranità al popolo, lo affida soltanto ad una parte del
popolo. Qui il nesso proprietà-libertà è evidentissimo. È libero soltanto chi è
proprietario (si tratta essenzialmente della proprietà della terra, in Kant come in
Locke). Il nesso indissolubile proprietà-libertà è proprio l'essenza del liberalismo.
Bisogna precisare che quando si parla di popolo lo si intende in senso
generale, ma poi nel popolo si fa distinzione tra chi può esercitare dei diritti civili
perché è indipendente, in quanto proprietario, e quindi ha indipendenza di giudizio e
di decisione politica, e chi non l'ha.
Kant arriva poi alla conclusione che una legge è così sacra, così inviolabile
che il solo metterla in discussione è un delitto. Così dopo aver affermato la sovranità
del popolo, in realtà la cancella, e avverte che il monarca non può che essere un
interprete giusto della sovranità del popolo, del diritto naturale, sicché le leggi non
possono che corrispondere al diritto naturale, alla sovranità stessa del popolo. La
legge si sovrappone alla sovranità del popolo. È la tipica concezione liberale dello
Stato di diritto, per cui la sovranità del popolo deve essere contenuta nell'ambito di
alcune leggi che la sovrastano e che sono inviolabili e non discutibili: il diritto di
proprietà, la libertà di parola, di espressione, di riunione, di associazione, libertà che,
nella pratica, vengono esercitate da chi ha i mezzi per esercitarle.
Viene fuori dalla concezione liberale dello Stato di diritto questo elemento: lo
Stato è Stato di diritto in quanto vi sono alcuni diritti che non possono mai essere
messi in discussione e nel cui quadro si esercita la sovranità popolare. La sovranità
popolare è inquadrata e dipendente da alcuni diritti, come dire, permanenti, eterni,
diritti naturali, i quali sono la tipica espressione degli interessi dell'alta borghesia, o
dell'aristocrazia che si borghesizza, e afferma i suoi diritti cominciando da quello
fondamentale di proprietà, tutelato con la libertà di parola, di associazione e la
rappresentatività nel parlamento.
Rousseau
Abbiamo visto sommariamente alcuni momenti della concezione liberale, del
nascere dello Stato moderno. Al tempo stesso nasce la concezione
democratico-borghese con Jean-Jacques Rousseau (1712-1778). Anche per Rousseau
esiste uno stato di natura degli uomini. Esso è uno stato di felicità, di virtù e di libertà,
che viene distrutto e cancellato dalla civiltà. È la concezione opposta a quella di
Hobbes.
Rousseau infatti diceva: Hobbes non ha descritto l'uomo allo stato di natura,
ma ha descritto l'uomo dei suoi tempi.
È invece la civiltà che turba i rapporti umani, che viola l'umanità, perché gli
uomini nascono liberi ed uguali (ecco il principio che si affermerà nella rivoluzione
borghese), ma sono ovunque in catene, una frase stupenda. Gli uomini invece non
nascono né liberi, né uguali, ma lo diventano per un processo politico. Anche qui si
attribuisce ad uno stato di natura quello che è invece una conquista della storia
sociale, dell'ideologia.
Gli uomini, quindi, non possono rinunciare a questi beni essenziali del loro
stato di natura: la libertà e l'uguaglianza. Essi si devono costituire in società. Anche
per Rousseau la società nasce da un contratto. V'è la stessa mentalità mercantile del
borghese e c'è lo stesso individualismo. L'individuo preesiste alla società e dà luogo
alla società, attraverso un accordo, attraverso un contratto. Ma mentre per Locke il
contratto dà luogo alla società e al governo, quindi allo Stato, per Rousseau il
contratto dà luogo soltanto alla società, che deve servire alla piena espansione della
personalità dell'uomo. La società, il popolo non può mai alienare la propria sovranità,
la sovranità appartiene al popolo, soltanto al popolo. Quindi il popolo non deve mai
creare uno Stato da lui distinto o separato. L'unico organo sovrano è l'assemblea (il
primo teorico dell'assemblea è Rousseau), ed è nell'assemblea che si esprime la
sovranità.
L'assemblea, il popolo, può commettere, affidare a taluni dei compiti
amministrativi, relativi all'amministrazione dello Stato, può revocarli in qualsiasi
momento. Ma il popolo non aliena mai la sua sovranità, non trasferisce mai la sua
sovranità ad un corpo statale separato.
I governanti sono soltanto dei commissari del popolo. (L'espressione
«commissari del popolo », che sarà usata dalla rivoluzione russa, risale a Rousseau, è
ricavata deliberatamente da Rousseau).
L'affermazione dell'uguaglianza è fondamentale in Rousseau. Solo se l'uomo è
uguale può essere libero, appena nasce una diseguaglianza tra gli uomini cessa la
libertà. Mentre per il liberale la libertà esiste a condizione che si tenga conto delle
diseguaglianze tra proprietari e non proprietari e l'uguaglianza uccide la libertà, per
Rousseau il solo fondamento della libertà è l'eguaglianza, dove non c'è uguaglianza
non c'è libertà.
Rousseau pensa all'uguaglianza di fronte alle leggi, pensa all'uguaglianza
giuridica, ma arriva anche a capire che c'è un problema di uguaglianza economica,
economico-sociale. Infatti dice che il primo uomo che, avendo recintato un terreno,
affermò: «questo è mio! », e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il
vero fondatore della società civile. «Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii,
quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi strappando i paletti
o colmando il fosso avesse gridato ai suoi simili: "guardatevi dal dare ascolto a questo
impostore, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno siete
perduti"».
Questa è la negazione della proprietà privata. Egli non vede però che il
formarsi della proprietà privata è un grande progresso rispetto alla società barbarica,
un doloroso progresso e pensa che la proprietà nasca dall'atto di uno che mette i
paletti e dice: è mio! e gli altri, sciocchi, gli credono. Invece è tutto un processo
economico di sviluppo delle forze produttive che dà luogo alla proprietà. Questo
Rousseau evidentemente non lo può supporre. La sua concezione è individualistica: la
proprietà deriva da un rapporto tra individui, dall'iniziativa di un individuo. È sempre
lo stesso individualismo borghese in realtà che sta alla base del formarsi della
proprietà.
È interessante però osservare che in lui cade la distinzione dei tre poteri che
già aveva fissato il Montesquieu all'inizio del 1700: il potere legislativo (parlamento),
il potere esecutivo (governo), il potere giudiziario. Montesquieu aveva fatto questa
distinzione per ridurre il potere esecutivo, che era nelle mani del monarca, guardando
ad una monarchia di tipo costituzionale. Rousseau nega invece la distinzione dei
poteri per affermare al di sopra di tutto il potere assembleare. Non ci può essere un
potere esecutivo distinto da quello assembleare, da quello rappresentativo (è l'idea
che Lenin riprenderà in pieno: nei Soviet il potere legislativo ed esecutivo si
identificano e il potere rappresentativo domina). Certo Rousseau s'imbatte in molte
difficoltà che egli stesso sente. Dice: dalla proprietà nascono tutti i mali, ma non
propone come abolirla. Anzi, la sua società è una società piccolo-borghese, di
artigiani. La sua ideologia è l'espressione di questo ceto, come lo è la fase
robespierriana nella rivoluzione francese. Non a caso Robespierre è un discepolo di
Rousseau. Questa fase esprime gli interessi della piccola borghesia francese, della
borghesia artigiana francese, c'è una continuità in questo senso.
Comunque, Rousseau non sa indicare come si supera la proprietà privata.
Allo stesso modo per quanto riguarda la sovranità dell'assemblea. L'assemblea
non deve delegare, il popolo non può mai alienare la sua sovranità neanche per un
momento. Vi è quindi identità di società politica e di società civile - però Rousseau
afferma: un popolo non può sempre star riunito in assemblea; c'è una difficoltà
pratica, reale. Del resto egli ha ideologizzato l'esperienza della democrazia ginevrina
(era di Ginevra) che si era instaurata dopo l'avvento della riforma calvinista.
Democrazia quindi di una piccola città, assemblea di una piccola città, mentre
c'è un'enorme difficoltà per uno Stato moderno ad organizzarsi in questo modo.
Rousseau guarda anche alla democrazia ateniese che riponeva nell'assemblea,
nell'ecclesia, la sovranità.
Dalla ecclesia venivano estratti a sorte i 500 componenti della bulé, il
consiglio (nell'età di Pericle). Venivano estratti a sorte, non eletti. L'elezione è già una
scelta. Questi invece erano estratti a sorte. Cosa che poteva toccare a tutti. Il consiglio
dei 500 restava continuamente riunito, salvo nei giorni delle festività religiose. Poi,
siccome i cinquecento venivano scelti in numero di 50 per ognuna delle dieci tribù,
che era la divisione amministrativa di Atene, a turno i cinquanta di una tribù
esercitavano i compiti governativi ma per poche settimane. In pratica non vi era
distinzione tra potere legislativo, rappresentativo e il potere esecutivo. Non vi era
distinzione quasi tra società civile e Stato. I soldati erano cittadini in armi e cosi via.
Però quel modello era possibile perché mentre i cittadini erano riuniti in assemblea, in
consiglio, gli schiavi lavoravano ed anche quelli che senza essere schiavi non erano
cittadini a pieno titolo, i Meteci. Una democrazia come quella ateniese presuppone
che il cittadino non lavori, ma gli altri lavorino per lui.
Della difficoltà di questo modello, anche Rousseau si rende conto: la
democrazia di cui io parlo non esiste, non è mai esistita e forse non esisterà mai;
anche quello stato
di natura a cui si deve tendere, cioè l'uomo che non aliena ,.
la propria sovranità, la propria libertà, questo stato di natura forse non è mai
esistito e non esiste e forse non esisterà mai. È una meta ideale a cui tendere. Lo
stesso Rousseau si rende conto dell'elemento utopico presente nella sua concezione.
Constant
Molto più tardi, arriviamo a Benjamin Constant [Benjamin Constant de
Rebecque, scrittore francese, 1767-1830]. A quel tempo il liberalismo comincia ad
essere un ideale cui si ispira tutta l'Europa, dopo l'esperienza della Rivoluzione
francese. È il momento in cui la fase democratica della rivoluzione francese, la fase
robespierriana (1793) viene respinta e si tende a società liberali come quelle che si
formeranno in Francia dopo il 1830, con la rivoluzione del 1830, in Italia con il '48, in
Piemonte e più tardi con l'unificazione del regno. In Inghilterra, dopo la rivoluzione
del 1689, c'è sempre stata una società liberale.
Benjamin Constant è interessante perché qui la distinzione tra Stato e società
civile è portata al massimo della consapevolezza. Nel fare distinzione fra la
democrazia romana e la democrazia greca, ateniese, e il liberalismo moderno egli
sottolinea che la libertà degli antichi si esercitava nella sfera pubblica della società,
dello Stato, non si esercitava nella sfera del privato. La vita privata era vincolante,
mentre invece la libertà del cittadino moderno si esercita nella sfera del privato
essenzialmente, mentre è molto debole ed inconsistente, parziale nei confronti dello
Stato.
«Che cosa intende oggi per libertà un francese, un inglese, un abitante degli
Stati Uniti d'America? È per ognuno di loro il diritto di non essere sottoposto che alle
leggi, di non poter essere né arrestato, né tenuto in carcere, né condannato a morte, né
maltrattato in alcun altro modo per la volontà arbitraria di uno o più individui, è per
ognuno il diritto di esprimere la propria opinione, di esercitare il proprio lavoro, di
disporre della sua proprietà e persino di abusarne, di andare e venire senza chiedere
permessi, ecc. ecc. È infine il diritto per ognuno di esercitare la propria influenza
sull'amministrazione del governo sia concorrendo alla nomina di tutti o di alcuni dei
suoi funzionari, sia con rimostranze, petizioni, domande che l'autorità in qualche
modo è obbligata a prendere in considerazione».
Constant osserva, in un altro passo, che, mentre nella sfera del privato la
libertà dell'uomo moderno è grande, nella sfera del pubblico la libertà è limitata, si
può influire in modo limitato sull'andamento del governo.
Per gli antichi è l'opposto. La libertà degli antichi consisteva nell'esercitare
collettivamente (ma direttamente, non delegandole al governo) molte funzioni della
sovranità, nel deliberare sulla pubblica piazza sulla guerra, e sulla pace, nel
concludere con gli Stati stranieri trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel
pronunziare giudizi, nell'esaminare i bilanci, gli atti dei magistrati, nel farli comparire
davanti a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel condannarli e nell'assolverli.
Nella sfera del pubblico, quindi, erano enormi i diritti del cittadino della
repubblica romana oltre che della democrazia ateniese. Il governo non decideva della
pace e della guerra al di fuori dell'assemblea dei cittadini, mentre il governo moderno
decide al di fuori.
Era questo che gli antichi intendevano per libertà, ma contemporaneamente
ammettevano che questa libertà collettiva era compatibile con l'asservimento
completo dell'individuo all'autorità dell'insieme. Invano, o quasi, si cercherebbe
presso di loro la possibilità di usufruire di quei vantaggi che fanno parte della libertà
dei moderni. Tutte le azioni private sono sottomesse ad una sorveglianza severa,
niente è concesso all'indipendenza individuale, né per quanto riguarda le opinioni
personali, né in materia di attività economica, né soprattutto in materia di religione
(non c'è la libertà di coscienza), le attività economiche sono tutte controllate, ecc.
Tutta la sfera del privato è assorbita nel pubblico, nella vita politica. Invece per i
moderni la libertà, dice Constant, si esercita soprattutto nella sfera del privato ed è
una rivendicazione di libertà nella sfera del privato.
È netta la distinzione che egli fa tra società civile, società statale, società
.politica, e l'affermazione dei diritti di libertà come di diritti che si esercitano
soprattutto nella sfera privata perché sono diritti di iniziativa economica (diritti della
borghesia). Di qui tutta la sua polemica con Rousseau: l'eguaglianza di Rousseau
distrugge ogni libertà e le sue concezioni vanno perciò respinte come una grande
minaccia alla libertà. Il nesso proprietà-libertà, e quindi libertà come differenza e non
eguaglianza, viene fortemente sostenuta.
Tocqueville
È questo il dilemma di fronte al quale in pieno ottocento si troverà quel
grande liberale che è Tocqueville [Charles Tocqueville, storico e uomo politico
francese, 1805-1859], abbastanza intelligente e realista da capire che la democrazia è
destinata a vincere, l'eguaglianza giuridica è destinata ad affermarsi. Ma si chiede se
l'uguaglianza verso cui l'umanità andrà non distruggerà la libertà e se riusciremo ad
affermare l'uguaglianza e a salvare l'umanità al tempo stesso, se cioè l'uguaglianza
non diventerà tirannide.
Sono queste le due diverse concezioni progressiste dello Stato che si
affermano travagliosamente in Europa: la concezione liberale (il nesso
proprietà-libertà, la libertà esige la diseguaglianza), la concezione democratica (la
libertà posa sulla eguaglianza, ma sulla eguaglianza giuridica
essenzialmente, anche se Rousseau arriva a porre il problema della proprietà).
La corrente democratica che si era affermata con la rivoluzione francese, con
Robespierre, in realtà fu sconfitta dalla storia europea. Avremo poi dei regimi liberali,
avremo, dopo il sessanta e il settanta, in Europa, il fondarsi del liberalismo e della
democrazia, cioè un'estensione del suffragio universale, della uguaglianza giuridica,
una commistione di liberalismo e democrazia, che però afferma sempre il diritto della
proprietà e tutela sempre la iniziativa economica e lo sviluppo capitalistico.
Croce
E così Benedetto Croce [Benedetto Croce, 1866-1952] potrà, negli anni '30
del nostro secolo, nella sua Storia d'Europa, dal suo punto di vista liberale, mettere le
cose in chiaro. In un'epoca in cui non si distingue più tra Stato di diritto liberale e
Stato democratico, in cui, cioè, non si distingue tra liberalismo e democrazia, poiché
nella realtà delle cose i due elementi sono intrecciati, Croce precisa che si tratta di
due concezioni molte diverse. E dice: nonostante l'affinità di alcuni elementi del
cattolicesimo e delle monarchie assolute col liberalismo, e nonostante la disposizione
di questo a riceverli in sé e a far suoi i due sistemi, cioè quello cattolicoclericale e la
monarchia assoluta, gli rimanevano contro nemici ed esso nemico a loro (ovviamente
il liberalismo era nemico della monarchia assoluta e del clericalismo), così accadeva
di un terzo sistema e di una terza fede che pareva confondersi col liberalismo o
perlomeno unirvisi: l'ideale democratico.
Sembrava che nell'800 si fondesse l'ideale democratico con l'ideale liberale.
Le concordanze erano, tra liberalismo e democrazia, non soltanto al negativo
(comune opposizione al clericalismo e all'assolutismo), ma anche al positivo (comune
richiesta di libertà individuale, di eguaglianza civile e politica e di sovranità
popolare). Ma qui per l'appunto, dice il Croce, si annidava la diversità. Infatti i
democratici concepivano l'individuo, l'eguaglianza, la sovranità, il popolo in un modo
e altrimenti i liberali.
Per i democratici, gli individui erano centri di forze pari cui bisogna assegnare
un'eguaglianza, come dicevano, di fatto: per i liberali gli individui erano persone
uguali come uomini, quindi da rispettare sempre, ma non erano uguali nel diritto,
come cittadini. Ma il Croce non vede che la libertà di movimento e di gara, che per
lui è libertà di capacità, in realtà è gara di forza economica.
Il popolo, inoltre, non era una somma di forze uguali, per i liberali, come lo
era per i democratici, ma un meccanismo differenziato valido nelle sue componenti e
nella loro associazione, complesso nella sua unità, con governati e governanti, con
classi dirigenti aperte e mobili, ma sempre necessarie a quest'ufficio. La sovranità era
dell'intero nella sua sintesi e non delle parti nella loro analisi, cioè la sovranità si
incarnava nella sintesi politica dei governanti e non dei governati. Per i liberali c'è
una classe dirigente, che secondo Croce è la dirigenza della cultura, ma in realtà è la
dirigenza della base economica.
I democratici nel loro ideale politico postulavano una religione della quantità,
della meccanica, della ragion calcolante o della natura come era stata quella
dell'ottocento. I liberali - una religione della qualità, dell'affinità, della spiritualità,
quale si era levata ai primi dell'800. Anche in questo caso il contrasto era di fede
religiosa, cioè di condizioni generali: quantitativa la democrazia, egualitaria, che
appiattisce meccanicamente; selezionante delle capacità, qualitativo, spirituale, non
materialistico e non meccanico il liberalismo. Ecco la riaffermazione di queste due
differenze.
Hegel
Un cenno ad una concezione diversa, con cui Marx
si misura, la concezione di Hegel [George Wilhelm Friedrich Hegel, filosofo
tedesco, 1770-1881].
In Hegel ritorna in pieno la distinzione tra Stato e società civile assunta dai
pensatori del '700, ma lo Stato sta a fondamento della società civile e della famiglia e
non viceversa. Non vi è cioè società civile se non c'è uno Stato che la costruisce, che
la connette, che la mette insieme; non c'è popolo se non c'è Stato; è lo Stato che fonda
il popolo, non è il popolo che fonda lo Stato. È il contrario della concezione
democratica secondo la quale la sovranità è del popolo e quindi il popolo la esprime
nello Stato, ma è nel popolo il fondamento della sovranità.
Per Hegel è viceversa. Lo Stato fonda il popolo e la sovranità è dello Stato,
quindi la società civile viene incorporata nello Stato e, in un certo senso, annullata
nello Stato. Vi è in lui la critica alla concezione liberale della libertà, come
concezione individualistica. È una critica che coglie nel giusto per arrivare ad una
soluzione conservatrice.
Se in Rousseau lo Stato si risolve nella società e la società civile trionfa nella
società statale, in Hegel invece lo Stato trionfa sulla società civile e l'assorbe in sé. I
due momenti sono - Stato e società civile - distinti soltanto concettualmente, mentre
abbiamo una concezione organicistica dello Stato, lo Stato come organismo che
abbraccia tutto, Stato etico, che rende concreta una concezione morale. Lo Stato
liberale invece non è etico, non educa, deve soltanto garantire la sfera delle libertà,
inviolabilità della persona, della iniziativa privata in campo economico, ecc.
Lo Stato, quindi, per Hegel, si incarna nel monarca: è il monarca che
rappresenta la sovranità statale. Marx dirà: in Hegel abbiamo la Costituzione del
monarca e non il monarca della Costituzione, cioè è il monarca che dà la Costituzione
che fissa i diritti e le funzioni del monarca perché nel monarca si incarna la sovranità
statale Vi è dunque una continuità col vecchio assolutismo, sia pure temperato da una
visione di monarchia costituzionale. Non è vero che Hegel esaltasse lo Stato
prussiano com'era allora. Voleva determinate riforme, moderate, di tale Stato.
Dal rapido sguardo alle concezioni fondamentali dello Stato che vengono
avanti nella fase della costruzione dello Stato borghese moderno, sorge un quesito:
esiste una teoria borghese dello Stato?
A mio parere non esiste. Esiste una giustificazione ideologica dello Stato,
dello Stato che c'è, di quello che si vorrebbe costruire, ma non esiste una teoria
scientifica che ci spieghi come nasce lo Stato, perché nasce lo Stato, per quali motivi,
e quale è veramente la natura dello Stato. Vi sono volumoni in cui tutta la vita dello
Stato viene descritta, le sue istituzioni definite, viste nei loro rapporti, ma non c'è mai
una teoria che ci spieghi che cosa è veramente uno Stato. Abbiamo la giustificazione
ideologica, cioè non critica, non cosciente, dello Stato esistente.
E c'è da chiedersi se una teoria borghese, scientifica possa esistere. Non è
certo scientifica la concezione che dice: gli uomini esistono individualmente prima e
poi per contratto si costituiscono in società. Non è una spiegazione scientifica quella
per cui lo Stato fonda la società civile, ecc.
In realtà una visione scientifica di che cosa è lo Stato può iniziare soltanto
quando si prende coscienza del contenuto di classe dello Stato. La borghesia questo
non può farlo, perché farlo significherebbe indicare che lo Stato borghese, anche nella
forma più democratica, è in realtà il dominio di una minoranza su una maggioranza,
sarebbe riconoscere che quella libertà non è la libertà per tutti, riconoscere che
quell'uguaglianza è - per la maggioranza dei cittadini - puramente formale, non reale.
Ecco perché la borghesia è costretta a rimanere in una visione ideologica della
concezione dello Stato. degli inglesi e dei francesi del secolo diciottesimo, sotto il
termine di società civile, e che l'anatomia della società civile è da cercare
nell'economia politica ».
Non è quindi lo Stato che fonda la società civile, che assorbe in sé la società
civile, come Hegel dice, ma è invece la società civile, come insieme dei rapporti
economici (l'anatomia della società civile sono appunto i rapporti economici), che ci
spiega il sorgere dello Stato, il suo carattere, la natura delle sue leggi e cosi via.
Ed è passando di qui, attraverso la critica alla democrazia borghese nella
Questione ebraica, che Marx approda nell'Ideologia tedesca del 1845 (che non fu
allora pubblicata) ad elaborare l'essenziale del suo metodo-concezione e a vedere il
rapporto che esiste tra lo sviluppo dei rapporti economici e lo Stato e le ideologie,
quel rapporto che trova una definizione limpida, anche se sommaria, nella famosa
Prefazione del '59, ove si dice: «l'insieme di questi rapporti di produzione costituisce
la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
superstruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forze determinate della
coscienza sociale».
Affermato così il rapporto di determinazione tra i rapporti economici e le
forme politiche, lo Stato, il diritto e la stessa cultura, si ha un metodo che consente di
capire che cosa è lo Stato, come sorge e perché sorge, e che consente di fondare
scientificamente una teoria dello Stato. Non è lo Stato che determina la struttura
economica, ma viceversa.
Dire che lo Stato è una superstruttura non significa dire che è un qualche cosa
di accessorio o di superfluo. Non significa neanche separarlo dalla società civile.
In realtà, la società civile, cioè i rapporti economici, vivono nel quadro di un
certo Stato, in quanto lo Stato garantisce quei rapporti economici. Si può dire che lo
Stato è parte essenziale della struttura economica, è elemento essenziale della
struttura economica proprio perché la garantisce.
Lo Stato schiavistico garantisce il dominio sugli schiavi, lo Stato feudale
garantisce le corporazioni, lo Stato capitalistico garantisce la predominanza dei
rapporti di proprietà capitalistici, li tutela, li libera dai vincoli del servaggio alla
rendita fondiaria assoluta (o parassitaria), garantisce la riproduzione allargata del
capitale, l'accumulazione capitalistica. È quindi elemento integrante degli stessi
rapporti di produzione capitalistici, ma è da questi determinato.
Si pensi, per esempio, all'abolizione della servitù della gleba come condizione
dello sviluppo capitalistico. In alcuni paesi la fine della servitù della gleba precede
l'avvento della borghesia, in altri paesi invece viene decisa dallo Stato, per permettere
uno sviluppo di tipo borghese capitalistico, come in Russia quando la servitù della
gleba viene abolita nel 1861.
Ora, per analizzare il nesso che esiste tra il modo di produzione capitalistico e
lo Stato della borghesia capitalistica, Marx voleva terminare Il Capitale con un
capitolo dedicato alle classi sociali ed un capitolo dedicato allo Stato. Anche se non
terminato, Il Capitale - definendo l'anatomia economica della società capitalistica - ci
dà lo scheletro su cui si regge lo Stato borghese e ci dà il fondamento di una teoria
scientifica dello Stato. Marx non la poté elaborare, ma è nel Capitale che va ritrovata
la teoria marxista dello Stato, implicita nell'analisi dei rapporti economici.
In Marx manca una trattazione organica del problema dello Stato e della teoria
dello Stato. Vi è però la teoria di base su cui si può costruire la teoria dello Stato: la
struttura economica sta alla base dello Stato stesso, questo è il fondamento da cui
partire.
Genesi dello Stato secondo Engels
Possiamo chiederci se vi sia questa teoria organica dello Stato in Engels
(1820-1895), che su questo tema ha scritto un libro famoso, che Lenin consigliava
come testo fondamentale per la teoria dello Stato: L'origine della famiglia, della
proprietà privata e dello Stato, del 1894.
Engels scrisse questo libro sulla base di appunti che Marx aveva redatto
leggendo un'opera di Morgan (Lewis Henry Morgan, etnologo americano (1818-1881), La
società antica, che studiava la vita tribale degli Indiani Irochesi dell'America del
Nord. Siamo nel periodo in cui inizia quella che si chiama l'etnologia o antropologia.
La trattazione che Engels elabora, sulla base di questi appunti di Marx e del
testo del Morgan, va oltre la questione dello Stato, mostra il nesso storico tra
famiglia-proprietà-Stato e vede qui la genesi dello Stato.
La cosa è molto importante perché poi i fenomeni, le realtà si capiscono a
vederle dal loro « cominciamento », come diceva il nostro Gianbattista Vico. Ma per
giungere a capire la genesi, l'origine dello Stato bisogna avere di fronte la forma
dispiegata, piena dello Stato moderno capitalistico. In realtà Engels parte dalla
conoscenza dello Stato capitalistico per andare a rintracciarne nella storia l'origine e
la genesi: dall'anatomia dell'uomo all'anatomia della scimmia, come dice Marx
nell'Introduzione del '57 (Introduzione a Per la critica dell'economia politica, 1857, in Opere
scelte, E.R., 1971, pp. 713 e segg.).
Prima di tutto Engels ci dice che la società non è una somma di famiglie che
formano la società o la tribù, come pensava Aristotele e come per secoli si è pensato
fino ad Engels. Il costituirsi della società e della famiglia sono due cose che vanno
insieme, in quanto la società organizza i rapporti intersessuali ai fini della sua vita e
della sua sopravvivenza e soprattutto al fine delle sue necessità economiche. Il
momento del sorgere della soci. nelle forme più primitive e la regolazione dei
rapporti sessuali, secondo determinate norme, sono due momenti che coincidono.
Pensare ad una famiglia esistente prima de società è un non senso, evidentemente.
La società originaria, la tribù, ci dice Engels, non conosce ancora la proprietà
privata, non conosce la subordinazione della donna, la discendenza è matrilinea.
Engels parla di matriarcato, non nel senso del potere delle donne sugli uomini, ma nel
senso della discendenza; si è figli della e non del) perché il rapporto di generazione
donna-figlio è evidentemente molto più chiaro del rapporto di generazione
uomo-figlio, quindi è logico che si parta dalla discendenza matrilinea.
Quando però si forma la proprietà? La proprietà privata si forma dalla caccia,
dal sorgere dell'allevamento del bestiame. Ecco che il cacciatore si fa proprietario di
armenti e cacciatore è l'uomo. C'era già questa divisione elementare di lavoro nella
tribù per cui la caccia era attribuzione prevalente degli uomini.
Col formarsi della proprietà privata si afferma anche la discendenza patrilinea
o patriarcato: si è figli del padre e questo garantisce la successione ereditaria.
Comincia da quel momento la subordinazione della donna.
Si forma un ordinamento patriarcale della società, la famiglia si regge
sull'autorità del padre. Questo è tipico della società greca e ancora più della società
romana. Il padre è la suprema autorità. Per famiglia si intende tutta la proprietà: gli
schiavi, il bestiame, la proprietà nel suo complesso. Il pater familias ha l'autorità
assoluta sulla vita dei figli, della moglie oltre che degli schiavi.
Quando si sviluppa l'economia, però, quando si formano, all'interno di tutta la
discendenza familiare (di tutta la stirpe, di tutta la parentela, perché per familia si
intende tutta la parentela, non solo marito, moglie e figli), differenziazioni
economiche, differenziazioni di classe, l'ordinamento gentilizio - cioè la discendenza,
la gens, la familia - si dissolve, va in crisi e proprio dalla crisi della gens,
dell'ordinamento gentilizio, emerge l'organizzazione dello Stato che tende a dominare
la società.
Engels ci dice quindi che lo Stato non esiste dall'eternità. Vi sono state società
che ne hanno fatto a meno e non avevano alcuna idea di Stato e di potere statale.
Tutte le società tribali (dagli indiani pellerossa del Nordamerica agli indigeni che
oggi vivono nell'Amazzonia o nell'Oceania) non avevano alcuna idea di Stato, non
esisteva la legge, non esisteva il tribunale e così via. Esistevano le norme sociali e
morali della convivenza.
Ad un determinato grado di sviluppo economico, necessariamente legato alla
divisione della società in classi, proprio a causa di questa divisione, lo Stato è
diventato una necessità. Lo Stato comincia ad emergere quando emergono le classi, e,
quando abbiamo l'emergere delle classi sociali, emerge la lotta di classe.
Questo avviene, cioè, quando la posizione degli uomini nei rapporti di
produzione si differenzia. Da una parte hai gli schiavi dall'altra il proprietario di
schiavi; da una parte il proprietario della terra e dall'altra coloro che coltivano la terra,
sottomessi ai proprietari; quando si producono queste differenziazioni nei rapporti di
produzione, che determinano il prodursi delle classi sociali e quindi la lotta di classe,
nasce la necessità dello Stato: la classe che detiene la proprietà dei principali mezzi di
produzione deve affermare il suo dominio economico e lo afferma in organismi di
dominio politico, con un ordinamento giuridico, con tribunali, con forze repressive e
così via.
Lo Stato quindi è il risultato del processo attraverso cui la classe
economicamente più forte, cioè quella che detiene i mezzi di produzione decisivi in
quella determinata società, afferma tutto il suo potere su tutta la società e sancisce
anche giuridicamente il suo potere, la sua prevalenza di carattere economico.
In un altro punto Engels scrive: «lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere
a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al
conflitto di queste classi, è per regola lo Stato della classe più potente,
economicamente dominante, che per mezzo suo (per mezzo dello Stato) diventa
anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tener
sottomessa e per sfruttare la classe oppressa. Come lo Stato antico fu anzitutto lo
Stato dei possessori di schiavi al fine di mantenere sottomessi gli schiavi, così lo
Stato feudale fu l'organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o
vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del
lavoro salariato da parte del capitale». Ecco la connessione tra modo di produzione,
classe sociale e Stato.
Lo Stato nasce in mezzo al conflitto delle classi per mettere un freno a tale
contrasto, che altrimenti diventa lacerante, e per affermare il dominio della classe
economicamente più forte, che detiene i mezzi principali di produzione.
In un altro punto Engels dice: «lo Stato, dunque, non è affatto una potenza
imposta dalla società dall'esterno e nemmeno la realtà dell'Idea etica », come afferma
Hegel. «Esso è piuttosto un prodotto della società giunta ad un determinato stadio di
sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione
insolubile con se stessa, che si è scissa, in antagonismi inconciliabili che è impotente
ad eliminare ». È la confessione del nascere di classi antagonistiche, di antagonismi
che non si risolvono col dominio di quella determinata classe e che vanno tenuti a
freno. « Ma perché questi antagonismi, queste classi con interessi economici in
conflitto, non distruggano se stesse e la società in una sterile lotta, sorge la necessità
di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo
mantenga nei limiti dell'ordine e questa potenza che emana dalla società, ma che si
pone al di sopra di essa e si estranea sempre più da essa, è lo Stato».
Lo Stato è allora l'espressione del dominio di una classe, è la necessità di
regolare giuridicamente la lotta di classe, di mantenere determinati equilibri fra le
classi a seconda dei rapporti di forza che esistono, in modo che la lotta di classe non
sia un elemento lacerante. Lo Stato è dunque espressione del dominio di una classe,
ma anche momento di equilibrio giuridico, politico, di mediazione.
L'elemento della direzione da parte dello Stato, l'elemento dell'egemonia, che
poi Gramsci metterà tanto in rilievo, qui è implicitamente, soltanto implicitamente,
presente. Lo Stato non è soltanto dominio brutale, ma è anche ricerca di un equilibrio
giuridico, contraddittorio, provvisorio, transitorio (quando salta se ne deve ricostruire
un altro) .
Qui c'è un'affermazione molto importante: lo Stato nasce dalla società, nasce
dalle classi, è l'espressione della lotta di classe e del dominio di una classe, e al tempo
stesso si estrania sempre più dalla società, cioè diventa un corpo a sé. Oggi si insiste
molto nel dire: è un corpo separato, ma - attenzione - apparentemente separato. In
realtà, un determinato modo di regolare la società non è realmente separato, ma è
certo che lo Stato viene costituendosi sempre di più come un organismo con le sue
leggi interne, con sue norme interne, con una sua burocrazia, con un suo ordinamento
tanto da sembrare una cosa indipendente. Questa apparente indipendenza può
spiegare la teoria di Hegel per cui è lo Stato che fonda la società. Lo Stato si afferma
come una realtà in un certo senso indipendente dalla società e fondatore della società
stessa. Hegel vive questa apparenza dello Stato borghese, quando parla di uno Stato
che si estrania dalla società.
Lo Stato è cosi un'enorme macchina con le sue leggi interne, con una logica
interna, che non è identica alla logica della società e che appare incomprensibile alla
società, ma che corrisponde ad un determinato tipo di potere e serve indirettamente a
quella società.
Fin qui abbiamo una definizione generale dello Stato, non abbiamo però
un'analisi specifica, se non per cenni, riferita alla storia romana, alla storia greca, al
capitalismo. Non abbiamo un' analisi specifica dello Stato a seconda delle formazioni
sociali o economico-sociali, che dir si voglia, e quindi una teoria dello Stato feudale o
dello Stato antico, schiavistico o, quella che più ci interessa, dello Stato capitalistico.
Un'analisi specifica di questo genere manca. Ciò che Engels dice della natura
dello Stato è giusto, ma è estremamente generale e quindi generico. Costituisce un
passo avanti enorme rispetto alle precedenti concezioni, un passo rivoluzionario,
dirompente, perché rivela ciò che l'ideologia borghese ha sempre tenuto nascosto: la
natura di classe dello Stato. È il punto di partenza di ogni teoria, ma molto in
generale, quindi non costituisce ancora una teoria organica dello Stato capitalistico.
Ora Marx nell'Introduzione a Per la critica dell'economia politica, del 1857,
osservava che vi sono leggi economiche generali, valide per ogni formazione sociale
o per ogni sistema economico, che vanno tenute presenti, ma con le quali non si
spiega nessun sistema economico. Per esempio, Marx dice: ogni produzione è
appropriazione della natura da parte dell'individuo entro e mediante una determinata
forma di proprietà. Questo è sempre vero, ma ci spiega la diversità che esiste tra
un'economia schiavistica e un'economia capitalistica? No.
Altra affermazione: esistono, dice Marx, determinazioni comuni a tutti gli
stadi della produzione (per esempio, bisogna lavorare la natura per produrre) che
vengono fissate dal pensiero come generali, ma le cosiddette condizioni generali di
ogni produzione non sono altro che momenti astratti con i quali non viene spiegato
alcuno stadio storico concreto della produzione.
Marx, quindi dice: attenti alle leggi generali. Non è che non esistano, a livello
di astrazione esistono, ma con queste non si spiega che cosa è il capitalismo, che cosa
è il feudalesimo, che cosa è lo schiavismo. Bisogna individuare le leggi specifiche,
come lui stesso fa nel Capitale.
E ancora Marx: le determinazioni che valgono per la produzione in generale
debbono venire isolate, cioè considerate generali, e l'unità tra il soggetto (l'umanità) e
l'oggetto (la natura) non deve far dimenticare la differenza un essenziale. In ogni
formazione economica c'è sempre un rapporto uomo-natura, società-natura, ma questa
è una determinazione molto generale con cui non si spiega nulla di specifico.
Ora questo avvertimento di Marx, relativo alla scienza economica, vale per la
teoria dello Stato?
Quando, cioè, si sia affermato che lo Stato è l'organizzazione del dominio su
tutta la società della classe che detiene la proprietà dei mezzi di produzione decisivi,
non bisogna poi passare a vedere quali sono i mezzi di produzione decisivi e come in
rapporto a questi si organizzano lo Stato schiavista, lo Stato feudale, lo Stato
capitalistico?
Io direi di sì, e direi che questo passaggio non c'è in Engels. Se non quando,
per esempio, si dice che il rapporto uomo-natura mediante il lavoro è alla base di ogni
attività economica, si dice una cosa che hanno detto tutti gli economisti. Per questo
Marx dice: a me non basta, voglio andare a vedere lo specifico.
Quando invece si dice che lo Stato è 1'espressione del dominio della classe
economicamente più forte sulla società, si afferma già una tesi dirompente,
rivoluzionaria, di enorme portata, ben diversa dal dire: il lavoro è sempre rapporto
società-natura. Però è sempre un'affermazione molto generale che non ci appaga,
manca quel famoso capitolo sullo Stato che Marx voleva finire di scrivere come
conclusione del Capitale.
Si enuncia la tesi di Marx per una teoria dello Stato,
ma manca ancora una teoria organica dello Stato.
Vi sono, nel pensiero di Marx ed Engels, elementi, tracce della teoria dello
Stato, spunti di eccezionale interesse, non una trattazione organica dello Stato
borghese.
Vediamo alcuni momenti: La questione ebraica, del '43. Qual è il
ragionamento che sta alla base di questo opuscolo?
Marx osserva che nella società medievale, feudale, la posizione
economico-sociale degli uomini corrispondeva alla loro posizione politica. Gli
aristocratici, proprietari della terra in latifondo, avevano determinati diritti politici che
il borghese artigiano, e ancor meno il servo della gleba, non aveva. Essi potevano
sedere in assemblea, essere consultati dal monarca, presiedevano i tribunali, potevano
essere giudicati soltanto da tribunali di loro pari, e così via.
Diverse erano le leggi per gli aristocratici e per i borghesi. Vi era quindi una
corrispondenza tra posizione economica, posizione nei rapporti di produzione, e
posizione politica, potere politico; non vi era quella distinzione tra società civile e
società politica che viene avanti con la società borghese. sullo Stato che Marx voleva
finire di scrivere come conclusione del Capitale.
Si enuncia la tesi di Marx per una teoria dello Stato, ma manca ancora una
teoria organica dello Stato.
Vi sono, nel pensiero di Marx ed Engels, elementi, tracce della teoria dello
Stato, spunti di eccezionale interesse, non una trattazione organica dello Stato
borghese.
Vediamo alcuni momenti: La questione ebraica, del '43. Qual è il
ragionamento che sta alla base di questo opuscolo?
Marx osserva che nella società medievale, feudale, la posizione
economico-sociale degli uomini corrispondeva alla loro posizione politica. Gli
aristocratici, proprietari della terra in latifondo, avevano determinati diritti politici che
il borghese artigiano, e ancor meno il servo della gleba, non aveva. Essi potevano
sedere in assemblea, essere consultati dal monarca, presiedevano i tribunali, potevano
essere giudicati soltanto da tribunali di loro pari, e così via.
Diverse erano le leggi per gli aristocratici e per i borghesi. Vi era quindi una
corrispondenza tra posizione economica, posizione nei rapporti di produzione, e
posizione politica, potere politico; non vi era quella distinzione tra società civile e
società politica che viene avanti con la società borghese.
L'eguaglianza giuridica
Ora, con la democrazia borghese tutti vengono dichiarati uguali di fronte alla
legge, e non vi è diversità di diritti, giuridicamente parlando, tra l'uno e l'altro
cittadino.
Se il borghese, nella società medievale, non poteva essere rappresentato in
un'assemblea, ora tutti possono essere eletti in Parlamento (quando si afferma il
suffragio universale )e la legge è uguale per tutti. Questo, dice Marx, è un enorme
progresso. Il fatto - per fare un esempio attuale - che il voto di Agnelli conti per uno,
come il voto di un qualsiasi operaio della Fiat, è indubbiamente un enorme passo
avanti: il fatto che ad Agnelli, per essere eletto, occorrano tanti voti come ad un
qualsiasi operaio della Fiat è un enorme passo avanti; il fatto che se Agnelli commette
un reato compaia di fronte allo stesso tribunale di fronte a cui comparirebbe un
operaio della Fiat, e sia giudicato sulla base delle stesse leggi, è un enorme passo
avanti perché sono eguali di fronte alla legge. In realtà non è così.
Si sa che Agnelli può dire: vorrei essere eletto senatore e trova chi lo elegge,
ecc. La diversità sostanziale è la diversità dei rapporti di produzione. Allora, questa
eguaglianza giuridica, dice Marx, a che serve?
Serve a separare l'elemento della vita economica dell'uomo, la collocazione
dell'uomo nel rapporto di produzione dalla sua figura giuridica, dal cittadino, e fa del
cittadino una astrazione.
Questi cittadini tutti uguali di fronte alla legge, in realtà sono un'astrazione: tu
operaio sei uguale al padrone come cittadino, ma quando entri in fabbrica non sei
uguale al padrone, tutt'altro, cessi di essere cittadino, conquisti il tuo diritto di
cittadino con lunghissime lotte, comunque non c'è mai l'uguaglianza tra il padrone
della fabbrica e l'operaio. Una tale eguaglianza viene creata realizzando una figura
formale giuridica astratta, quella del cittadino, che rompe l'unità dell'uomo, l'unità tra
l'uomo che lavora e l'uomo di fronte alla legge.
Il cittadino è un'ipotesi giuridica, una forma giuridica.
Il problema è dunque quello di far seguire alla rivoluzione politica la
rivoluzione economico-sociale, per stabilire una reale uguaglianza
economico-sociale, ricongiungere il cittadino con il lavoratore e riconquistare l'unità
dell'uomo, che è uomo quando lavora, che è uomo nella sua posizione nei
rapporti di produzione e di scambio. Far seguire così alla nozione borghese della
libertà una nozione di libertà effettiva. La libertà del borghese, dice Marx, concepisce
l'uomo come una monade, cioè come una entità a sé stante, chiusa, incomunicante.
Concepisce gli individui separati, come se non vivessero in società, mentre invece
possono vivere e vivono solamente in società.
C'è un passo in cui Marx dice: solo vivendo in società l'uomo può isolarsi, non
potrebbe isolarsi se non vivesse in società. Anche l'isolamento è reso possibile dalla
società. Bisogna allora uscire da questa concezione della libertà come esercizio
puramente individualistico e capire che invece la libertà è cooperazione, solidarietà, è
lavoro collettivo. Bisogna insomma passare dalla figura del cittadino alla figura del
compagno o, se si vuole, dalla figura del lavoratore sfruttato alla figura del
produttore, come dirà poi Gramsci.
Vi è un dualismo, una separazione tra uomo e cittadino, da superare
per conquistare l'unità dell'uomo.
Nel Manifesto del partito comunista abbiamo degli spunti interessanti. Per
esempio si dice: ogni governo è un comitato d'affari della classe dominante, della
borghesia.
Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia
l'elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Dominio
e conquista della democrazia coincidono per il proletariato. Il processo rivoluzionario
di trasformazione della società esige precisamente la conquista del potere. Marx dice:
«il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia a
poco a poco tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle
mani dello Stato, vale a dire il proletariato stesso, organizzato come classe dominante,
e per aumentare con la massima rapidità
possibile la massa delle forze produttive».
Il potere della classe operaia è la classe operaia che fa proprio lo Stato,
socializza i mezzi di produzione e guida un processo, che verrà chiamato più tardi
dittatura del proletariato, che porta alla società comunista. Infine, quando, nel corso
dell'evoluzione, le differenze di classe saranno sparite, quando il potere della classe
operaia avrà strappato alla borghesia la proprietà privata dei mezzi di produzione e
tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, allora il
potere pubblico perderà il carattere politico, vale a dire non sarà più dominio degli
uomini sugli uomini, non sarà pia dominio statale. Il potere politico, nel senso proprio
della parola, è il potere organizzato da una classe per l'oppressione di un'altra. Se
cessa con l'appropriazione collettiva dei mezzi di produzione la differenza di classe,
se si crea col comunismo una società senza classi, cade la ragione dello Stato, lo Stato
si estingue.
Estinzione dello Stato e libertà dell'uomo
Poiché il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce
necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe
dominante e come tale distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso
abolisce insieme a questi rapporti di produzione anche le condizioni di esistenza
dell'antagonismo di classe e le classi in generale, quindi anche il suo proprio dominio
di classe. La classe operaia parte dal suo dominio di classe per eliminare la proprietà
privata, per rendere sociale la proprietà dei mezzi di produzione, elimina le classi
antagonistiche, elimina le differenze di classe ed elimina anche se stessa come classe,
perché tutti diventano lavoratori. Quindi elimina la stessa ragione dello Stato: «Al
posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi di classe
subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del
libero sviluppo di tutti ».
Solo col comunismo si ha la piena libertà e l'esercizio pieno della personalità
umana nella proprietà sociale dei mezzi di produzione, mentre la proprietà privata
priva gli altri, opprime gli altri e non consente la libertà. L'obiettivo che Marx vuole
raggiungere, come aderente al comunismo, è la libertà, non, come si dice a volte, la
giustizia o l'eguaglianza, ma la libertà. L'eguaglianza sociale è condizione del pieno
dispiegamento della libertà. Del resto, già Engels diceva, nel 1847, nei Principi del
comunismo: « il comunismo è la creazione delle condizioni della liberazione
dell'uomo »; l'obiettivo è la liberazione, l'obiettivo è la libertà, sempre.
C'è, appunto, una fase di transizione, per arrivare a questa società senza classi,
e quindi senza Stato. Deve essere una fase di transizione guidata dal potere statale ad
opera del proletariato. Marx non parla ancora di dittatura del proletariato e non pone
ancora la questione della necessità di spezzare lo Stato borghese, questi elementi non
sono ancora presenti nel Manifesto del partito comunista.
È ancora interessante vedere come Marx invece delinea lo sviluppo della
società, dello Stato borghese, per esempio, nel suo libro: Le lotte di classe in Francia
(che considera le vicende francesi dal '48 al '50, questo scritto è del '50). Egli dice: il
proletariato, sconfitto nel giugno del , 48 dalla borghesia, mentre consentiva la nascita
della Repubblica borghese del '48, costringeva anche quest'ultima a presentarsi nella
sua forma genuina, come lo Stato il cui scopo riconosciuto è di perpetuare il dominio
del capitale, la schiavitù del lavoro.
Poiché la Repubblica parlamentare francese del '48 nasceva dalla repressione
violenta, sanguinosa, della classe operaia nel giugno, il carattere di classe della
repubblica borghese capitalistica non era pia nascosto, diventa evidente.
Qui ritorna un concetto già espresso nel Manifesto: col costituirsi della grande
industria e del mercato mondiale la borghesia si è impadronita finalmente della
potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello
Stato moderno non è che un comitato il quale amministra gli affari comuni di tutta
quanta la classe borghese.
In un altro passo rileva che nella Francia del '48-'49'50, continuamente, di
fronte ad ogni rivendicazione, si grida: questo è socialismo! Perché?
La borghesia vedeva giustamente che tutte le armi da lei forgiate contro il
feudalesimo volgevano la punta contro di lei, che tutti i mezzi di lotta da lei escogitati
insorgevano contro la sua propria civiltà, che tutti gli dèi creati da lei
l'abbandonavano; capiva che tutte le cosiddette libertà e istituzioni progressive
borghesi attaccavano e minacciavano il suo dominio di classe, tanto nella sua base
sociale quanto nella sua sommità politica, erano cioè diventate socialiste. La stessa
rivendicazione della libertà politica, della democrazia, favorendo la maggioranza,
essendo terreno di lotta della classe operaia, si volgeva contro la stessa borghesia. La
borghesia si rivolge a questo punto contro la democrazia borghese, vede la necessità
per la conservazione del suo potere di passare alla dittatura di Napoleone III, Luigi
Bonaparte.
Inoltre, in un altro scritto successivo sul colpo di Stato di Luigi Bonaparte, Il
18 Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx scrive: «questo potere esecutivo con la sua
enorme organizzazione burocratica e militare, col suo meccanismo complicato, e
artificiale, con un esercito di impiegati di mezzo milione accanto ad un altro esercito
di mezzo milione di soldati, questo spaventoso corpo parassitario che avvolge come
un involucro il corpo della società francese e ne ostruisce tutti i pori si costituì nel
periodo della monarchia assoluta al cadere del sistema feudale e ha perfezionato
l'accentramento statale »; l'ha perfezionato con Napoleone il Grande e poi ancora con
Luigi Bonaparte, ecc. Ecco un processo di costante accentramento burocratico,
militaresco e poliziesco dello Stato, il quale diventa sempre più un corpo a sé che
opprime tutta la società, ma al tempo stesso esprime il dominio della classe
dominante.
Prende forma il concetto del potere statale come meccanismo di oppressione,
che poi ritroveremo in seguito. Nasce di qui la necessità di contrapporre ad una
dittatura della borghesia la dittatura del proletariato. Marx non definisce lo Stato
democratico dittatura della borghesia. Sarà Lenin a definirlo così1. Però questo
concetto di meccanismo oppressivo, in Marx, consente, naturalmente, di definire lo
Stato borghese come dittatura. Una dittatura alla quale un'altra dittatura va
contrapposta: la dittatura rivoluzionaria.
Marx riceve da Blanqui, da questo socialista francese rivoluzionario, la
nozione di dittatura che non è originariamente sua. Di una dittatura che non
semplicemente si impadronisca dello Stato borghese, ma lo spezzi.
Questo è l'elemento che nel '50 si introduce nel pensiero di Marx: non basta
impadronirsi dello Stato, occorre spezzarlo per creare un altro tipo di Stato, lo Stato
della dittatura del proletariato.
Si badi, però, che, se la nozione di dittatura rivoluzionaria è tratta da Blanqui,
l'idea di una necessità di una dittatura rivoluzionaria viene dalla borghesia, perché la
borghesia ha fatto le sue rivoluzioni passando quasi sempre attraverso una dittatura.
C'è stata la dittatura di Cromwell, in Inghilterra nel '49-59 dopo la rivoluzione del
1648; c'è stata la dittatura robespierriana nel '93, la dittatura del Termidoro contro
Robespierre nel '94, la dittatura di Napoleone. È la borghesia che ha creato le dittature
rivoluzionarie. Il concetto di dittatura rivoluzionaria non è un'invenzione della classe
operaia, e tanto meno del marxismo. È una riflessione sull'esperienza delle rivoluzioni
borghesi.
..
Marx dà un enorme valore a questa sua nozione di dittatura tant'è vero che in
una lettera del '52 a Weydemeyer scrive: «per quello che mi riguarda, a me non
appartiene il merito di aver dimostrato 1'esistenza delle classi nella società moderna,
né quello di aver mostrato la lotta fra di esse. Da molto tempo prima di me gli storici
borghesi avevano esposto l'evoluzione storica di questa lotta delle classi ed
economisti borghesi avevano esposto la natura economica delle classi ». Il che è vero,
ma Marx è qui un po' modesto perché non dice di aver visto il processo attraverso cui
si origina la proprietà borghese, attraverso cui si originano le classi. Gli altri hanno
descritto la lotta di classe, hanno visto la connessione classe-proprietà, ma non
vedono 1'origine della proprietà.
Marx dice: «quello che ho fatto di nuovo è stato di dimostrare 1° che
1'esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della
produzione, quindi le classi non sempre sono esistite e cambiano a seconda delle fasi
della produzione; 2° che la lotta delle classi necessariamente conduce alla dittatura
del proletariato; 3°che questa dittatura costituisce soltanto il passaggio alla
soppressione di tutte le classi e a una società senza classi ».
La dittatura del proletariato è una fase del potere proletario transitoria,
indispensabile per arrivare ad una società senza classi e quindi senza potere da parte
della classe operaia, dove tutta la società è una società di lavoratori e perciò lo stesso
proletariato, in quanto tale, è superato. .
La dittatura del proletariato
Una riflessione maggiore certo Marx può sviluppare quando ha di fronte
un'esperienza di rivoluzione a carattere già proletario e cioè la Comune di Parigi, nel
1871. Nel 1870 avevamo avuto la guerra tra Francia e Prussia, la sconfitta militare
della Francia di Luigi' Bonaparte, a Sédan, poi la Comune di Parigi.
Marx ed Engels avevano appoggiato la guerra prussiana, vedendo in essa un
momento dell'unificazione tedesca e quindi un fatto progressivo. Avevano poi
condannato la condotta di Bismarck quando questa lotta di liberazione era diventata
una lotta di oppressione, quando la Prussia aveva annesso l'Alsazia e la Lorena.
Di fronte alla sconfitta, il governo francese apre le porte di Parigi ai prussiani
per cedergli i cannoni che difendevano Parigi e che potevano diventare pericolosi
nelle mani del popolo. Lo stesso governo francese cerca di portare via i cannoni dalle
mura di Parigi e a questo punto il popolo insorge per non lasciar portare via i cannoni
e per non lasciare entrare i prussiani a Parigi. La Comune di Parigi è una rivoluzione
di classe, ed una lotta patriottica. Nel momento in cui la borghesia francese si dimette
come classe nazionale, dirigente della nazione, come classe patriottica, questa
posizione patriottica viene assunta dal proletariato ed è il proletariato parigino che
dice: no, i prussiani a Parigi non entrano. E siccome per far questo bisogna abbattere
il potere della borghesia, la cosa coincide anche con la rivoluzione di classe, con una
guerra civile. Momento nazionale, quindi, e momento di classe coincidono nella
Comune di Parigi.
Ora, prima della insurrezione della Comune di Parigi, Marx afferma nei suoi
scritti che l'idea di un'insurrezione sarebbe stata una follia, un suicidio. Ma quando
l'insurrezione scoppia, l'Internazionale comunista appoggia in pieno l'insurrezione,
cioè il tentativo dei proletari parigini di « dare la scalata al cielo », impresa
impossibile eppure altissima e in quel momento decisiva. Allora Marx redige
quell'Indirizzo del Consiglio generale dell'Associazione internazionale degli operai o
Prima internazionale, oggi noto col titolo: La guerra civile in Francia.
Anche qui Marx torna a porre in rilievo il processo di accentramento che si è
storicamente compiuto nella storia dello Stato, passato dalla monarchia assoluta alla
rivoluzione francese, a Bonaparte e infine a Napoleone III, a Luigi Bonaparte, dove si
ha il massimo di accentramento burocratico e poliziesco, corrispondente alla
concentrazione dei mezzi di produzione. Ma se lo Stato borghese è questo, il potere
proletario che cosa deve essere? Deve essere l'opposto dell'accentramento, e quindi ad
uno Stato accentrato bisogna contrapporre uno Stato che si decentra.
Uno Stato, quindi, organizzato in comuni che si autogovernano. Il Comune di
Parigi è l'esempio di tanti comuni che devono sorgere in tutta la Francia nel quadro
del. l'unità nazionale, di una Costituzione nazionale per tutta la Francia.
Se lo Stato è un corpo che tende a separarsi dalla società, la Comune deve
riavvicinare invece la società e lo Stato. La costituzione della Comune avrebbe
restituito al corpo sociale tutte le energie fino ad allora asservite dallo Stato parassita
che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti.
Tutto il processo della costruzione dello Stato in comuni è un processo di
avvicinamento dello Stato alla società civile: è la società civile che riprende il primato
sullo Stato e che assume funzioni che prima erano statali. Non più l'esercito separato,
professionale, ma i cittadini in armi; non più polizia ma gli stessi cittadini che
esercitano funzioni di polizia; non più un corpo burocratico separato, ma cittadini che
eleggono gli amministratori e li revocano. Il problema della specializzazione nelle
funzioni amministrative, della formazione professionale, viene qui in un certo senso
sottovalutato, ma, per quanto complesso fosse, lo Stato di allora era più semplice di
quello che è oggi.
La magistratura è eletta, può essere revocata. Tutti gli elementi di distinzione
e di separazione dello Stato dalla società vengono annullati e la società riassorbe le
funzioni statali, esercito, polizia, amministrazione, magistratura: abbiamo quindi
l'attuarsi dell'autogoverno della società. Marx parla dell'autogoverno dei produttori
(idea che i comunisti jugoslavi hanno ripreso da questi scritti di Marx). L'autogoverno
dei produttori (Marx non dice di più) però probabilmente non è l'autogoverno dei
produttori all'interno dell'azienda, ma è l'autogoverno dei produttori a livello di tutta
la società, è tutta la società che si fonda sull'autogoverno dei produttori.
Sulla comune di Parigi
A proposito della Comune di Parigi è nata la leggenda che Marx abbia
indicato nella Comune di Parigi il primo esperimento, il primo esempio ancora
embrionale di dittatura del proletariato.
Marx non parla mai a proposito della Comune di Parigi di 'dittatura del
proletariato, non la ritiene ancora una dittatura del proletariato. Questa attribuzione è
nata da una frase polemica di Engels. Lenin ha allargato enormemente questo
concetto che la Comune è stato un primo esempio, sia pure fallito, di dittatura del
proletariato. In Marx questo concetto non c'è. È un grosso merito di Ernesto
Ragionieri aver ristabilito la realtà delle cose in un saggio su Marx e la Comune del
1871 (in Studi storici).
Ragionieri compie un confronto tra le varie stesure di questo Indirizzo
generale preparato da Marx. La Comune viene definita governo della classe operaia,
il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la
forma politica finalmente scoperta nella quale si poteva compiere l'emancipazione
economica del lavoro. Senza quest'ultima condizione la posizione della Comune
sarebbe stata una cosa impossibile e un'infamia, il dominio politico dei produttori non
può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale, potere politico e
liberazione economica coincidono.
In un discorso del settembre '81, Marx dice: «l'ultimo movimento degli operai
fu la Comune e fu il più grande di tutti, non è possibile avere due opinioni a questo
riguardo: la Comune è stata la conquista del potere politico da parte della classe
operaia, la Comune è stata oggetto di numerosi malintesi, la Comune non ha potuto
fondare una nuova forma di governo di classe [è durata solo 70 giorni] distruggendo
le condizioni di oppressione esistenti e trasferendo tutti gli strumenti di lavoro nelle
mani dei lavoratori produttori, di tutti gli individui fisicamente idonei a lavorare. In
tal modo non si era affatto distrutta la base di ogni dominio di classe e di ogni
oppressione, ma prima che un tale cambiamento possa essere compiuto sarà
necessaria una dittatura proletaria e la sua prima condizione è un esercito proletario».
Ecco, secondo Marx, la Comune non aveva mandato avanti il processo
dell'abolizione del capitalismo, per far questo occorre una dittatura del proletariato, il
che significa: la Comune non è stata propriamente una dittatura del proletariato,
avrebbe potuto diventarlo se non fosse stata sconfitta.
È invece Engels che va per questa strada e si avvicina a chiamarla dittatura,
ma per una precisa ragione. Engels in una lettera dice che le tendenze inconsapevoli
della Comune nella guerra civile le sono state attribuite come piani più o meno
coscienti. Si è considerata tendenza cosciente ciò che nella Comune non era
cosciente, quindi sono stati tirati fuori dalla Comune una serie di significati politici
che nella Comune esplicitamente non c'erano, una visione dello Stato proletario che
nella Comune non c'era. Ancora di più ha fatto Lenin.
Riferendosi sempre alla Comune, Engels dice: «il filisteo socialdemocratico
recentemente si è sentito preso, ancora una volta, da salutare terrore sentendo
l'espressione dittatura del proletariato. Ebbene signori, volete sapere come è questa
dittatura? Guardate la Comune di Parigi, questa fu la dittatura del proletariato ».
Nasce di qui, per ragioni polemiche, l'attribuzione della natura di dittatura del
proletariato alla Comune di Parigi. Ma la dittatura del proletariato che cosa è?
È il decentramento del potere, il decentramento e non l'accentramento, è la
sburocratizzazione del potere e non la burocratizzazione, è il popolo che diventa
armato, i lavoratori in armi, quindi è il passaggio di una serie di funzioni statali alla
società. In questo senso la dittatura del proletariato spezza lo Stato tradizionale, lo
Stato borghese, spezza l'elemento accentrato, burocratico, poliziesco, militaresco, gli
elementi di separazione della società e di oppressione, di soffocamento della società.
La dittatura del proletariato è il massimo della articolazione democratica, ed è
il massimo della democrazia, è la rappresentanza diretta, è, dice Marx, vedendo la
Comune, la supremazia del potere legislativo su quello esecutivo, anzi l'unificazione
dei due momenti. Il potere legislativo è anche potere esecutivo, non c'è più il
Parlamento come sede di chiacchiere. Gli organi della Comune, gli organi eletti
amministrano lo Stato, rendono conto della loro funzione. È un concetto che Lenin
riprenderà pienamente a proposito dei Soviet.
La critica al programma di Gotha, infine, l'ultimo scritto in cui Marx parla
dello Stato, è del 1875; allora non fu pubblicato e Engels lo pubblicò nel '91 per
appoggiare la sua critica al programma di Erfurt redatto da Kautsky, il programma
della socialdemocrazia. La critica al programma di Gotha è la critica del programma
con cui sorgeva il partito socialdemocratico tedesco, dall'unificazione dei seguaci di
Lassalle (questo socialista tedesco con cui Marx ed Engels avevano rotto) e il
movimento degli « eisenachiani », diretto da Bebel e Liebknecht.
In questo suo scritto Marx critica il programma del congresso di Gotha, e dice
alcune cose essenziali:; tra la società capitalistica e la società comunista vi è il
periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra, ad esso corrisponde
anche un pericolo politico di transizione, il cui Stato non può essere altro che la
dittatura rivoluzionaria del proletariato, come stadio di transizione~ tra lo Stato
borghese e la società comunista senza Statoi ma quali sono le caratteristiche di questa
fase di transizione?
Abbiamo l'affermazione dell'eguaglianza reale del cittadino, non più
dell'eguaglianza puramente giuridica, formale. Il diritto diventa veramente uguale per
tutti. Ma qui Marx osserva: l'uguale diritto è però ancora sempre secondo il principio
del diritto borghese, benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo
scambio equivalente esiste solo nella media e non per il caso singolo. Vale a dire
come vi è nel mercato borghese una eguaglianza tra coloro che si scambiano le merci
(se si fa una media) cosi questa eguaglianza viene espressa anche dal diritto borghese:
tutti uguali di fronte alla legge.
Nella dittatura del proletariato questa uguaglianza di fronte alla legge, che è
apparente in quanto vale solo per alcuni, diventa effettiva, per tutti.
Marx dice: nonostante questo progresso, nonostante il diritto diventi
veramente uguale per tutti, questo eguale diritto contiene sempre un limite borghese,
perché?
Perché - risponde - ognuno produce secondo le sue capacità e a ognuno viene
dato secondo il suo lavoro, ma i bisogni sono diversi, i lavori sono diversi, quindi può
accadere che chi ha meno bisogno produca di più e riceva di più; chi ha più bisogno
produce di meno, è meno capace e riceve di meno. Rimane quindi, dietro all'eguale
diritto, una diseguaglianza. .
Marx osserva, riprendendo un concetto di Aristotele, che il diritto per essere
giusto deve essere diseguale, il diritto cioè dovrebbe tenere conto delle
diseguaglianze tra gli uomini. Ma il diritto non può essere diseguale, il diritto è tale se
è uguale per tutti. Questa è la forma suprema del diritto: l'uguaglianza di fronte alla
legge, per tutti.
Questa uguaglianza è un'ingiustizia. In realtà infatti non tiene conto delle
differenze fra gli uomini. Ma questa ingiustizia non può essere superata nella prima
fase, nella fase della dittatura del proletariato (che più tardi, nella Seconda
Internazionale, si chiamerà la fase socialista). Per Marx è soltanto la prima fase della
società comunista, la chiama cosi: prima fase della società comunista.
Questi inconvenienti, però, sono inevitabili nella prima fase della società
comunista. In questa prima fase, dopo i lunghi travagli del parto dalla società
capitalistica, il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica
e dello sviluppo culturale della società; il diritto che vige corrisponde allo sviluppo
della società in quel momento, non può andare più avanti.
In una fase più elevata della società comunista, scompare la subordinazione
asservitrice degli individui alla divisione del lavoro e quindi anche il contrasto tra
lavoro intellettuale e lavoro fisico, il lavoro non è più soltanto mezzo di vita, ma
anche il primo bisogno della vita (l'uomo non lavora per sopravvivere, ma lavora
perché sente il bisogno umano di lavorare, di produrre, di creare, di esprimere nel
lavoro la propria intelligenza. Il lavoro non è più asservimento, ma è liberazione, è
potenziamento delle facoltà umane). Arrivati a questo punto, dopo che con lo
sviluppo onnilaterale, cioè completo, dei diritti sono cresciute anche le forze
produttive e le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza,
cioè solo quando si è giunti alla piena espansione delle forze produttive e al più alto
benessere (il comunismo esige un altissimo grado di sviluppo delle forze produttive.
Marx si oppone al comunismo rozzo che eguaglia nella povertà, che stabilisce la
giustizia nella distribuzione dei beni di consumo. Il comunismo di Marx è proprietà
sociale dei mezzi di produzione, eguaglianza a partire dalla produzione, altissimo
sviluppo delle forze produttive come è possibile solo quando esse sono sociali,
liberate dalle contraddizioni capitalistiche, alto livello quindi anche di benessere,
allora si può dare a ciascuno secondo i suoi bisogni), solo allora l'angusto fronte
giuridico borghese può essere superato, solo allora si esce dal diritto borghese per cui
la legge è uguale per tutti.
Se ne trae una conclusione: che la dittatura del proletariato è lo Stato
borghese senza la borghesia perché mantiene intatto il carattere di Stato (mentre nella
società comunista non esiste Stato) e mantiene la legge uguale per tutti che è una
connotazione dello Stato borghese. Solo nella società comunista si può superare
1'angusto limite giuridico borghese e la società può scrivere sulle sue bandiere: da
ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni.
E l'eguaglianza livellatrice della legge viene superata (non si è comunque mai
concepita un'eguaglianza livellatrice nemmeno nella fase della dittatura del
proletariato, per essere precisi); viene superata e si ha il pieno dispiegamento delle
libertà nel lavoro, nel lavoro che è creazione, non più asservimento.
Allora la libertà è questa espansione totale della personalità dell'individuo. In
questa fase lo Stato non c'è più, perché si ha una società di produttori che si fonda sul
loro autogoverno, non una società anarchica. C'è una profonda differenza fra il
comunismo e l'anarchia non solo perché l'anarchismo vuole l'immediata abolizione
dello Stato al momento della rivoluzione, mentre il marxismo dice che questo è
impossibile: si deve instaurare un potere, addirittura dittatoriale, per eliminare la
proprietà privata dei mezzi di produzione, gradualmente.
Questa è una prima diversità. L'anarchismo inoltre concepisce la società senza
Stato come la società della spontaneità individualistica, la sua visione di società
comunista è ancora individualistica piccolo-borghese. Invece il marxismo concepisce
il comunismo come una società altamente organizzata in cui si ha la piena espansione
di tutte le forze produttive e il regolamento della produzione e della ricchezza, in cui,
quindi, direzione e autogoverno, direzione e spontaneità, disciplina e spontaneità
coincidono e in cui coincidono anche individuo e società; non c'è il contrasto tra
individuo e società, il contrasto tra la società e la natura. Sono concetti del giovane
Marx dei Manoscritti economico-filosofici.
Si capisce che il comunismo è una proiezione ideale, una meta a cui tendere.
Quando si dice che a ciascuno verrà dato secondo i suoi bisogni, si sa che soddisfatto
un bisogno ne nasce un altro. Non c'è mai soddisfacimento definitivo dei bisogni, è
questo, quindi, un processo. Quando si dice la libertà di ciascuno come condizione
della libertà di tutti, è chiaro che questa è una meta a cui tendere, un processo che si
svolge continuamente, non uno stadio finale che allora diventerebbe cosa utopica.
Posso finalmente concludere che vi è una teoria dello Stato marxista. Vi è una
prima tesi che consente di costruire una teoria dello Stato; l'individuazione della
natura di classe dello Stato e come lo Stato nasca dalla lotta di classe.
In Marx abbiamo la teoria organica dello Stato borghese. Ancora non poteva
esserci la teoria organica della dittatura del proletariato, intanto perché, come dice
Engels, la dittatura del proletariato, lo Stato del proletariato non è più lo Stato nel
senso proprio della parola. Di fatti lo Stato nel senso proprio della parola è il potere
accentrato, è il potere burocratico, in questo senso l'ultimo tipo di Stato è lo Stato
borghese capitalistico.
Con la dittatura del proletariato, cioè con lo Stato del proletariato, alcune
connotazioni essenziali dello Stato cominciano a venire meno: l'accentramento
burocratico, poliziesco, ecc. quindi lo Stato comincia subito ad estinguersi con la
dittatura del proletariato, dirà poi Lenin, nel senso che alcune forme sono già forme di
autogoverno, che si avvia un processo di estinzione dello Stato.
Inoltre, uno Stato di dittatura del proletariato Marx ed Engels davanti agli
occhi non ce l'avevano e da marxisti non potevano costruire la teoria del non
esistente, perché altrimenti si costruisce un'ideologia, una falsa coscienza, un'utopia,
un'astrazione metafisica.
Il marxismo è l'analisi dei processi storici reali, il comunismo è il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presenti, scrive Marx nell'Ideologia tedesca. Una
teoria dello Stato proletario o dittatura del proletariato essi non potevano e non
dovevano, da marxisti, scrivere; potevano solo individuare alcuni elementi essenziali
e più o meno li hanno individuati, anche con alcuni elementi di utopia rispetto
all'esperienza storica e politica. Avrebbero potuto dare, invece, una teoria organica
dello Stato capitalistico in questo senso, e questo non è stato fatto, e non è stato fatto
in modo completo neanche successivamente.
Alla domanda se esista una teoria marxista dello Stato in Marx ed Engels,
come teoria organica compiuta, risponderei di no. Esiste però la tesi fondamentale e
la condizione di una teoria scientifica dello Stato.
Colletti dice: cercare in Marx una teoria dello Stato è sbagliato perché il
marxismo è la teoria dell'estinzione dello Stato, è la teoria del comunismo, del
comunismo come società senza Stato e Marx non ci poteva dare una teoria dello Stato
dal momento che la sua teoria è quella della estinzione dello Stato.
È una risposta intelligente, ma, secondo me, sbagliata. Ad essa ha risposto lo
stesso Marx. Marx dice bene che, per passare dallo Stato borghese alla società senza
Stato, si deve avere un potere statale, il quale non è più il potere statale nel senso
proprio della parola (comincia già l'estinzione dello Stato) ma è ancora uno Stato. In
Marx c'è l'analisi dello Stato borghese perché, per abbattere lo Stato borghese e
costruire una società senza Stato, bisogna conoscere lo Stato borghese. Marx ha
approntato la base della conoscenza vera dello Stato borghese nel Capitale. Nel
Capitale è la chiave.
La risposta di Colletti mi pare abile, intelligente. Ma se è vero che il
marxismo è la teoria del comunismo e quindi è la teoria della fine dello Stato, per
teorizzare la fine dello Stato occorre sapere come è lo Stato e occorre avere una teoria
dello Stato.
Questo mi pare che in Marx c'è, ripeto, non organicamente, c'è per alcune
implicazioni fondamentali e con l'indicazione della metodologia, del
metodo-concezione sulla base del quale va costituita la concezione dello Stato.
La concezione dello Stato
II. - in Lenin e Gramsci
Dalla concezione dello Stato di Marx e di Engels passiamo ora a quella di
Lenin non senza tener conto della Seconda Internazionale, fondata a Parigi nel 1889
ed entrata in crisi nel 1914 con la prima guerra imperialistica (anche se formalmente
non venne sciolta e continuò la sua attività dopo la prima guerra mondiale).
Non si. può non tener conto della Seconda Internazionale perché, se è vero
che Lenin ripensò criticamente la concezione di Marx ed Engels, forse identificando
un po' troppo i due, non vedendo talune differenze, ritrovò in fondo la sostanza
rivoluzionaria della loro concezione, che si era attenuata e deformata nel corso della
Seconda Internazionale. Tuttavia, la concezione di Lenin, non solo riguardo allo
Stato, ma riguardo a tutti i problemi, e quella di Marx non costituiscono un blocco
unico, compatto che si possa propriamente definire, come è stato fatto per tanto
tempo, marxismo-leninismo, traendo questo concetto di leninismo ad un anno dalla
morte di Lenin. Fu Zinoviev, allora presidente deII'Internazionale comunista, ad usare
per primo questo termine. Zinoviev poi passò all'opposizione rispetto alla
maggioranza del Comitato Centrale e venne travolto dai processi del '33-34 e fucilato
nel '34.
E perché non si può parlare di un blocco compatto nel senso che indica
l'espressione marxismo-Leninismo?
Per tante ragioni, ma anche perché tra Marx e Lenin continuò ad operare la
mediazione della Seconda Internazionale. In un determinato modo operò sino al '14,
sino allo scoppio della grande guerra imperialistica, in un altro modo dopo la rottura
di Lenin e dei bolscevichi con la Seconda Internazionale, e in un certo senso operò
anche dopo la rottura.
Sino alla guerra del '14, sino alla capitolazione della Seconda Internazionale
di fronte alla guerra imperialistica, i bolscevichi, Lenin in particolare, ritenevano che
si potesse sconfiggere l'opportunismo - che si era diffuso, ed essi lo vedevano, nella
Seconda Internazionale - all'interno dell'Internazionale stessa.
Kautsky, «rinnegato» e non
È solo dopo, è con la votazione dei crediti di guerra da parte della
socialdemocrazia tedesca e dei socialisti francesi, a favore dei loro governi, è con lo
schierarsi di questi partiti dalla parte della guerra imperialistica che i bolscevichi e
Lenin videro la necessità di rompere nettamente con la Seconda Internazionale. In
modo particolare Lenin ruppe col maggiore e più autorevole teorico della Seconda
Internazionale, Carlo Kautsky, il capo redattore e direttore di Neue Zeitung che era la
rivista teorica più autorevole nel mondo, nel movimento operaio internazionale, la
rivista della socialdemocrazia tedesca.
Una influenza di Kautsky su Lenin è, per esempio, chiaramente presente nella
concezione del partito che è propria di Lenin e direi che è felicemente e
positivamente presente anche se la concezione di Lenin non si riduce certo a
quella di Kautsky.
..
È presente anche nel rapporto che Lenin stabilisce tra democrazia e socialismo
nella rivoluzione russa appoggiandosi all'autorità di Kautsky, è presente in più di un
punto, e anche dopo la rottura, Lenin continuò a parlare di un Kautsky ancora
marxista, cioè di prima del '14, che non rinnegò mai.
Lenin rinnegò il Kautsky dal '14 in poi. Non seppe però spiegare come un
maestro del marxismo fosse poi diventato un rinnegato del marxismo, come lo
chiamò in un suo libro famoso, La dittatura del proletariato e il rinnegato Kautsky.
Come fa una persona a diventare da marxista improvvisamente un rinnegato? È un
interrogativo che Lenin non scioglie e che probabilmente va sciolto andando ad
individuare anche nel Kautsky anteriore alla guerra del '14 gli elementi non
genuinamente marxisti e quindi pericolosi dal punto di vista della fermezza
rivoluzionaria. Questo non significa che dopo il ' 14, e soprattutto dopo
la rivoluzione russa del '17, non vi sia stato in Kautsky un rapido
scivolamento verso posizioni opportunistiche, rinunciatarie e di abbandono anche di
capisaldi della teoria, con conseguente scivolamento su posizioni non rivoluzionarie,
oserei dire reazionarie, certo apertamente anticomuniste.
Anche prima si può individuare in Kautsky una penetrazione delle concezioni
filosofiche positivistiche, vale a dire una concezione dello sviluppo storico-sociale
come uno sviluppo evolutivo continuo, senza salti, senza rotture, senza fratture
dialettiche, perciò una visione deterministica in senso gretto del rapporto tra base
economica e istituzioni sociali, statali, culturali e forme della vita culturale.
Non è un caso, per esempio, che manchi in Kautsky la nozione di formazione
sociale che invece Lenin riprese nel 1894 andando più in là di Kautsky, quando
Kautsky era ancora per lui un grande maestro.
Non vi è in Kautsky questa nozione di formazione sociale e caratterizzata dal
modo di produzione in essa prevalente e che comprende poi tutti i rapporti economici,
sociali, politici tipici di una determinata formazione sociale, sia essa capitalistica o
feudale o schiavistica, e cosi via.
E forse, è questa l'ipotesi che avanzo, questa differenza di situazione spiega
anche perché non ci sia un confronto fra le posizioni di Lenin e quelle della Seconda
Internazionale di Kautsky sul problema dello Stato.
Kautsky espresse già chiaramente una sua concezione dello Stato
commentando il Programma di Erfurt della socialdemocrazia tedesca nel 1891,
programma fondamentale che fece poi da guida ai programmi dei partiti socialisti
europei, ivi compreso quello russo.
Nel suo libro, Il programma socialista (si noti che era stato Kautsky a scrivere
in gran parte il programma di Erfurt, tenendo conto di alcune critiche di Engels), che
è di commento al Programma, egli scrive: «Come ogni sistema di Stato, anche lo
Stato moderno è essenzialmente uno strumento per la difesa degli interessi delle
classi dominanti». Quindi caratterizza nettamente lo Stato come espressione del
dominio della classe economicamente più forte della società. A proposito del
capitalismo monopolistico di Stato poi dice che questo non altera la natura di classe
dello Stato, perché lo Stato utilizza il capitalismo monopolistico di Stato, il settore
pubblico dell'economia per aiutare l'industria privata capitalistica e quindi sottomette
queste forme all'industria privata capitalistica.
Le cose possono mutare, fra parentesi, se si vive in una società in cui i
rapporti di forza tra le classi siano per lo meno equilibrati, tali da riuscire a
costringere il settore pubblico dell'economia ad adempiere ad un'altra funzione non
strettamente di classe. È ciò che tentiamo di fare oggi, con la lotta che conduciamo.
Nello stesso tempo Kautsky scrive: «Qualsivoglia partito politico deve però
proporsi come fine il dominio politico; deve quindi studiarsi di volgere il potere dello
Stato a profitto suo proprio, ossia degli interessi della classe che esso rappresenta; di
divenire il partito dominante nello Stato ». Compito e ragion d'essere di ogni partito è
quello della conquista del potere statale, ma vi è un tema, un concetto che viene meno
in Kautsky, che si attenua fino a quasi sparire. È il concetto che non ci si può
semplicemente impadronire dello Stato borghese così come esso è per volgerlo agli
scopi della classe operaia, bisogna, come diceva Marx, spezzare questo Stato (Marx
vide nella Comune un inizio di come spezzarlo) accentrato, burocratizzato, poliziesco
per realizzare un tipo di Stato decentrato, fondato su autonomie, con l'assimilazione
delle funzioni statali da parte della società, esercito, magistratura, amministrazione,
ecc.
Questa nozione di spezzare lo Stato in Kautsky non c'è, di conseguenza viene
meno anche l'altro concetto, presente in Marx ed in Engels, che lo Stato della classe
operaia, la dittatura del proletariato, non è più lo Stato nel senso proprio della parola,
secondo le parole di Engels, perché non è più lo Stato in senso accentrato,
burocratico, ma è già uno Stato che si decentra, già le funzioni statali passano
direttamente alla società.
La stessa prospettiva dell'estinguersi dello Stato, attraverso la dittatura del
proletariato e grazie alla dittatura del proletariato, viene a cadere.
Il Bernstein-debatte
Si sviluppa poi dal 1895 in poi quello che si chiamò storicamente il
Bernstein-debatte, il dibattito sollevato dalle posizioni di Edward Bernstein che fu
legato testamentario di Engels, suo discepolo e seguace fedele, ma che poi introdusse
tutta una discussione nel movimento operaio internazionale e soprattutto nel partito
tedesco.
Intorno al '95, subito dopo la morte di Engels, Bernstein osservò che nella
socialdemocrazia tedesca si era verificata una dissociazione tra la teoria e la pratica,
la teoria continuava ad essere quella di Marx, ma i tempi erano profondamente
diversi, la classe operaia lottava in forme e situazioni profondamente diverse da
quelle del '49 e di quelle rivoluzioni su cui Marx aveva riflettuto: la classe operaia
operava nella legalità democratica, nelle elezioni, nel parlamento e così via, si trattava
quindi di elaborare e di sviluppare la teoria in rapporto alla nuova situazione che si
era determinata soprattutto in Germania dopo il '90 con la fine delle leggi
antisocialiste proposte da Bismarck.
Bisognava, dunque, rivedere la teoria marxiana. Il termine di revisionismo
nasce allora. Della revisione operata da Bernstein dirò sommariamente che essa tocca
i punti decisivi della concezione marxista, attribuisce a Marx una teoria
dell'impoverimento assoluto degli operai per cui il valore reale del salario tende
continuamente a scendere e l'operaio diventa più povero incessantemente. E dice:
questa concezione di Marx è falsa. Però Marx non aveva mai detto questo, ma aveva
indicato una tendenza nella società capitalistica al polarizzarsi della ricchezza da una
parte e della povertà dall'altra, al divaricarsi delle due cose e aveva anche indicato le
controtendenze, le lotte degli operai, ecc. È ovvio che le controtendenze, le lotte
sindacali, ecc. si erano sviluppate al tempo di Bernstein molto di più che non al tempo
di Marx, in cui quasi non esistevano sindacati legali, tranne che in Inghilterra.
In Marx, non c'è mai stata la teoria dell'impoverimento assoluto della classe
operaia, ma di un impoverimento relativo rispetto alla situazione storica ed alle
condizioni sociali .
Inoltre Bernstein dice: è falsa la previsione di Marx di un crescente
polarizzarsi delle classi, capitalisti da un lato, proletari dall'altro, e del proletarizzarsi
degli strati intermedi.
Aveva in parte ragione. Anche Marx però aveva indicato una tendenza, più
che un fatto destinato fatalmente a verificarsi. La storia è stata più complicata delle
previsioni di Marx. Kautsky, però, fa osservare molto acutamente che, se le piccole e
medie industrie non sono diminuite di numero, la loro funzione economica è mutata
perché esse vengono a trovarsi subordinate al grande capitale e quindi emarginate da
una funzione autonoma economica come avevano nel passato. Perciò una
polarizzazione di forze c'è lo stesso, anche se in forme molto più complesse.
Inoltre Bernstein concepisce tutto lo sviluppo verso il socialismo come
risultato di conquiste elettorali, della conquista della maggioranza elettorale col
suffragio universale e nel parlamento fino ad un pieno dispiegamento della
democrazia. Viene a negare la validità della concezione della dittatura del
proletariato.
Attacca anche la concezione del metodo dialettico del pensiero di Marx: la
dialettica va abbandonata, è un residuo hegeliano, dice Bernstein. La dialettica indica
un processo di sviluppo sociale attraverso contraddizioni, cioè attraverso la lotta di
classe, 1'esplosione delle contraddizioni e i salti di qualità. Quello che Bernstein
propone è invece uno sviluppo evolutivo, graduale, per cui si passa senza scosse,
senza rotture dal capitalismo al socialismo.
Egli parte da un presupposto che enuncia così: «il principio della democrazia
è la soppressione del dominio di classe».
Ora è vero questo, il principio della democrazia è il principio della sovranità
del popolo, demos è popolo, cratia è potere, quindi potere del popolo, principio del
dominio della maggioranza sulla minoranza, ma non per questo è soppressione delle
classi. Se questo non è vero concettualmente lo era tanto meno storicamente ai tempi
di Bernstein. Lo sviluppo della democrazia acutizza i contrasti di classe in Germania,
in Francia, in Italia, ecc.; entravamo nella fase del capitalismo monopolistico,
entravamo nella fase in cui i contrasti di classe diventavano più forti.
Lo sviluppo della democrazia può portare alla soppressione del dominio di
classe solo quando la democrazia è già socialismo, è socialismo al suo massimo
sviluppo, è già arrivata ad eliminare nel socialismo le differenze di classe e sta
passando al comunismo. Ma a questo punto finisce anche la democrazia, dice Lenin,
come potere della maggioranza sulla minoranza, ed entriamo nel regno della piena
libertà. Mentre la democrazia pone sempre limiti alla libertà, si esercita con uno
Stato, ha un elemento coercitivo rivolto contro le vecchie classi dominanti, contro le
vecchie classi privilegiate.
Bernstein invece fa della democrazia un po' la chiave magica dei superamenti
dei contrasti di classe e la base per teorizzare che ormai, in quella fase della vita
europea, la acutezza della lotta di classe va attenuandosi e sempre più si attenuerà. Il
carattere di classe dello Stato sempre più si attenuerà in un'epoca in cui l'Europa sta
marciando nettamente in senso opposto, sta marciando verso la prima guerra
mondiale (Engels lo aveva già previsto nel '93).
Kautsky si batte fortemente contro le tesi di Bernstein, Rosa Luxemburg
anche, Lenin polemizza invece contro le varianti russe del revisionismo, contro gli
economisti all'inizio del 1900, sostiene però le posizioni di Kautsky nella polemica
contro Berstein in una sua recensione ad un libro di Kautsky.
Tuttavia la risposta di Kautsky, della Seconda Internazionale, alle tesi di
Bernstein che vengono condannate (Bernstein accetta la condanna e resta abilmente
nel partito) non tiene conto del problema reale che, secondo me, Bernstein aveva
posto, cioè la necessità di adeguare la teoria ai nuovi sviluppi della strategia del
movimento operaio. La risposta di Kautsky, che è una risposta prevalentemente
dogmatica, lascia scoperto il terreno della teoria e questa è una delle ragioni per cui il
revisionismo nella pratica entrò ed operò nella socialdemocrazia sotto forma di
opportunismo.
Un fenomeno più limitato, ma di questo tipo, si ebbe in Italia con la destra del
partito socialista (Bonomi, Bissolati). Bonomi riprese in Italia le teorizzazioni di
Bernstein soprattutto in quel suo libro che si chiama Le vie nuove del socialismo. Essi
furono poi espulsi dal partito socialista nel 1912, al Congresso di Reggio Emilia,
dopo che si erano recati in visita al re per uno scampato attentato, poi furono a favore
della guerra di Libia, mentre il partito socialista si oppose alla guerra di Libia, infine
crearono un altro partito che è la radice poi del partito socialdemocratico di oggi.
Nella risposta a Bernstein, però, in tutta la sua teorizzazione, Kautsky si
colloca sul terreno della conquista del potere statale per via parlamentare e con la
conquista della maggioranza parlamentare, questa è essenzialmente la sua visione: lo
sviluppo del capitalismo comporta lo sviluppo delle forze produttive, comporta lo
sviluppo e la crescita numerica delle forze produttive, comporta lo sviluppo e la
crescita numerica del proletariato, crea le condizioni oggettive sociali della conquista
della maggioranza elettorale da parte del partito socialista.
Vi è qui una visione meccanica dello sviluppo sociale. Non è affatto
automatico che lo sviluppo del numero dei proletari comporti un aumento dei voti per
il partito socialista. Le cose sono un po' più complicate.
Il rapporto tra base di classe e posizione politica, tra struttura economica e
orientamento politico, viene visto come rapporto meccanico, con l'illusione
parlamentaristica che basti conquistare la maggioranza, che la lascino conquistare,
che si rispetti la democrazia.
È inutile ribadire, aprendo una parentesi, che la nostra concezione è
profondamente diversa, che Togliatti respingeva con disprezzo nel '62 le teorie del 51
% dei voti dicendo: la borghesia non ci lascerebbe mai arrivare al 51 %, ha ogni
mezzo per impedirlo, e se anche questo non fosse vero (oggi invece si può anche far
l'ipotesi che si possa arrivare al 51 % ), resta il problema di come si possa governare
con quel 51 %. Cioè la borghesia non lascerà governare né col 51 %, né col 58 % e né
col 60 %. La questione non è parlamentare. Per noi, la questione è di aggregazione di
forze, è di rompere il blocco di potere avversario e di aggregare un nuovo fronte di
potere.
Ecco il senso del rapporto coi cattolici, ecco il senso del compromesso storico,
ecco il senso del nostro rapporto con la Democrazia cristiana. La nostra è una visione
che conta soprattutto sui rapporti di forza reali il cui risultato parlamentare è
importantissimo per la lotta, ma non ne è il momento decisivo, non è la chiave per la
conquista del potere. Noi non dimentichiamo, per esempio, che la Democrazia
cristiana all'opposizione sarebbe sempre più forte di noi al governo, molto più forte
per i suoi legami con le forze economiche, con l'apparato statale, con l'imperialismo
straniero, con la Chiesa, ecc. ecc.
Ora, proprio perché la socialdemocrazia tedesca si muove in un quadro di una
democrazia parlamentare e la socialdemocrazia russa no, non vi è scontro fra Lenin e
Kautsky su queste questioni fino al '14. Il confronto con Kautsky sulla questione dello
Stato s'impone per i bolscevichi quando in Russia si pone direttamente la questione
della conquista del potere statale e della conquista del potere statale nella forma della
dittatura del proletariato e non semplicemente di una democrazia di tipo borghese.
Stato e rivoluzione
E allora abbiamo la prima opera teorica di Lenin sullo Stato: Stato e
rivoluzione, scritta nell'agosto-settembre del 1917 quando, dopo la momentanea
sconfitta subita dal movimento operaio russo nel luglio, Lenin è costretto alla
clandestinità e ne approfitta per scrivere questo libro sulla base di appunti che aveva
già abbondantemente raccolto prima, quando era in Svizzera, il che fa pensare che
egli avesse già pensato alla necessità di una polemica con Kautsky.
Il libro non è finito perché nel settembre Lenin ritorna a Pietroburgo, alla
piena attività, pure è una prima teoria dello Stato. Lenin si propone di ristabilire la
genuina, la vera concezione di Marx e di Engels, quella concezione che è stata
deformata, deturpata dalla Seconda Internazionale e da Kautsky particolarmente. La
sua polemica è rivolta da un lato contro i socialdemocratici, dall'altra contro gli
anarchici che hanno influenza in Russia e che affondano le radici nel movimento
populista degli anni fra il '70 e il '90. Ogni scritto di Lenin, anche quando è di
filosofia, come Materialismo ed empiriocriticismo ha un fine pratico, politico, cioè
vuole armare il partito russo, il partito bolscevico ormai, la classe operaia di una
concezione dello Stato rivoluzionaria. Proprio perché la classe operaia sta andando
all'assalto dello Stato deve avere una concezione rivoluzionaria dello Stato, questo è
tipico di Lenin.
In Lenin lo sforzo teorico, l'impegno teorico si accentua quando i compiti
pratici diventano più incombenti. Quando bisogna agire Lenin si impegna al limite
del possibile nello sforzo teorico. Questo libro poi non ce l'ha fatta a finirlo, nessun
uomo fa miracoli, naturalmente, ma il suo sforzo era teso a questo.
In questo ristabilire, si potrebbe anche dire restaurare, nel senso di ritrovare i
colori iniziali, in questo ristabilire sta il merito, ma anche il limite di questa opera
perché a tanti anni dal '70 o dal '75 (data degli ultimi scritti di Marx sullo Stato) al '17
sono accadute tante cose,e non basta ristabilire, ma occorre sviluppare, cosa che in
realtà Lenin fa. In questa opera Lenin ribadisce con grande fermezza il carattere di
classe dello Stato e di ogni Stato, pur non ignorando che vi possono essere situazioni
di relativo equilibrio tra classi opposte, per cui lo Stato può momentaneamente avere
una posizione equidistante tra le classi, ma sono momenti eccezionali, di breve
durata. Prendendo pienamente da Marx l'idea che lo Stato è una macchina per
l'esercizio del potere, Lenin afferma: ogni Stato è una dittatura di classe.
Questa espressione: ogni Stato è una dittatura di classe, quindi anche lo Stato
borghese è una dittatura di classe, in Marx - se non ho letto male - non l'ho trovata,
questa espressione è di Lenin, però ricavata, anche con coerenza, dal concetto di
macchina oppressiva dello Stato che è propria di Marx.
E perché ogni Stato è una dittatura?
Perché anche quando si ha la repubblica democratica parlamentare borghese
più avanzata, in essa c'è sempre lo esercizio del potere da parte di una minoranza che
detiene l'essenziale, l'elemento decisivo, cioè i mezzi di produzione sulla grande
maggioranza dei lavoratori, dei ceti medi ecc. Dietro 1'apparenza di una grande
democrazia e di una grande libertà è in realtà celato il dominio di una minoranza.
In questo senso Lenin dice: la repubblica parlamentare è il miglior involucro
politico per il capitale, la forma in cui il capitalismo riesce meglio ad esercitare il suo
dominio, noi oggi diremmo anche la sua capacità di guida, la sua egemonia. Lenin
invece sottolinea soprattutto l'elemento di dominio.
Quando dice che ogni Stato è sempre una dittatura di classe e che anche lo
Stato più democratico è sempre una dittatura di classe, Lenin dà alla parola dittatura
un significato estremamente ampio e molto diverso da quello tradizionale, e persino
da quello giuridico, perché tradizionalmente si intende per dittatura il potere assoluto
di un individuo o di un gruppo, esercitato al di fuori di ogni controllo e al di fuori di
ogni limite di legge. Quando si dice che è dittatura anche una repubblica
parlamentare, non si concepisce più la dittatura come arbitrio sfrenato e non limitato
da alcuna legge, ma anche quando si esercita attraverso leggi, anche leggi molto
democratiche.
Originariamente il termine di dittatura aveva un altro significato. Per la
repubblica romana il dittatore era il magistrato eletto dal senato in una situazione
eccezionale, cioè in una situazione di guerra in cui il potere veniva esercitato solo per
sei mesi, appunto perché il designato non diventasse un vero dittatore. Il termine di
dittatore deriva da dictator, colui che detta legge, che comanda.
Dalla nozione che ogni Stato, qualunque sia la sua forma, è una dittatura,
deriva questa contrapposizione: la democrazia borghese, anche nella sua forma più
avanzata, è una dittatura della minoranza sulla maggioranza, cioè è democrazia reale,
ma per la grande maggioranza del popolo. non è una democrazia reale, è una forma di
oppressione.
Bisogna quindi contrapporre alla democrazia borghese la dittatura del
proletariato perché la dittatura del proletariato è democrazia della maggioranza e per
la maggioranza, e dittatura sulla minoranza capitalistica che deve essere estirpata
come classe.
Si capovolgono quindi i rapporti. Da democrazia per la minoranza e dittatura
sulla maggioranza a democrazia per la maggioranza e dittatura sulla minoranza,
questo è lo scambio dialettico che avviene passando dalla democrazia borghese alla
democrazia proletaria o dittatura del proletariato.
Come vedete c'è un forte elemento polemico in questa contrapposizione, c'è lo
sforzo di smascherare l'illusione democratica contenuta nel democraticismo borghese
per rivelarne il reale contenuto.
La dittatura del proletariato è in realtà la più ampia, reale forma di democrazia
che si possa concepire, è finalmente la democrazia, cioè il potere della maggioranza
sulla minoranza, il che non significa la libertà per tutti.
In questa democrazia le libertà politico-borghesi vengono tutte assunte e
diventano reali. Libertà di riunione: ma nella democrazia borghese i proletari non
sanno dove riunirsi, mentre con la dittatura del proletariato hanno i saloni dei palazzi
principeschi dove riunirsi. Ecco che questa libertà diventa effettiva, cessa di essere
formale e valida solo per la minoranza ricca. Libertà di stampa: diventa reale perché i
lavoratori hanno i mezzi che prima non avevano per esercitarla. Prima avevano il
diritto, nessuno gliela vietava, ma i mezzi per fare un giornale dove li trovavano?
Insomma, la democrazia proletaria, la dittatura del proletariato invera, realizza, dà
sostanza alle libertà politiche e dilata enormemente la sfera di tutte le libertà.
Dall'una dittatura all'altra, però, si passa attraverso lo spezzare lo Stato; non si
può prendere lo Stato borghese così come esso è ed usarlo ai fini del proletariato
perché tale Stato non serve all'edificazione del socialismo, non serve all'edificazione
della democrazia proletaria. È uno Stato accentrato, burocratico, poliziesco, deve
essere spezzato in tutti questi suoi elementi. Lenin riprende a fondo questo concetto
dello spezzare lo Stato che è proprio di Marx e ne fa uno dei centri della propria
concezione.
Lenin in genere lega lo spezzare lo Stato alla rivoluzione proletaria come
rivoluzione violenta, armata. E a chi osserva che Marx ed Engels avevano parlato di
un possibile sviluppo pacifico della rivoluzione negli Stati Uniti o in Gran Bretagna,
si risponde: si, ma ne avevano parlato in una fase in cui quegli Stati non erano ancora
militarizzati, polizieschi, burocratizzati. Oggi nella fase dell'imperialismo questo non
è più valido.
Tuttavia Lenin aveva prospettato per la rivoluzione russa uno sviluppo
pacifico, aveva detto: si sono realizzati i Soviet, i consigli degli operai, dei contadini e
dei soldati, che hanno in realtà nelle proprie mani tutto il potere perché l'esercito è
dalla parte dei Soviet. Niente può impedire ai Soviet di impadronirsi del potere, ciò
che lo impedisce è la direzione a maggioranza socialista e rivoluzionaria e
menscevica dei Soviet. Occorre che i bolscevichi - affinché venga dato ai Soviet tutto
il potere - conquistino la maggioranza dei Soviet. Allora la parola d'ordine
fondamentale è: tutto il potere ai Soviet, come via pacifica della rivoluzione. .
Quando, nel luglio, il movimento operaio è sconfitto e i bolscevichi messi
nella illegalità, quindi i Soviet non sono più strumento rivoluzionario, ma nelle mani
dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi divengono strumento di lotta
antioperaia, cade la parola d'ordine tutto il potere ai Soviet, cade la prospettiva di una
via pacifica. È il momento in cui Lenin scrive questo testo.
Nel settembre Lenin riprenderà, quando l'inchiostro con cui ha scritto questo
libro è ancora fresco, la parola d'ordine della via pacifica perché, in risposta al
tentativo del colpo di Stato reazionario del generale Kornilov, nell'agosto si era
realizzata una tale unità alla base dei bolscevichi, socialisti rivoluzionari e
menscevichi che Lenin dice: se noi realizziamo l'unità questa è l'ultima possibilità di
uno sviluppo pacifico in Russia, della libera formazione delle maggioranze e delle
minoranze all'interno dei Soviet (dei partiti all'interno dei Soviet, legati al movimento
operaio e non dei partiti capitalistici), comunque del libero alternarsi delle
maggioranze e delle minoranze, e così via.
Menscevichi e socialisti rivoluzionari non accettarono questa prospettiva
unitaria. Bisognava tornare a preparare l'insurrezione, quindi le prospettive della lotta
mutavano rapidamente da mese a mese, nel giro dei nove mesi che durò il processo
che portò alla rivoluzione del proletariato.
Qui, però, Lenin ci dà una teoria generale dello Stato e indica la legge
generale della rivoluzione: la rivoluzione proletaria deve avvenire mano a mano
attraverso l'insurrezione, l'esercizio della violenza, che a mio parere resta tesi valida
anche oggi, generalmente parlando, con eccezioni che oggi diventano più numerose o
possono diventare più numerose.
(Noi lottiamo per uno sviluppo pacifico sapendo che questo è un obiettivo di
lotta, incerto come tutti gli obiettivi di lotta, ma sapendo che quando fossimo portati
sul terreno dello scontro armato questa sarebbe una sconfitta, un insuccesso iniziale).
I bolscevichi possono prendere il potere in quanto esistono i Soviet. I Soviet
realizzano tutto un processo di rottura, per spezzare il vecchio apparato statale con
istituti di massa, unitari, rappresentativi degli operai, dei contadini e dei soldati. Sono
forme quindi di democrazia diretta dal basso, strettamente legati all'assemblea
legislativa, cui devono rendere conto del loro operato.
Un parallelo tra i Soviet e la Comune
Qui Lenin riprende l'esempio della Comune, ma dilata ancora di più il
significato della Comune, di quanto non sia storicamente valido e di quanto non
abbiano già fatto Marx ed Engels, lo dilata enormemente a fini politici, attribuendo
alla Comune molte cose che non c'erano o c'erano ad uno stadio del tutto embrionale,
inconsapevole, come Engels osservò.
Nella Comune egli vede un precedente dei Soviet, perché dice: i Soviet
riprendono l'esperienza della Comune e la portano avanti, finisce la separazione tra il
potere legislativo e quello esecutivo, il Soviet è un'assemblea che decide ed opera,
non è più una sede di chiacchiere come il parlamento (dopo di che il governo marcia
per conto suo e la burocrazia non è controllata). Nel Soviet i due elementi legislativo
ed esecutivo coincidono come era, egli dice, nella Comune di Parigi.
Il Soviet fa passare alcune funzioni dello Stato alla società. L'esercito, per
esempio, non è più esercito professionale, ma è il popolo in armi, i lavoratori in armi,
i proletari in armi; la polizia non è più un corpo separato, le funzioni di polizia
vengono esercitate dal popolo stesso perché il potere non è più di una minoranza, è
della maggioranza e quindi non esistono ragioni di una sovversione, la maggioranza è
in grado di controllare la minoranza. I magistrati sono eletti, la burocrazia viene eletta
e cosi via, come nella Comune di Parigi.
Naturalmente ci si può chiedere se qui non esistano degli elementi utopici,
nella visione di Lenin, io ritengo di sì. Si può parlare del popolo in armi come
esercito quando l'arma principale è il fucile, ma quando diventa il carro armato, il
missile, questo è difficile. Si può abolire la polizia fino ad un certo punto, non è che
con la società socialista le ragioni sociali della delinquenza scompaiano da un
momento all'altro. Lenin pensava che vengano meno rapidamente le ragioni
oggettive, sociali della delinquenza. Non è cosi, il processo è molto più lento e molto
più complicato.
Allora qualcuno che fa il mestiere di prendere i ladri e gli assassini ci deve
essere, una certa specializzazione ci deve essere, anche l'apparato dello Stato, sia pure
sovietico, è pur sempre un apparato che esige specializzazione, competenze,
formazione. Tale apparato potrà essere controllato democraticamente in modi nuovi,
ma la sua esistenza e quindi il problema della separazione dell'apparato dalla società,
problema drammatico della democrazia moderna e del socialismo, oggi non è cosi
facilmente superabile.
Bisogna tener conto, però, di una questione essenziale. Quando Lenin
indicava questo tipo di Stato e questo tipo di democrazia socialista, di dittatura del
proletariato, egli pensava alla rivoluzione russa come a un preludio immediato di una
rivoluzione mondiale, o per lo meno tale da estendersi subito alla Germania, alla
Francia da dove avrebbe poi dilagato, non pensava alla instaurazione del socialismo
in un paese solo.
Un'ipotesi di questo genere comincia ad affacciarsi appena appena in Lenin
nel '23, verso la fine della sua vita, e non è neanche chiaramente enunciata da lui: sarà
enunciata da Stalin e teorizzata da Bucharin, credo giustamente nonostante certi
limiti.
Il problema di far da soli, di come resistere da soli si pone per Lenin dopo il
1920, quando vede che la rivoluzione negli altri paesi va un po' a rilento, ma fino al
1918-19 i bolscevichi pensano che è inconcepibile una dittatura del proletariato in
Russia se essa resta isolata, se in suo soccorso non vengono altri paesi con la loro
rivoluzione, e paesi più avanzati come la Germania, prima di tutto, e poi come la
Francia. Quindi anche questi elementi utopici in parte si spiegano col fatto che Lenin
non pensa ad una dittatura del proletariato isolata, che quindi deve armare uno Stato,
deve avere momenti di centralizzazione del potere perché è isolata. Con una dittatura
non isolata, verrebbero a cadere anche le ragioni di guerra e dei dissidi internazionali,
della penetrazione dell'avversario all'interno, ecc. ecc.
Infatti Lenin insiste su questo elemento che con la dittatura del proletariato lo
Stato - in quanto cade lo Stato tipico, accentrato, burocratico, ecc - comincia subito ad
estinguersi.
Bisogna stare attenti alle parole: comincia, comincia soltanto, non è che si
estingue. Però comincia subito, cioè cominciano subito ad attuarsi forme di
autogoverno della società. Resta lo Stato, ma è uno Stato che si decentra, che passa a
forme di autogoverno della società, che affida alla società compiti che prima erano
dello Stato tradizionale, e in questo senso si realizza come piena democrazia.
Qui sta l'effettiva democrazia della dittatura del proletariato, il superamento
dei «corpi separati» (separati dalla democrazia, dal controllo popolare, dal controllo
dei cittadini, espressione del potere statale).
Nonostante questo, Lenin mantiene il concetto del centralismo del potere
statale, forzando il pensiero di Marx. Marx infatti aveva detto che il decentramento
nelle comuni si compie nella unità nazionale, mantenendo l'unità nazionale, ma non
aveva precisato questo tipo di rapporto.
Lenin parla addirittura di centralismo, attribuendolo a Marx, che non aveva
parlato di centralismo. Lenin trasferisce il concetto di centralismo democratico dal
partito allo Stato, già nel '17, e qui c'è, certamente, uno degli elementi del restringersi
(forse inevitabile storicamente, forse obbligatorio) della democrazia in regime
socialista.
Ma il limite di questo libro dov'è?
A mio parere sta nella prefazione (le prefazioni si scrivono sempre dopo) dove
Lenin scrive: la guerra imperialistica ha accelerato ed acutizzato ad un grado estremo
il processo di trasformazione del capitalismo monopolistico in capitalismo
monopolistico di Stato. Questo è avvenuto con la prima guerra mondiale, vi è stata
un'enorme crescita del capitalismo monopolistico di Stato, questa fase dello sviluppo
monopolistico è caratterizzata dal capitalismo monopolistico di Stato, non come fase
diversa, ma come fase congenita allo sviluppo monopolistico.
Questo è per Lenin, secondo la prefazione, il dato saliente del momento: il
formarsi e il dilatarsi del capitalismo monopolistico di Stato.
Ora nel testo invece non si ritrova più nessun riferimento al capitalismo
monopolistico di Stato (di cui non avevano parlato neppure Marx ed Engels; ne aveva
accennato negli ultimi suoi scritti Engels ma non in riferimento diretto allo Stato). In
tutto il testo di Lenin il potere statale è fondato su tre elementi: l'esercito permanente,
separato dal popolo, professionale insomma, la burocrazia, la polizia, questi sono i tre
elementi reazionari, tre elementi separati dal popolo che devono essere spezzati.
Lenin insiste sul carattere di macchina oppressiva dello Stato se non più di
Marx certo più di Engels, perché Engels pone in rilievo che lo Stato nasce dal
contrasto delle classi, ma anche per contenere il contrasto fra le classi e quindi ravvisa
nello Stato, oltre che una funzione di dominio, anche una funzione di mediazione, di
equilibrio giuridico seppur contraddittorio, instabile e provvisorio.
Questo elemento in Lenin viene a cadere, c'è soltanto l'elemento della
oppressione. Lenin ci dà qui una teoria dello Stato in generale, però ha certamente
l'occhio volto alla Russia, alla Russia zarista, dove questi elementi dello Stato sono
evidenti, dove il carattere oppressivo dello Stato è più evidente che altrove, ma certo
forza, a mio parere, in un certo senso la stessa concezione marxista, e, ancor più,
engelsiana dello Stato.
L'elemento mediatore che nello Stato è presente, l'elemento dell'egemonia,
della direzione è lasciato in ombra.
La polemica era volta contro i socialdemocratici in quanto essi non vedevano
la necessità di spezzare lo Stato, lo Stato borghese, era volta contro gli anarchici
perché per gli anarchici la rivoluzione proletaria deve coincidere con l'abolizione
dello Stato, intesa non come successiva estinzione, ma proprio come abolizione
immediata dello Stato.
Per gli anarchici lo Stato, il potere statale, è la fonte di ogni male, è lo Stato
che stabilisce la proprietà privata, è lo Stato che genera il capitalismo. Abolendo lo
Stato le differenze di classe sparirebbero, pensano, e non vedono che invece lo Stato è
l'espressione di determinati rapporti di produzione e di scambio di una determinata
struttura economica che esso tiene insieme e garantisce.
Per Marx, come per Lenin, è necessario invece che, infranto lo Stato
borghese, si instauri uno Stato proletario che non ha più le caratteristiche dello Stato
tradizionale e che faccia da periodo di transizione verso l'estinzione dello Stato, la
quale sarà graduale, indolore e non più violenta.
Questa è la differenza rispetto agli anarchici. Bisogna osservare però che se
questo libro di Lenin è senza dubbio fondamentale, e su di esso si sono formate, non
sempre bene, generazioni e generazioni di comunisti, il pensiero di Lenin non è mai
riducibile ad un solo libro, anzi è di una ricchezza e di un'articolazione estrema
proprio perché è sempre aderente alla realtà, si pone sempre obiettivi politici concreti.
Egli stesso dice: ogni mio libro deve essere letto sapendo che l'ho scritto per un fine
pratico, per un fine politico. Se non si sa questo, Lenin non lo si capisce, lo si legge in
un modo dogmatico.
Non tutto è da spezzare
Difatti, contemporaneamente alle cose che dice in Stato e rivoluzione, scrive
anche altre cose, per esempio proprio nello stesso periodo scrive un opuscolo: I
bolscevichi conserveranno il potere statale?, per rispondere ad un' obiezione dei
liberali, i quali dicevano: i bolscevichi non potranno mai conquistare il potere statale
(avevano proprio indovinato, lo scrivevano qualche mese prima della conquista del
potere), non potranno, ma se lo conquistassero non potrebbero mantenerlo, non
sarebbero in grado di amministrare lo Stato, di dirigerlo.
Lenin risponde: sì, è vero, noi non sapremo amministrare questo Stato, ma noi
non vogliamo amministrare questo Stato, noi ne vogliamo creare un altro, lo Stato dei
Soviet. In quanto ci sono i Soviet noi potremo amministrare e guidare la società russa
e lo Stato.
Lenin poi individua gli elementi preesistenti che consentono l'esercizio del
potere statale e scrive: nello Stato moderno, accanto all'apparato essenzialmente
oppressivo che consiste nell'esercito permanente, nella polizia e nella burocrazia,
esiste un apparato legato alle banche e ai trust che svolge, se così si può dire, un vasto
lavoro di statistiche e di registrazione. Non è necessario spezzare questo apparato e
non lo si deve spezzare, bisogna strapparlo al dominio dei capitalisti, c'è tutto un
apparato amministrativo che non deve essere spezzato.
E aggiunge: senza le grandi banche il socialismo sarebbe irrealizzabile, le
grandi banche sono l'apparato statale che ci è necessario per la realizzazione del
socialismo, e che noi prendiamo già pronto dal capitalismo. Ovvero le banche non
vengono spezzate, tutto il capitalismo monopolistico di Stato non viene spezzato, ma
viene liberato dal capitalismo, sottratto al capitalismo, democratizzato, gestito in un
modo diverso. Cioè, c'è tutto un settore nell'apparato statale che non deve essere
spezzato, queste cose egli le
scrive contemporaneamente a Stato e rivoluzione, dove c'è solo l'elemento
dello spezzare. In questo scritto invece (I bolscevichi conserveranno il potere
statale?) si indica quello che deve essere spezzato: esercito professionale, burocrazia,
polizia e quello che non si deve spezzare. È inutile dire che noi estendiamo la sfera di
quello che deve essere non spezzato anche alle istituzioni democratiche borghesi,
quindi al parlamento, alle regioni, ma diciamo: non possono funzionare come adesso,
devono essere poste in un altro rapporto, integrate con forme di democrazia diretta
dal basso, decentrate, ecc.
Anche per Lenin, non tutto deve essere spezzato, questo è importante, non il
settore pubblico dell'economia.
D'altra parte, non bisogna dare dello spezzare un'interpretazione semplicistica,
cioè nel senso che lo spezzare coincide con l'insurrezione armata. L'insurrezione
armata non spezza niente, con l'insurrezione armata si prende il potere, si caccia il
governo.
Spezzare lo Stato è tutto un processo di riorganizzazione dello Stato, che può
essere lungo, molto lungo. Già nel '22 Lenin diceva: noi abbiamo dato soltanto una
spolveratina sovietica all'apparato statale, ma l'apparato statale è rimasto quello che
era con lo zarismo, non l'abbiamo rinnovato, siamo stati impegnati nella guerra civile
ecc., ed è rimasto il vecchio apparato.
Non solo, ma la sua condanna della democrazia borghese come democrazia
capitalistica non deve portare alla formulazione, che fu tipica di Bordiga, che tutti gli
Stati borghesi sono sempre la stessa cosa perché sono sempre una dittatura della
borghesia. Fra democrazia parlamentare e fascismo, diceva Bordiga, non c'è nessuna
sostanziale differenza, cioè il fascismo è una variante della dittatura della borghesia, è
sempre la stessa cosa in sostanza.
Questo è estraneo al pensiero di Lenin. Basti pensare alla sua posizione nella
rivoluzione russa del 1905: quando la destra del Partito operaio socialdemocratico
russo (i menscevichi) diceva che quella era una rivoluzione democratico-borghese e
quindi toccava alla borghesia farla, assumersene la responsabilità, il proletariato
appoggiò la rivoluzione democratico-borghese secondo la posizione dei bolscevichi e
di Lenin, i quali sostenevano che non si poteva lasciare alla borghesia la guida della
rivoluzione democratico-borghese, perché essa non sa portarla ai suoi ultimi sbocchi
e la forza egemone (qui Lenin usa due volte il termine di egemonia nello scritto: Le
due tattiche della socialdemocrazia) deve essere la classe operaia perché solo la
classe operaia può portare all'ultimo sviluppo la democrazia borghese. Non è vero che
per la classe operaia qualsiasi tipo di democrazia borghese sia la stessa cosa. C'è
democrazia borghese e democrazia borghese, una più avanzata e l'altra meno, a noi
conviene che sia la più avanzata possibile perché favorisce la lotta per il socialismo.
Non è vero che la rivoluzione democratico-borghese sia utile soltanto alla
borghesia. Certo, è utile allo sviluppo del capitalismo in una sfera enorme, ma al
tempo stesso è più utile alla classe operaia che alla borghesia stessa perché dà alla
classe operaia l'esercizio di quelle libertà democratiche che le servono per la lotta
rivoluzionaria.
Il marxismo, dice Lenin, insegna alla classe operaia non ad appartarsi dalla
rivoluzione democratico-borghese, a mostrarlesi indifferente, a lasciarne la direzione
alla borghesia, ma insegna a parteciparvi nel modo più attivo, più conseguente, più
combattivo, per portarla ai suoi sviluppi proletari, e aggiunge: possono stupirsi di
questa affermazione solo quelli che ignorano l'abbiccì del comunismo scientifico.
Funzione, quindi, anche di direzione del proletariato nel passaggio dalla fase
borghese della rivoluzione del 1917, dalla fase del febbraio, marzo secondo il nostro
calendario, alla fase successiva che si prepara con aprile per culminare il 7 novembre.
Democrazia e dittatura del proletariato
Nello stesso Stato e rivoluzione, però, cosa dice Lenin? La democrazia è,
come ogni altro tipo di Stato borghese, l'applicazione sistematica, organizzata della
costrizione sugli uomini, la democrazia è costrizione, non è libertà.
Questo da un lato (si parla della democrazia borghese), ma dall'altro lato la
democrazia è il riconoscimento formale dell'uguaglianza fra i cittadini, del diritto
uguale per tutti di determinare la forza dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva che
ad un certo grado del suo sviluppo la democrazia unisce contro il capitalismo la
classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la possibilità di spezzare la macchina
dello Stato borghese.
Qui la quantità si trasforma in qualità, arrivato a questo grado il sistema
democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a svilupparsi verso il
socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente alla gestione dello Stato il
capitalismo non può più mantenersi, quindi sviluppando al massimo grado la
democrazia all'interno della democrazia borghese mettiamo in crisi la democrazia
borghese, perché quando si va al pieno esercizio della democrazia ci si rende conto
che c'è un limite, e che quel limite è la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Nasce allora l'esigenza del socialismo e c'è il trapasso dalla democrazia borghese alla
democrazia socialista, ma non come trapasso indolore, graduale, bensì come salto
qualitativo, come crisi profonda di tutta una società.
Perciò, anche in Stato e rivoluzione Lenin non disprezza affatto la democrazia
e vede il nesso tra democrazia borghese e rivoluzione proletaria.
Sulla dittatura del proletariato Lenin che cosa ci dice? La rivendicazione dell'
Assemblea costituente era stata una rivendicazione fondamentale dei bolscevichi e
dopo la rivoluzione d'Ottobre, nel febbraio '18, ci furono le elezioni all'Assemblea
costituente su liste che erano già state presentate prima della rivoluzione di Ottobre.
Nelle elezioni all'Assemblea costituente i bolscevichi, che avevano la maggioranza
assoluta nei Soviet principali, Mosca, Pietrogrado, ebbero la maggioranza relativa,
più del 40% dei voti. L'Assemblea costituente divenne quindi il punto di raccolta di
tutte le forze antibolsceviche e antisovietiche, vale a dire che l'organismo democratico
più avanzato, l'Assemblea costituente (tutti l'avevano voluta, anche i bolscevichi) era
una splendida piattaforma, uno splendido punto di raccolta per la lotta contro la
rivoluzione d'Ottobre e contro il potere diretto dai bolscevichi.
I bolscevichi sciolsero con i marinai armati l'Assemblea costituente. Questo è
uno dei grandi temi della polemica di Kautsky contro la dittatura del proletariato in
Russia che sopprime le libertà democratiche. Ed è una critica mossa da una
concezione formale della democrazia, cioè non coglie i contenuti di classe della
democrazia. Un' Assemblea costituente eletta da tutto il popolo si presenta, certo,
nella forma di un'istituzione estremamente democratica, ma in determinate situazioni
storiche può assumere una funzione reazionaria. (Come da noi l'istituto del
Referendum, che sembra tanto democratico, è sempre stato usato in senso
reazionario: per salvare la monarchia; per condannare la legge sul divorzio).
Bisogna sempre vedere il contenuto di classe. Kautsky non vede il contenuto
di classe antirivoluzionario che stava assumendo la Costituente, mentre i bolscevichi,
che stanno alla sostanza della cosa, la sciolgono come centro di organizzazione
reazionaria.
Questo non significa che intervenire di forza contro una istituzione
democratica e liberamente eletta non sia stata cosa gravosa anche di conseguenze
nello sviluppo della democrazia socialista naturalmente, non costituisca un
precedente pericoloso per la stessa democrazia socialista. Era però in quel momento
una questione di vita o di morte, o salvavi a quel modo la rivoluzione proletaria, o la
perdevi, e quindi lo scioglimento era un atto democratico.
Ormai abbandonata una posizione marxista, il socialdemocratico Kautsky
questo non lo vede, ed è proprio in polemica con questi che Lenin definisce nel '18 la
dittatura del proletariato come l'esercizio della violenza aperta contro i nemici di
classe, esercizio non limitato da alcuna legge (per altro le leggi non c'erano, c'erano
quelle vecchie, zariste, che non servivano).
Ed è di quel momento l'indicazione del partito bolscevico che sabotatori,
nemici di classe, rapinatori, devastatori di negozi (c'era la fame più nera) presi sul
fatto venissero immediatamente fucilati sul posto.
Anche qui, però, il pensiero di Lenin è ricco, è articolato, va visto nel suo
variare. Per esempio l'anno dopo, anzi ancora nel ' 18 - a mano a mano che il compito
del potere non sarà più la repressione di carattere militare, ma l'amministrazione - la
tipica manifestazione della repressione e della coercizione non sarà più la fucilazione
sul posto, ma il processo in tribunale. Questo Lenin lo dice immediatamente dopo:
bisogna costruire una legalità rivoluzionaria ed esercitare la dittatura nel quadro di
una legalità rivoluzionaria.
Nel '19, agli operai ungheresi egli scrive, al momento della rivoluzione
vittoriosa in Ungheria: questa dittatura del proletariato presuppone l'uso
implacabilmente duro, rapido e deciso della violenza per schiacciare la resistenza
degli sfruttatori, ma non la sola violenza e neppure principalmente la violenza.
L'essenza della dittatura del proletariato, la sua essenza fondamentale sta
nell'organizzazione e nella disciplina del reparto più avanzato dei lavoratori, della
loro avanguardia e del loro unico dirigente: il proletariato.
Se, quindi, la violenza è elemento essenziale della dittatura o non eliminabile
nella dittatura, però l'elemento decisivo ed essenziale veramente è la capacità
dirigente della classe operaia. Qui - cioè un anno dopo - l'accento si sposta dalla
violenza alla direzione, alla disciplina, all'organizzazione.
Poi, nel '20, in Russia il proletariato ha potuto vincere (ormai è vinta la guerra
civile sostanzialmente) superando difficoltà inaudite perché ha compreso giustamente
i suoi compiti di dittatore, cioè di dirigente, di organizzatore, di educatore di tutti i
lavoratori. Essere dittatore qui significa dirigere, organizzare, educare.
In un altro passo dello stesso periodo Lenin dice: la dittatura del proletariato
ha vinto perché ha saputo combinare la coercizione e la persuasione, i due elementi.
La espressione sembra quasi gramsciana.
Inoltre Lenin insiste sempre sul fatto che non si può neanche parlare di
dittatura del proletariato e di socialismo se l'enorme maggioranza dei lavoratori non
partecipa attivamente alla direzione della società e dello Stato. Questo è il grande
punto su cui egli insiste sempre, inesorabilmente, costantemente.
Qui bisogna, però, smentire la leggenda secondo cui per Lenin anche una
cuoca doveva saper amministrare lo Stato. La frase di Lenin, come la ricordo, è: noi
non siamo degli utopisti e non pensiamo che un semplice manovale o una cuoca
possano amministrare lo Stato: diciamo che l'amministrazione dello Stato, parola più,
parola meno, non può essere affidata soltanto ai figli delle famiglie ricche, ma che
tutti i più semplici lavoratori devono essere messi subito all'apprendistato
dell'amministrazione dello Stato. Quindi anche la cuoca, ma prima deve fare
l'apprendistato, non è che diventa subito Ministro dell'alimentazione, prima deve
imparare a farlo.
Noi non siamo degli utopisti i quali pensano che la burocrazia possa essere
eliminata da un giorno all'altro, noi dobbiamo lottare subito contro la burocrazia
sapendo che sarà una lotta di anni e che ciò comporterà quella che Lenin chiama una
rivoluzione culturale, cioè l'accesso a nuovi livelli di cultura delle grandi masse
operaie e contadine russe profondamente ignoranti, ecc. È questo, dice Lenin, ad
impedire il superamento della burocrazia, è l'arretratezza culturale oltre che tutte le
tradizioni.
Lenin non esita a vedere i limiti, le contraddizioni dello Stato socialista che è
stato instaurato. C'è una polemica del '21 con Trockij che non sto a rievocare. Nel
dicembre del '20, Lenin ammette: il nostro Stato è uno Stato operaio con una
deformazione burocratica. Riconosce apertamente che non si è di spiegato questo
carattere democratico e la burocrazia persiste. Noi abbiamo in primo luogo uno Stato
operaio che ha questa particolarità: nel Paese predomina la popolazione contadina e
non quella operaia, e in secondo luogo è uno Stato operaio con una deformazione
burocratica, dice Lenin.
E si rende bene conto del dilemma, del dramma della rivoluzione russa
quando dice (siamo nel '19): combattere fino in fondo· il burocratismo, combatterlo
fino alla completa vittoria è possibile unicamente se tutta la popolazione partecipa
all'amministrazione. Nelle repubbliche borghesi questo non soltanto sarebbe
impossibile, ma la legge stessa lo impedisce, le migliori repubbliche borghesi, anche
le più democratiche, hanno migliaia di pastoie legislative che impediscono ai
lavoratori di partecipare all'amministrazione. Noi abbiamo fatto si che tutte queste
pastoie non esistano più qui da noi, ma finora non abbiamo ancora ottenuto che le
masse lavoratrici possano partecipare all'amministrazione. Oltre alla legge c'è anche il
livello culturale che non si può sottomettere a nessuna legge. Questo basso livello di
cultura fa si che i Soviet, ecco qui il punto, i quali, secondo il loro programma, sono
gli organi del governo esercitato dai lavoratori, (sottolineato da Lenin) so
no in realtà l'organo del governo per i lavoratori esercitato dallo strato di
avanguardia del proletariato, ma non dalle masse lavoratrici.
Ecco, i Soviet non sono ancora la partecipazione della maggioranza, ma di
una avanguardia, il proletariato. I comunisti poi amministrano lo Stato per i
lavoratori, a favore dei lavoratori, appoggiandosi ai lavoratori, ma non c'è una
partecipazione dei lavoratori. Questa è la contraddizione in cui viene a trovarsi il
regime sovietico, di qui la lotta accanita di Lenin negli ultimi anni contro i metodi
amministrativi di dirigere. Ho notato - dice Lenin in alcuni nostri compagni, capaci di
influire in modo decisivo sugli indirizzi degli affari di Stato, un' esagerazione
dell'aspetto amministrativo che certamente è necessario a suo luogo e a suo tempo,
ma che non bisogna scambiare con l'aspetto scientifico, con la comprensione della
nostra realtà, con la capacità di guadagnare a sé le persone, cioè di conquistare il
consenso.
Si veda la sua critica a Stalin nei confronti della questione georgiana, dove
nazionalismo e burocratismo si intrecciano con una funzione nefasta, per la
frettolosità di Stalin e la sua tendenza ad usare i metodi amministrativi (rimprovero
che lui fa a Trockij). Stalin tende a risolvere le cose in un modo amministrativo anche
se è in quel tempo l'uomo più capace nel comitato centrale del partito bolscevico.
Di qui l'invito di Lenin ad allontanare Stalin dalla segreteria del partito e non
perché non sia capace politicamente, ma per una questione di atteggiamento, in
quanto Stalin, divenuto segretario generale, ha concentrato nelle proprie mani un
grande potere e non è certo che egli sappia servirsene sempre con sufficiente
prudenza. E Lenin aggiunge: Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto
tollerabile nell'ambiente e nei rapporti con noi comunisti, diventa intollerabile nella
funzione di segretario generale, perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera
di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo che, a
parte tutti gli altri aspetti, si distingua dal compagno Stalin solo per una migliore
qualità, cioè quella di essere più tollerante, più leale, più cortese e più riguardoso
verso i compagni, meno capriccioso. Lenin però non sa indicare con quale compagno
sostituire Stalin.
Per concludere questa parte: Lenin pensò ad un determinato tipo di
rivoluzione russa che aprisse la strada ad una rivoluzione mondiale. Ebbe invece una
rivoluzione che rimase isolata e quindi un esito rivoluzionario molto diverso da
quello che egli si aspettava: il regime sovietico che opera per i lavoratori, ma che non
è la democrazia dei lavoratori, ad esempio. Lenin costruì una certa teoria dello Stato,
perché è indubbio che in Stato e rivoluzione c'è una teoria dello Stato, anche se il
libro non è stato finito, ma quella teoria intanto non corrisponde più alla natura dello
Stato borghese, perché non tiene conto del capitalismo monopolistico di Stato, che
diventa, quando c'è, una leva decisiva del potere. L'elemento decisivo non è più
l'esercito, la polizia, la burocrazia, ma è il capitalismo monopolistico di Stato, è li il
centro del potere.
Questo elemento non viene esaminato da Lenin. Egli configura un tipo di
Stato che non sarà lo Stato che si attua, lui vivente. Lenin stesso si muove in una
contraddizione perché capisce la necessità di dirigere quella società casi disgregata
(guerra civile, miseria, fame) in un modo molto accentrato e dall'alto. Egli respinge
l'idea di una direzione collettiva delle fabbriche da parte dei sindacati, che snatura la
natura dei sindacati (qui ha ragione). Ma una forma di direzione collettiva in fabbrica
ci deve essere, oltre alla dittatura del direttore che è nominato dal Ministero e
risponde al Ministero, Lenin dice: bisogna unire la dittatura del direttore durante le
ore di lavoro alla democrazia tumultuosa dell'assemblea, dopo le ore di lavoro, ma
combinare le due cose insieme non è facile.
In realtà, egli mantiene una direzione di vertici. I ministeri nominano i
direttori, i direttori sono dittatori in fabbrica, hanno potere assoluto in fabbrica, il che
era forse un modo obbligato per rimettere insieme quell'economia in sfacelo, quelle
fabbriche paralizzate e così via. Lenin si muove nel tormento di questa contraddizione
e nel tormento della lotta anche contro il burocratismo e contro il nazionalismo che
sono strettamente apparentati.
Qui una citazione vale la pena farla. Riferendosi al rispetto della nazionalità di
minoranza, sempre a proposito della questione georgiana, dice: «di fronte a questo
apparato burocratico e nazionalista dei russi è vano richiamarsi al principio che le
repubbliche che aderiscono alla Repubblica socialista federativa sovietica russa
mantengano la libertà di uscirne. Tale principio si rivela un inutile pezzo di carta
incapace di difendere gli allogeni della Russia (cioè le altre nazionalità) dalla
invasione di quell'uomo veramente russo, da quello sciovinista grande-russo in
sostanza vile e violento, che è il tipico burocrate russo ».
« Vile e violento»: certo Lenin si riferisce alla burocrazia zarista, ma i
burocrati si assomigliano sempre un po'.
Ora, Lenin si trova nella morsa di queste contraddizioni che Stalin risolverà a
favore di una centralizzazione burocratica e poliziesca e di una direzione accentrata.
Lenin vuole risolvere queste contraddizioni in senso opposto, nel senso della
democrazia. Ce l'avrebbe fatta? Non lo sappiamo.
Rinasce quindi la questione: è possibile una teoria marxista dello Stato? Qui
ce l'abbiamo, ma in quanto ce l'abbiamo non corrisponde alla realtà, meno è costruita
e più corrisponde al processo reale, la stessa vita dello Stato è un processo. Allora
sino a che punto è possibile una teoria dello Stato conclusa?
Il marxismo poi è essenzialmente un processo di critica. Quando Marx critica
e analizza le leggi del capitalismo critica il capitalismo, mette in luce le sue
contraddizioni e la necessità del suo superamento; quando Marx definisce lo Stato
«l'espressione del potere di una classe sulla società », definisce lo Stato e critica lo
Stato, cioè ne smaschera la falsa neutralità, la falsa indipendenza dalle classi e pone
l'esigenza della sua estinzione e quindi della sua negazione. Il marxismo va concepito
cosi, come processo di costruzione teorica che accompagna il processo reale; è
continua critica del processo reale e delle precedenti teorizzazioni, quindi critica
anche di se stesso e delle sue inadeguate formulazioni e delle sue inadeguate
teorizzazioni. Altrimenti diventa dogma, filosofia in senso tradizionale, filosofia
speculativa e cessa di essere marxismo.
Il regime sovietico deve, nel '19-20, limitare determinate libertà democratiche,
per esempio sopprimere i giornali dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari. Lenin
dice che questi provvedimenti non sono tipici, essenziali della dittatura del
proletariato, sono la variante russa della dittatura del proletariato legata
all'arretratezza russa, allo stato di guerra civile, ma che, se in Russia la dittatura del
proletariato non può esprimere tutto il suo contenuto democratico, ben altrimenti essa
lo potrà esprimere nei paesi capitalisticamente avanzati.
Sottolinea anche le differenze che vi sono tra forme di dittatura del
proletariato a seconda dei paesi, delle loro caratteristiche, della loro struttura
economica, del loro livello culturale.
Passiamo ora a Gramsci. Gramsci è senza dubbio quello che allaccia, se così
si può dire, congiunge il movimento operaio italiano agli insegnamenti di Lenin, è
giustamente il primo bolscevico italiano, come disse Togliatti, il primo leniniano del
nostro Paese. Attraverso un processo che fu complicato e che parte dalla sua
comprensione non completa, ma sostanzialmente giusta del valore della rivoluzione
d'Ottobre, arriva ad affermare che la rivoluzione d'Ottobre è una rivoluzione contro Il
Capitale di Carlo Marx, cioè contro un'interpretazione meccanica, schematica del
Capitale, secondo cui bisognava aspettare lo sviluppo delle forze produttive del
capitalismo, ecc. ecc. Già coglie l'importanza dell'elemento soggettivo, della funzione
del partito come guida dei processi rivoluzionari.
Gramsci sempre più si avvicina ad una comprensione del pensiero di Lenin
con un processo che va dal '19 sino al '25-26 e che anche nei Quaderni del carcere è
un approfondimento del pensiero di Lenin.
Gramsci si aggancia direttamente al concetto di dittatura del proletariato come
si trova in Lenin, individuando nella dittatura del proletariato, non solo un profondo
mutamento della struttura economica e politica del paese, ma una profonda
rivoluzione culturale, una profonda trasformazione del modo di pensare degli uomini
non solo in Russia, ma in tutto il mondo. Il pensiero degli uomini non può più essere
la stessa cosa dopo l'instaurazione della dittatura del proletariato in Russia.
La dittatura non è soltanto un fatto politico, ma di cultura e di pensiero,
secondo quello stretto nesso che Gramsci stabilisce tra politica e filosofia affermando
che la filosofia vera di ciascuno sta nel suo modo di agire, sta nella sua politica più
che nelle dichiarazioni teoriche. Da questo egli ricava che il principio teorico-pratico
dell' egemonia (e qui egemonia significa dittatura del proletariato) ha anch'esso una
portata gnoseologica, cioè di conoscenza, e pertanto in questo campo è da ricercare
l'apporto teorico massimo di Lenin alla filosofia della prassi, cioè al marxismo.
Lenin avrebbe fatto progredire la filosofia come filosofia in quanto fece
progredire la dottrina e la pratica politica. C'è stretto nesso, quindi, tra i due elementi.
In un altro punto dei Quaderni dice: «Tutto è politico, anche la filosofia o le
filosofie. La sola filosofia è la storia in atto, cioè è la vita stessa. In questo senso si
può interpretare la tesi del proletariato tedesco erede della filosofia classica tedesca,
come aveva detto Engels, e si può affermare che la teorizzazione e la realizzazione
dell'egemonia fatta da Ilic [Lenin], è stato anche un grande avvenimento metafisico,
cioè nel senso di pensiero generale, non nel senso negativo di filosofia astratta».
Il processo attraverso cui Gramsci nei Quaderni arriva a queste conclusioni è
complesso. Gramsci al tempo dell'Ordine nuovo, già nel '19, parte da una riflessione
sullo Stato che non è una riflessione sullo Stato in generale, ma sullo Stato borghese
italiano, una individuazione della sua specificità.
In un articolo dell'Ordine nuovo, del febbraio del '20, scrive: «Lo Stato
italiano che - secondo un parlamentare - starebbe alla repubblica dei Soviet come la
città all'orda barbarica, non ha mai neppure tentato di mascherare la natura spietata
della classe proprietaria.
Si può dire che lo «Statuto albertino» sia servito ad un solo fine preciso: a
legare fortemente le sorti della corona alle sorti della proprietà privata. I soli freni che
funzionano nella macchina statale per limitare gli arbitri del governo dei ministri del
re sono quelli che interessano la proprietà privata del capitale. Soltanto qui si
pongono limiti all'esercizio del potere per garantire la proprietà, la libera iniziativa.
Lo «Statuto albertino » non ha creato nessun istituto che presidi almeno
formalmente le grandi libertà dei cittadini: la libertà individuale, la libertà di parola e
di stampa, la libertà di associazione e di riunione, mentre negli altri Stati
democratico-borghesi almeno una garanzia, almeno formale, esiste, in Italia non c'è
neanche la garanzia formale.
Negli Stati capitalistici che si chiamano liberal-democratici l'istituto massimo
di presidio delle libertà popolari è il potere giudiziario. Nello Stato italiano la
giustizia non è un potere, è uno strumento del potere esecutivo, è uno strumento
della corona e della classe proprietaria, cioè è agli ordini del ministro della Giustizia.
Si pensi che ancor oggi la nomina del Pubblico ministero avviene ad opera del
ministro della giustizia. La direzione generale delle carceri, le direzioni particolari,
gli agenti della pubblica sicurezza, tutto l'apparato repressivo dello Stato dipendono
dal ministero degli Interni, si capisce perché in Italia il presidente del consiglio si
riservi sempre il ministero degli Interni, come era tipico nello Stato prefascista, in
modo che tutto l'apparato di forza armata del paese sia completamente nelle sue mani.
Il presidente del consiglio è l'uomo di fiducia della classe proprietaria - alla
sua scelta collaborano le grandi banche, i grandi industriali, i grandi proprietari
terrieri e lo Stato maggiore. Egli si prepara a conquistare la maggioranza
parlamentare con la frode e con la corruzione; il suo potere è illimitato non solo di
fatto - come è indubbiamente in tutti i paesi capitalistici - ma anche di diritto, il
presidente del consiglio è l'unico potere dello Stato italiano.
La classe dominante italiana non ha avuto neppure l'ipocrisia di mascherare la
sua dittatura, il popolo lavoratore è stato da essa considerato un popolo di razza
inferiore che si può governare senza complimenti, come una colonia africana. Il Paese
è sottoposto ad un permanente regime di stato d'assedio: in ogni ora del giorno e della
notte un ordine del ministro dell'interno ai prefetti può fare entrare in movimento
l'amministrazione poliziesca, gli agenti vengono sguinzagliati nelle case, nei locali di
riunione, senza mandato dei giudici, che sono passivi. In pura via amministrativa la
libertà individuale e di domicilio è violata, i cittadini sono ammanettati, confusi coi
delinquenti comuni in carceri luride e nauseabonde, la loro integrità fisiologica è in
difesa contro la brutalità ed i contatti, i loro affari sono interrotti o rovinati. Per il
semplice ordine di un commissario di polizia un locale di riunione viene invaso e
perquisito, una riunione viene sciolta, per il semplice ordine del prefetto un censore
cancella uno scritto il cui contenuto non rientra affatto nelle proibizioni contemplate
dai decreti generali [c'era la censura sulla stampa] per il semplice ordine di un
prefetto i dirigenti di un sindacato vengono arrestati, cioè si tenta di sciogliere
un'associazione, ecc.».
È un'analisi spietata dei limiti liberali e democratici dello Stato liberale
italiano, della sovrapposizione del potere esecutivo sul potere legislativo, sul potere
giudiziario, è una descrizione di questo ordinamento che discende dall'esecutivo ai
prefetti, ai questori e sospende in qualsiasi momento ogni libertà.
Ora a questa visione, a questa definizione, a questa analisi dello Stato italiano,
Gramsci ne contrappone un'altra che nasce dal movimento reale. Anche per lui, come
per Lenin, la conquista dello Stato non è puramente un momento negativo, di
distruzione, ma è il processo di crescita di un nuovo tipo di Stato, che si organizza sin
da prima della conquista dello Stato. E la rivoluzione, come per Lenin, viene
concepita come un processo, non come un atto subitaneo che si compie in un
determinato momento.
La domanda infatti, che egli si pone nel ' 19, la domanda da cui parte con tutto
il lavoro del giornale, dell'Ordine nuovo, è precisamente questa: se ci sia in Italia, a
Torino, un embrione di Soviet, un inizio di Soviet, e la risposta è: sì, sono le
commissioni interne. E aggiunge: bisogna trasformare le commissioni interne in
qualche cosa di più, bisogna far nascere dalle commissioni interne, cioè dall'esistenza
dei Consigli di fabbrica eletti da tutti i lavoratori indipendentemente o meno dalla
loro iscrizione al sindacato. Con rappresentanti quindi per reparti, per officina, per
mestieri, e cosi via, in modo che il Consiglio di fabbrica sia il momento non solo
della difesa dei diritti sindacali o delle conquiste sindacali, ma un organismo
attraverso cui gli operai si impadroniscono del processo della produzione, della
organizzazione del lavoro, intervengono sul processo della produzione, stabiliscono
un potere nella fabbrica, un potere democratico della fabbrica e un potere che poi
dalla fabbrica si irradi alle campagne e salga a diventare potere nella società e nello
Stato.
Gramsci dice che questo trasforma l'operaio da semplice salariato - schiavo
del capitale, non cosciente della funzione storica della propria classe - in produttore
(egli prende da Sorel questo termine), ma esso è presente anche in Marx quando parla
della Comune come l'autogoverno dei produttori e non più degli operai salariati, cioè
dell'operaio che ha superato ogni limite corporativo, che non ragiona più come
mentalità di categoria, di classe sociale chiusa in sé, intesa solo alla difesa dei propri
interessi immediati di classe, ma che si sente come produttore, protagonista e
interprete degli interessi generali della società e quindi come componente essenziale,
forza dirigente del nuovo Stato che si vuole costruire.
Egli scrive nell'Ordine nuovo: l'officina con le sue commissioni interne, i
circoli socialisti e le comunità contadine sono i centri di vita proletaria nei quali
occorre direttamente lavorare, le commissioni interne sono organi di democrazia
operaia che occorre liberare dalle limitazioni imposte dagli imprenditori, e ai quali
occorre infondere vita nuova ed energia. Oggi le commissioni interne limitano il
potere del capitalista nella fabbrica e svolgono funzioni di arbitraggio e di disciplina,
sviluppate ed arricchite dovranno essere domani come organi del potere proletario
che sostituisce il capitalista in tutte le sue funzioni utili di direzione e di
amministrazione. Cioè bisogna imparare prima a dirigere le fabbriche se vogliamo
abolire il capitalismo.
Fin d'ora gli operai dovrebbero procedere già all'elezione di vaste assemblee
di delegati scelti tra i migliori e più consapevoli compagni sulla parola d'ordine:
«tutto il potere all'officina, ai comitati d'officina », coordinata all'altra: «tutto il potere
dello Stato ai consigli operai e contadini ».
Vi è, quindi, un tentativo di risposta alla domanda: come facciamo in Italia a
fare come in Russia, dove ci sono i Soviet? E i Soviet li inventa Gramsci: li va a
cercare nel movimento reale, li va a cercare in quello che già esiste, cioè le
commissioni operaie da sviluppare in organismi con molto più potere e molta più
capacità rappresentativa.
A questa concezione di elevamento della funzione dirigente della classe
operaia prima della conquista del potere, come condizione della conquista del potere,
qui Gramsci ragiona già alla leniniana, a questa sua concezione si contrappone
un'obiezione di Bordiga e del suo giornale, Il Soviet, sul quale egli dice: è illusorio,
utopico pensare che la classe operaia possa avere una funzione dirigente nella
fabbrica prima della conquista del potere, fino ad allora resta subalterna ai capitalisti,
solo quando la classe operaia prenderà il potere essa potrà esercitare il potere nella
fabbrica. Ma Bordiga non risponde alla domanda: il potere come lo prendi?
Questo perché Bordiga vede il processo sociale come il processo di crescenti
contraddizioni dell'economia capitalistica, finché si arriva alla grande crisi che è il
momento fatale della rivoluzione proletaria, a cui il proletariato e il Partito comunista
devono prepararsi mantenendosi puri, intatti, non contaminando si in alleanze, in
compromessi e in cose del genere. Vi è cioè in Bordiga una visione meccanicistica, di
materialismo volgare, meccanicistico del processo rivoluzionario che ignora la
funzione del soggetto, del partito.
Non a caso Bordiga dice che non bisogna partecipare alle elezioni
parlamentari. Il Parlamento è borghese e quindi non interessa il proletariato. Riprende
cioè una tesi di Bakunin e degli anarchici contro cui già Marx ed Engels avevano
polemizzato, come Lenin polemizza in Estremismo malattia infantile del comunismo
contro queste posizioni di Bordiga.
Per Gramsci, invece, ripeto, la rivoluzione è intesa come processo. Non sto ad
illustrare tutte le vicende dell'Ordine nuovo, le grandi lotte del ' 19, lo sciopero
dell'aprile del '20, detto lo «sciopero delle lancette », che poneva proprio la questione
dell'autorità e del potere dei consigli di fabbrica perché il padronato decise di passare
dall'ora legale, usata in guerra, all'ora solare senza avvertire i consigli di fabbrica.
Gli operai arrivarono in fabbrica e trovarono le lancette dell'orologio spostate
e fu lo sciopero. Era in gioco una questione di principio: il potere democratico del
consiglio di fabbrica. L'ingenuità fu il non aver unito alla questione altre
rivendicazioni più sostanziose che potessero legare a questa lotta le masse operaie. Fu
solo una lotta di principio che poi fini con una sconfitta grave, dopo di che la classe
padronale passò all'attacco e l'occupazione delle fabbriche fu, è vero, il momento più
avanzato della lotta, ma un momento di difesa.
Funzionarono, però, i consigli di fabbrica, diressero la produzione, tennero la
disciplina, ma nell'occupazione delle fabbriche appare chiaramente un elemento cioè
il movimento dei consigli fallisce per essere rimasto troppo torinese, non essersi
esteso alle altre regioni italiane, per essere rimasto chiuso all'interno della fabbrica, e
anche per una debolezza nel vedere un'alleanza con i contadini e soprattutto una grave
debolezza nel vedere l'alleanza con i ceti medi, tipico limite dell'Ordine nuovo.
Dalla sconfitta, quindi, del movimento dei consigli con l'occupazione delle
fabbriche si pone l'esigenza del partito, come momento unificante di tutto il
movimento a livello nazionale, cosa che Gramsci aveva visto, ma in modo
incompleto, e aveva privilegiato un movimento, aveva privilegiato i consigli rispetto
alla questione del partito stesso.
La riflessione di Gramsci, però, va oltre e nel '23, in un articolo: Che fare?
scritto per una rivista di studenti comunisti, si pone l'interrogativo: perché siamo stati
sconfitti?
Siamo stati sconfitti perché il movimento operaio non conosce il proprio
Paese, non conosce l'Italia, non è uscito fino ad oggi un libro sulle stratificazioni
sociali, sulle classi in Italia, sulla storia delle classi, non è uscito un libro sulla storia
dei partiti italiani, c'è un'infinità di domande a cui non sappiamo rispondere: perché in
Sicilia i contadini sono autonomisti e in Sardegna no, mentre in Sardegna sono
autonomisti i latifondisti e in Sicilia non altrettanto, perché dove son forti gli
anarchici sono forti i repubblicani? e così via. Non sappiamo rispondere perché non
conosciamo il nostro Paese. Eppure abbiamo un metodo, il marxismo, che Marx ed
Engels hanno impiegato per conoscere la realtà concreta. Ecco l'esigenza di usare il
marxismo non come strumento di propaganda, ma come strumento di analisi, di
comprensione della realtà.
Certo, spiegare la sconfitta del '20-21 col fatto che non si conoscesse bene
l'Italia è insufficiente, è unilaterale, è polemico, però è senza dubbio uno degli
elementi della verità.
Il gruppo dell'Ordine nuovo, alla testa del partito col '24, cercherà di arrivare
ad un'analisi dell'Italia, ad una conoscenza del processo storico italiano. Le tesi del
terzo Congresso di Lione sono un'analisi del processo attraverso cui si è formato lo
Stato unitario italiano per individuare da questa analisi concreta, storica, le forze
motrici della rivoluzione nella classe operaia del Nord e nei contadini del
Mezzogiorno e delle Isole. Si veda il saggio sulla Questione meridionale,
contemporaneo alle Tesi di Lione.
Gramsci riprende un concetto di egemonia che nel '25 aveva già usato in
polemica contro Bordiga dicendo: Bordiga non ha capito il concetto leniniano
dell'egemonia, dell'alleanza della classe operaia con gli altri ceti e soprattutto con i
contadini e si è attenuto ad una posizione astratta per cui la classe operaia deve restare
chiusa in se stessa, ha temuto che ogni alleanza fosse una contaminazione piccolo
borghese della classe operaia, per questo non ha capito l'essenziale di quello che è il
leninismo, alleanza operai contadini, costruzione dell'egemonia.
Nella Questione meridionale inoltre Gramsci pone non solo la questione
meridionale come elemento nazionale decisivo e quindi chiave della egemonia della
classe operaia, ma entra in una definizione pili precisa della egemonia. Che la
questione meridionale sia elemento decisivo della egemonia è un momento molto
importante, perché non aver capito questo aveva reso il movimento socialista
subalterno alla politica della borghesia e di Giolitti, cioè aveva accettato la politica di
Giolitti assai limitata, da un lato, e, dall'altro, riformistica senza riforme in un certo
senso, che però faceva concessioni alle cooperative del Nord, al diritto di
associazione, alla funzione dei sindacati, non interveniva come Stato nei conflitti del
lavoro, ecc., facendo pagare tutto questo al Mezzogiorno. Nel Mezzogiorno faceva la
politica della camorra, degli «ascari», cioè dei deputati che andavano in Parlamento
per votare sempre « Sì », reclutati attraverso le clientele, ecc. Il modo in cui si spezza
l'egemonia della borghesia è il modo in cui si rompe questo blocco industriale e
agrario tra la borghesia capitalistica del Nord e i grandi proprietari terrieri, latifondisti
del Sud, e si salva l'alleanza classe operaia del Nord e contadini del Sud.
A questo proposito Gramsci dice: il proletariato può diventare classe dirigente
e dominante, nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di classe che gli
permetta di mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della
popolazione lavoratrice, il che significa in Italia (nei reali rapporti di classe esistenti
in Italia): nella misura in cui riesce a ottenere il consenso delle larghe masse
contadine.
La questione delle alleanze, quindi, è vista come questione decisiva per
conquistare il dominio e la direzione, e la questione contadina viene vista come
essenziale. Ma non la questione contadina in generale (tra l'altro non esiste). La
questione contadina in Italia è storicamente determinata, non è la questione contadina
ed agraria in generale, in Italia la questione contadina ha, dice Gramsci, per la
tradizione italiana, per il determinato sviluppo della storia italiana, assunto due forme
tipiche e peculiari: la questione meridionale e la questione vaticana, cioè il rapporto
con i contadini del Sud e con i contadini legati alla Chiesa cattolica, di ispirazione
cattolica.
Ora che cosa si può dire in proposito? Si può dire che c'è un altro passo in cui
egli si richiama alla dittatura del proletariato, che l'egemonia viene vista come una
direzione che si conquista nella società civile e la dittatura del proletariato è concepita
come la forma statale, politica dell'egemonia, anzi essenzialmente come la forma.
statale.
Inserisce qui una distinzione tra società civile e Stato. Nella società civile
l'egemonia, nello Stato la dittatura del proletariato, che però in Gramsci non è così
schematica. I due momenti sono fusi e Gramsci, nei Quaderni, avverte che la
distinzione tra Stato e società civile, società politica e società civile è una distinzione
puramente di metodo, metodologica, non organica, perché in realtà questi due
elementi sono fusi. Società civile e Stato non SI separano nella realtà.
Come è noto la parola egemonia deriva da un verbo greco che significa
dirigere, guidare, condurre. Gramsci usa il termine egemonia non nel significato
tradizionale che sottolinea soprattutto il « dominio », ma nel senso originario,
etimologico, greco: «direzione », «guida ». Trae questo termine da Lenin, perché
Lenin l'aveva impiegato nel 1905 proprio per indicare la funzione dirigente della
classe operaia nella rivoluzione democratico-borghese; Lenin non lo usa più nel 1917,
quando usa ormai il concetto di dittatura del proletariato. Ma non c'è dubbio che la
capacità dirigente della classe operaia nel processo rivoluzionario congiunge nel '17
strettamente la rivoluzione democratica alla rivoluzione proletaria, in modo che la
dittatura del proletariato si assume gli obiettivi della rivoluzione democratica, quegli
obiettivi che la borghesia non sa realizzare, e nella dittatura del proletariato vengono
infatti indicati, come obiettivi primi, obiettivi democratici e non obiettivi socialisti: la
terra ai contadini, la nazionalizzazione delle banche e cose di questo tipo.
Egemonia e blocco storico
Gramsci riprende nei Quaderni il concetto di dittatura del proletariato, ma
riferendosi alla dittatura del proletariato teorizzata e realizzata da Lenin. Poiché
l'egemonia della classe operaia nella rivoluzione del 1905 fu sconfitta, significa che
Gramsci usa il termine di egemonia nel senso di dittatura del proletariato, quella
teorizzata e realizzata.
Ora Gramsci sa bene che nella dittatura del proletariato c'è il dominio e il
consenso, la coercizione e la persuasione, ma perché la chiama egemonia?
La chiama egemonia perché vuole sottolineare nella dittatura del proletariato
la funzione dirigente, la conquista del consenso, l'azione di tipo culturale e ideale che
l'egemonia deve compiere, non c'è altra spiegazione a questo diverso uso dei termini.
Sottolinea questo elemento, nella dittatura del proletariato, sia perché era quello
rimasto più in ombra, quello che si era capito di meno (si era sempre intesa la
dittatura soprattutto come violenza, limitazione delle libertà, e non come l'essenziale
capacità dirigente, come Lenin aveva sempre più sottolineato, man mano che veniva
avanti la costruzione del regime sovietico negli ultimi anni della sua vita). Gramsci
usa questo termine, la egemonia, perché egli conduce una riflessione sulle esperienze
del '19-20-21 e si pone ancora la famosa domanda: perché non abbiamo vinto?
Non abbiamo vinto, dice Gramsci, perché bisogna capire le differenze che
esistono tra una società e un potere politico come quello russo, zarista, e un potere
politico in una società come esiste in Italia e nei paesi capitalisticamente sviluppati.
La domanda - si poteva fare la rivoluzione nel '19 o nel '20? c'erano le condizioni
oggettive? non c'erano? cosa è mancato? - trova in realtà una risposta in questa analisi
di Gramsci.
Gramsci dice: in Oriente, cioè in Russia, lo Stato era tutto, la società civile
era primordiale e gelatina sa (ecco il punto); nell'occidente tra Stato e società civile
c'è un giusto rapporto e nel tremoli o dello Stato si scorgeva subito una robusta
struttura della società civile, lo Stato era solo una trincea avanzata dietro a cui stava
una robusta catena di fortezze, di casematte (più o meno diversa da Stato a Stato) ma
questo richiedeva un'accurata ricognizione di carattere nazionale.
Ecco la grande differenza: in Russia lo Stato era tutto, ed era indubbiamente
casi, in una società molto fluida, gelatinosa, non articolata, non robusta, una enorme
burocrazia zarista gestiva ogni momento della vita statale per cui quando lo Stato
andava in crisi o in sfacelo a causa ovviamente della disfatta militare e durante la
guerra del '14-18, dietro allo Stato non c'era più niente che resisteva.
In Occidente è diverso, dietro al tremolio dello Stato, e lo Stato italiano tremò
fortemente nel '19 e '20, c'era però la robusta struttura della società civile, c'era
l'apporto del capitalismo, le sue organizzazioni, la sua tenuta culturale e cosi via.
Questo, secondo me, è un tentativo di risposta di Gramsci al perché nel '19-20
siamo stati sconfitti, ma è al tempo stesso una riflessione molto più generale sul modo
in cui si pone il problema della rivoluzione in Paesi capitalisticamente sviluppati.
Di qui egli trae la necessità di una diversa strategia rivoluzionaria, dice in
altre pagine . Mentre in Russia la società civile era fluida ed embrionale, gelatinosa,
era possibile la guerra manovrata, cioè lo scontro di classe rapidamente risolutivo, in
Occidente è necessaria la guerra di posizione, che qui non significa stare fermi. 'è un
altro passo in cui con guerra di posizione Gramsci indica una relativa staticità dei
processi sociali e politici, qui non significa questo, qui guerra di posizione è la guerra
di trincea, per cui vai all'assalto delle trincee, delle fortezze, delle casematte, cioè
individui i gangli essenziali della vita sociale e statale e conduci quindi una politica
(attualizzando un po') che investe la totalità della società e che tiene conto di tutte le
complesse articolazioni della società. Cioè Gramsci pone l'esigenza di una nuova
strategia rivoluzionaria, di un modo nuovo di concepire la rivoluzione.
Questo è l'enorme passo che egli ha fatto partendo dall'Ordine Nuovo del
'19-20, attraverso La questione meridionale per arrivare ai Quaderni, perché il
problema dell'Ordine Nuovo era: come facciamo a fare anche in Italia come in
Russia? Ma il problema era fare come in Russia partendo dal movimento reale, non
astrattamente.
Nel '26 già individuiamo che cosa distingue la questione contadina in Italia
dalla questione contadina in Russia. Come noi risolviamo questo problema decisivo
della egemonia proletaria che Lenin risolse in Russia con l'alleanza con i contadini?
Qui che cosa è l'alleanza con i contadini? Qui è questione meridionale, qui è
questione vaticana che l'origina.
Nei Quaderni del carcere Gramsci pone l'esigenza di una strategia, cioè dice:
non possiamo fare come in Russia, abbiamo bisogno di una ricognizione del terreno
nazionale, cioè di una analisi concreta della situazione concreta italiana, di calarci nel
processo storico, nella originalità dei processi sociali, politici e culturali del nostro
Paese.
L'interessante è, però, che egli si riferisca a Lenin quando dice: «mi pare che
Ilic [Lenin] avesse compreso che occorreva un mutamento della guerra manovrata)
applicata vittoriosamente in Oriente nel )17) alla guerra di posizione che era la sola
possibile in Occidente», cioè Gramsci attribuisce alla tattica del fronte unico della
classe operaia, proposta dai bolscevichi, da Lenin alla Terza Internazionale, al suo
Quarto congresso del 1922, la individuazione di un tipo diverso di lotta
rivoluzionaria, di lotta di posizione. Fa dire a Lenin, a mio parere, molto di più di
quanto Lenin non volesse dire, forza il suo pensiero, lo porta oltre.
Lo porta oltre però partendo da intuizioni che in Lenin ci sono, perché vi sono
scritti di Lenin che forse Gramsci nemmeno conosceva in cui Lenin dice: in
Occidente tutti i lavoratori sono organizzati, non è come in Russia dove non c'erano
sindacati, dove i partiti avevano scarse radici, non avevano avuto una vita legale, ci
sono cooperative, sindacati, partiti, municipi, ecc. Cioè Lenin dice: « in Occidente
tutti i cittadini partecipano in qualche modo alla democrazia, non è come in Russia »,
quindi Lenin intuisce delle diversità in Occidente e propone una tattica, non una
strategia, diversa, cioè il fronte unico.
Gramsci parte da questa intuizione di Lenin e la porta, secondo me, molto
oltre e sottolinea fortemente la necessità di una ricognizione del terreno nazionale:
una classe di carattere internazionale, cioè il proletariato, in quanto guida strati sociali
strettamente nazionali e anzi spesso meno ancora che nazionali, particolaristici e
municipalistici, come i contadini, deve nazionalizzarsi in un certo senso, cioè deve
calarsi profondamente nella realtà nazionale se è internazionalista, in quanto è
internazionalista, se vuole dirigere i contadini, gli intellettuali, ecc., deve individuare
la specificità del processo rivoluzionario. Dove si vede che l'egemonia è impensabile
al di fuori della ricognizione nazionale, la egemonia è proprio la capacità di
individuare la specificità nazionale, i caratteri specifici di una determinata società,
l'egemonia è conoscenza, oltre che azione, e quindi è conquista di un nuovo livello di
cultura, scoperta di cose che non si conoscevano.
Questo nazionalizzarsi, questo calarsi nella realtà nazionale e la conquista
dell'egemonia sono in Gramsci strettamente congiunti. L'egemonia è individuazione
della tattica e della strategia nuove che si devono usare in determinate situazioni.
Come nasce in Gramsci l'idea dell'egemonia? Marx aveva detto nella
Ideologia tedesca, del 1845, che le idee dominanti in una società sono le idee della
classe dominante, cioè la classe dominante diffonde le sue idee, la sua cultura, la sua
ideologia in tutta la società. più esattamente Marx dirà nella prefazione a Per la critica
dell'economia politica del '59, che sono i rapporti di produzione, quindi il modo di
proprietà prevalente, che determinano non solo le istituzioni politiche e statali, ma il
modo di pensare, la coscienza. Il modo di produzione però - i rapporti di produzione e
il loro nesso con le forze produttive - è contraddittorio e quindi questa contraddizione,
la contraddizione che esiste nel modo di produzione capitalistico, tra classe operaia e
capitalisti per esempio, pone in discussione non solo la politica economica, le
questioni sindacali immediate, ma anche la politica e la cultura delle idee della classe
dominante.
Non appena la classe antagonistica nel sistema capitalistico, il proletariato,
assume coscienza del suo antagonismo al sistema capitalistico, elabora non soltanto
delle lotte sindacali immediate, ma anche una linea politica e una concezione del
mondo, il marxismo, l'ideale socialista, una nuova morale che contrappone ai valori
ed alla morale della società dominante. Attraverso un processo enormemente faticoso,
attraverso una piccola avanguardia, poco alla volta, cerca di strappare all'egemonia
ideale e politica della classe dominante una parte sempre più grande della classe
operaia e dei suoi alleati, contadini, ceti medi, cerca di conquistare gli intellettuali.
Ora Gramsci si chiede come si tiene insieme una determinata società, cioè un
determinato «blocco storico», un nesso di forze politiche e sociali, come si tiene
insieme questo rapporto tra la struttura economica, i rapporti di produzione e di
scambio, e lo Stato, come si può spiegare insomma che un determinato Stato, una
determinata classe dominante tenga insieme e abbia il consenso di forze i cui interessi
sono opposti.
Questo «blocco storico» trova il consenso tra gli operai, tra i contadini, i cui
interessi sono opposti a quelli della società capitalistica, non solo con l'influenza
politica, dice Gramsci, ma con l'ideologia. È l'ideologia che tiene insieme il blocco
storico, che lo salda, che consente di tenere insieme classi sociali non solo di tipo
differente, ma con interessi addirittura opposti, antagonistici. L'ideologia è il grande
cemento del blocco storico, ed è momento della sua edificazione, che non è solo
ideologica, è culturale, è politica in primo luogo, ma non può essere dissociata dal
momento dell'ideologia e delle idee.
Noi allora abbiamo un processo per cui le classi, antagoniste per interessi,
sono subalterne all'origine, Cloe non hanno una propria concezione del mondo, una
propria cultura, ma hanno assorbito la cultura delle classi dominanti, in un modo
eterogeneo, disorganico, passivo. Cosicché, il modo di pensare delle classi subalterne
è privo di organicità, di capacità critica. Le classi subalterne sono però spinte alla
ribellione, ma tale ribellione è un sussulto che non riesce ad organizzarsi in una
politica perché c'è subalternità ideale, culturale.
È necessario tutto un processo perché le classi subalterne diventino autonome,
si diano un partito, una linea politica, una concezione culturale, e allora da autonome
lottano per diventare egemoni, dirigenti. Già prima della conquista del potere possono
diventare egemoni, cioè. diffondere la propria concezione non solo politica, ma
culturale, in tutta la società.
L'egemonia si conquista prima della conquista del potere ed è una condizione
essenziale per la conquista del potere.
Il processo di egemonia è quindi un processo di unificazione del pensiero e
dell' azione perché - quando le classi sono subalterne - può esserci per esempio una
insurrezione contadina unita all'affermazione che i proprietari della terra ci sono
sempre stati, e magari sempre ci saranno, un'insurrezione che spera nel re per
sistemare le cose. Può accadere che gli operai di Pietroburgo, nel 1905, vadano in
corteo al palazzo dello zar perché lo zar intervenga e faccia finire le ingiustizie. E lo
zar pensa bene di farli mitragliare e allora gli operai cambiano idea. Prima erano
subalterni, pensavano che lo zar fosse un «piccolo padre », il padre della chiesa
ortodossa, che la soluzione delle ingiustizie dipendesse da lui.
Gramsci allora dice: c'è nelle classi subalterne una filosofia reale che è quella
della loro azione, del loro comportamento. C'è una filosofia dichiarata che vive nella
coscienza, che è in contraddizione con la filosofia reale. Bisogna sogna congiungere
questi due elementi attraverso un processo di educazione critica per cui la filosofia
reale di ciascuno, la sua politica, diventi anche la filosofia cosciente, la filosofia
dichiarata. Per giungere a quel processo di unificazione di teoria e pratica, di
costruzione di una cultura nuova, rivoluzionaria, di riforma intellettuale e morale. Le
due cose sono strettamente congiunte per Gramsci.
Gramsci riprende questo concetto di riforma intellettuale e morale ancora una
volta da Sorel, ma cambiandone completamente i contenuti. Riprende anche un tema
tipico della cultura italiana del suo tempo che si ritrova nella destra, in Alfredo
Oriani, per esempio, come nella sinistra, in Gobetti: l'idea cioè che all'Italia sia
mancato qualcosa di simile alla riforma protestante, cioè una riforma della
concezione del mondo e morale che arrivasse in profondità, nel popolo. In Italia c'è
stata invece la controriforma, il distacco della Chiesa dal popolo, la sovrapposizione
del dogma, l'irrigidimento gerarchico della Chiesa, la limitazione della libertà
scientifica, di espressione artistica, c'è stata l'Inquisizione, l'ipocrisia, che ha viziato
profondamente il carattere degli italiani, ne ha fatto dei cortigiani, ne ha fatto dei
servi.
È mancata una riforma protestante. Gramsci dice che non solo è mancata una
riforma protestante, ma è mancato qualche cosa ben di più della riforma protestante;
qualche cosa di analogo all'illuminismo francese del settecento che preparò la
rivoluzione francese, qualche cosa di simile alla rivoluzione democratico-borghese.
Gramsci aggiunge: in Italia i laici hanno fallito il loro compito che era di
diffondere una nuova concezione culturale, un nuovo umanesimo :fino agli strati più
profondi e più incolti del popolo. Come era necessario fare. Gli intellettuali
democratici laici non l'hanno fatto perché si sono mantenuti come una casta separata,
con un suo linguaggio separato, con una sua vita culturale separata. È mancato
l'elemento essenziale della costruzione democratica e di una riforma intellettuale e
morale nel nostro Paese, cosa che solo la classe operaia può fare, non la Chiesa
cattolica, perché la Chiesa cattolica tiene separati gli intellettuali e i semplici, parla
due linguaggi, uno per gli intellettuali ed un altro per i semplici, ma sta bene attenta
che gli intellettuali non rompano il rapporto con i semplici al tempo stesso.
Gli idealisti, Benedetto Croce, Gentile, hanno fatto una riforma intellettuale
per i grandi intellettuali, non per il popolo. Al popolo lasciano la religione che è la
filosofia di quelli che non hanno filosofia cosciente.
Questo processo di unificazione tra intellettuali e semplici lo può fare la classe
operaia guidata dal marxismo, grazie al marxismo, e creando nuovi quadri
intellettuali, organici alla classe operaia, che sono i suoi quadri, i suoi dirigenti.
Qui muta completamente la nozione di intellettuale, l'intellettuale non è chi
sa il latino o il greco, lo scrittore o cose del genere, l'intellettuale è il dirigente della
società, il quadro sociale. Un caporale dell'esercito anche se analfabeta è un
intellettuale, secondo Gramsci, perché dirige i soldati, un intellettuale è il capo-lega
bracciante, anche se analfabeta, come tanti lo erano al tempo di Gramsci, perché
organizza i braccianti, perché li guida, perché li educa. Questi sono gli intellettuali
secondo Gramsci, il tessuto connettivo del blocco storico, gli elaboratori della
egemonia della classe dominante la quale senza gli intellettuali non potrebbe essere
egemone, dirigente: sarebbe solo dominante e oppressiva e le mancherebbe la base di
massa, il consenso necessario per esercitare il suo dominio.
La cosa interessante è che Gramsci elabora queste idee attraverso un'analisi
del processo storico italiano. C'è sempre concretezza nel suo pensiero. Ad esempio
analizza come si sia formata in Italia l'egemonia dei liberali, come i liberali con
un'azione molecolare ed empirica abbiano assimilato, isterilito le forze repubblicane,
mazziniane, ecc., e disgregato il blocco opposto con un'opera, egli dice, di direzione
intellettuale e morale. Gramsci sottolinea l'importanza di questo momento ideale e
morale nella direzione dei liberali moderati.
Ed è qui che egli introduce il concetto di supremazia. Un gruppo sociale, una
classe ha una supremazia in quanto ha la direzione e il dominio, la classe che è
all'opposizione non ha ancora il dominio, ma deve conquistare la direzione, cioè
l'egemonia, se vuole conquistare anche il dominio e una volta conquistato il dominio
deve mantenere la direzione.
Come si presenta, quindi, per Gramsci la rivoluzione? La rivoluzione si
presenta in realtà come una c risi di egemonia, cioè come una crisi di capacità
dirigente da parte di coloro che hanno il dominio perché non riescono più a risolvere i
problemi del Paese, non riescono più a tenerlo insieme con l'ideologia. Pensate ai
processi che oggi si sono compiuti. Lo spostamento a sinistra degli studenti, pur
caotico ed anche pericoloso che sia, contiene molti elementi di individualismo
borghese esasperato - e quindi resta nel quadro dell' egemonia culturale borghese
molto più di quanto non si pensi -, ma è anche il segno della disgregazione di questa
egemonia culturale, una disgregazione che non riesce ad uscire da se stessa, che si
rigira e si tormenta intorno a se stessa. Ma che è il segno di questa crisi. Basta vedere
come le idee del marxismo si sono diffuse e si diffondono.
Qui c'è un allargamento della nozione di rivoluzione.
Marx aveva detto: la rivoluzione si ha quando le forze produttive entrano in
una contraddizione incontenibile con i rapporti di produzione. (Gramsci parte di qui,
ma vede la totalità sociale). Lenin aveva detto: la rivoluzione si ha quando la classe
dominante non riesce più a dominare, quando le classi oppresse non accettano più di
essere dirette e oppresse alla vecchia maniera e abbiamo una grande ribellione di
massa. Gramsci, in modo più preciso, la definisce la crisi di egemonia, come uno
scollarsi tra dominio e direzione, come il venir meno della direzione, quindi come una
crisi che investe tutta la totalità sociale, in cui il momento culturale, morale, ideale ha
un'enorme importanza.
Noi stiamo vivendo un momento di questo genere. Si è rotto il vecchio
blocco di potere che aveva come asse la Democrazia cristiana, è venuta meno la
capacità dirigente del vecchio blocco di potere (che è sempre stata molto limitata del
resto), non si è ancora costruito un nuovo blocco di potere che possa portare ad un
nuovo blocco storico. Blocco di potere è un'espressione che Gramsci non usa, la usa
Togliatti, intendendo la fase di preparazione di un nuovo blocco storico e di una
nuova società, di una nuova base sociale, di un nuovo tipo di Stato, di un nuovo
rapporto tra base sociale e Stato.
Il momento di questa crisi di egemonia è dunque un momento anche di crisi
ideale, di crisi culturale, di crisi morale. Gramsci dà grande valore al momento del
soggetto, della coscienza, delle idee nel processo rivoluzionario. L'egemonia è
iniziativa, è intervento sul processo e guida del proletariato, come già Lenin aveva
detto nel 1905, quando rimproverava ai menscevichi di alterare il materialismo
storico, di deformarlo perché non capivano la funzione dei partiti i quali, avendo
individuato e compreso la realtà oggettiva, intervengono nel processo per condur1o in
una determinata direzione. Lenin diceva: i menscevichi non hanno capito la prima tesi
su Feuerbach, la funzione del rapporto soggetto-oggetto. Non è a caso che Gramsci
chiama il marxismo «filosofia della prassi», usando una terminologia che fu usata da
Gentile. Però Gramsci l'usa in tutt'altro senso; non la prassi dell'intelletto, come
intendeva Gentile, ma la prassi trasformatrice, rivoluzionaria, unità di
soggetto-oggetto, intervento del soggetto sulla realtà.
Attenzione però. Gramsci parla sempre di egemonia della classe operaia,
non del partito, perché Gramsci non ha mai rinnegato l'esperienza dei consigli di
fabbrica e ritiene che la classe operaia debba darsi una molteplicità di organizzazioni
per conquistare il potere. Mai Gramsci ha pensato che la classe operaia conquisti il
potere solo col partito, essa deve avere altri collegamenti, altre organizzazioni, deve
essere presente nelle istituzioni statali oltre che di massa.
Inoltre Gramsci non mortifica mai il movimento, dice che l'elemento cosciente
deve saper depurare il movimento spontaneo da quanto c'è in esso di contraddittorio,
di arretrato, di reazionario anche, deve depurarlo e portarlo al livello della scienza
moderna, cioè del marxismo. Ma non si deve né disprezzare, né trascurare la
spontaneità, che bisogna però aiutare. Bisogna partire da quello che egli chiama il
senso comune e vedere quanto c'è di sano in questo senso comune, nelle sue
contraddizioni, nelle sue superstizioni, nelle sue posizioni arretrate.
Il partito, moderno «Principe»
È compito del partito cogliere questo elemento sano, tirarlo fuori dal guscio (il
nocciolo razionale, direbbe Marx) e portarlo al livello di una coscienza scientifica
della realtà. Il partito è il momento decisivo della formazione dell'egemonia della
classe operaia; non è possibile egemonia della classe operaia senza il partito, perché
esso è l'unificatore dell'azione e del pensiero, della filosofia istintiva, non
consapevole, presente nell'azione, e della filosofia consapevole che bisogna fare
acquisire, dando la prospettiva, dando la visione dell'insieme.
In questo senso egli chiama il partito il moderno principe, riferendosi al
Machiavelli e valorizzando enormemente Machiavelli. Un principe moderno non più
come individuo, perché nella società moderna questo non è più possibile, ma come
intelligenza e volontà collettiva, personificazione di una grande volontà collettiva: il
partito è il moderno principe.
Del partito Gramsci mette molto in rilievo l'elemento della coscienza e della
direzione. In ogni partito, secondo Gramsci, ci sono tre strati: uno di dirigenti, molto
ristretto, a livello nazionale, uno di base che aderisce soprattutto per entusiasmo o per
fede, e uno intermedio che collega questi due elementi. Senza questi tre elementi il
partito non c'è, però Gramsci dice: attenzione, con l'elemento di base voi non
formerete nulla, non formerete mai il partito; occorre l'elemento dirigente. Ovvero, un
esercito non forma il capitano, ma alcuni capitani formano l'esercito. Per Gramsci la
formazione del partito va dall'alto in basso, come per Lenin, cioè parte dal congresso,
parte dal punto più alto della consapevolezza, il che non è una visione burocratica, ma
è una visione di intervento della coscienza, della direzione sul movimento spontaneo.
Educazione del movimento spontaneo, perché tutta la concezione pedagogica di
Gramsci, dell'educazione come sforzo, come disciplina, dello studio anche come
fatica, ci dice chiaramente come egli intenda la direzione.
Il partito è il grande riformatore intellettuale e morale, quello che supera la
vecchia concezione e ne costruisce una nuova. C'è in Gramsci il superamento del
meccanicismo materialistico tipico di Bordiga, di tutto il movimento socialista da cui
lui veniva. Il suo ragionamento sul blocco storico è un ragionamento sulla totalità
sociale, su gli elementi sociali, politici e culturali: l'egemonia costruisce un
determinato blocco storico e il blocco storico si tiene insieme grazie all'egemonia,
grazie alla direzione. L'egemonia è il momento di saldatura.
Ecco quindi un'egemonia che rompe il precedente blocco storico. Rompe il
vecchio tipo di totalità sociale ormai in crisi e costruisce un nuovo tipo di totalità
sociale, anzi, direi, sociale, politica e culturale.
Dicevo che Gramsci pone l'esigenza di una nuova strategia, non di più. A
mio parere di più non poteva fare negli anni trenta: ha smesso di scrivere i Quaderni
nel '35, quando la sua malattia si era tanto aggravata da togliergli la forza fisica di
scrivere.
In questa elaborazione noi siamo andati avanti, cercando di dare una risposta
a che cosa è la strategia rivoluzionaria in paesi capitalisticamente sviluppati.
L'abbiamo cominciato a fare durante la guerra di Liberazione, parlando di democrazia
progressiva, di democrazia di tipo nuovo, come diceva Togliatti.
Secondo Togliatti non ci si poteva più rifare al modello russo della
rivoluzione perché la rivoluzione ha modi e scadenze diverse a seconda dei paesi, non
c'è un unico modello. La ricerca del nuovo modello avrebbe potuto avvenire
attraverso l'azione dei CLN (Comitati di Liberazione Nazionale) che Togliatti
valorizza quando dice: avremmo preso una strada più rapida e più sicura se avessimo
potuto mantenere in piedi i CLN. Lo afferma al quinto congresso del PCI.
Lavorando su questa indicazione di Gramsci, e non solo, lavorando sulla
realtà oggettiva, riprendendo l'esperienza della guerra di liberazione, siamo venuti
costruendo quella strategia che è, che chiamiamo la via italiana al socialismo. Questa
strategia non può grettamente rinchiudersi in una sola nazione, deve per forza avere
delle convergenze con la strategia di altri partiti, del movimento operaio in altri paesi
capitalistici. Quello che gli altri chiamano euro-comunismo è fatto di accordi tra noi e
il partito comunista francese, il partito spagnolo ed altri partiti.
Abbiamo naturalmente esteso il concetto di egemonia.Per noi l'egemonia, la
capacità dirigente della classe operaia è capacità di realizzare tutte quelle alleanze che
sono indispensabili affinché la classe operaia abbia accesso al potere in una società di
capitalismo monopolistico e di capitalismo monopolistico statale. Perciò la classe
operaia deve andare al di là dell'alleanza operai-contadini poveri (tra l'altro i contadini
oggi sono solo il 15% della popolazione, comprendendo anche quelli ricchi), ma deve
arrivare ai ceti medi delle città e delle campagne, deve arrivare al settore della piccola
e media industria. Si tratta di un sistema di alleanze assai articolate e, badate bene,
contraddittorio. perché, tra gli operai della piccola e media industria e il proprietario
della piccola e media industria c'è indubbiamente una contraddizione, una
contraddizione che noi dobbiamo indirizzare verso la contraddizione principale, come
direbbe Mao-Tse-Tung, ovvero contro il capitalismo monopolistico.
Ora alleanze sociali cosi ampie non possono che esprimersi a livello politico,
cioè in partiti politici. Questa è una cosa che Gramsci non aveva presente, per lui un
partito solo faceva la rivoluzione: il Partito comunista. Al Partito socialista bisognava
tagliare le radici. Gramsci non arrivava a questa visione cosi ampia delle alleanze,
non ci poteva arrivare.
Quale pluralismo
Per noi invece questa visione si esprime in una pluralità di partiti, e d'altra
parte le democrazie popolari ci danno un esempio di pluralità di partiti. In Polonia,
nella RDT, vi sono partiti che hanno una scarsa autonomia forse, ma esistono
realmente.
Come mandare oltre questa esperienza? Sviluppando un sistema di alleanze,
anche a livello politico, che è fatto di contrasto, che è fatto di confronto, che è fatto di
lotta. Ad 'esempio, la nostra alleanza col partito socialista è anche lotta, è anche
discussione non priva di asprezze, naturalmente. Questo sistema lo possiamo
chiamare pluralismo, pluralismo sociale e politico, assumendo un termine che non è
nostro, che è estraneo al marxismo, ma che viene dalla sociologia cattolica e dalla
sociologia americana.
La sociologia cattolica intende per pluralismo una pluralità di istituzioni che si
equilibrano l'uno con l'altra: la famiglia, la Chiesa, lo Stato, la scuola e cosi via. Il suo
pluralismo è fondato sull'interclassismo, cioè sulla collaborazione tra classe operaia e
capitalisti e sul superamento della contraddizione tra l'una e gli altri.
La sociologia americana dice: il pluralismo è una pluralità di istituti che
impedisce a una sola forza di avere l'egemonia, il dominio, la prevalenza.
Per noi il pluralismo è invece un'ampiezza di alleanze sociali e politiche tale
da isolare il grande capitale monopolistico, la sua logica e la logica da cui oggi è
dominato il capitalismo di Stato in questa società, 1ìno a sconfiggerlo. Cosi si realizza
il vero pluralismo, perché noi diciamo che fino a quando esiste il grande capitale il
pluralismo reale nella società non ci sarà mai, sarà sempre apparente.
La nostra Costituzione è pluralistica, ma il pluralismo reale della nostra vita è
apparente. Invece vi è il monopolio dei mezzi di informazione, dell'economia e cosi
via.
Ad esempio il pluralismo della società americana nasconde la realtà di una
società in cui il potere economico e politico è al massimo grado concentrato, e la
partecipazione democratica dei cittadini è puramente formale. In realtà, devono votare
per due partiti che si confondo l'un con l'altro, che si mescolano, non si sa bene che
differenza ci sia tra democratici e repubblicani. A volte i democratici su certe cose
sono d'accordo con i repubblicani, su altre sono d'accordo solo con certi
repubblicani. Si può dire che negli Usa ci sia un pieno trasformismo. Un reale
pluralismo si ha quanto più si batte il capitalismo, quanto più si avviano forme di
autogoverno della società, di partecipazione. Il nostro pluralismo è anche statale, di
istituzioni statali e sociali. L'autonomia del sindacato, poi, è un momento decisivo.
Quando diciamo pluralismo delle istituzioni statali intendiamo parlamento, regioni,
comuni autonomi, comprensori, consigli di quartiere o di circoscrizione, sino ad
arrivare ai consigli di fabbrica che non sono un istituto statale, ma sono sanciti dai
contratti e riconosciuti dallo Statuto dei lavoratori. Perciò pluralità di istituzioni
sociali e politiche. Inoltre l'autonomia dei sindacati significa che il pluralismo è già
dentro la classe operaia, che esso non caratterizza semplicemente il rapporto della
classe operaia con forze sociali non proletarie e il rapporto del Partito comunista con
partiti non proletari, ma che vive nella classe operaia. Infatti nella classe operaia ci
sono i comunisti, ci sono i socialisti, ci sono anche i democristiani, c'è anche il
sindacato autonomo, c'è il consiglio di fabbrica, che ha anche esso una sua dialettica
nei rapporti col sindacato e coi partiti.
Il pluralismo vive nella classe operaia e per questo può attuarsi nella società.
Egemonia nel pluralismo, dunque, e non: egemonia e pluralismo, come diceva bene
Ingrao, e fra i due termini c'è un rapporto dialettico. Più egemonia c'è, e più c'è
pluralismo, non come confusione di forze, ma come forma di lotta, la più ampia, la
più acuta, la più caratterizzata dal punto di vista di classe oggi. D'altra parte, senza
pluralismo non si ha egemonia, ma isolamento della classe operaia e suo ritorno a
posizioni subalterne. Di tale nesso dialettica tra i due termini i nostri avversari
ovviamente non capiscono nulla, e dicono: se parlate di egemonia non potete parlare
di pluralismo, e viceversa.
Dal punto di vista della sociologia cattolica e americana hanno ragione, ma
noi usiamo questo termine con tutt'altro significato. Legato a questo si pone anche il
tema della dittatura del proletariato. Come ci collochiamo?
Quando i socialdemocratici escludevano la dittatura del proletariato, e anche
Kautsky la escluse dopo la rivoluzione d'Ottobre, in realtà dilatavano una concezione
della democrazia tale per cui nell'esercizio della democrazia si arriva al socialismo,
ma smarrivano la questione dell'autonomia e dell'egemonia della classe operaia,
concepivano il processo come puramente elettorale e non come un'egemonia che
rompe il blocco avversario, che aggrega e costruisce un nuovo fronte, quindi
un'egemonia fondata sull'iniziativa e sulla lotta.
Noi abbiamo parlato di dittatura del proletariato nella Dichiarazione
programmatica del nostro VIII congresso, nel '56, per sottolineare come cambino le
forme della dittatura del proletariato a seconda dei paesi. Abbiamo mantenuto il
concetto, ma abbiamo sottolineato questo elemento: cambiano le forme.
Abbiamo ripreso questo concetto al decimo congresso, nel '62, per
sottolineare che della dittatura del proletariato emerge sempre di più l'elemento della
direzione e del consenso. In seguito non abbiamo più ripreso questa nozione,
l'abbiamo lasciata cadere.
Mi chiedo se sia compito dei documenti del partito affrontare questa questione
tipicamente teorica o se invece non si debba sviluppare la discussione e il dibattito a
livello teorico su questo problema.
Ad ogni modo la mia opinione, che altri possono naturalmente confutare, è
che la nozione della dittatura del proletariato è nella situazione italiana
dialetticamente superata, il che può voler dire assunta ad un livello superiore.
Cosa significa? Significa che la classe operaia deve, at· traverso tutto un
processo (oggi un accordo programmatico, poi un governo unitario), costruire un
nuovo blocco di potere in cui essa sappia avere una funzione dirigente.
D'altra parte, un nuovo blocco di potere o si costituisce sotto la direzione della
classe operaia o non si costituisce.
Blocco di potere certamente contraddittorio dal punto di vista sociale e
politico che dovrà saper risolvere le sue stesse contraddizioni in modo progressivo se
ne sarà capace. L'egemonia si conquista, la direzione si conquista ogni giorno.
Ecco allora che è il blocco di potere ad esercitare la coercizione sulla società
attraverso la legalità dello Stato. L'elemento della coercizione non può essere
eliminato, non si costruisce il socialismo senza coercizione, anche dura, ma essa
viene esercitata dal blocco del potere, non direttamente dalla classe operaia.
Del resto anche nella concezione di Lenin e nella realtà, la classe operaia ha
esercitato la coercizione contro i nemici di classe e non verso i contadini poveri, non
verso gli intellettuali. Lenin diceva: gli specialisti li dobbiamo conquistare, qui la
coercizione non serve, li dobbiamo convincere a lavorare per noi, bisogna pagarli
molto, ecc. ecc. Anche allora nel blocco di potere c'è un elemento di consenso e un
elemento di costrizione.
Se si allarga il blocco di potere, come da noi deve allargarsi, si allarga anche
la sfera del consenso, ma di un consenso molto travagliato, ottenuto con le lotte, tra
contrasti, anche, tutt'altro che scontato. L'altro elemento è che non solo la classe
operaia non esercita direttamente la coercizione, ma non impone nemmeno il suo
modello di Stato a tutta la società. Nella rivoluzione russa è avvenuto questo: i Soviet,
che sono un istituto tipicamente operaio, nato dal movimento operaio russo, si sono
estesi ai contadini e ai soldati, e poi son diventati l'istituto statale. La classe operaia ha
creato cioè la società a sua immagine e somiglianza, per riprendere una frase biblica,
cioè ha impresso la sua visione statale su tutta la società.
Noi questo non lo facciamo e non lo proponiamo, noi assumiamo il
parlamento dalla storia della democrazia ateniese, noi assumiamo i comuni, le stesse
regioni derivano da una tradizione non nostra, e introduciamo, come elementi nostri
invece, i consigli di fabbrica, il decentramento nei quartieri e cosi via, i quali sono gli
elementi di una democrazia diretta che supera il parlamentarismo.
In questo senso allora mi pare che non si possa parlare di dittatura del
proletariato, perché della dittatura del proletariato cade un elemento: la coercizione
esercitata direttamente dalla classe operaia nelle sue forme e nei suoi modi. La
coercizione resta ma è di tutto il blocco di potere che esercita anche la direzione sulla
società, non sola la coercizione.
Inoltre all'interno del blocco di potere la classe operaia deve sapere esercitare
la sua funzione dirigente per costruire lo stesso blocco di potere, per tenerlo insieme,
per trasformarlo in senso progressivo. Mano a mano che si va avanti nel senso del
socialismo, anche il blocco di potere si trasforma e diventa più avanzato, più
omogeneo dal punto di vista di classe e cosi via.
Allora si mantiene della dittatura del proletariato questo elemento essenziale:
l'autonomia e l'egemonia o direzione della classe operaia, superando l'altro elemento,
lo elemento della coercizione inquadrandolo in un ambito più ampio.
Questa è soltanto la mia opinione in proposito.