MAURIZIO FIORAVANTI SOVRANITÀ E FORMA DI GOVERNO Com’è noto, i costituenti italiani del 1947 scelsero una forma di governo di tipo parlamentare. Essi scelsero cioè di fondare l’autorità, la legittimazione, e l’esistenza stessa del governo sulla presenza di una maggioranza parlamentare che quel governo esprime e sostiene. Per comprendere bene questa scelta, ed il suo significato storico-politico, è necessario ricostruire la cultura costituzionale dei nostri costituenti, e prima di tutto l’immagine che essi possedevano del parlamento come luogo di realizzazione del principio democratico di sovranità del popolo. La questione della forma di governo, della maggioranza parlamentare come fondamento del governo, richiama così subito la grande questione della sovranità, del parlamento come espressione della sovranità popolare. La nostra costituzione è infatti una delle costituzioni democratiche dell’ultimo dopo guerra, caratterizzata, come la costituzione francese del 1946 o quella tedesca del 1949, dalla affermazione del principio di sovranità popolare. Si legge nel primo articolo della nostra costituzione, comma secondo: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Ma quale “sovranità” in concreto, ed entro quali “forme”, e quali “limiti”? Non si tratta affatto di questioni astratte. Al contrario, senza rispondere a queste domande -come progressivamente vedremo-, è praticamente impossibile comprendere il significato della scelta italiana per il governo parlamentare, ed ancor più il tipo di forma di governo che in concreto si è avuto nella nostra storia costituzionale repubblicana. Ed infine: senza tutto questo si rimane anche sprovvisti di strumenti seri di analisi nel nostro agitato presente, in cui -com’è noto- proprio a quel particolare tipo di governo parlamentare sono ricondotti assai spesso molti dei mali che affliggono la nostra Repubblica1. Iniziamo dicendo questo: la sovranità popolare cui pensavano i nostri costituenti non era affatto quella giacobina e radicale che era a loro nota soprattutto attraverso il ricordo della fase più intensa, ed acuta, della rivoluzione francese. Quella particolare versione della sovranità popolare si era espressa in modo mirabilmente sintetico nell’articolo ventottesimo della Dichiarazione dei diritti giacobina del 1793: “Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare, cambiare la propria costituzione”. Una formulazione di questo genere non poteva essere accettata dai costituenti italiani, ed in genere nell’ambito delle costituzioni che si producevano alla fine della guerra, dopo le tragiche esperienze di tipo totalitario. Due erano i motivi in particolare che rendevano inaccettabile quella idea cosi forte, ed estrema della sovranità popolare. In primo luogo, era inaccettabile l’idea che la costituzione, cui era ora affidata la protezione dei diritti fondamentali, potesse essere cambiata “sempre” secondo la lettera dell'articolo sopra citato, cioè “ad ogni momento”, ogni volta che il popolo sovrano non la ritenesse più conforme alla propria volontà. Dopo la tragedia della guerra e degli stermini di massa era necessario mettere alcuni punti fermi, fissare alcuni principi, come quello della inviolabilità dei diritti fondamentali, che le nuove costituzioni intendevano porre al di là di ogni espressione di carattere volontaristico, di ogni manifestazione di volontà politica, per quanto legittimata dal basso in nome della sovranità del popolo. Troviamo quindi un primo significato del già citato articolo primo, comma secondo, della nostra costituzione: la sovranità “appartiene” sì al popolo, ma il suo esercizio sta dentro i “limiti” dati dalla costituzione, poiché in essa si trovano i principi ed i valori fondamentali comunemente condivisi, che nessuno può violare. In una parola, nessuno è padrone della costituzione, neppure il popolo sovrano. Ma c’è anche una seconda ragione della profonda avversione dei nostri costituenti per la concezione radicale della sovranità popolare, ed è quella che forse più ci interessa, perché più vicina alla nostra problematica della forma di governo. Com’è noto, quella concezione era indissolubilmente legata alla grande idea della Una buona ed equilibrata ricostruzione delle discussioni italiane in materia di riforme costituzionali è in A. BARBERA-C. FUSARO , Semipresidenzialismi, a cura di A. Pegoraro ed A. Rinella, Padova, Cedam, 1997. 1 democrazia diretta, della inalienabilità della sovranità popolare, secondo la celebre formula di Rousseau. Per questo, in una costituzione radicale si scrive sempre a chiare lettere che la sovranità “risiede” nel popolo, per indicare che essa è stabilmente nella titolarità del popolo, che può solo delegarne provvisoriamente l’esercizio, ma solo a condizione di operare un controllo continuo, di poter revocare ad ogni momento quelli che sono semplicemente “mandatari”, o “agenti”, del popolo sovrano. Una concezione di questo genere era evidentemente inconciliabile con le esigenze delle democrazie che si dovevano ricostruire dopo la guerra. Quelle democrazie avevano infatti in primo luogo il problema della sicurezza, della stabilità: non solo sotto il profilo già precedentemente visto dei limiti, della inviolabilità di alcuni valori e principi fondamentali, ma anche da questo secondo punto di vista della stabile e permanente legittimazione dei poteri costituiti, dei poteri che le nuove costituzioni stavano istituendo. Il primo tra questi poteri era ovviamente il legislativo, il parlamento, cui si voleva attribuire una forza ed una centralità ben maggiore di quella che risultava dall’essere una semplice assemblea dei mandatari e degli agenti del popolo sovrano, come nel modello radicale. Tutto questo spiega perché molte delle pagine della nostra Assemblea Costituente siano percorse da un vero e proprio timore nei confronti della espressione diretta di sovranità da parte del popolo 2 , o anche perché la formula più ricorrente, anche nella pubblicistica di partito, sia quella della Repubblica parlamentare3. Nel DOC. 1 si riproduce parte delle discussioni svoltesi in seno alla Commissione per la Costituzione, in data 22 e 24 gennaio 1947, sul primo articolo della Costituzione. Da notare l’intervento dell’onorevole Lucifero, appartenente all’ala destra della Costituente, che provocatoriamente propone la formulazione radicale della sovranità che “risiede” nel popolo, suscitando la reazione dei rappresentanti di tutte le forze politiche (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea Costituente, Camera dei Deputati, Segretariato Generale, Roma, 1970, vol. II°, pp. 138 e ss. e pp. 161 e ss.). 2 Nel DOC. 2 si riproduce il “Programma del Partito Comunista per la Repubblica democratica dei lavoratori”, scegliendo di proposito un partito che avrebbe dovuto essere legato, sulla base di certe genealogie storico-ideologiche, alla versione radicale e giacobina della sovranità popolare. La genealogia in questione è ben visibile nel testo per ciò che riguarda il primato della politica in funzione di riforma sociale, ma non per la forma costituzionale, poiché su questo piano l’essenziale è che la pubblica venga 3 Torniamo dunque al nostro primo articolo della Costituzione: le “forme” entro cui deve ricondursi l’esercizio della sovranità popolare sono evidentemente prima di tutto quelle rappresentative-parlamentari. Si potrebbe quindi sostenere, quasi a mo’ di conclusione: il popolo è sovrano perché liberamente elegge un parlamento che lo rappresenta. Le cose non erano pero affatto cosi semplici. I nostri costituenti infatti non intendevano -come già abbiamo visto- correre i rischi insiti nel modello radicale, nelle pratiche della democrazia diretta, nella idea stessa della sovranità del popolo sulla costituzione e sui poteri costituiti, ma nello stesso tempo avevano anche un altro pericolo da evitare, sul versante opposto: quello di ricadere nella vecchia idea liberale ed ottocentesca della sovranità del parlamento, dietro cui scompariva del tutto la figura del popolo sovrano. Ed infatti tra i nostri costituenti era quasi unanime la volontà di superare i confini, ritenuti angusti, del modello liberale ottocentesco, in cui il parlamento era sì centrale, ma solo in quanto espressione della astratta ragione della nazione, che si rendeva concreta solo grazie al ruolo determinante delle aristocrazie borghesi, designate mediante pratiche elettorali ristrette e censitarie. Dunque, contro l’idea radicale della sovranità del popolo si afferma la forza, la centralità, ed in qualche modo anche l’autonomia del parlamento, ma solo a condizione che quest’ultimo raffigurabile in modo sostanzialmente diverso dal passato, come luogo di autentica rappresentazione del popolo sovrano. Da questo vero e proprio dilemma si usci grazie allo straordinario e determinante ruolo che i nostri costituenti attribuirono ai partiti politici. Ed in effetti che cosa differenziava nel profondo il parlamento che si doveva costruire dai parlamenti liberali e borghesi del secolo precedente? Sarebbe facile rispondere: il suffragio universale, maschile e femminile. Certo, non si tratta di una differenza di poco conto, ma non è tutto, e sarebbe anzi riduttivo far coincidere il nuovo principio democratico con l’affermazione piena ed irreversibile del suffragio universale. La verità è che la differenza più profonda, la novità più forte, è data dalla presenza dei partiti politici, dal fatto che essi pretendono ora di essere molto di più di semplici associazioni di cittadini, o di raggruppamenti parlamentari più o meno stabili. I partiti sono ora intesi come vere e proprie organizzata “su base parlamentare”. Il documento sta in 1946. La nascita della Repubblica, a cura di M. Ridolfi e N. Tranfaglia, Bari, Laterza, 1996. istituzioni politiche, nel senso che la democrazia è caratterizzata nel profondo dalla loro presenza. La costituzione stessa si è resa possibile, come noto, perché il popolo italiano si e organizzato in partiti, e questi hanno saputo disciplinare le molteplici spinte presenti in quel momento storico, riconducendole a soluzioni di ordine e livello costituzionale, trovando nei principi costituzionali la definizione dei necessari punti di equilibrio e di convergenza. Ma c'è di più, ed è ciò che più ci interessa: i partiti non sono solo i protagonisti della fase eroica, della travagliata uscita dal precedente regime, della fondazione, essi sono soprattutto ciò che servirà alla democrazia italiana per esistere come tale e rafforzarsi nel tempo, per rendere concreto il principio della sovranità popolare. Questo ruolo forte, ed ambizioso, dei partiti politici è forse ciò che caratterizza più nel profondo, ed attraversa in senso orizzontale, la discussione dei nostri costituenti, da Lelio Basso a Palmiro Togliatti, ai rappresentanti del mondo politico cattolico, fino alla stessa cultura giuridica, a questo livello rappresentata soprattutto da Costantino Mortati4. Torniamo ora, alla luce di tutto questo, alla grande idea della centralità del parlamento. Come si vede, c’è ben più della affermazione del suffragio universale o della ovvia, netta e decisa riaffermazione di quelle prerogative parlamentari che il fascismo aveva cancellato. C’è la convinzione che grazie all’opera che i partiti sapranno svolgere nella società, al loro lavoro di organizzazione e sintesi della grande complessità degli interessi sociali ed economici, si avrà un parlamento completamente nuovo, del tutto trasformato dalla nuova democrazia dei partiti, che sarà molto di più del luogo deputato allo svolgimento della funzione legislativa. Esso sarà anche e soprattutto il luogo in cui i partiti medesimi renderanno visibili e presenti le idealità e gli interessi esistenti nella società italiana. Quegli interessi non saranno semplicemente e meccanicamente riprodotti e trasferiti in parlamento, perché il compito dei partiti è anche quello di filtrare, di selezionare, di predisporre alla sintesi politica, ma alla fine è nel Si segnala qui l’imminente pubblicazione degli Atti del Convegno del 1921 Ottobre 1995 su Le idee costituzionali della Resistenza, in cui il tema del partito politico ha avuto largo spazio. Uno dei massimi costituzionalisti italiani, Vezio Crisafulli, già nel 1966 criticava per altro l’ormai evidente decadenza del ruolo dei partiti politici voluto ed immaginato dai nostri costituenti. Il DOC. 3 sta in V. CRISAFULLI, Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, Giuffré, 1995. 4 parlamento che tutto questo lavoro confluisce; ed il parlamento è di conseguenza centrale nel sistema politico perché è lì, e non altrove, che diviene presente e visibile la società italiana come dato complesso, organizzato per il tramite dei partiti. Questa società, sul piano politico-costituzionale non più pensabile senza i partiti, finisce per coincidere con la tradizionale figura del popolo sovrano, ed il cerchio si chiude: il parlamento e centrale perché in esso si rende presente e visibile il popolo sovrano. Tutto questo costituisce anche la radice più profonda, di ordine culturale, della straordinaria concordanza dei nostri costituenti a favore del metodo elettorale proporzionale. Se i partiti non sono semplici strumenti di organizzazione, ma -come sopra si diceva- vere e proprie istituzioni politiche, stabilmente presenti nel tessuto concreto della vita democratica, e se ciascuno di quei partiti, per il fatto stesso di esistere, esprime un aspetto, un lato, un’inclinazione o tendenza, presente nella società ed in seno al popolo sovrano, qualsiasi meccanismo di carattere maggioritario, che tende a ridurre la complessità della rappresentanza parlamentare, o addirittura ad eliminare dal parlamento uno o più di quei partiti, è certamente inammissibile, e tale era per i nostri costituenti. Da un parlamento che pretendeva di rappresentare la totalità del popolo sovrano non poteva essere eliminata alcuna forza, per quanto piccola, che in quel popolo fosse presente ed attiva. C’è poi un’altra conseguenza di questa grande idea-guida della centralità del parlamento, ed è quest’ultima che ancor più ci avvicina alla nostra problematica della forma di governo. Se il parlamento non è semplicemente uno dei poteri costituiti, istituiti e legittimati dalla costituzione il potere per eccellenza, l’unico in definitiva chiamato a realizzare il principio-cardine della sovranità popolare, ogni tentativo di dare forza e consistenza propria all’altro grande potere presente nelle democrazie contemporanee, il potere esecutivo, diviene fragile e discutibile. Non che i nostri costituenti non fossero sensibili nei confronti di questo problema, anche a noi ormai ben noto sotto il profilo pratico-operativo della stabilità dell’esecutivo e della efficacia della sua azione. Anzi, le discussioni alla Assemblea Costituente tornano più volte su questo punto, proponendo svariate soluzioni, che in seguito sono tornate decisamente alla ribalta, con formulazioni ormai a tutti note: la sfiducia c. d. costruttiva, o la fiducia c. d. presunta, o comunque particolari modalità nella proposizione dell'una o dell'altra. Ma è come se nella discussione alla Costituente esistesse una sorta di meccanismo implicito, che inesorabilmente faceva cadere tutte queste proposte di razionalizzazione del governo parlamentare e di stabilizzazione dell’esecutivo, pur essendo viva in tutti, o quasi, la consapevolezza del problema. Noi pensiamo ora di poter indicare la ragione, più o meno segreta, di tutto questo. La verità è che i nostri costituenti pensavano che esistesse un solo potere chiamato a mantenere viva, e realizzare, la grande idea motrice della sovranità popolare, e che questo potere fosse quello del parlamento. Il governo, in questa logica, nient'altro è che la proiezione istituzionale del potere-base insito nel parlamento, e non si traduce affatto in un vero e proprio potere, in qualche modo paragonabile a quello del parlamento, e quindi da riconnettere anch’esso, come potere distinto, al principio democratico della sovranità popolare. Anzi, i nostri costituenti vedevano con sospetto ogni tentativo di porre l’esecutivo a contatto diretto con il popolo sovrano, di definire la sovranità popolare come il potere d’indicazione dell’indirizzo politico di maggioranza da parte del popolo. In ciò essi vedevano una pericolosa messa in discussione della loro convinzione più profonda: che le maggioranze che si formavano in parlamento attraverso la mediazione dei partiti fossero per definizione le più conformi possibili alla volontà del popolo sovrano, per il fatto stesso di prodursi in parlamento, nel luogo in cui la sovranità popolare si realizzava, proprio grazie al ruolo decisivo dei partiti. La crisi della costituzione italiana, di cui oggi tanto si discute, è tutta qui, coincide con la ben nota crisi del sistema dei partiti, che sembra aver perduto gran parte della sua capacità di esprimere, attraverso l’istituzione parlamentare, il principio-guida della sovranità popolare. Senza quella forza originaria legittimante data dal sistema dei partiti, su cui tanto confidavano i nostri costituenti, la semplice designazione parlamentare che sta alla base del governo è apparsa fatalmente sempre più fragile, sempre più frutto di pure mediazioni di carattere più o meno contingente, che non a caso hanno dovuto far ricorso più volte, alla ricerca di un supplemento di legittimazione, all’argomento mai tramontato del governo dei tecnici, delle competenze specialistiche. Si è trattato tuttavia di soluzioni provvisorie, perché in democrazia è fatale il riemergere continuo della problematica della legittimazione del governo sulla base del principio della sovranità popolare. Se questa legittimazione non può più essere data per intero dal parlamento, perché questo non può più pretendere di rappresentare il popolo sovrano nel senso forte, immaginato e voluto dai nostri costituenti, è assai probabile che il bisogno di fondamento democratico del governo cerchi soddisfazione ritornando alla base, allo stesso popolo sovrano. Se si vuole rimanere nei confini del governo parlamentare, è allora necessario che la maggioranza parlamentare su cui si fonda il governo non sia semplicemente quella possibile in un determinato momento in parlamento, ma la maggioranza che corrisponde alla scelta di base a suo favore da parte del corpo elettorale, di cui il parlamento in sostanza prende atto. Questo è il cuore del problema che abbiamo di fronte: consiste nel passaggio storico dal parlamento come rappresentazione organica della totalità del popolo sovrano al parlamento come rappresentazione della esistenza nel popolo sovrano di due indirizzi fondamentali, uno di maggioranza, ed uno alla prova elettorale risultato minoritario. Ma un risultato di questo genere arriva per l’appunto al termine di un processo che ha natura storico-politica, e non può essere prodotto artificialmente, con riforme ispirate a “modelli” più o meno coerentemente scelti. Quel risultato presuppone una profonda trasformazione del ruolo dei partiti politici, non più gestori attraverso la mediazione parlamentare di vere e proprie “quote” della sovranità, ad essi attribuite dall’esito della competizione elettorale, ma componenti di coalizioni vincolate nel loro complesso alla realizzazione di quei programmi che sono stati presentati al corpo elettorale. Una trasformazione di questo genere e di prevalente carattere sociale e politico, attiene al modo di concepire il ruolo e la presenza dei partiti nella società, prima ancora che nelle istituzioni, può essere favorita da determinate regole sul piano elettorale, ma non può essere determinata e prodotta dal puro dato formale della vigenza di nuove regole costituzionali. C’è solo un altro modo di rivalutare e salvare il governo parlamentare, che era ben chiaro anche ai nostri costituenti. Questi posero sì il fondamento del governo nella maggioranza presente in parlamento, ma confidavano anche nel ruolo d’influenza, di mediazione, di arbitrato che avrebbe svolto il Presidente della Repubblica. C’era una consolidata tradizione europea del governo parlamentare che in questo senso li confortava: quella particolare forma di governo aveva infatti avuto in Europa, ed anche in Italia, una fondamentale struttura dualistica, entro cui il governo era espressione della maggioranza parlamentare, ma anche frutto della approvazione e del sostegno, più o meno diretto, del Capo dello Stato, allora della monarchia. È quindi un luogo comune quello che vuole che i nostri costituenti abbiano inteso creare un Presidente debole. Essi intesero piuttosto creare un governo parlamentare a maglie larghe, affidato per la sua effettiva determinazione alla pratica applicativa, entro cui il parlamento avrebbe dovuto essere sufficientemente libero nella individuazione della maggioranza di governo, ma in cui anche il Presidente avrebbe dovuto occupare uno spazio consistente, dedicato all’esercizio del proprio potere d’influenza5. È in effetti ciò che poi di fatto e accaduto. Alla prova dei fatti, l’istituzione presidenziale si è rivelata in Italia tutt’altro che debole, tant’è che non di rado , anche in tempi recenti, i Presidenti hanno in sostanza attribuito ai governi quel supplemento di legittimazione di cui essi spesso erano carenti. L’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, che si ritrova oggi nella bozza di riforma approvata dalla Commissione bicamerale, è sul piano storico l’ultimo anello di questa catena, ed ha in questo senso profonde radici nella storia del governo parlamentare come forma di governo di carattere dualistico, che si afferma sul piano storico sulla base di una doppia legittimazione, da parte della maggioranza parlamentare e da parte del Capo dello Stato. L’elezione popolare diretta del Presidente rappresenta in questo senso il tentativo di ricercare, per questa via, quel supplemento di legittimazione di cui il governo parlamentare ha bisogno, e non il principio fondante di un’altra forma di governo, vagamente definibile come presidenziale. Esclusa, com’è noto, la soluzione del governo presidenziale, è soprattutto in questa chiave che si discusse ripetutamente alla Costituente del ruolo del Presidente, ed anche della ipotesi di una sua elezione popolare diretta. Si veda il DOC. 4, in particolare con riferimento alle sedute del 12 marzo, del 19 settembre e del 22 e 23 ottobre 1947 (La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori, cit. , vol. I°, pp. 349 e ss. , e vol. 1V°, pp. 2952 e ss. e pp. 3465 e ss. ). 5 Ma anche questa via, come quella precedente della investitura popolare dell'esecutivo, non è affatto percorribile in astratto, non può risultare dalla meccanica applicazione di un qualche modello preventivamente assunto come ottimale. Essa presuppone che l’insieme degli attori politici, ed in particolare il sistema dei partiti, non interpreti, e concretamente utilizzi, l’elezione del Presidente in chiave antiparlamentare, come se si trattasse della manifestazione di una volontà popolare di ordine e qualità “superiore” rispetto alla volontà che si esprime nella elezione del parlamento. È necessario anzi che la riforma costituzionale sia sorretta da una vera e propria convenzione tra le forze politiche, che le impegni a non considerare il Presidente come portatore di un indirizzo proprio, come tale immediatamente contrapponibile a quello che si esprime nelle elezioni politiche del parlamento. Non è poco, ed è soprattutto materia affidata direttamente agli attori politici, su un terreno scarsamente predeterminabile da regole formali che possano dirsi con sicurezza portatrici di risultati univoci, come tali garantiti dalla semplice vigenza della regola. Come ben si vede, ancora una volta la riforma costituzionale si colloca in uno spazio che solo parzialmente è coperto dalle regole formalmente intese, e dai modelli. Ciascuna regola, e ciascun modello, vale in rapporto alle intenzioni effettive dei soggetti politici che propongono le une e gli altri, che concretamente sono e saranno chiamati ad operare: ancora una volta, la natura di ciascuna forma di governo, e dei processi di riforma di ciascuna di esse, appartiene in senso profondo al campo della storia politica e costituzionale.