1 - Unifr

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La prospettiva teologica della dottrina sociale
2. 3. Il Vaticano II
1. Cristo e l’uomo
Il Concilio ha voluto occuparsi a lungo della questione antropologica, evidenziando
come l’humanum contenga un’invocazione costante del divinum. Nella costituzione
Gaudium et Spes (GS) sviluppa un’attenta riflessione in tal senso.
1. 1. Le grandi domande e Cristo
L’uomo esperimenta in mille modi i suoi limiti e, nello stesso tempo, si accorge di
essere senza confini nelle sue aspirazioni e “chiamato ad una vita superiore” (GS 10). Si
pone domande cruciali: chi sono io? Che significato ha la vita? Perché la sofferenza? Etc. Il
Concilio ricorda che la risposta alle domande di senso e, ancora di più, la verità sull’uomo si
trovano solo in Cristo. Egli «dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per
rispondere alla suprema sua vocazione». La verità sull’uomo è, dunque, posta all’interno di
una vocazione, cioè del progetto eterno del Padre.
Solo Cristo Signore può svelare il mistero dell’uomo, perché è il «Signore e Maestro,
la chiave, il centro e il fine dell’uomo nonché di tutta la storia umana» (GS 10). Egli è il
fondamento ultimo del reale, lo stesso, ieri, oggi e nei secoli. È «Immagine del Dio
invisibile, Primogenito di tutte le creature» (GS 10) e in Lui la Chiesa intende muoversi per
illustrare a tutti, cristiani e non credenti, «il mistero dell’uomo e per cooperare nella ricerca
di una soluzione ai principali problemi del nostro tempo» (GS 10).
1. 2. Cristo svela l’uomo e la sua vocazione
L’antropologia, ricca e complessa1, giunge al suo culmine nel celebre paragrafo 22
della Gaudium et Spes:
"In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo,
che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche,
pienamente, l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione"
Cristo è presentato come la vera risposta alla domanda di partenza (GS 12); in tal
modo antropologia e cristologia appaiono strettamente unite, forse come mai prima 2.
Occorre tuttavia precisare che il Concilio non intende, a questo punto, esporre la dottrina
rivelata su Gesù Cristo, ma soltanto in quanto essa illumina il mistero dell'uomo: «In realtà
solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo».
1. 3. Cristo si è fatto uno di noi
Chi è Cristo secondo questo testo? Innanzitutto, Egli è vero uomo, in quanto ha
assunto, senza annientarla, la natura umana. Pertanto
"ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà
d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria vergine, Egli si è fatto
veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato"(GS 22).
1
Rimando al mio precedente studio: cfr. M. DOLDI, Fondamenti cristologici della morale in alcuni autori
italiani. Bilancio e prospettive, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, 50 – 55.
2
Cfr. J. RATZINGER (ed)., «The Church and Man's calling», in AA.VV., Commentary on the documents of
Vatican II, vol. V, New York 1969, 159.
1
In tale maniera il Vaticano II recupera gli insegnamenti cristologici dei primi concili
(per es. Nicea e Calcedonia), che avevano definito la realtà della natura umana del Verbo 3;
esso, però, richiama non la visione metafisica delle antiche definizioni di fede, ma una
visione più esistenzialista, più concreta: si è fatto veramente come uno di noi. Gesù Cristo,
pur essendo immune dal contagio del peccato originale, ha assunto una carne umana
profondamente inserita nel peccato.
Inoltre, Gesù Cristo è considerato come il Redentore venuto a restaurare l'immagine
di Dio deformata dal peccato: «ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa
deforme già subito agli inizi a causa del peccato» (GS 22). Agnello innocente ha sparso il
suo sangue per riconciliarci con Dio e strapparci dalla schiavitù del diavolo. Mediante il
mistero pasquale Cristo comunica al cristiano il dono dello Spirito, che lo rinnova
interiormente e lo rende capace della vita eterna.
1. 4. Essere uomini in pienezza
Alla luce di queste affermazioni si comprende anche chi sia l'uomo; egli, mediante
l'incarnazione, è stato raggiunto da Cristo in un modo così profondo da essere
costantemente orientato verso di lui; se, poi, accoglie la sua venuta, diviene cristiano e in lui
si manifesta l'immagine del Figlio stesso. Il Verbo incarnato ha coinvolto a tal punto in sé
l'uomo che soltanto egli «svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua
altissima vocazione» (GS 22). Cristo, in quanto vero e perfetto uomo, può rivelare chi sia
l'uomo in profondità e ciò a cui è stato chiamato: diventare figlio del Padre. «Cristo è
risorto, distruggendo la morte con la sua morte, e ci ha donato la vita, affinché, figli nel
Figlio, esclamiamo nello Spirito: Abba, Padre!»(GS 22).
Ecco come il Concilio ha saputo delineare la grandezza del mistero dell'uomo alla
luce della Rivelazione cristiana. Questi, presentato nello splendore della creazione, è
considerato in riferimento a Cristo. Mediante il mistero pasquale riceve in sé l'immagine
stessa del Figlio ed è chiamato ad agire in modo conforme a tale grandiosa vocazione. La
categoria della filiazione diviene qui la chiave di volta per sostenere la riflessione sull’uomo
in se stesso e in relazione all’altro, suo fratello. L’indole comunitaria e sociale dell’uomo
parte da questa premessa. Secondo il Concilio, «Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto
che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli»
(GS 24).
1. 5. Le relazioni sociali
Questo significa che le relazioni sociali devono essere segnate dall’amore del
prossimo, conformi all’intimo legame tra uomo e uomo; questo, talvolta, appare come un
orizzonte impervio per la sola ragione umana, ma, nondimeno, il suo fondamento è reale. Il
Figlio, che prega il Padre affinché «tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa
sola» (Gv. 17, 21-22), «ci ha suggerito una certa unione tra l’unione delle persone divine e
l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità» (GS 24). La categoria della filiazione,
alla quale potremmo aggiungere quella della fraternità, illumina un altro aspetto
dell’antropologia; infatti, la similitudine tra l’unione delle divine persone e quella dei figli
di Dio – filiazione più fraternità – manifesta «che l’uomo, il quale in terra è la sola creatura
che Dio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un
dono sincero di sé» (GS 24).
La vita sociale allora non sarà qualcosa di esterno all’uomo, ma il suo
perfezionamento in quanto persona umana. Pienezza dell’uomo e sviluppo sociale sono
3
Cfr. DS 125; 301.
2
interdipendenti, perché il primo è condizione del secondo. Ora, mediante la socialità,
l’uomo «cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti
con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli» (GS 25). L’impegno nel mondo è
tutto intriso dalla dimensione filiale e fraterna: il rispetto per l’uomo (cfr. GS 27), l’amore
per gli avversari (cfr. GS 28), la giustizia sociale (cfr. GS 29), la necessità di superare
l’individualismo (cfr. GS 30), la partecipazione alla vita sociale (cfr. GS 31).
Né può essere diversamente, dal momento che il Verbo Incarnato ha voluto essere
partecipe della convivenza umana, rivelando insieme l’amore del Padre e la vocazione
dell’uomo nella sua concretezza. Il Figlio di Dio ha santificato le relazioni umane, ha
comandato «ai figli di Dio che si trattassero vicendevolmente da fratelli» (GS 32). Mandò
gli apostoli ad annunciare la parola di salvezza affinché «il genere umano diventasse la
famiglia di Dio, nella quale la pienezza della legge fosse l’amore» (GS 32).
1. 6. La Chiesa, nuova comunione
Se la predicazione ha la finalità di filializzare gli uomini, la Chiesa è la «nuova
comunione fraterna» (GS 32), dove gli uomini accolgono il Signore con la fede e la carità e
vengono rigenerati dal dono pasquale dello Spirito, che li abilita a servire. La comunione
fraterna nella Chiesa cresce continuamente con il dono di nuovi figli sino al giorno in cui
«gli uomini, salvati dalla grazia, renderanno gloria perfetta a Dio, come famiglia da Dio e
da Cristo fratello amata (tamquam familia a Deo et Christo Fratre dilecta)» (GS 32).
2. Per il rinnovamento della teologia
Il decreto Optatam Totius (OT) è stato preparato dal Vaticano II 4 per esporre i
principi sulla formazione sacerdotale, secondo le mutate condizioni dei tempi. In particolare
il cap. V riguarda la revisione degli studi ecclesiastici: vi si afferma l'importanza di una
cultura umanistica (cfr. OT 13) su cui si fonderanno gli studi filosofici (cfr. OT 15) e
teologici (cfr. OT 16) dei candidati al sacerdozio. Fin dall'inizio del capitolo si afferma
"Nel riordinamento degli studi ecclesiastici si abbia cura in primo luogo di disporre
meglio le varie discipline filosofiche e teologiche e di farle convergere concordemente
alla progressiva apertura delle menti degli alunni verso il mistero di Cristo" (cfr. OT 14).
Il riferimento cristologico, presente fin dal secondo schema preparato sotto Giovanni
XXIII, appare precisamente come la meta a cui deve portare la nuova ratio studiorum.
Analogamente, al n° 16, dopo aver proposto il rinnovamento dell'insegnamento della
teologia dogmatica, si afferma: «parimenti tutte le altre discipline teologiche vengano
rinnovate per mezzo di un contatto più vivo col mistero di Cristo». Anche questo passo ha
radici lontane, perché già il secondo schema indicava che le discipline teologiche si
articolassero armonicamente in modo da porre in rilievo il mistero di Cristo, annunciato
dalle Scritture ed operante nella Chiesa 5.
4
Per maggiori notizie, cf. A MAYER.- G. BALDANZA (ed)., Genesi storica del decreto Optatam Totius, Torino
1967, 13-48; D. CAPONE, «Il rinnovamento dell'insegnamento della teologia morale secondo il Concilio
Vaticano II», in C. CASALE MARCHESELLI (ed.), Parola e Spirito. Studi in onore di Settimio Cipriani vol. II,
Paideia Brescia 1982, 1221-1246; J. NEUNER (ed.), «Decree on Priestly Formation», in CDVS vol. II 371-378.
5
"Omnes vero disciplinae theologicae ita doceantur ut harmonicae in hunc finem conspirent, quippe quae
singulae, ex intrinsecis proprii obiecti rationibus, mysterium Christi in historia salutis a Divinis Scripturis
annuntiatum et in Ecclesia semper in actu clara in luce ponant" (Acta Synodalia sacrosancti Concilii
Oecumenici Vaticani II, Città del Vaticano 1970-1978, vol. III, periodus tertia, pars VII 801).
3
2. 1. Lo statuto della morale cristiana
In questo contesto la teologia morale è chiamata anch'essa a rinnovarsi per mezzo di
un contatto più vivo con il mistero di Cristo, ponendo
un impegno del tutto particolare (specialis cura) nel perfezionare la teologia morale,
cosicché la sua riflessione scientifica (scientifica expositio), maggiormente fondata sulla
S. Scrittura, possa illustrare la grandezza della vocazione che i fedeli hanno ricevuto da
Dio in Cristo (celsitudinem vocationis fidelium in Christo) e la conseguente esigenza che
essi devono avere nel portare frutti nella carità per il bene del mondo (obligationem pro
mundi vita fructum ferendi) (OT 16).
In tale modo, il Concilio intende offrire gli aiuti necessari per rinnovare la teologia
morale. Ad essa attribuisce una esposizione scientifica, che attinga le sue argomentazioni
innanzitutto dalla Scrittura. Se essa deve essere l'anima di tutta la teologia (cfr. DV 24),
questo deve valere anche per la morale. In che cosa consiste il riferimento alla S. Scrittura?
Non può, certamente, risolversi in un'applicazione, quasi ornamentale, di alcune citazioni
bibliche. Neanche è possibile dedurre dai codici etici dell'A.T. e N.T. l'orientamento morale
odierno. Si tratta, piuttosto, di svolgere un'esposizione del mistero di Cristo e della
vocazione dell'uomo fondata su una salda esegesi delle principali tradizioni vetero e
neotestamentarie.
La teologia morale ha, poi, bisogno degli esegeti per approfondire le verità morali
contenute nella Bibbia e determinare, con sufficiente precisione, in quale misura siano
legate alla cultura del popolo di Israele o abbiano, invece, valore morale perenne.
Inoltre, il fondamentale riferimento alla S. Scrittura porterà finalmente la teologia
morale ad un contatto fecondo con la dogmatica, in quanto entrambe procedono dal dato
rivelato e accolgono il medesimo mistero creduto e vissuto. Il carattere scientifico viene
anche garantito dall'assiduo contatto con le scienze umane e naturali, che permettono una
maggiore competenza ed apertura pastorale6.
2. 2. Impegnarsi per la vita del mondo
L'esposizione morale - continua il Concilio - ha il compito di mettere in luce due
fattori: la vocazione dei fedeli in Cristo e il conseguente obbligo di crescere nella carità. La
Rivelazione mostra che da sempre Dio ha voluto l'uomo e lo ha chiamato a diventare suo
figlio mediante Cristo (cfr. Ef 1,5 ss). Questo dono è comunicato nel battesimo, mediante il
quale l'uomo partecipa al mistero pasquale e diviene realmente figlio di Dio (cfr. 1 Gv 3,1
ss). Lungi dall'essere una realtà statica, realizzata una volta per tutte, l'inserzione in Cristo si
verifica continuamente in un dinamismo che porta l'uomo ad essere sempre più simile a Lui.
Sull'esempio del Figlio trasmesso dall’evangelista. Giovanni (cfr. Gv 13,15), il battezzato
sarà impegnato a riprodurre nel mondo, che lo circonda, la stessa carità di Cristo, che ha
offerto se stesso per la vita del mondo.
In questo modo il Concilio ha scelto di mettere da parte la visione della morale come
scienza del peccato7 o come casuistica; implicitamente, poi, condanna anche ogni forma di
6
Cfr. G. FUCHS, «Vocazione e speranza. Indicazioni conciliari per una morale cristiana», in Seminarium 4
(1971) 491-492.
7
Tra le osservazioni - modi - che i padri fecero all'ultima edizione del testo, riporto la seguente: "Quoad studia
autem Theologiae Moralis magistri omnes suas vires impendant ut methodus illa nimis casuistica vitetur quae
omnino sterilis est quaeque nexum Theologiae Moralis cum Doctrina Revelata non ostendit". La risposta fu
"Ratio habetur in textu emendato, sed modo dicendi magis positivo. Indirecte affirmatur Theologiam Moralem
non debere esse fere exclusive hamartologicam neve casuisticam" (Acta Synodalia sacrosancti Concilii
Oecumenici Vaticani II, vol. IV, periodus quarta, pars IV, Typis Polyglottis Vaticanis, Città del Vaticano
1978, 113).
4
minimalismo in campo morale. In un'ottica giuridica-legalista, l'interesse consisteva nel
determinare che cosa si poteva o non si doveva fare per essere in sintonia con la norma
morale, nello stabilire i limiti da non oltrepassare e dentro i quali rimanere (minimalismo).
Se, invece, la morale deve indicare l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo, non esisterà
alcun limite al proprio impegno (morale del massimo).
3. In Cristo e nel mondo
Le grandi intuizioni del concilio Vaticano II si basano sull’essere-cristiano-nel mondo.
L’assemblea conciliare ha lavorato per un rinnovamento del volto della Chiesa affinché sia
meglio presente nel mondo. Il Vaticano II è, per la storia della Chiesa, il Concilio della
riconciliazione nel senso più largo del termine.
3. 1. Tratti dell’agire cristiano nel mondo
Ma nello stesso tempo è il Concilio del ritorno al centro, nel modo più profondo
possibile. Riconciliazione e ritorno al centro in Cristo: tutto l’ardore dei testi conciliari
esprime questa volontà di ritrovare la Sorgente dell’acqua viva, l’ispirazione originale, la
purezza della Rivelazione, l’entusiasmo della missione, l’emozione della fede viva. Il
Vaticano II non vuole essere un gesto politico di adattamento della Chiesa al mondo, ma
piuttosto un ringiovanimento profondo della Chiesa affinché la sua vita sia sacramento del
Cristo per il mondo. Così, con il Concilio, la Chiesa ha gli occhi fissi innanzitutto sul suo
Maestro, poi sul mondo da servire e amare. Mai il contrario.
Volgendo il suo sguardo sul Cristo, il Vaticano II ha potuto riconoscere meglio: la
dignità del mondo creato da e per Lui, e il valore delle sue realizzazioni tecniche, culturali; la
dignità dell’uomo, della sua coscienza, della sua libertà, della sua grandezza di creatura fatta a
immagine di Dio; la dignità del cristiano, in ragione della sua condizione filiale, della sua
vocazione alla santità del Padre. Triplice dignità riconosciuta,sostenuta, sviluppata attraverso
l’azione e la presenza della Chiesa del Cristo nel cuore della storia.
3. 3. Lo specifico dell’etica cristiana
Per quanto riguardo la morale conciliare, possiamo affermare che essa è
cristocentrica. Gesù Cristo, l’Uomo perfetto, porta l’uomo alla pienezza della sua vocazione,
al compimento del suo essere. La dignità dell’uomo e del suo agire è fondata sul suo essere
cristico nel Figlio unico.
La morale conciliare è anche filiale nel Cristo. Essa è originariamente filiale, perché il
carattere filiale qualifica l’uomo immagine di Dio, chiamato come figlio alla comunione con
Dio. Essa è cristicamente filiale perché in Gesù Cristo, la filiazione effettiva e adottiva è
offerta al credente, nello Spirito e il battesimo. Questa morale filiale si vive nella comunità dei
credenti dove risuona l’appello dei figli e si sviluppa la comunione fraterna attraverso i
sacramenti.
Opera, pure, della ragione che riflette sulla sua fede, la morale cristiana è presentata
dal Concilio come radicalmente relazionante prima di essere razionale. Essa si situa nella
dinamica della relazione del Padre con suo Figlio e con i suoi figli. Lo sforzo della teologia
morale di foggia razionalista e idealista consiste nello fare sparire l’idea e la presenza del
Padre dall’orizzonte della morale cristiana, facendo della ricerca della verità morale una
fredda conformità alle regole dettate dalla ragione. La morale si trova così con molta facilità
sradicata e privata della novità radicale che trova nel mistero del Figlio. I figli di Dio
comprendono invece la morale come espressione di una alleanza, di una relazione reciproca.
Si può controllare, verificare il rispetto di una legge, di un dovere. Ma si è sempre in debito
nei confronti di colui che si ama e che ci ama.
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