POLITICA
1. Potere, politica, Stato
La parola P. richiama l'idea de-1 potere e gli affari
dello stato. Da una parte ai direbbe che è politico
tutto ciò che ha a che fare con le istituzioni, dall'altra si
avverte, per quanto confusamente, che la P. è
qualcosa di più diffuso, che si insinua un po' dovunque
e coinvolge anche chi vorrebbe tenersene fuori.
Queste impressioni sono giustificate; fa infatti parte
della P. non soltanto ciò che esce dalle sedi ufficiali,
propriamente le decisioni v le leggi, ma anche ciò che
entra, i voti, le proposte, i progetti, le pressioni, ecc.
La società conosce una molteplicità di poteri,
intesi come capacità di un uomo o di un gruppo di
influenzare o determinare il comportamento di un
altro uomo o di un altro gruppo. I poteri possono
essere variamente classificati; nelle scienze sociali è
diffusa la tripartizione potere politico/potere economico/potere culturale o ideologico. La differenza fra i
tre è data: a) dai mezzi adottati per condizionare:
essi sono rispettivamente la forza, il compenso e
l'amore o la persuasione, e b) dal soggetto su cui il
potere si esercita. Esercitano un potere di tipo
ideologico il genitore sui figli, il sacerdote sui credenti, il maestro sugli allievi. Il potere economico è
quello del datore di lavoro sui suoi dipendenti; da
alcuni è definito "dominanza», per distinguerlo
dall'autorità morale dei primi e dalla forza del
potere politico. Quest'ultimo si distingue dagli altri
perché può far uso della forza (= violenza sui corpi,
fino alla carcerazione e alla morte) per ottenere
obbedienza, e perché si esercita nei confronti della
generalità dei cittadini. S'intende che il ricorso alla
forza costituisce estrema ratio, anche in P. l'ottima
situazione resta quella di chi riesce a farsi obbedire per
l'autorità di cui è investito, perché il cittadino, in
altre parole, riconosce che le decisioni di chi comanda
sono legittime (v. Consenso), L'uso della forza,
insomma, vale solo a distinguere «al limite» un
potere dagli altri.
La P. sembra dunque costituita dalle attività e
dalle decisioni che prende una speciale autorità,
speciale perché è l'unica che può servirsi della forza.
Questa autorità è lo Stato, l'istituzione che detiene
appunto, secondo la famosa definizione di Max Weber, il monopolio della forza legittima.
C'è qualcosa in questa definizione, però, che non
soddisfa del tutto. Se infatti la nozione di potere è
più ampia della nozione di P., quella di stato non
sembra esaurirla. «Questa riconduzione [P. = Stato],
che rispecchiava abbastanza bene la realtà del XIX
secolo, si rivela nel XX secolo troppo angusta, troppo
limitativa. E’ che noi registriamo un fatto nuovo:
[…] la democratizzazione o massificazione della
politica ne comporta non solo la diffusione, e se si
vuole la diluizione, ma soprattutto la ubiquità» (C.
Sartori, 1987, pp. 255-256).
La dimensione verticale, per cui il potere politico
si colloca “Sopra” la società, deve essere integrata da
una orizzontale, che riporta in un certo senso la P. nel e
tra il sociale. Se allo stato, come dice ancora
Sartori, “competono pur sempre, in esclusiva, le
decisioni potestative di ultima istanza […] i processi
politici non possono più essere ricompresi nell'ambito
dello stato e delle sue istituzioni”. Altrimenti non
potrebbe definirsi attività politica quella svolta dai
partiti (v.), dai gruppi di pressione (v. Lobby), dai
sindacati (v.), ecc.
La P. quindi comprende le attività, mediante le
quali si prendono decisioni che hanno forza cogente
nei confronti di tutti i cittadini, e le attività con le
quali su quelle decisioni si intende in qualche modo
influire.
Da Marchese, Mancini, Greco, Assini, Stato e
società, Nuova Italia,