Etica, democrazia e diritto Francesco D’Agostino 1. È ben noto come nella tradizione occidentale ogni possibile incontro tra etica e diritto si sia, quasi sempre, trasformato in scontro; e come da questo scontro sia sempre stato il diritto ad avere - almeno sul piano assiologico - la peggio. Per quanto infatti possano essere rilevanti i valori tutelati dal diritto (riassumibili essenzialmente tutti in quello della difesa della coesistenza e dell’ordine sociale) essi sono sempre apparsi caratteristicamente freddi, incapaci di attivare, di per sé, senza cioè ulteriori supporti, un sentimento di autentico obbligo nei destinatari delle sue norme. Riferendosi essenzialmente all'ordine delle azioni, più che a quello delle coscienze (ambito di esclusiva e gelosa pertinenza dell'etica) e quindi subordinando - in qualche modo - l'agente alla sua stessa azione, al carattere estrinseco, formale, procedurale di questa, il diritto è per lo più apparso, almeno alla coscienza comune di tante generazioni di uomini, come gravemente carente sul piano dell'autenticità, cioè proprio sul quel piano che costituisce lo specifico dell'esperienza morale (un'etica ‘inautentica’ non è neppure pensabile, perché intrensicamente contraddittoria). Ora, la carenza di autenticità possiede, nella tradizione cristiana, un nome ‘storico’, quello di fariseismo: un nome pesante come un macigno. È evidente che non tutti i giuristi sono farisei; ma è altrettanto evidente che non è possibile suttovalutare, il peso della denuncia evangelica. Di conseguenza non deve meravigliare che i cultori del diritto (almeno i più sensibili) fin dall’antichità abbiano continuato a porre tra i loro compiti prioritari quello di giustificare il diritto, quello cioè di mostrare che nell’esperienza giuridica il fariseismo è un accidente e non una sostanza, che esso va inteso come il peccato di (cattivi) giuristi, non il peccato della cosa “diritto”. Si tratta di sforzi generosi e generalmente convincenti. Non sempre sono riusciti a falsificare completamente il duro monito di Lutero: Juristen, böse Christen (Giuristi, cattivi cristiani), ma sono riusciti almeno a contenerne la carica sferzante. 2. Questo quadro, riassunto così sommariamente, non è più attuale. Esso ha conosciuto in questi ultimi decenni una metamorfosi sostanziale, di cui molti devono ancora prendere piena consapevolezza, e che giustifica il sempre più frequente uso che vien fatto dell’aggettivo postmoderno per alludere alla nuova e inedita situazione spirituale del nostro tempo. Siamo passati da un paradigma che, nel nome dell’autenticità, riconosceva un primato dell’etica sul diritto, e pretendeva che il diritto giustificasse se stesso, a un paradigma che inopinatamente rivaluta l’esperienza del diritto, la sovraordina all'esperienza etica e, in una sorta di gioco delle parti, chiede all’etica, con una sicurezza mai conosciuta in precedenza, di giustificare se stessa e le sue pretese davanti al suo tribunale. E questo avviene senza negare il carattere di autenticità che è il portato proprio dell’etica; avviene attraverso un altro itinerario: quello della privatizzazione dell’etica medesima. 3. Stiamo assistendo, da troppo tempo ormai per non doverne prendere definitivamente atto, alla conforma della lucida diagnosi operata quasi un’ottantina di anni fa da Max Weber. Esaminando la situazione spirituale del suo tempo (e più in generale quella della modernità), Weber rilevava come tendenza progressiva e irresistibile quella del progressivo particolarizzarsi della morale. Con una lucidità che pochi intellettuali del suo tempo hanno posseduto, Weber ha percepito la crisi della concezione tradizionale dell’etica come sistema di valori assoluti e condivisi, un sistema strutturato rigidamente in una molteplicità di singoli e specifici precetti (precetti che potevano anche venir continuamente violati sul piano della prassi, ma senza che ciò venisse percepito come contraddittorio col fatto che fossero tranquillamente riconosciuti come intrinsecamente validi, in quanto principi generali di condotta, da parte di tutti). Costretta a rinunciare a una visione univoca della realtà e alla pretesa di poterla descrivere compiutamente in termini di verità (costretta cioè a rinunciare al pensiero metafisico), l’epoca moderna - questa è l’analisi weberiana - fallisce altresì nel tentativo di continuare a difendere l’etica tradizionale e la sua gerarchia obiettiva di valori e di norme. Il compiersi di questa dinamica conclude dando luogo a un paradigma culturale assolutamente inedito, quello del politeismo etico (secondo l’icastica espressione di Weber). La prospettiva postmoderna acquisisce (lentamente, ma ineluttabilmente) la convinzione che è sforzo vano tentare di riportare ad unità, con la pazienza dell’argomentazione razionale, le singole opzioni morali, perché tra i diversi valori che presiedono all’ordinamento del mondo il contrasto è inconciliabile e le opzioni sono tanto più autentiche quanto più si vivono e quanto meno si dialettizzano l’una con l’altra. E soprattutto si convince che questo sforzo per l’unità, oltre ad essere improponibile sul piano sia teorico che effettuale, non è nemmeno auspicabile sul piano assiologico, perché implica un’opzione a favore di una uniformità etica, che non viene più vista come degna di apprezzamento, ma come impersonale e quindi repressiva. 4. In questo orizzonte, per citare Hugo Tristram Engelhardt jr., gli uomini devono abituarsi a considerarsi reciprocamente stranieri morali, cioè abitanti di un mondo che li costringe sempre di più a vivere gli uni a fianco degli altri e ad interagire reciprocamente, ma che più non pretende che essi parlino il medesimo linguaggio etico né che comunichino su di un comune piano di valori. Pure, l’interazione tra le persone, anche se minima, richiede un linguaggio. Ma non può trattarsi di un linguaggio etico, bensì di un linguaggio giuridico. Esaminiamo più da vicino il pensiero di Engelhardt, che suscita interesse non per una sua particolare originalità, ma perché si pone come estremamente rappresentativo di un paradigma diffuso. A suo avviso, nessuna concezione materiale del bene può rendere possibile il dialogo interpersonale nell’epoca postmoderna, cioè tra coloro che si riconoscono reciprocamente come “stranieri morali”. Nel contesto etico rarefatto nel quale viviamo, l’unica via che resta a nostra disposizione è quella dell’accordo, un accordo, ovviamente, da basare non su buone ragioni - perché, come si è detto, la ragione postmoderna si è dimostrata incapace di individuare un contenuto obiettivo, e quindi buono, alla ragione -, ma al più sulla mera buona volontà di accordarci. Ciò che resta, a noi uomini postmoderni, ci dice Engelhardt, è al più una sorta di diritto naturale minimo, quello che fa riferimento alla possibilità che, con grande pazienza, le persone si mettano a discutere tra loro per trovare, convenzionalisticamente, soluzione ai loro conflitti e in generale alle modalità della loro coesistenza. È solo “l’autorità di un accordo comune che può fornire un qualche sostegno generale ad una struttura morale che vincoli gli stranieri morali”. La rivincita del diritto sulla morale sembra così giunta al suo pieno compimento. Il diritto viene ad acquistare un primato sulla morale (anzi sulle morali) per gli stessi identici motivi per i quali tradizionalmente esso appariva dotato, agli occhi dei moralisti di un tempo, di un’eticità mediocre: per la sua intrinseca e irrimediabile carenza di autenticità. L’autenticità, infatti, non è un carattere che cessi di caratterizzare l’etica; ma, in un sistema politeistico, ne diviene il tallone di Achille. Infatti, proprio in quanto portatrici di una loro specifica carica di autenticità, le molteplici etiche dell’epoca postmoderna si rivelano insindacabili, incomunicabili e quindi non solo potenzialmente, ma effettualmente conflittuali. In quanto autentiche, le etiche vanno rispettate; ma in quanto conflittuali vanno ricondotte all’interno di un sistema di universale compatibilità. Questo sistema non può avere carattere etico; solo il diritto, con la sua fredda esteriorità formale, è oggi in grado di garantire il politeismo etico (così come nell'antichità ha garantito, fino a quando se ne è data la necessità, il politeismo religioso). 5. L'epoca postmoderna ci rende quindi spettatori di un imprevedibile rovesciamento delle parti. I giuristi non devono più giustificare se stessi e la loro vocazione. È l’etica piuttosto, o meglio sono le etiche, quelle che devono presentarsi davanti al tribunale del diritto, per venire in qualche modo da esso sanzionate, per essere riconosciute come lecite e compatibili. Per quanto caro possa essere il prezzo per ottenere questo riconoscimento, esso non sembra esorbitante agli occhi di chi, rassegnato al politeismo etico, sa valutare la situazione che ne risulta: la vita etica, sia pur drasticamente privatizzata, viene in tal modo riconosciuta dal diritto come insindacabile a livello pubblico. I conflitti etici scompaiono, perché devono scomparire, perché il diritto, fedele alla sua promessa di garantire la pluralità delle morali, si impegna a proibirli espressamente. Il mondo, attraverso l’ordine pubblico garantito dal diritto, diviene e sempre più diverrà simile al bazar di cui parlano Clifford Geertz e Richard Rorty: un luogo di incontro comune, circondato da innumerevoli club privati esclusivi, una piazza nella quale si possono incontrare individui ai quali non faremmo mai varcare la soglia di casa nostra, ma con i quali - fuori casa - possiamo anche scambiare qualche parola o praticare una qualche forma di commercio; un mondo, insomma, fondato su un difficile (ma non per questo impossibile) equilibrio di eticità privata e pragmatismo pubblico. Il fatto poi che questa eticità privata meriti di essere chiamata, come fa Rorty, narcisismo, è probabilmente indiscutibile, ma non per questo falsifica il modello proposto. 6. Quale credito è possibile dare a un quadro come quello appena descritto? È la mera descrizione di una realtà ineludibile? O si tratta piuttosto di una proposta (forse addirittura generosa) volta, attraverso questo diritto naturale minimo, a costruire l’unica possibilità per mantenere comunque all’etica uno spazio in un mondo dominato dalla tecnica e dal suo freddo disinteresse assiologico? È vera probabilmente l’una e l’altra ipotesi. E ancor più vero è che, nella croce del presente, altre ipotesi risolutive ai dilemmi della modernità non sembrano presenti all’orizzonte. Le filosofie, è questo il senso di una profonda osservazione di Hegel, non muoiono quando vengono confutate, muoiono quando si percepisce quanto poco con esse “si possa andare avanti”. Le considerazioni che stiamo per fare non possono quindi avere altra valenza che quella di un’indicazione, non di un’affermazione. 6.1 Cominciamo con l’osservare che nel momento in cui si insiste con tanta forza sul tema del primato procedurale del diritto sull’etica, in quanto il diritto è fondato su di un accordo, si elabora, in buona sostanza, anche se rivedendola e correggendola, una versione moderna di una tesi antica e venerabile, quella che pone il dialogo a fondamento del vivere sociale (e più in generale della stessa filosofia). Infatti, l’accordo non può evidentemente che essere il frutto di un dialogo: per giungere ad un accordo, quale che esso sia, è necessario confrontare preventivamente le proprie posizioni, cioè incontrarsi dialogicamente. Ma il dialogo - e questo è il punto fondamentale su cui bisogna richiamare l’attenzione - è un’esperienza unicamente e profondamente umana: è possibile, cioè, solo tra persone, che si riconoscano vicendevolmente come persone. Il riconoscimento, che del dialogo è il presupposto, è, si badi, non solo empirico (riconosco che l’altro, quel singolo individuo che mi si contrappone come altro, è come me), ma più propriamente ontologico (riconosco che l’altro - come altro e non solo come mero individuo empirico - è come me) e nello stesso tempo assiologico (riconosco che 1’altro - come altro e non solo come mero individuo empirico - vale quanto valgo io). È solo a queste condizioni che può instaurarsi quel dialogo che è condizione - per riprendere parole di Engelhardt - per realizzare quell’“accordo comune che può fornire un qualche sostegno generale ad una struttura morale che vincoli gli stranieri morali”. Nell’assenza di queste condizioni non possono nascere né dialogo né accordo; o nascono, se nascono, dialoghi e accordi obliqui, strumentali, ingannatori, forme pseudorelazionali, che la parte che nega il riconoscimento (anche se a parole lo afferma) è pronta a rinnegare appena percepisca che le convenga farlo. E non credo che sia a questo atteggiamento, cioè ad un accordo ipocrita, che i teorici del primato del diritto procedurale possano riferirsi. 6.2. L’insistenza sul tema del dialogo può consentirci un’ulteriore ed essenziale considerazione. Esistono, come ben sappiamo, diverse forme empiriche di dialogo; accanto al dialogo con un interlocutore presente e loquente, possiamo pur porre il dialogo muto, condotto attraverso gli sguardi, e al limite lo stesso dialogo con chi è lontano o con chi non c’è più: un dialogo non meno autentico dei precedenti, se colui che lo instaura è disposto a dialogare veramente, a lasciarsi cioè trasformare da questo incontro con un logos che è altro-da-sé, che può non essere fisicamente presente attraverso la persona di un altro, ma che può avere una presenza comunque estremamente forte, attraverso le diverse ‘potenze dell’anima’: dal ricordo al desiderio, dal rimorso all’amore. L'altro mi provoca, se vogliamo usare un lessico caro a Lévinas, fino al punto da prendermi come ostaggio; si impone cioè a me e per me come termine ineliminabile di riferimento, non solo nella sua fisicità immediata, cioè perché sia in grado di fronteggiarmi e di parlare effettualmente con me, ma perché - come si è detto - in quanto è come me, è costitutivo di quell’io che io sono. L’altro non è un intelletto col quale io dialettizzo le mie capacità intellettuali; l’altro è colui nel quale io ritrovo me stesso e che per ciò solo può esigere (esplicitamente o implicitamente, non importa), qualcosa da me: quel minimo almeno che è un trattamento secondo giustizia. Da quanto abbiamo detto segue che, anche per chi creda a quella sorta di diritto naturale minimo che dovrebbe condurre all’accordo, oltre che ovviamente per chi creda invece a un diritto naturale massimo, non esistono, né possono esistere, stranieri morali. Si badi che quello che qui viene in discussione non è la legittimità dell’esistenza di altre visioni del mondo, né quella della molteplicità fattuale di professioni di fede (filosofica o teologica) in altre assiologie: ma solo il fatto che questa molteplicità equivalga davvero ad un politeismo etico e possa indurci a parlare di stranieri morali. L’essere straniero è categoria empirica, rilevante sul piano della politica e forse su quello del diritto (ma solo sul piano del diritto positivo, non su quello del diritto in sé); certamente non è categoria antropologica, filosofica o teologica: lo dimostra appunto il fatto che con qualsiasi uomo, anche con uno “straniero”, è possibile - di principio - aprire un dialogo e giungere ad un accordo, sul presupposto di un comune riconoscimento. Nessuno è talmente straniero agli occhi di un altro da rendere di principio impensabile la possibilità di parlare con lui. Nessun linguaggio è di principio assolutamente intraducibile. Nessun valore etico - anche quello che ci appare meno condivisibile - è totalmente incomprensibile, cioè incomunicabile. 7. È proprio da questo discorso che deve cercare di ripartire l’etica, se vuole sottrarsi al disagio che vistosamente la caratterizza e che possiamo ormai ricondurre alla tentazione di far assurgere la rilevazione fattuale della molteplicità sociologica delle morali al rango di un valore (il politeismo etico, per l’appunto), che sotto l’apparenza di brillante descrizione della pluralità delle visioni etiche del mondo, toglie loro ogni dignità, perché le rende tutte in definitiva irrilevanti. Non esistono “stranieri morali”: questo principio deve essere assunto come il postulato fondamentale di un’etica che sappia andare al di là della crisi postmoderna. Ed è un postulato allo stesso tempo teoretico, etico e giuridico: è teoretico, perché implica l'affermazione ontologica dell'eguaglianza tra tutti gli uomini, è etico, perché implica l’affermazione assiologica della fraternità universale tra gli uomini, è giuridico, perché fa oggetto di un pubblico confronto quel dibattito che l'etica tenderebbe a confinare nello spazio esclusivo della coscienza interiore. È un postulato che impone a tutti di continuare con tutti, nel rispetto delle posizioni di tutti, e senza mai stancarsi, l'indagine su ciò che ci accomuna, come uomini, rispetto a ciò che ci divide. Nell'attesa che altri tempi vengano a maturazione e che la perduta universalità dell'etica sappia riacquistare un suo spazio, secondo modi che molti continuano ad auspicare, ma che pochi sono in grado di progettare. 8. Vorrei avviarmi alla conclusione con alcune riflessioni sullo specifico contributo che i cristiani possono portare nel nostro tempo alla dialettica diritto/morale. Con tutte le dovute eccezioni, ritengo di poter dire che i cristiani non hanno ancora preso fino in fondo coscienza della gravità e dell'ampiezza della sfida che proviene loro dal paradigma postmoderno. Essi (peraltro ragionevolmente) continuano a compiacersi del fatto che le legislazioni occidentali sembrano tuttora fortemente intrise di valori cristiani e rimarcano come fatti tutto sommato eccezionali i singoli punti in cui le divergenze tra l'etica cristiana e le legislazioni positive appaiono assolutamente irriducibili (caso tipico quello delle legislazioni abortiste). Non avvertono però - se non in casi particolari - che nell’orizzonte del postmoderno e del suo pluralismo corrosivo la comunità cristiana è chiamata a operare una scelta estremamente difficile, che coinvolge la sua stessa identità: la scelta di come inserirsi nel grande dibattito del politeismo etico, di come fronteggiare, cioè, le sue pretese di neutralizzazione assiologica. Le possibilità che si danno sono, naturalmente, articolate e diverse. Alcune sono chiaramente impraticabili. È ben difficile, ad es., che i cristiani, di fronte alle provocazioni del politeismo etico (si pensi ad es. alla pretesa di riconoscimento giuridico del matrimonio tra omosessuali) assumano uno spirito di crociata, che apparirebbe marcato da una tra le poche e irredimibili colpe che il nostro tempo stigmatizzi senza attenuanti, quella dell'intolleranza e della mancanza di rispetto per l'alterità. I cristiani possono entrare nel dibattito etico postmoderno con spirito di negoziazione: ma devono allora avere la consapevolezza che ciò implica un alto prezzo da pagare, quel prezzo che Peter Berger ha chiamato un patteggiamento cognitivo (la rinuncia cioè almeno ad alcuni elementi specifici della propria tradizione morale): e su quali siano i giusti limiti di un patteggiamento cognitivo la riflessione è appena agli inizi. Possono assumere un atteggiamento di protesta profetica: ciò comporta però per il cristianesimo - bisogna esserne ben consapevoli - una sorta di autoghettizzazione culturale, cioè la consapevole accettazione di una vera e propria riduzione del cristianesimo allo status di sottocultura etica (senza per questo entrare in merito alla spinosa questione se esista davvero uno spazio per il profetismo post Christum natum. È possibile anche - ma qui ci troviamo di fronte a un atteggiamento a mio avviso suicida, anche se a volte lo troviamo molto ben argomentato - cedere al fascino del relativismo e ritenere, con una buona dose di ottimismo, che dall'esperienza della dispersione morale possa generarsi spontaneamente una nuova (anche se oggi difficilmente immaginabile) tensione verso l'unità etica dell’umanità. 9. Questo è il quadro: come si vede, articolato e composito. Quale delle ipotesi che abbiamo elencato sia oggi materialmente prevalente, è questione empirica, che possiamo anche accantonare. Quale tra queste ipotesi sia più coerente con l'identità cristiana è invece questione filosofico-teologica e del massimo rilievo: e su di essa cercheremo di riflettere. Il dato empirico, infatti, è in se stesso irrinunciabile e la sua acquisizione è doverosa e preziosa; esso però è anche costitutivamente cieco. È necessario un intervento ermeneutico, perché da esso e in esso si possa scorgere un orientamento. Dobbiamo saper interpretare il nostro tempo, per trarre da esso gli insegnamenti di cui abbiamo bisogno. Il problema però non è cosi semplice, dato che anche la scelta del criterio che dia sostanza all'intervento ermeneutico possiede a sua volta una valenza ermeneutica. Siamo certamente alla presenza di circolo, che peraltro per i teorici dell'ermeneutica non è vizioso, ma virtuoso, qualora si riesca a non farsi travolgere dalla tentazione di cedere alla cattiva infinità di questo processo. Peraltro, il cristiano possiede, nel riferimento teologico, un ancoraggio che può metterlo al sicuro da questa tentazione. Il criterio che egli tenderà ad assumere non avrà alcun carattere di neutralità (sarà quindi autenticamente ermeneutico), ma non avrà nemmeno carattere soggettivistico, perché non rispecchierà la soggettività di chi riceve il messaggio, ma l'oggettività di chi ne è la fonte. Il cristiano, in altre parole, è portatore di un messaggio, che lo legittima, anzi gli impone di parlare nella comunità degli uomini in cui vive, ma non in nome proprio, bensì nel nome di quella verità di cui egli deve farsi apostolo. È questo il senso profondo del motto carissimo a San Giovanni Damasceno: erò dè emòn men oudén, «non dirò nulla che provenga da me stesso» (evidente riformulazione del logion di Gv VII,16). Entriamo qui a contatto con una delle tante dimensioni paradossali che caratterizzano il cristianesimo (e la sua etica), come religione che si fonda sulla pretesa dell'incarnazione storica dell'assoluto. Il Dio, che si fa uomo, non ha potuto che farsi uomo nel tempo e nello spazio; non ha potuto non assumere un’identità personale particolare, all’interno di una comunità, di una cultura, di una tradizione di carattere locale. Ma il messaggio che questo Dio incarnato ha lasciato alla sua Chiesa è di carattere universale. Da ciò consegue che è un messaggio rivolto a tutti gli uomini. Il cristiano, pertanto, vive la situazione di chi sperimenta costitutivamente, nella quotidianità della sua esperienza, il paradosso dell'incontro dell'eterno col tempo. È un incontro che non conosce limiti di esperibilità: anche se il suo luogo più proprio è probabilmente quello della mistica e della spiritualità, o più in generale della preghiera, esso si impone comunque come ineludibile sul piano dell'esperienza storica e politica, nell'orizzonte della conoscenza scientifica e della creazione artistica, e - per quello che a noi qui maggiormente interessa - dell'esperienza morale e dell'esperienza giuridica. Comunicando il messaggio che ha ricevuto, e dando ad esso forma etica, il cristiano comunica parole pronunciate e confinate nel tempo e nello spazio (e a sua volta le ripete all'interno dei confini angusti del tempo e dello spazio); contestualmente, però, comunica un messaggio che va oltre il tempo e lo spazio, che possiede i caratteri di quell'assoluto dalla cui fonte esso proviene. Questa dialettica tra contingente ed eterno, poco avvertita in epoche di compatta omogeneità morale, nelle quali i valori etici appaiono a tal punto autoevidenti da non venire spesso nemmeno problematizzati, appare oggi invece in tutta la sua evidenza paradossale. Di questa paradossalità il cristiano non può evidentemente liberarsi, né sarebbe auspicabile che se ne liberasse, perché ciò comporterebbe lo smarrimento della propria specificità. Ma, naturalmente, il mero richiamo al paradosso non può essere fondamento adeguato per l'iniziativa morale o per la prassi giuridica (o nemmeno - contro quello che pensava Kierkegaard - per la predicazione). Il paradosso, il kerygma, costituisce il fondamento dell'identità cristiana ma non ne costituisce il criterio storico di azione, che va cercato altrove. Non spetta allo studioso di etica e diritto fornire indicazioni operative, che la comunità cristiana deve saper elaborare al proprio intorno, con le proprie forze endogene. Quello che è però possibile fare è ribadire lo specifico carattere teologico che dovrà qualificare tali indicazioni. Se il messaggio di cui il cristiano è portatore è un messaggio universale (per quanto veicolato attraverso una storia che è sempre particolare), l'etica per la quale il cristiano dovrà operare non potrà che essere un'etica universale, rivolta a tutti gli uomini, e che risponda alle esigenze di verità presenti in tutti gli uomini e in tutte le culture. Il cristianesimo, in altre parole, nel nome dell'assoluto alla cui parola ha il dovere di essere fedele, è chiamato a farsi testimone vivente della possibilità storica che gli uomini siano accomunati da una prassi morale non escludente, dalla quale risalti come principio antologico la verità della loro pari dignità di esseri umani. Questa pari dignità può incarnarsi in usanze estremamente diversificate e riconoscersi fondata in tradizione culturali molto lontane tra loro. Ma perché la stessa parola dignità abbia un senso è necessario postulare il primato dell'universale sul particolare, dell'eguaglianza sulla differenza, dell’assoluto sulla storia e - se si vuole ricorrere a espressioni filosoficamente ancora più forti - del bene sul male. Ciò comporta che il cristiano sarà tanto più fedele a se stesso e alla propria vocazione, quanto meno il suo discorso avrà unicamente se stesso e la propria tradizione come referente. Per parlare di se stesso, il cristiano dovrà parlare di tutti gli uomini e per tutti gli uomini. Questo implica che la pretesa della comunità cristiana abbia un carattere pubblico non diverso nel suo principio da quello che legittima il potere pubblico dello Stato. Non esistono, naturalmente, procedure tecniche che individuino le modalità specifiche con le quali la comunità cristiana può avanzare all'interno di una società civile secolarizzata le proprie istanze. Ma l'insistenza sul carattere pubblico della pretesa cristiana ci fornisce qualche indicazione, mette a nostra disposizione alcuni criteri. Vediamoli più da vicino. 10. Il primo concerne il primato del cognitivo sul normativo, o , se così si preferisce dire, l’antecedenza del vero sul bene. Prima di parlare dei valori, i cristiani vogliono parlare della verità stessa delle cose, alle quali i valori devono far riferimento. Si tratta di un tema teologico classico, che non cessa di manifestare anche oggi la propria fecondità. Se il vero è antecedente al bene, il bene sarà in grado di accomunare tutti gli uomini ed avrà un senso la ricerca (per quanto faticosa) di una giusta legislazione: è questo l’antico tema del bene comune, come unico possibile fondamento della coesistenza sociale. Se invece si ritiene che il bene non abbia nel vero il proprio fondamento, non si potrà che concludere - con Nietzsche - che se è bene non è comune e se è comune non è bene (Jenseits von Gut und Böse, 43); bisognerà allora coerentemente ritenere che non può darsi possibilità alcuna per gli uomini di fondare una coesistenza pacifica e non violenta: in assenza di una qualsiasi misura comune, non ci sarà ragione perché il “bene” (soggettivo e incomunicabile) del più forte non debba imporsi, proprio grazie alla forza, sul “bene” (parimenti soggettivo e parimenti incomunicabile) del più debole. La pretesa cristiana va in direzione esattamente opposta; facendo appello alla verità, essa resta lontana da ogni tentazione di proselitismo e rivolge a tutti gli uomini un invito a un confronto ontologico, prima ancora che assiologico. Il secondo criterio è strettamente dipendente dal primo, di cui costituisce una coerente applicazione. La pretesa etica del cristianesimo è innanzi tutto una pretesa di comunicazione; poiché la verità, per il cristiano, è in linea di principio conoscile, beninteso al nostro livello e secondo le nostro categorie ermeneutiche, che sono essenzialmente interpersonali, ne segue che il dovere di diffonderla e comunicarla possiede non solo una valenza cognitiva, ma anche e soprattutto sociale e relazionale. Come dice San Tommaso, communicatio facit civitatem (In VII Politicorum, I,1,37). È difficile esagerare l'importanza di questo punto, che non solo trova echi profondi in tanta parte della teoria etica degli ultimi anni, avvezza a insistere sul carattere dialogico e comunicativo dell'esperienza morale, ma ci aiuta soprattutto a mettere in evidenza come l'universalità dell'esperienza sociale nella quale i cristiani si riconoscono e verso la quale tendono (un’universalità pentecostale, è stato efficacemente detto) ha sempre il carattere oltre che di presupposto, anche e soprattutto di obiettivo. Si evitano in tal modo due effetti parimenti perversi. Si sottrae l’esperienza religiosa al rischio di ridursi, come ha detto Luhmann, a mero “parassita di situazioni sociali problematiche”: attraverso il riferimento alla verità, il discorso etico della comunità cristiana viene sottratto a ogni tentazione intimistica e/o irrazionalistica. E ancora: radicando la comunicazione nella verità, si pone in essere l’unico modo credibile per lottare contro l’erosione di fiducia nell'etica, che è l'esito coerente del politeismo etico che caratterizza il mondo attuale e che costituisce una delle più paradossali fonti di nuovi conflitti sociali. Si ridona cioè alla comunicazione una dignità, che non le possono fornire né la negoziazione, né la mera tolleranza, né il cieco proselitismo. Una dignità dal prezzo altissimo (è né più né meno che quello del sic vos, non vobis, il prezzo che paga colui che di fronte alla palese menzogna altrui continua ostinatamente a dire la verità); un prezzo che la comunità cristiana deve essere disposta a pagare fino in fondo, esattamente come, fino in fondo, e con tanta maggiore consapevolezza, ha saputo pagarlo il suo maestro e fondatore.