La Nottola di Minerva, Anno III n.3, maggio/giugno 2005
PERSONAGGI BIBLICI NELL’ESEGESI EBRAICA:
IL GIUDAISMO RABBINICO TRA ERMENEUTICA E CRITICA STORICA
di CLAUDIA COLLETTA
Il presente saggio nasce come recensione critica del recente volume di Mauro Perani, Personaggi
biblici nell’esegesi ebraica, dove sono presentati gli elementi essenziali del profilo che emerge
dall’esegesi ebraica di dodici personaggi biblici: Abele, Abramo, Giacobbe, Giuseppe, Mosè,
Giosuè, Debora, Samuele, Saul, Davide, Salomone, Isaia.
L’autore ne fornisce brevi ma essenziali ritratti secondo le linee interpretative proprie dei testi
midrashici, della letteratura rabbinica e del pensiero di alcuni tra i principali commentatori ebrei del
Medioevo.
Prima di passare alla presentazione del testo sarà necessario aprire una breve parentesi per precisare
che cosa sia il giudaismo rabbinico, come abbia operato e quale corpus di opere abbia prodotto,
focalizzando la nostra attenzione sulla correlazione tra l’elaborazione dei principali testi canonici
della religione ebraica (secc. II-VI) e le esigenze religiose del popolo d’Israele emerse nel periodo
storico in cui tale canone sacro acquisì forma definitiva, forgiando l’espressione del suo peculiare
universo culturale.
Solo dopo aver analizzato i contenuti ed i significati dei testi sacri ebraici potremo comprendere i
modelli esegetici da essi elaborati, giungendo, infine, ad approfondire le tematiche proprie
dell’ermeneutica rabbinica.
Il periodo compreso tra la distruzione del Tempio di Gerusalemme (70 era volgare, d’ora in poi
e.v.) ad opera di Tito, e la fine delle grandi accademie rabbiniche (1040 e.v. circa), è stato definito
giudaismo classico o rabbinico, termine con il quale si intende quel movimento culturale e religioso
-sviluppatosi sostanzialmente in Oriente tra Palestina e Babilonia- che elaborò ciò che in seguito
divenne caratteristico del giudaismo e che ancora oggi modella e condiziona la vita ebraica 1.
Inizialmente gli ebrei babilonesi furono influenzati da quelli palestinesi, mentre dopo il 135 -quando
numerosi ebrei fuggirono dalla Palestina verso la Mesopotamia, dove esistevano condizioni
politiche e sociali migliori- riuscirono ad imporre la loro supremazia nel campo della letteratura
rabbinica, tanto che le accademie di studio babilonesi, dal VI al X secolo, rappresentarono il centro
culturale di riferimento dell’ebraismo orientale ed occidentale. A partire dall’anno 1000 le cose
cambiarono rapidamente, il centro culturale dell’ebraismo si trasferì in Occidente: nell’Africa
settentrionale, nella Spagna islamica e nell’Europa cristiana. In particolare dal secolo XI in poi, le
comunità ebraiche della Spagna, della Francia, della Germania e dell’Italia diventarono i centri più
importanti della diaspora ebraica, in questi territori il giudaismo riuscì a trapiantarsi in modo
duraturo, divenendo una componente non secondaria della storia dell’Europa medievale, moderna e
contemporanea.
L’accezione giudaismo classico è dovuta al fatto che nell’età di formazione del giudaismo
rabbinico, tra i secc. II-VI, furono compilate e pubblicate alcune opere che costituiscono, ancora
oggi, il nucleo principale della letteratura sacra ebraica, la prima delle quali, terminata intorno al
200 e.v., è rappresentata dalla Mishnàh. Per i successivi tre secoli questo documento costituì un
vero e proprio codice legale, il sistema giudiziario della nazione ebraica nella sua terra e nelle
comunità della diaspora, tanto che nel giro di qualche decennio la Mishnàh fu canonizzata,
assumendo pari dignità della Bibbia ebraica.
La seconda opera redatta dal giudaismo rabbinico, anch’essa risalente al II secolo, è la Toseftà, che
costituisce un supplemento alla Mishnàh e, benché quattro volte più ampia di quest’ultima, non
assunse mai un valore canonico.
1
Per tale periodizzazione cfr., G. Stemberger, Il Giudaismo classico. Cultura e storia del tempo rabbinico (dal 70 al
1040), Roma, Città Nuova, 1991.
1
Le discussioni nate attorno alla Mishnàh, avvenute sia in Palestina sia durante la diaspora
babilonese, originarono altri due testi fondamentali: il Talmud palestinese (inizio del V secolo) ed il
Talmud babilonese (VI secolo). Quest’ultimo rappresenta il grande compendio della legge e della
tradizione ebraica. E’ il maggior testo di studio delle accademie rabbiniche tradizionali e tutti gli
ebrei sono invitati a studiarlo2 (d’ora in poi quando parleremo di Talmud faremo riferimento solo a
tale versione).
Infine, la letteratura rabbinica ha originato le collezioni esegetiche note con il termine Midràsh
(interpretazione). La letteratura midrashica si è sviluppata nel corso di diversi secoli (II-XIII) e si
presenta sotto forma di commenti dei versi biblici, spesso di difficile datazione. Si è soliti
considerare il Midràsh come l’interpretazione biblica ufficiale del popolo ebraico 3, la cui esegesi
resta perpetuamente connessa al presupposto che ogni passo biblico sia dotato di una pluralità di
sensi e di spiegazioni che si susseguono. Il Midràsh contraddistingue perciò l’esistenza di un
dialogo permanente tra il testo e la comunità interpretante.
Tutti i nomi finora incontrati Mishnàh, Toseftà, Talmud, Midràsh, appartengono all’unico alveo
della Torah orale.
Ma che significa Torah orale e qual è la sua differenza con la Torah scritta?
Nella concezione rabbinica tradizionale tutto il sapere religioso e profano è contenuto nella Torah
consegnata da Dio a Mosè sul Sinai, nella complementare forma scritta e orale, rappresentate
rispettivamente dalla Bibbia ebraica (che comprende i libri del Pentateuco, dei Profeti e degli
Agiografi) e dall’interpretazione rabbinica data alle Scritture.
Nella visione di tutto Israele, fino al 200 e.v., si riteneva che Dio avesse rivelato la sua parola e la
sua volontà divina facendo sempre ricorso alla forma scritta.
Diversamente una delle principali teorie sull’origine della Mishnàh e sulla sua autorità come testo
sacro della religione ebraica si basa sull’affermazione che essa era parte della rivelazione data a
Mosè sul Sinai, espressa però in modo diverso dalla comunicazione avvenuta attraverso lo scritto.
Fu, cioè, una rivelazione conservata in forma orale e trasmessa oralmente attraverso la
memorizzazione e la ripetizione.
Il processo di continuità tra rivelazione scritta e rivelazione orale è stato indicato nella via
dell’interpetazione4; lo stesso Paul Ricoeur durante gli anni ’70, nel tentativo di definire una teoria
generale dello sviluppo dell’ermeneutica biblica, scriveva: «Come figli della critica, gli uomini
dovrebbero riuscire, mediante la critica, ad andare al di là di essa, non per avere meno significato,
ma per averne di più, in altre parole, per foggiare un’ermeneutica che ripristini il significato. Il
credere è integralmente riferito all’interpretare (c.n.)5». Queste parole si adattano perfettamente al
mondo intellettuale dei rabbì vissuti tra il II ed il VI secolo, che ripresero il patrimonio letterario
della religione ebraica antica forgiandolo in un nuovo ed inedito significato attualizzante, mediante
la redazione del corpus di opere oggi conosciute come testi della Torah orale. Tale principio è
fortemente innovativo e venne accettato dal giudaismo ufficiale a partire dalla tradizione mishnaica
e talmudica.
Ma i rabbini non si limitarono a compilare un nuovo corpus di opere. Essi, proprio in virtù di quei
valori e di quei principi espressi nel nuovo canone della letteratura sacra ebraica, riuscirono ad
imporre la propria supremazia nella guida del popolo, supremazia che se da una parte contribuì a far
estinguere o a dichiarare eretiche le dottrine dei gruppi dissenzienti al giudaismo rabbinico
(sadducei, sadociti, farisei ed esseni), dall’altra ebbe il merito di mantenere viva ed unita l’identità
ebraica nelle comunità della diaspora e in Palestina.
R. A. Rosemberg, L’ebraismo. Storia, pratica, fede, Milano, Mondadori, 1995², p.101. Per la persecuzione del
Talmud in Italia, messa in atto dall’Inquisizione romana durante l’età controriformistica, cfr., F. Parente, La Chiesa e il
Talmud, in Annali 11. Storia d’Italia. Gli ebrei in Italia, a cura di C. Vivanti, I, Torino, Einaudi, 1996, pp. 524-643.
3
G. Stemberger, Il Giudaismo classico op.cit., p. 159.
4
P. Stefani, La letteratura rabbinica, in La cultura ebraica, a cura di P. R. Sabbadini, Torino, Einaudi, 2000, pp. 322323. Per un quadro esaustivo sui generi della letteratura rabbinica, cfr., Ibidem, pp. 317-340.
5
P. Ricoeur, Ermeneutica biblica, Brescia, Morcelliana, 1978, p. 12.
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2
«Quando Dio rivelò la Torah sul Sinai, vi comprese le opinioni dei rabbì viventi e dotati di
autorità»: su questo mito, il mito della Torah, poggia la totalità del sistema e della struttura del
giudaismo nella sua formulazione classica6: solo se mediata dai rabbì la Torah –scritta e orale- può
diventare una vera guida per la vita sia individuale che collettiva, soltanto i rabbì, infatti, possono
fornire un orientamento autentico, ereditando, custodendo, interpretando e attualizzando l’antico
patrimonio rivelato7.
Come riuscirono i rabbì a porsi alla guida del popolo? Il problema nasce a causa dei tratti peculiari
della stessa Mishnàh, poiché tale documento venne promulgato come costituzione ufficiale del
popolo ebraico. Era dunque un documento pubblico, o meglio, un documento politico.
Le persone che conoscevano la Mishnàh, i rabbì o saggi, acquisirono in breve il controllo della vita
di Israele. Non appena, nella vita quotidiana, si aveva a che fare con il governo ebraico in carica –
rivolgersi, ad esempio, al tribunale per i danni subiti dal proprio raccolto ad opera del bue del
vicino- allora ci si imbatteva nella legge scritta nella Mishnàh, che divenne presto uno strumento di
controllo sociale.
La pretesa di esercitare l’autorità e il diritto di imporre pesanti sanzioni, in accordo con la Mishnàh,
sollevò perplessità. La crisi era imminente.
I saggi in carica nei tribunali di Israele e la burocrazia avrebbero impiegato tre secoli per risolvere
questa crisi, cercando il modo di far accettare la Mishnàh all’intero popolo.
Accettare la Mishnàh significava porla in relazione con le Sacre Scritture.
I rabbì perciò riplasmarono il significato della parola Torah attraverso un processo esegetico che
collegava le affermazioni della Mishnàh con i versetti della Scrittura. Non a caso, le opere che
vennero redatte dopo la Mishnàh fino al 600 e.v., dalla Toseftà al Talmud, furono tutte intese a
spiegare l’origine di questo documento fondativo collegandolo alla Torah scritta. All’interno del
processo di interpretazione della Mishnàh sorse la necessità di raccogliere e sistematizzare queste
esegesi, in correlazione alla Mishnàh letta riga per riga e paragrafo per paragrafo. Lo stesso metodo
usato dai saggi del Talmud per la Mishnàh fu in seguito adottato anche per la Scrittura8.
Esegesi è una parola di origine greca (exēgēsis) e significa racconto, esposizione, spiegazione,
commento, interpretazione. Fare esegesi significa «interpretare il testo traendone fuori il
significato9».
Secondo la tradizione ebraica la parola rappresenta il luogo della rivelazione, lo spazio in cui abita
la divina presenza10. Ecco perché l’ermeneutica propria del giudaismo rabbinico verte sulla
consapevolezza che le parole umane impiegate a spiegazione della Scrittura non possono esaurire il
contenuto del messaggio divino, se non tramite continue approssimazioni. L’unico veicolo che il
saggio possiede per avvicinarsi il più possibile al significato delle parole rivelate è la pluralità di
sensi.
In base a questa definizione sarà interessante approfondire l’esegesi ebraica di alcuni personaggi
biblici presentati nel volume di Perani, a cominciare da Abele, definito da Gianfranco Ravasi «figlio
dell’uomo Adamo, emblema di tutte le vittime della violenza e del sangue innocente versato sulla
terra […]11».
I testi della letteratura ebraica dedicano poco spazio ad Abele, mentre focalizzano la loro attenzione
su Caino, il primo omicida della storia umana. Questa impostazione, del resto, è già presente nella
Bibbia, che centra il suo racconto sulla dinamica spirituale che muove il fratricida e, poi, sulla
vicenda del superstite. Ma sul fatto che l’ucciso sia innocente, sul perché della sua morte violenta,
6
J. Neusner, I fondamenti del giudaismo, Firenze, Giuntina, 1992, p. 23
Sull’apparente contraddittorietà della Torah scritta con quella orale, cfr., G. Stemberger, Il Giudaismo classico op.cit.,
pp. 154-161.
8
J. Neusner, I fondamenti op. cit., pp. 127-128.
9
B. Maggioni, Esegesi biblica, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di P. Rossano, G. Ravasi, A. Girlanda,
Milano, Edizioni Paoline, 1988, p. 497.
10
P. Stefani, Lettura ebraica della Bibbia, in Ibidem, p. 816.
11
G. Ravasi, dalla Prefazione a J. Daniélou, I Santi Pagani dell’Antico Testamento, Brescia, Queriniana, 1988², pp. 8-9.
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3
sul suo significato poco o nulla è detto. Tanto che fin da alcune traduzioni antiche, il problema è
stato facilmente aggirato con un escamotage di tipo moralistico, aggiungendo che Caino offriva gli
scarti dei suoi prodotti, mentre Abele offriva le primizie.
In questo contesto è importante partire dal motivo del litigio dei fratelli.
Nell’apocrifo Vita di Adamo ed Eva, datato dagli studiosi tra il I secolo a.e.v. e il I e.v., Eva
racconta un sogno premonitore ad Adamo, secondo il quale Caino avrebbe bevuto il sangue di
Abele. I progenitori decidono allora di dividere i due fratelli, facendo di Caino un agricoltore e di
Abele un pastore. Alcune glosse riportate nel manoscritto B, asseriscono che Adamo aveva
attribuito la causa del litigio dei fratelli ad una donna contesa. Tale motivo verrà ripreso ed ampliato
nella tradizione posteriore. Le variazioni sul tema sono molte: assieme a Caino ed Abele sarebbe
nata a ciascuno una sorella gemella (o, secondo la Genesi Rabbah, un Midràsh redatto nella prima
metà del V secolo, una gemella per Caino e due gemelle per Abele), per assicurare ai fratelli la
continuazione della specie umana. Ma la gemella di Abele era bellissima, e Caino la voleva per sé:
«Una gemella in più era nata con Abele. Caino disse “La prendo io, che sono il primogenito”. Abele
disse “La prendo io perché è nata con me”».
Un componimento risalente ai secc. VIII-IX, il Pirque de Rabbi Eli‘ezer, ci spiega che Adamo,
avvicinandosi la festa della Pasqua, invitò i due figli ad offrire un sacrificio al Signore; Abele
sacrificò il fior fiore delle sue greggi, mentre Caino prima consumò il suo pasto, poi ne offrì a Dio
gli avanzi, ossia pochi semi di lino12. Tradizionalmente si ritiene che Caino per questo fu punito dal
Signore, e da questo episodio si è soliti far derivare la sua ira nei confronti di Abele. Il problema è
di sapere perché Dio abbia gradito l’offerta del secondogenito. Jean Daniélou ritiene che Dio avesse
accettato l’offerta di Abele senz’altra ragione che per suo libero arbitrio «Voler attenuare questa
realtà, come ha fatto la tradizione ulteriore, significa impedire di capire il dramma che segue e
nello stesso tempo sopprimere il mistero contenuto […] nella Scrittura: questo mistero è quello
dell’elezione. Abele non è eletto perché giusto. E’ giusto perché eletto. La preferenza di Dio si
rivela nei suoi confronti senza alcun merito anteriore da parte sua. E’ il mistero stesso della grazia,
in tutto il suo paradosso13».
Il giudaismo rabbinico, in quanto si autodefinisce come «giudaismo della Torah», nella sua
interpretazione della teofania al Sinai non poteva relegare ad un ruolo secondario la Torah stessa.
Dobbiamo ricordarci che una credenza fondamentale del popolo ebraico è quella di ritenersi il
popolo eletto di Dio poiché meritevole di ricevere, grazie alla mediazione di Mosè, la Sacra
Scrittura. Potrebbe stupire allora il fatto che, all’interno dell’interpretazione rabbinica, non esista
una visione omogenea del mito fondativo della stipulazione dell’alleanza tra Dio e il popolo eletto.
Una prima idea, ribadita in vari testi, è che Dio, prima di dare la Torah ad Israele, la offrì a diversi
popoli, ma tutti la rifiutarono. In una testimonianza tratta dal Sifre, un midrashim redatto nel II
secolo, questo episodio viene accuratamente illustrato: «[…] il Signore […] andò innanzitutto dai
discendenti di Esaù e domandò loro “Siete disposti ad accettare la Torah?”. Quelli dissero “Cosa c’è
scritto?”. E Dio “Non uccidere”. Essi replicarono “[…] il nostro progenitore era un assassino per
natura […]. Noi non possiamo accettare la Torah”. Allora il Santo andò dai discendenti di Ammon e
di Moab e fece loro la stessa proposta […]. E quelli “Cosa c’è scritto?”. E Dio “Non commettere
adulterio”. E quelli “Ma proprio la nostra discendenza proviene da un incesto! […]”. Allora Dio si
recò dai discendenti di Ismaele (le popolazioni arabe) e anche a loro chiese se volevano accettare la
Torah. Essi pure chiesero che cosa c’era scritto e il Signore rispose “Non rubare”. Quelli
replicarono” Ma tutta la nostra vita è basata sul furto e sulla rapina! […]”. Allora il Signore andò
dagli Israeliti ed essi dissero subito: “Noi faremo e ascolteremo” (Es. 24,7)».
Una variante del tema è ravvisabile in alcuni testi rabbinici secondo i quali Dio ritenne opportuno
rivolgere alle donne di Israele la domanda se volessero accettare la Torah, ciò avendo considerato
che, nel caso dei progenitori, era stata Eva a consigliare male Adamo e a spingerlo al peccato. In
12
13
M. Perani, Personaggi biblici nell’esegesi ebraica, Firenze, Giuntina, 2003, pp. 35-42.
J. Daniélou, I Santi Pagani op. cit., p. 43.
4
questo modo le donne israelite avrebbero insegnato per prime la Torah, l’avrebbero spiegata ai loro
figli e avrebbero indotto i loro mariti ad osservare la legge di Dio.
La letteratura rabbinica è interamente percorsa da interpretazioni contrastanti senza che ciò
costituisca un problema particolare per gli esegeti. La ricerca del significato «Altro», polisemico,
narrativo, crea delle combinazioni di significato eterogenee, sfaccettate, in cui la presenza di
posizioni antitetiche rafforza l’essenza di una teologia concepita essenzialmente come racconto e di
un’ermeneutica ricca di valori etici.
Ad esempio, il Talmud, parlando dell’amore del re Davide per lo studio della Torah, afferma: «Sul
letto di Davide, in alto, era appesa un’arpa, davanti alla finestra. Quando arrivava mezzanotte, il
vento settentrionale, soffiando, la faceva suonare; allora Davide si alzava e si metteva a studiare la
Torah fino al sorgere dell’alba […]. Da dove si ricava che l’arpa svegliava Davide?. Dal versetto
che dice: Destati, mia gloria, svegliatevi arpa e cetra, voglio svegliare l’aurora (Sal. 57,8)».
E’ necessario fermare la nostra attenzione sull’arpa posta sopra il letto di Davide. Un documento
posteriore al Talmud, il Pirqe de-Rabbi Eliezer, un Midràsh redatto tra i secc. VIII-IX, sviluppa
ulteriori dettagli relativi alle corde dell’arpa, attesta, infatti, che erano state fatte con le budella
dell’ariete sacrificato da Abramo sul Monte Moria al posto del figlio Isacco. Nonostante questa
attestazione relativa, indirettamente, allo scampato sacrificio di Isacco, dobbiamo tenere presente
che, secondo la tradizione ebraica, Isacco fu realmente immolato sul monte Moria e, in un qualche
modo, fatto risorgere, per essere, in un secondo momento, ridato al padre14. Il fatto che a fornire
questa testimonianza sia un documento tardo ci deve far riflettere ulteriormente, in quanto, proprio
perchè in presenza di uno scritto redatto tardivamente ci aspetteremmo che esso rifletta se non una
comune interpretazione con la tradizione anteriore, almeno una linea di pensiero ormai consolidata.
Come ha già sottolineato Perani, nel giudaismo rabbinico –forse anche a causa della mancanza di
un’autorità centrale che vigilasse sull’uniformità delle credenze religiose, simile al ruolo svolto
nella religione cristiana dalla figura del pontefice- non ci sono stati concili ecumenici per fissare il
dogma, non si è sviluppata una dogmatica, al contrario, ha sempre regnato una grande libertà di
opinioni divergenti, a volte anche contrapposte. Nell’ebraismo la diversità di opinioni in genere
viene interpretata come la conseguenza necessaria della ricchezza della parola di Dio, condizione
che connota davvero la cultura ebraica come «civiltà del commento».
-----------------------------------------------------------------------------------© copyright Associazione Centro Culturale Leone XIII, Perugia 2004
Per la discussione relativa all’accettazione della Torah da parte del popolo ebraico e per le citazioni relative a Davide
ed Isacco, cfr. M. Perani, Personaggi biblici op. cit., rispettivamente pp. 97-99, 130, 93 e 98.
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