FRANCESCO PAOLO FIRRAO
L’INSEGNAMENTO
DELLA
FILOSOFIA,
OGGI:
QUALE
DIDATTICA E
QUALE
FORMAZIONE del DOCENTE?
1. Lo stato attuale dell’insegnamento scolastico della filosofia
Dopo un’intensa stagione di dibattiti, convegni e pubblicazioni sulla didattica della filosofia,
sull’onda delle attese create dal «riformismo virtuale, fatto di discussioni, di indagini, di progetti,
ma risolto in un nulla di fatto»1 che ha investito la scuola italiana, si sente il bisogno di ‘fare il
punto’, come si suole dire, sull’attuale stato di questo insegnamento nella scuola secondaria, per
acquisire dati che permettano di verificare la validità o meno delle proposte didattiche sin qui
avanzate.
Il panorama scolastico per quanto riguarda l’insegnamento della filosofia è attualmente
molto variegato e, insieme, contraddittorio.
Innanzi tutto, nonostante le sollecitazioni fornite da tutti coloro che hanno sostenuto con
entusiasmo l’estensione dell’insegnamento della filosofia a tutti gli indirizzi scolastici, questa
materia continua di fatto ad essere insegnata nei Licei classici e scientifici, ed in piccola misura in
quelli Linguistici. La sperimentazione per un inserimento dell’insegnamento della filosofia in
indirizzi non liceali, così come era stata proposta dalla Commissione Brocca, sembra che non abbia
dato risultati positivi, o, almeno, tali da permettere con sicurezza l’introduzione della filosofia come
materia di studio in tutti gli indirizzi scolastici.
Alcuni docenti, molti o pochi, non è questa la sede per quantificare statisticamente la
percentuale dei docenti che hanno acquisito competenze didattiche innovative rispetto alla
metodologia d’insegnamento tradizionale, pur avendo adottato testi scolastici strutturati
didatticamente per temi, per problemi, per moduli ed altro, continuano a insegnare la filosofia come
rassegna di pensieri che si succedono secondo il tradizionale modello storicistico; altri,
sensibilizzati da proposte didatticamente innovative, si propongono di ‘fare filosofia’, attivando
laboratori del pensare filosofico in cui prioritaria è l’acquisizione di competenze rispetto
all’informazione; altri, infine, insegnano ispirati prevalentemente da uno spontaneismo fortemente
soggettivo in cui la filosofia si configura come occasione per attivare processi di riflessione
personale del docente e degli studenti.
1
F. CAMBI, Saperi e competenze, Bari – Roma, Editori Laterza 2004, p. 5.
1
In questo scenario l’insegnamento della filosofia, a mio avviso, non appare in uno stato di
buona salute, in quanto se da una parte esso sembra essere oggetto d’interesse da parte della scuola
per la sua valenza fortemente formativa, dall’altra va denunciata una difficoltà da parte dei docenti a
rendere la filosofia interessante e rispondente ai bisogni formativi delle nuove generazioni
scolastiche. Pertanto si rende urgente un momento di riflessione critica sull’‘esistente’ per meglio
comprendere i confini entro cui è possibile pensare ad un insegnamento rinnovato della filosofia.
Le difficoltà registrabili nell’insegnamento della filosofia nella scuola di oggi riflettono la
complessa situazione generale della scuola in generale, dovuta, sia ad una politica scolastica che
non riesce a portare a termine i suoi processi di riforma in modo organico e coerente, sia al rapido
mutamento della società (della quale la scuola è ‘servizio’ essenziale) e sopratutto dei bisogni
formativi delle giovani generazioni.
Dall’attuale quadro socio-culturale emerge con evidenza la consapevolezza che la scuola e
l’università, oggi, mirano a creare contesti culturali e linguistici comuni in cui ogni individuocittadino possa sentirsi parte di una società in cui i punti di vista sono sempre più diversificati, la
multiculturalità costituisce una realtà, e le nuove forme di comunicazione in rete aumentano la
varietà delle aspettative individuali e fanno crescere nuove forme di microculture. Oggi, la scuola e
l’università non hanno più il privilegio di essere le uniche istituzioni formative, gli unici veicoli
legittimati per la trasmissione del sapere; esse devono competere e cooperare con altre esperienze
formative, sempre più ricche e sempre più multimediali; agiscono in un’epoca «caratterizzata da un
elevatissimo tasso di ricambio degli specialismi», in cui le «tradizionali e rassicuranti frontiere fra
le discipline si mescolano e confondono, e nascono competenze e saperi fluidi, percorsi
transdisciplinari, aree di sovrapposizione»2.
Se nella scuola l’insegnamento della filosofia non gode buona salute, la comunicazione
filosofica, al contrario, trova un alto indice di ascolto da parte del pubblico, come si evince dagli
eventi culturali che si svolgono fuori dalle aule scolastiche ed universitarie, nelle piazze, nei teatri,
negli spettacoli mediatici. Sembra, in altri termini, che la filosofia trovi ascolto e che la voce dei
filosofi, presenti in molte iniziative popolari e in animati dibattiti televisivi, sia considerata con
molto interesse e rispetto e una voce autorevole, che fa audience.
Che senso ha questo successo ‘popolare’ della filosofia? Si può pensare ad una svolta del
pensiero filosofico che, abbandonata l’aula, vive una nuova stagione ‘illuministica’, facendosi
promotore di progresso sociale? Oppure si deve considerare tutto ciò solo espressione di un diffuso
2
G. BOCCHI, M. CERUTI, Educazione e globalizzazione, Milano, Raffaele Cortina Editore 2004, p.
XII.
2
e acuto bisogno da parte della società di ottenere dalla filosofia risposte in qualche modo
‘rassicuranti’ di fronte alla caduta delle pretese ideologiche della filosofia nel Novecento?
Non è facile dare una risposta definitiva a queste domande. È comunque un dato certo che
l’uomo, oggi, vive uno stato di forte disagio, di disorientamento radicale, in cui si fa sempre più
urgente la richiesta di una ‘cultura’ che gli permetta di ‘ri-orientarsi’.
Le istituzioni scolastiche, sociali e politiche, dovrebbero farsi interpreti delle attese umane e
sociali tramite la progettazione e la realizzazione di iniziative educative che aiutino gli individui,
soggetti di pensiero e di azione, a raggiungere gradi di consapevolezza tali da renderli compartecipi
dei processi di cambiamento in atto sia a livello individuale che sociale. Si dovrebbe evitare di fare
della cultura occasione folcloristica, di solo spettacolo. Si dovrebbe considerare sempre più questa
partecipazione ‘popolare’ ad iniziative culturali, e filosofiche in particolare, come espressione di
una naturale ‘appartenenza’ dell’uomo al pensare filosofico, vale a dire a una forma di pensiero che
gli è propria, e che è quindi necessariamente attiva in tutti i passaggi della sua vita e della sua storia.
Questo bisogno di filosofia rivela la connaturata esigenza di risposte a domande di senso e di
significato che accompagnano l’uomo in tutto il percorso della sua esistenza, avvicinandolo alla
filosofia, intesa come ‘pensare’ in divenire più che come stabile sapere attorno a verità ‘eterne’: ad
una filosofia, intesa come fonte di conoscenze che, più che dissetare, alimentano la sete di verità,
aprendo l’orizzonte dell’esistenza a dimensioni che la rendano ricca, imprevedibile, appetibile,
comprensibile al di là della sua superficiale materialità .
2. Tre questioni di fondo sulla filosofia ‘insegnata’.
Quanto sopra delineato, ossia la frattura che si registra tra le difficoltà dell’insegnamento
della filosofia nella scuola ed il successo ‘popolare’ della filosofia, sollecita una riflessione sulle
ragioni che impediscono alla filosofia di essere una disciplina insegnata in modo tale da rispondere
adeguatamente ai bisogni formativi dei giovani studenti. È una riflessione questa che pone in rilievo
due ordini di questioni: il primo riguardante il metodo d’insegnamento; il secondo riguardante il
profilo culturale e professionale del docente di filosofia; il terzo riguardante la formazione di una
coscienza civile dei discenti.
a) La questione del metodo d’insegnamento
3
La questione del metodo d’insegnamento in questi ultimi decenni ha avuto un ampio spazio
nel dibattito pedagogico-didattico, portato avanti dalla Società Filosofica Italiana a partire
dall’indagine svolta dalla Commissione nazionale didattica costituitasi all’interno della SFI nel
1971 e dalla convenzione stipulata nel 1983 con l’Ufficio Studi e Programmazione del Ministero
della Pubblica Istruzione3.
Da questa indagine risulta tra i vari altri dati che l’insegnamento della filosofia nei licei è
saldamente ancorato alla tradizione storicistica, che si è affermato come metodo scolastico
l’impostazione storica suggerita dai programmi d’esame, e non d’insegnamento, della Riforma
gentiliana ( 1923 ). Francesco Barone, nella sua relazione al XXIII Congresso nazionale di filosofia,
ha ricordato che «Gentile, che era un filosofo genuino, non ha mai inteso l’unità di filosofia e storia
della filosofia nella maniera semplicistica in cui venne compresa da epigoni ed estensori di
manuali», in particolare nella forma riduttiva operata nella stesura dei programmi del 1936, tuttora
in vigore, con la marginalizzazione della lettura diretta delle opere che era centrale nel progetto
gentiliano4.
Scorrendo la storia della scuola italiana dal secondo dopoguerra ad oggi si registra un
continuo interesse alle modalità d’insegnamento della filosofia, parallelo alla registrazione della
difficoltà di renderlo fortemente significativo nel curricolo di studi superiori. A partire dagli anni
Cinquanta la disputa tra ‘storicisti’ e ‘sistematici’ assunse toni accesi tanto che, risentendo del clima
politico monocolore democristiano, pedagogisti e insegnanti cattolici proposero la sostituzione della
storia della filosofia con lo studio di ‘problemi’ filosofici affrontati in chiave tomistica. Da un
problema didattico emergeva così una questione politico-culturale: da un lato la difesa di un
orientamento teologico-confessionale, dall’altro la difesa di un orientamento storico-filosofico,
quest’ultima sostenuta da coloro che proponevano una laicizzazione della scuola e si opponevano
ad un insegnamento dottrinario ed autoritario di cui il modello ‘tomista’ era portatore.
La contrapposizione tra metodo storico e metodo sistematico ritrovò i suoi toni più
propriamente pedagogici negli anni ’60, all’indomani della riforma della scuola unica, in un
momento in cui, a seguito della formulazione di un nuovo programma d’insegnamento da parte del
Centro didattico nazionale per i Licei , si diffuse il presentimento di una imminente ristrutturazione
degli studi superiori: l’insegnamento della storia della filosofia, compresa nei programmi di studi
degli ultimi due anni del triennio superiore, sarebbe stata articolata per ‘grandi direttrici tematiche’,
Cfr. ( a cura di L. VIGONE e C. LANZETTI), L’insegnamento della filosofia, Roma – Bari, Editori
Laterza 1987.
3
4
Atti del XXIII Congresso Nazionale di filosofia, Roma, 1971; in (a cura di) L. VIGONE e C.
LANZETTI, op. cit., pp. 1 – 2.
4
preceduto da un anno, il primo del triennio, a carattere propedeutico dedicato all’analisi delle
strutture logico-linguistiche del discorso filosofico.
Questa proposta di programma apparve a molti inattuale per la sua astrattezza rispetto alle
reali esigenze formative dei giovani studenti e, principalmente, per la mancanza di un’adeguata
preparazione professionale dei docenti; tuttavia essa fu occasione per una riflessione ulteriore sulla
natura del metodo storico, inoltre sul coordinamento della filosofia, materia di studio, con le altre
discipline curricolari, e, infine, sul rapporto tra lo studio manualistico della filosofia e la lettura dei
classici. Non solo, in questo clima fortemente caratterizzato da interessi didattici, si creò una chiara
apertura al tema dell’apprendimento, vale a dire a quella considerazione dei rapporti tra metodo
d’insegnamento e aspettative, interessi e modalità di elaborazione cognitiva, che ha poi fatto
dell’apprendimento la funzione primaria dell’insegnamento.
In questa fase la contesa tra ‘storicisti’ e ‘problematici’, assertori i primi dell’insegnamento
della filosofia come storia della filosofia, i secondi di una filosofia per problemi, assunse toni più
misurati e meno accesi, arricchendosi di precisazioni significative nelle posizioni assunte da
Giannantoni che distinse lo storicismo ‘valido’ da quello ‘apparente’, da Dal Pra che suggerì di
partire nell’insegnamento della filosofia dai problemi della filosofia contemporanea per risalire alla
storia della filosofia, da Berti ed Agazzi che proposero un approccio allo studio della filosofia in cui
metodo storico e metodo problematico trovassero un equilibrio.
Tutte proposte, queste, che non hanno avuto di fatto da parte dei docenti della scuola
secondaria una ricezione produttiva, in quanto ritenute interne ad un dibattito accademico in cui la
filosofia veniva interrogandosi circa una sua identità come forma di sapere. Per cui i docenti
impegnati nell’insegnamento liceale della filosofia si sentirono estranei a quel dibattito ed alle
proposte didattiche che venivano proposte direttamente dal mondo accademico. Una certa estraneità
dei docenti verso le proposte innovative, provenienti non solo dai dibattiti ‘accademici’ ma anche
da quelli promossi da Enti, Associazioni culturali e professionali, dallo stesso Ministero
dell’Istruzione, con toni e forme diverse è stata ed è ancora presente, tant’è che ancora oggi nella
scuola, nonostante si stia parlando da tempo di una ristrutturazione dei contenuti in base alle
esigenze di apprendimento dei giovani studenti, la ‘logica del programma’ conserva ancora la sua
priorità rispetto ad una ‘logica del curricolo’, cioè rispetto ad una programmazione sulla base della
considerazione del comportamento motivazionale o cognitivo degli studenti e non solo dei contenuti
da apprendere.
È questa una situazione in cui la distanza tra le proposte suggestive, ma ‘accademiche’, in
quanto elaborate in base a considerazioni solo teoriche, in cui la filosofia cerca se stessa, e la
complessa realtà quotidiana del rapporto educativo, in cui l’insegnamento filosofico si colloca come
5
strumento di formazione umana più che come sapere definito da acquisire, crea contraddizioni nel
comportamento dei docenti: in effetti questi ultimi da una parte si mostrano sensibili alle strategie
formative articolate in obiettivi, dall’altra agiscono didatticamente considerando il pensiero
filosofico nella sua esclusiva dimensione storica.
È da chiedersi se non sarebbe opportuno svincolare la questione del metodo d’insegnamento
da problemi teoretici come quello riguardante l’identità della filosofia come storia o come
problema, riavvicinando l’insegnamento alle modalità con cui il pensiero filosofico, che è in effetti
in sé storico-problematico, può essere formativo per i giovani studenti, cioè per dei soggetti di
apprendimento attivo, che sono condizionati culturalmente dal contesto storico in cui vivono.
Ritengo che, per una corretta impostazione didattica dell’insegnamento della filosofia, che
risponda in modo efficace alle motivazioni implicate nell’apprendimento, si dovrebbe partire
dall’esperienza culturale dei giovani, dall’immagine del pensare filosofico che i giovani studenti si
sono creati spontaneamente tramite i loro studi, i loro contatti con i mezzi di comunicazione
mediatica. Le indagini svolte sul mondo giovanile, sui loro ‘vissuti’ dicono che i giovani studenti
hanno del sapere un’immagine consumistica in cui tutto si conserva nel suo continuo cambiamento,
in cui, quindi, non c’è più cambiamento ma in realtà conservazione. I giovani studenti vivono nella
società dei consumi. In essa, ha osservato Vattimo chiarendo il senso della nozione gehleniana del
‘post-histoire’ come espressione della condizione in cui «il progresso diventa routine»,
il rinnovamento continuo ( degli abiti, degli utensili, degli edifici ) è fisiologicamente richiesto per
la pura e semplice sopravvivenza del sistema; la novità non ha nulla di ‘rivoluzionario’ e sconvolgente, è ciò
che permette che le cose vadano avanti nello stesso modo. C’è una specie di ‘immobilità’ di fondo del
mondo tecnico, che gli scrittori di fantascienza hanno spesso rappresentato come la riduzione di ogni
esperienza della realtà a un’esperienza di immagini ( nessuno incontra davvero nessuno, vede tutto sui
monitor televisivi che comanda stando seduto nella sua stanza ), e che già, più realisticamente, si percepisce
nel silenzio ovattato e climatizzato in cui lavorano i computer5.
In questo contesto quale senso può avere l’insegnamento della filosofia praticato da una
maggioranza di docenti come storia del pensiero filosofico, come ‘filastrocca’ di pensieri posti in
successione storica? Ha ancora senso offrire ai giovani l’immagine di un pensiero la cui funzione
risulta per essi ‘oscura’ ed ‘indeterminata’? Scrive Bodei della filosofia oggi:
di fronte a saperi e pratiche la cui verità o utilità si impongono con immediata evidenza, la sua
funzione risulta oscura e indeterminata. Frequenti sono perciò le accuse di non offrire né le certezze della
scienza, né i vantaggi della tecnica, né la bellezza dell’arte, né le consolazioni della religione. A propria
dimora essa non ha scelto la terra o il cielo, il principio di realtà o quello di piacere, ma le nuvole. In termini
5
G. VATTIMO, La fine della modernità, Milano, Garzanti 1998 ( 2a ed.), p. 15.
6
più crudi: non solo si è mostrata incapace di risolvere i problemi e i bisogni degli uomini, ma si è resa
persino insensibile ai loro drammi, preoccupazioni e speranze6.
b) La questione di una nuova professionalità degli insegnanti
L’ambiente culturale in cui vivono i nostri giovani, in cui viviamo noi tutti, è fortemente
caratterizzato da una forte destabilizzazione dell’assetto dei saperi insegnati, che sono ancora
pensati e strutturati epistemologicamente secondo un modello ‘moderno’ di sapere, fondato su un
nucleo forte che tende a conservarsi immutato nei tempi, e a presentarsi come forza propulsiva del
progresso dello stesso sapere. Riflettendosi nell’ambito scolastico, questa ‘instabilità’ culturale che
potremmo connotare come ‘post-moderna’ ha investito i contenuti delle discipline d’insegnamento,
compresa la filosofia, favorendo l’introduzione di nuovi metodi d’insegnamento e di nuove materie
come l’informatica, le tecnologie e le scienze sociali. Si è creata così nella scuola una situazione di
contrasto con l’esistente culturale scolastico ancora legato per certi aspetti alla ‘stabilità’ definitasi
negli anni Venti del secolo scorso: quella stabilità per cui il sapere scolastico si presentava come
una sorta di sistema immutabile che nessuno poteva mettere in dubbio nella sua legittimità. Questo
sistema culturalmente stabile permetteva al docente, in modo particolare per il nostro discorso al
docente di filosofia, di disporre di risposte coerenti e sicure sul ‘come’ e sul ‘cosa’ trasmettere agli
studenti. La stessa formazione universitaria dei docenti invitava a gestire e padroneggiare i saperi
con strumenti pedagogici colti per intuizione più che appresi per conoscenza. Concetto Marchesi
scrisse in un suo articolo a proposito del latino:
La scuola dipende da colui che vi insegna. Oltre e sopra il regolamento, qualunque esso sia, c’è il
maestro. Il fastidio o il gradimento, l’interesse o la noia, l’equilibrio e il disordine dipendono da lui,
dall’uomo che insegna. Si può ridurre il pane al maestro, si può levargli anche la libertà, ma non la facoltà di
penetrare nell’animo dell’alunno e richiamarlo alla luce e alla gioia della conoscenza. Gli si lasci soltanto in
mano il catechismo e ne farà uno strumento di scienza e di nobiltà umana se non è un pitocco o un servo7.
Quanto sottolineato da Marchesi è valido ancora oggi. Oggi assistiamo ad un impoverimento
professionale della figura del docente che è sempre più disorientato dovendo affrontare problemi a
cui non è stato adeguatamente preparato: come cambiamenti di programmi, di orari, di obiettivi,
orientamenti e metodi. Il docente si trova ad insegnare contenuti e ad utilizzare metodologie che a
volte non possono essere adeguatamente padroneggiati, al di là delle sue buone intenzioni .
6
R. BODEI, Il modello di trasmissione storica del sapere filosofico e la sua attuale crisi, in La
trasmissione della filosofia nella forma storica. Atti del XXXIII Congresso Nazionale della Società
filosofica Italiana, a cura di L. MALUSA, vol. I, Milano, Franco Angeli 1999, p. 91.
7
C. MARCHESI, La questione del latino, «Unità» del 3 aprile 1956.
7
Nonostante varie iniziative di sperimentazione e di aggiornamento molti insegnanti, come già sopra
evidenziato, hanno percepito i cambiamenti come una fonte di serie difficoltà e di ‘turbamento’
della pratica d’insegnamento quotidiano, li hanno vissuti come una vera e proprio perdita di senso.
Questo stato d’animo ha indotto e induce ancora molti insegnanti a conservare quella loro
identità professionale che li qualifica come ‘trasmettitori’ di un sapere, nel caso specifico della
storia della filosofia: questo è costituito in gran parte dagli stessi contenuti che hanno appreso sui
banchi di scuola come studenti, ed inoltre il più delle volte ignorando od aggirando quanto
approfondito nei corsi di laurea. Si è venuta a determinare quindi una situazione paradossale, in cui
si è azzerato quel processo di socializzazione e di trasmissione del ‘mestiere di insegnate’ dai
docenti anziani a quelli più giovani.
Tutto questo, tra i tanti altri fattori del disagio professionale del docente in generale e di
quello di filosofia in particolare, è all’origine della ‘distanza’ creatasi tra l’attività del docente e
quella degli studenti, in cui questi ultimi appaiono sempre più distratti e disinteressati verso quanto
insegnato: un divario tra insegnamento ed apprendimento, in cui la didattica appare come una
panacea con cui i problemi dell’apprendimento possono essere risolti, come un sistema di categorie
con cui rendere più acquisibile da parte degli studenti saperi sentiti da questi ultimi distanti dai loro
interessi, dal loro modo di vivere quotidiano, in effetti privi di senso.
La didattica, come spesso è praticata nelle scuole, tende a conservare il passato tramite un
suo riferimento al presente filtrato da categorie desunte dallo stesso passato. Il presente, così visto, è
altro dal presente in cui lo studente vive quotidianamente, fuori dalle mura della scuola. La stessa
attività scolastica è vissuta dagli studenti come una ‘pausa’ necessaria, ma non sufficiente alla
propria formazione umana, utile, almeno fino al mantenimento del valore legale del titolo di studio,
all’acquisizione di un’identità culturale legalmente riconosciuta dalla società.
Ripensare l’insegnamento della filosofia, nel nostro caso specifico, vorrebbe dire ripensare il
rapporto tra la disciplina, che deve rimanere un punto di riferimento fermo anche se non centrale, e
la sua didattica, che andrebbe vista nella sua sostanza come ricerca e non come riproduzione di
modelli preconfezionati sulla base di teorie pedagogiche, astrattamente considerate: una didattica
intesa come la ricerca delle ‘modalità’ che il docente, fortemente consapevole della propria
professionalità nei termini evidenziati con acume da Concetto Marchesi, individua come idonee
all’attivazione negli studenti di quei processi cognitivi ed emozionali che rendono effettivo il loro
approccio critico con la realtà, con il proprio mondo, con il proprio sé, con i propri sentimenti ed
emozioni: processi che aprono alla scoperta del senso e dei valori della vita, minacciata
dall’immobilità consumistica delle tecnologie e delle mode.
8
Insegnare filosofia, oggi, vuol dire offrire agli studenti, tramite le conoscenze filosofiche,
opportunamente selezionate e mediate dalla sensibilità professionale del docente, opportunità
culturali per ‘dare senso’ agli atti del pensare e dell’agire. Come sottolinea Bodei,
più che alla decadenza inarrestabile dell’impero di Bisanzio, le vicende della filosofia sono
paragonabili -per usare una metafora tratta dalla geologia- alla registrazione dei movimenti tettonici
generalmente lenti, ma talvolta ‘catastrofici’ del globus intellectualis, i quali manifestano, non raramente, il
senso delle fratture e delle collisioni tra le grandi ‘zolle’ concettuali da cui tutte le culture umane sono
sostenute. Il compito principale della filosofia è appunto quello di ridisegnare criticamente le variazioni delle
mappe di senso, di ri-orientare gli individui rispetto ai continui mutamenti di assetto delle idee e dei valori, di
distruggere i modi di pensare e di rappresentare inadeguati, settari o menzogneri 8.
Dunque l’insegnamento filosofico dovrebbe offrire ai giovani studenti l’opportunità di ‘riorientare’ le proprie conoscenze, di dare ad esse senso e significato, di organizzarle in modo che da
esse siano tratti suggerimenti per agire con consapevolezza in questa società sempre più complessa,
per cogliere in esse le possibili risposte a problemi di senso che si affacciano nella loro esperienza
giovanile di vita sia a livello individuale che sociale. Dico “dovrebbe”, in quanto, come già
osservato, di fatto l’insegnamento della filosofia continua ad avere come sua finalità
preminentemente l’informazione circa quanto è stato detto e scritto dai Filosofi, anche nel caso in
cui si utilizzino modalità che vogliono cogliere la dimensione problematica e tematica del pensare
filosofico.
Partire dal presente, dalla domanda di senso, fatta scaturire nel giovane studente tramite il
dialogo attorno a temi a lui familiari, non vuol dire assolutamente mettere in soffitta la storia del
pensiero filosofico. Non c’è pensiero critico se viene a mancare la prospettiva storica che permette
il confronto con quanto è stato pensato nel passato. Un passato, quello appreso nello studio, che la
coscienza giovanile dovrebbe vivere come tale, ossia come evento culturale che ha avuto le sue
ragioni nel contesto storico in cui si è presentato, e non come evento ‘da conservare intatto’ a
scapito del presente, che come il passato ha un proprio contesto storico da far valere e che lo
giustifica nelle sue domande, nei suoi problemi e nelle modalità di affrontarli.
Uno degli obiettivi primari dell’insegnamento scolastico è fare capire ai giovani studenti che
la storia della cultura in generale, e quella filosofica in particolare, si è definita come un continuo
processo di ri-assestamento e di ri-orientamento di assetti di idee e di valori, che questi sono
soggetti a mutamenti che si devono considerare fisiologici, in quanto propri del divenire storico
dell’uomo e della società. Aiutare i giovani a ’ri-orientarsi’ e a ‘ri-assettarsi’ vuol dire, quindi,
offrire opportunità culturali che diano loro strumenti per prendere coscienza dei processi che hanno
8
R. BODEI, Il modello di trasmissione storica del sapere filosofico e la sua attuale crisi, cit., p. 90.
9
scosso i sistemi di idee e di valori, per individuare le situazioni che li hanno determinati, per
comprendere gli stati di disagio da essi prodotti nei modelli e negli stili di vita individuale e
collettiva, per attivare processi mentali di riflessione critica sui concetti, le idee, i valori su cui si è
costituita la identità culturale a loro trasmessa dall’ambiente familiare e sociale.
Dal punto di vista pedagogico l’esperienza legata all’insegnamento della filosofia dovrebbe
essere caratterizzata da un alto grado di autoriflessività legata alla ricerca del senso del filosofare.
Si apprende la filosofia solo tramite l’attività del filosofare. Già Kant aveva messo in
evidenza questo principio, collocandolo, però, in contesto teoretico diverso da quello in cui è stato
posto da numerosi didattici della filosofia: questi hanno interpretato la massima di Kant troppo
spesso in modo semplicistico, come ‘tecnica di pensiero’ per un apprendimento semplificato del
pensiero dei Filosofi, scandito storicamente nei termini della tradizionale periodizzazione della
storia culturale occidentale: antica, moderna e contemporanea.
Più che ‘fare filosofia’, come alcuni docenti definiscono la loro pratica d’insegnamento, noi
docenti di filosofia dovremmo impegnarci a far cogliere agli studenti il ‘senso del filosofare’,
facendo riacquistare al filosofare la sua naturale natura di pensiero teoretico finalizzato ad una
ricerca di risposte di senso e di verità, che muova dal riconoscimento della unitarietà e della
complessità del pensare e dell’agire.
c) La collocazione dell’insegnamento della filosofia ‘tra’ gli altri insegnamenti
Educare i giovani ad un approccio critico alla complessità del reale non è un obiettivo
specifico dell’insegnamento della filosofia, ma di tutti gli insegnamenti scolastici considerati nella
loro unitarietà. È proprio questa dimensione del sapere scolastico, in cui tutte le discipline si
relazionano in un contesto problematico critico, che potrebbe dare senso al filosofare, al pensare
filosofico che per sua vocazione critico-problematica, sin dalle sue origini storiche, si è
caratterizzato come pensiero comune a tutte le forme di sapere e di esperienza.
Rendere visibile questo carattere di ‘trasversalità’ della filosofia è forse l’unica via affinché i
giovani mutino l’immagine che hanno della filosofia: ora essi vedono la filosofia come forma di
pensiero che non ha senso, che non è utile di fronte a saperi e pratiche di esperienza la cui verità e
utilità s’impongono con immediata evidenza, che non offre le certezze della scienza, né i vantaggi
della tecnica, né la bellezza dell’arte, né le consolazioni della religione, la vedono come attività di
pensiero incapace di risolvere i problemi degli uomini, addirittura insensibile ai drammi, alle
preoccupazioni, alle speranze umane.
10
Questo modo d’intendere lo studio della filosofia rimarrà vivo nella scuola fino a quando lo
studio della filosofia, meglio, della Storia della filosofia, continuerà a collocarsi accanto a quello
delle altre materie secondo il modello di apprendimento cumulativo ancora imperante nello studio
scolastico, in cui i vari segmenti delle conoscenze disciplinari si sommano tra loro, creando il più
delle volte una testa ben piena più che una testa ben fatta.
Oggi più di ieri, per la crescente complessità dei processi mentali richiesti, occorrerebbe
educare le giovani menti ad un pensiero che riesca a ‘tenere insieme’, più che a ‘disgiungere’ i vari
segmenti del sapere. Può sembrare un paradosso enunciare questa esigenza in un momento della
nostra storia culturale in cui ogni forma di conoscenza tende a iperspecializzarsi, a frantumarsi in
frazioni sempre più piccole nell’ambizione di raggiungere una conoscenza sempre più adeguata alla
realtà. Ma questa è un’immagine del tutto illusoria , in quanto nessuna porzione di conoscenza può
avere senso e significato se non all’interno di un insieme globale. Come sottolinea Edgard Morin
«vi è un’inadeguatezza sempre più ampia, profonda e grave tra, da una parte, i nostri saperi
disgiunti, frazionati, compartimentali e, dall’altra, realtà o problemi sempre più polidisciplinari,
trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari»9. Le discipline come la
matematica, la fisica, le lettere, in quanto epistemologicamente ritenute saperi che hanno un proprio
specifico oggetto, tendono ad eludere i problemi fondamentali, i problemi globali. La filosofia,
invece, non avendo un suo specifico oggetto, essendo pensiero critico il cui campo d’azione di
estende trasversalmente in altri campi di sapere definiti, tende a comprendere, ad analizzare i
problemi di fondo ‘elusi’ o ‘ignorati’ dai cosiddetti saperi forti. Proprio nel fare questo la filosofia si
trova a porre tra i suoi obiettivi primari la formazione di una ‘coscienza etica’, che si faccia
responsabile di fronte a quanto le scienze naturali, sociali e psicologiche enunciano come risultati
delle loro ricerche.
Forse, la formazione di una coscienza morale, di un senso di responsabilità nei confronti
della società, dell’ambiente naturale, della vita nella totalità dei suoi aspetti, vale a dire di un piano
di riflessione e di azione indispensabile per la vita civile democratica che richiede individui
autonomi e dotati di senso critico, è in ultima analisi la finalità specifica dell’insegnamento
filosofico.
Per raggiungere quest’obiettivo, i docenti (convinti che un’intelligenza che osserva
criticamente e con partecipazione gli eventi culturali e sociali è in condizione di formare ideali, di
formulare scopi che non siano né illusioni né semplici compensazioni emotive) tramite il loro
insegnamento dovrebbero attivare negli studenti un approccio alle questioni relative all’uomo e al
E. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina Editore
2001, p. 35.
9
11
suo ruolo nel mondo fisico e sociale: essi dovrebbero più ispirarsi alla sensibilità di un poeta o di
uno scrittore, che somigliare ad uno studioso che sa tutto o quasi su Kant o su Platone, ma che non
riesce a suscitare nelle menti dei suoi giovani studenti curiosità intellettuale, bisogno di acquisire
strumenti concettuali che permettano loro di analizzare e sintetizzare le diverse visioni della realtà,
quelle offerte dalla ricerca scientifica o quelle tratte dalla propria esperienza di vita.
Non è, questo, un compito facile per i docenti, in quanto esso richiede che il docente abbia
una preparazione culturale, filosofica in particolare, che gli permetta di usare i modelli tradizionali
di pensiero come strumenti per attivare pensieri criticamente riflessivi. È più facile per un docente
essere un trasmettitore di conoscenze piuttosto che un animatore di coscienze: mentre la prima
funzione richiede solo il saper trasmettere informazioni, più o meno ben organizzate, la seconda
esige, oltre che il possesso di informazione, anche l’appello ad un profondo sentimento democratico
del sapere, in un costante esercizio di pensiero indispensabile per la formazione di una coscienza
civile, capace di partecipare responsabilmente ai processi culturali e sociali. Non c’è metodo
didattico che possa supplire alla mancanza di un ‘sentito’ approccio al pensare filosofico. Ma
nell’insegnamento della filosofia, oggi, c’è il rischio di un riduzionismo didattico, caratterizzato da
un tecnicismo cognitivistico o comportamentistico, che tende a spegnere quello spirito educativo e
formativo che si spinge oltre la dimensione intellettuale coinvolgendo l’intera personalità dello
studente. Non è sufficiente conoscere, saper organizzare il proprio pensiero, è necessario che al
pensare si accompagni il sentire nella sua dimensione emotivo-affettiva; ed è necessario credere in
quello che si pensa, in quanto solo con la forza della convinzione le idee diventano azione, prassi
civile.
Mi sembra sia da sottolineare quanto ora affermato, poiché il rapporto docente-discente nella
pratica d’insegnamento della filosofia dovrebbe assumere la fisionomia di una ‘comunità
dialogante’, in cui ciascuno assume la funzione di interlocutore dell’altro in un dinamismo dialettico
animato dal pensiero critico interrogante sul ‘perché’, sul ‘che cosa’, sul ‘come’ di ciò che si
discute. In questo contesto formativo, che coinvolge nei loro rispettivi ruoli sia il docente che gli
studenti, la tradizione storica del pensiero filosofico, più che essere oggetto di apprendimento
passivo da memorizzare, diventa simile ad una ‘cassetta degli attrezzi’ da cui trarre e custodire
prospettive, categorie, paradigmi concettuali ‘utilizzabili’ da parte dei soggetti interagenti, docenti e
studenti insieme, in vista di una presa di coscienza dei loro modi pensare, della maturazione di una
loro concreta coscienza civile e democratica.
12
3. Il fine metaconoscitivo del filosofare
Da quanto sin qui detto la filosofia insegnata dovrebbe cessare di essere una Erkenntnis per
diventare una Bildung, ossia un discorso destinato alla formazione di coloro che ne sono i fruitori, a
strapparli dal loro ‘vecchio’ ‘io’, dall’identità già acquisita tramite i valori familiari ben protetti e
fondati sull’autorità della tradizione.
Già Gentile, sulla cui riforma della scuola del resto molti stanno tornando a rimeditare per
alcuni suoi aspetti ancora attuali (vedi il rapporto con i testi), chiedendosi che cos’è la filosofia,
osservava che
la caratteristica propria della filosofia fra le scienze è questa: che dove le altre scienze hanno un
oggetto distinto dallo spirito, essa ha per oggetto lo stesso spirito, soggetto di tutte le scienze; di guisa che,
dove le altre scienze sono il prodotto di un’attività transitiva, la filosofia è il prodotto di un’attività riflessiva.
Le altre sono essenzialmente rappresentazione; la filosofia è essenzialmente coscienza, riflessione10.
Dove per ‘spirito’ si deve intendere ‘io’, riflessione, coscienza, cioè conoscenza di sé,
possesso e consapevolezza di sé medesimo raggiungibile tramite la riflessione su di sé.
«La filosofia è il prodotto di un’attività riflessiva», affermava dunque Gentile. Un’attività
che mal si raccorda con quella di memorizzazione di un sapere definito nei suoi contenuti e nella
sua forma, così come vediamo all’opera nel modello tradizionale d’insegnamento trasmissivo. Di
‘attività riflessiva’ si parla molto, ma in pratica essa viene subordinata alla memorizzazione, alla
ripetizione di un pensiero filosofico ridotto a formule.
Sviluppare le capacità riflessive tramite l’insegnamento della filosofia vuol dire,
innanzitutto, tenere presente che tale insegnamento è rivolto ad un soggetto da educare, che vive in
un’età, la giovinezza, che è strutturalmente di per sé ‘domanda di senso’, un’età che lascia emergere
con freschezza e vivacità il ‘filosofo’ che è sempre in ogni uomo. Del resto, come ha scritto
Marcello Tempesta, il malessere scolastico
nasce […] da impostazioni dell’insegnamento-apprendimento di tipo ‘nozionistico’, ‘frammentario’
o ‘procedurale’ (e non ‘significativo’) , in difficoltà nel suscitare, intercettare, valorizzare tale domanda di
significato, accompagnandola nella sua evoluzione, liberandola dalle sue impazienze e dalla sua ingenuità,
accrescendone la profondità critica, fornendole materiale ricchi ed articolati nonché criteri di giudizio per
costruire le proprie risposte11.
10
G. GENTILE, Difesa della filosofia, Firenze, Sansoni 1969, p. 108.
M. TEMPESTA, L’insegnamento della filosofia, tra ‘presa di congedo’ ed educazione della
razionalità, in Nuovi orientamenti di didattica della filosofia (a cura di F. Solitario), «Prospettive
EP», aprile-dicembre 2002, Roma, Bulzoni Editore p. 109
11
13
Insegnare filosofia, in questa prospettiva didattica, vuol dire principalmente offrire agli
studenti l’opportunità di costruire tramite conoscenze una propria visione della realtà, produrre
propri discorsi, dispiegare prospettive di valori svincolati da una presunta corrispondenza con la
realtà così come questa è trasmessa da altri. A rigore, e per così dire, non si può formare una mente
critica se non si abbandona la nozione di verità come corrispondenza. Anche secondo Aldo Gargani
educare filosoficamente una mente vuol dire principalmente mettere lo studente nella condizione di
ritrovare il suo mondo andando oltre le pareti erette dalle varie teorie filosofiche:
Non partendo da una filosofia declinata come teoria troveremo il nostro mondo, chè sarebbe anzi la
maniera di perderlo; dunque sarà a partire dal nostro stesso mondo in cui siamo e viviamo, in cui siamo
immersi, che noi saremo in grado di riconoscerlo. […] Riconosceremo interlocutori, parlanti e soggetti di
credenze e di desideri dal limite interno del nostro stesso mondo, in quanto condividiamo con essi lo stesso
mondo della vita, che è appunto il nostro mondo. Non mediante il metalinguaggio di una teoria per un
parlante noi riconosceremo in lui un soggetto di credenze, intenzioni e desideri, ma per mezzo di un
‘indicatore riflessivo’, come suggerisce Rorty, cioè riconoscendo persone, soggetti e civiltà quali ostensioni
dell’etnia culturale che noi stessi siamo12.
Riconoscere se stesso come soggetto di pensiero, di intenzioni, di desideri, di credenze,
significa per lo studente di filosofia riconoscere la razionalità come carattere proprio della natura e
della dignità umana, come asse portante di un progetto educativo che esclude ogni approccio alla
persona di tipo indottrinante, massificante ed ideologico. Educandosi alla ragione, al pensiero
critico, ogni educatore si assume il carico di pensare e di far pensare entro un orizzonte di valori
umani diversificati ma coerenti in se stessi. È questa una scelta educativa che esprime un atto di
profonda fiducia e di autentico rispetto per il valore e le potenzialità della vita umana.
Il cuore della svolta educativa filosofica del nostro tempo (se essa sarà portata a termine) è
nel passaggio dalla ricerca della verità, intesa come stretta corrispondenza tra pensiero e realtà, alla
riflessione sul senso della verità; è nel riconcepire e nel ricollocare il senso dell’attività pensante e
nel rinunciare ad un’idea di verità come tensione diretta all’accumulo e al possesso di fatti.
Il pensiero non è altro allora che «lo stato di una varietà di tracce, di casi che coesistono
insieme; è la relazione delle loro emozioni e passioni»13. La ragione diviene una ‘forma di vita’, un
giuoco di linguaggio, la trama invisibile che dispone i cristalli variopinti di un caleidoscopio. Il
pensare non è andare verso le cose seguendo segmenti di retta, ma interpretare se stessi ed il mondo
a partire dalle trame intessute in contesti di vita, annodate in infiniti punti comunicanti, dalle
12
A. GARGANI, La vita contingente, pref. a Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia, BariRoma, Editori Laterza 2003, pp. XXI – XXII.
13
A. GARGANI, Stili di analisi, Milano, Feltrinelli 1993, p. 56.
14
relazioni in cui ciascuno di noi è annodato al mondo. Gli eventi, i fatti, le cose vengono all’essere
solo entro orizzonti linguistici in cui la ragione si struttura come attività ermeneutica ed
argomentativa.
Quindi, educare al pensare implica l’agire in modo che si attivino processi di costruzione e
di produzione di cognizioni che trovano la loro giustificazione nell’attività del ragionare. In
quest’ambito «precisione matematica e formalismo logico, considerati tradizionalmente la
quint’essenza del pensare, cessano di essere dimensioni fondamentali del ragionare, mentre lo
diventano piuttosto la dimensione critico-argomentativa, con i suoi attributi di fallibilismo,
antifondamentalismo, plausibilità e relatività»14. Pensare equivale ad analizzare, confrontare,
parlare e persuadere, portare alla luce il problema rimasto irrisolto, ma trasformandolo alla luce del
ragionamento.
Considerata da questo punto di vista la conoscenza assume i caratteri di un’attività
multidimensionale che produce e trasforma continuamente quanto conosciuto, non prendendolo mai
per fisso o definito: fondamentale nella conoscenza è la ‘collocazione’, l’atteggiamento che si
assume di fronte alle cose, più che la conoscenza di qualcosa. Ma è anche fondamentale la
collocazione del pensiero rispetto al discorso; del conoscere rispetto ai molteplici percorsi,
linguaggi e criteri del pensare; del ragionare rispetto ai diversi processi conoscitivi; del soggetto
conoscente rispetto al contesto di una comunità di comunicanti. Allora, l’obiettivo primario
dell’insegnamento in genere, ed in particolare di quello filosofico, è proprio quello di offrire ai
giovani studenti l’opportunità di darsi una collocazione, di costruirsi un proprio punto di vista dal
quale guardare il mondo.
Vi sono in questo elementi per un ripensamento della funzione mediatrice del docente che
non deve risolversi nella gestione di una relazione tra due punti, la tradizione storico-filosofica da
una parte e la mente dello studente dall’altra: piuttosto il docente deve trovare una posizione
equidistante dai tre vertici di un triangolo: a) l’esperienza degli studenti, b) la loro mente,
strettamente connessa all’esperienza, e c) la cultura storicamente tramandata. In altri termini, il
docente nel proprio insegnamento si deve relazionare con la mente dello studente, con i suoi
contenuti, con i suoi paradigmi concettuali e preconcettuali, con gli stati affettivi ed emozionali che
le appartengono: il fine è quello di attivare processi metacognitivi attraverso cui il giovane studente
diventa consapevole del proprio funzionamento cognitivo e di quello degli altri con cui egli si
relaziona. È in questo ingranaggio mentale che le categorie filosofiche, le costruzioni di idee offerte
dalla storia del pensiero filosofico, assumono un loro senso, un loro significato.
14
M. SANTI, Ragionare con il discorso, Firenze, La Nuova Italia 1995, p. 11.
15
Quale modello didattico potrebbe rispondere a quest’esigenza formativa se non quello
socratico? Come Socrate con la sua attività maieutica, così il docente dovrebbe iniziare la sua
attività d’insegnamento filosofico partendo dal problema rappresentativo della situazione
psicologicamente significativa in cui lo studente si trova, per procedere all’analisi critica del suo
bagaglio concettuale tramite il contatto con i concetti, i paradigmi, le procedure mentali di
‘interlocutori’ autorevoli, siano essi filosofi o uomini di lettere o di arte o di scienza. Ha osservato
Rosa Calcaterra che
l’insorgere, nell’alunno, di una pre-comprensione filosoficamente significante costituisce non solo la
motivazione originaria che consente il primo accesso alla filosofia, ma anche la premessa sottostante alla
successiva trattazione di discorsi più astratti e formalizzati. L’alunno, infatti, comprende e usa le strutture
logiche più complesse della lingua e del pensiero filosofico, se ne possiede la provenienza semantica15.
Assumendo come oggetto di conoscenza il proprio pensiero e quello dei suoi interlocutori,
lo studente acquisisce abilità proprie del pensiero critico secondo le regole semantiche, concettuali
ed epistemologiche del pensare filosofico, evinte dal panorama storico filosofico della tradizione
culturale occidentale (magari aperta al confronto ed all’integrazione con quella orientale). La storia
della filosofia in questo contesto didattico si configura come strumento di pensiero, più che come
oggetto ‘isolato’ di apprendimento scolastico come ancora oggi continua ad essere proposta.
La didattica, così concepita, da trasmettitrice di nozioni, di informazioni, si fa
principalmente ‘comunicazione’ di conoscenze:
- dichiarative, corrispondenti al sapere su un oggetto, sia esso una nozione oppure una
strategia di soluzione di un problema; rispondono alla domanda ‘cosa’?
- procedurali, riguardanti il modo in cui usare una nozione oppure una strategia di soluzione
di un problema; rispondono alla domanda ‘come’?
- pragmatiche, che si riferiscono all’uso di una nozione o di una strategia relative a
determinate situazioni; rispondono alla domanda ‘perché e quando’?
Le conoscenze in questo contesto didattico perdono la loro veste di nozioni da apprendere
nei modi e nei termini forniti dal docente o dal manuale per assumere la funzione di strumenti
idonei alla maturazione di capacità critiche con cui il giovane studente s’interroga su quanto gli
viene detto, sugli avvenimenti, sui problemi e su tutto quanto gli si presenta nell’ambito della sua
esperienza culturale sociale e scolastica. Egli elabora giudizi di ordine logico, etico ed estetico;
15. R. M. CALCATERRA (a cura di), L’insegnamento della filosofia oggi, Fasano, Schena 1994,
p.194.
15
16
compie scelte consapevoli nella vita personale, scolastica e sociale; giustifica e valuta le proprie
scelte a partire da valori e principi, consapevolmente posti come paradigmatici.
È questo un esercizio del pensiero critico che attiva nel giovane studente di filosofia
capacità cognitive unitamente a disposizioni affettive o, meglio, ad atteggiamenti affettivi.
Tra le prime hanno particolare rilievo le capacità:
- di valutare la credibilità delle fonti;
- di individuare i criteri per ponderare il valore delle informazioni;
- di comprendere in modo chiaro i termini in questione;
- di individuare i punti divergenti senza distorcerli, esagerarli o farne una caricatura;
- di cercare nuove informazioni;
- di dialogare per approfondire la questione ed ottenere punti di vista supplementari;
- di analizzare gli argomenti riconoscendo i sofismi, gli stereotipi, i luoghi comuni, le
contraddizioni;
- di identificare i presupposti o i postulati non formulati;
- di procedere con precisione a induzioni o deduzioni;
- di analizzare, paragonare e sintetizzare l’informazione;
- di valutare la coerenza e la consistenza logica del proprio pensiero.
Tra gli atteggiamenti affettivi hanno rilievo per la maturazione di un pensiero critico di tipo
filosofico, l’attitudine del giovane studente a :
- manifestare uno spirito aperto ai diversi punti di vista ed alle informazioni divergenti o
contraddittorie;
- tollerare il dubbio, l’incertezza e l’ambiguità con ‘umiltà e coraggio’;
- rimettere in discussione in modo imparziale ed integro il proprio punto di vista così come
quello degli altri;
- riconoscere l’influenza delle emozioni e delle esperienze individuali sui pensieri e le
credenze;
- concentrarsi con perseveranza sul problema centrale della tematica in discussione16.
4. Quale insegnante di filosofia? Un profilo professionale del docente di filosofia.
16
cfr. O. ALBANESE (a cura di), Metacognizione ed educazione, Milano, Franco Angeli 2003, p. 48
ss.
17
Qualsiasi didattica d’insegnamento non può non riferirsi ad un profilo professionale del
docente. È questa una dimensione del lavoro dell’insegnante su cui si è appuntata l’attenzione dei
pedagogisti ed anche dei filosofi, e degli addetti ai lavori in genere, solo negli ultimi decenni, senza
raggiungere a tutt’oggi un chiarimento tale da offrire spunti operativi per una riqualificazione
professionale dei docenti. Ci sono, tuttavia, segni interessanti che mostrano un’intenzione politica di
affrontare in termini concreti il problema della formazione professionale docente, resosi
particolarmente urgente in questi ultimi anni dall’entrata a regime dell’autonomia nella gestione
didattica scolastica. Ne è prova l’istituzione delle ‘Scuole di specializzazione per l’insegnamento
superiore’ di primo e secondo grado ( SSIS ) il cui progetto di formazione, almeno sul piano
teorico, ed in qualche caso anche su quello pratico, risponde in gran parte all’obiettivo prefissato.
Certo, c’è molto ancora da fare perché la formazione docente si traduca in competenze
professionalmente tali da garantire una scuola di alto profilo culturale.
Tra le tante iniziative da prendere, secondo la mia esperienza di docente liceale e anche di
docente supervisore del tirocinio nella SSIS, c’è quella di una revisione da apportare ai piani di
studio dei corsi di laurea, oltre ad un sostanziale raccordo da costruire tra università e scuola che
favorisca quegli scambi tra competenze ed abilità fondate su conoscenze aggiornate disciplinari e
psico-pedagogiche che devono essere proprie della professionalità docente. Ma il punto forse
cruciale e su cui si deve ancora adeguatamente riflettere riguarda il rapporto tra le conoscenze
disciplinari, la loro didattica e la realtà scolastica. Attualmente, sull’onda di una rivalutazione della
didattica (peraltro del tutto ambigua nel suo significato), c’è una diffusa tendenza a squilibrare il
rapporto tra disciplina e didattica, a scapito tutto sommato di entrambe: vi è un rischio reale che
nella sostanza le discipline vengano a porsi in antitesi ad ogni ipotesi di rinnovamento didattico. Un
chiarimento che rimetta in discussione la disciplina e la sua didattica per la elaborazione di una
didattica disciplinare significativa per la formazione culturale dei giovani sarebbe auspicabile per la
promozione di un insegnamento che coniughi lo studio con la ricerca ed entrambi con le esigenze
formative delle generazioni giovanili attuali.
Il profilo professionale dell’insegnante, alla luce dei cambiamenti in atto (o in potenza) nella
scuola italiana, per essere rispondente alle esigenze della scuola di oggi, dovrebbe caratterizzarsi
per :
- le conoscenze teoriche disciplinari e psicopedagogiche
- le competenze progettuali, metodologico-didattiche
- le competenze di gestione di processi e delle procedure d’insegnamento
/apprendimento
- le abilità relazionali e comunicative
18
- l’inclinazione alla ricerca.
L'insegnamento in generale, e della filosofia in particolare, non può essere più inteso solo
come espressione di una scelta mossa da un nativo o acquisito ‘amore’ per l'educazione dei giovani
o dal desiderio di istruirli al sapere, ma deve essere il prodotto di una scelta consapevole e
responsabile finalizzata professionalmente a dotare i giovani di un patrimonio di competenze che li
rendano soggetti attivi della civiltà e del progresso dei propri tempi. Per questi scopi formativi
l'insegnante non può essere inteso dal punto di vista professionale come un ‘operatore’ da reclutare,
nè come un ‘funzionario’ da addestrare, nè come un ‘tecnico’ da formare, ma, come un
‘professionista riflessivo’,
17
capace di definire progetti personali di sviluppo professionale,
evolvendosi con il contesto, con la ricerca scientifica e con il rinnovamento metodologico.
Alla riflessione sul profilo professionale docente, perché essa non rimanga pura
teorizzazione astratta, deve necessariamente seguire l’individuazione delle modalità di formazione e
di reclutamento dei docenti, che alla luce di quanto sopra detto non possono essere affidate solo,
come nel passato, alla pratica spontanea d’insegnamento ed alla semplice procedura concorsuale,
entrambe necessarie ma non sufficienti: in effetti la pratica d’insegnamento spontaneo, non
accompagnata da un’adeguata attività riflessiva mirata all’individuazione dei caratteri peculiari del
rapporto educativo, rischia di tradursi in una pratica empirica soggettiva priva di connotati
culturalmente forti, validi all’identificazione professionale docente; allo stesso modo, la procedura
concorsuale, valida per l’accertamento delle conoscenze possedute dall’aspirante docente, non
garantisce la padronanza di quelle competenze didattiche indispensabili all’insegnamento.
Non è sufficiente innovare conoscenze e abilità d'insegnamento per ridare alla professione
docente le condizioni per la costruzione di un ruolo docente funzionale ai bisogni formativi,
manifesti, rimossi e indotti, identificati sulla base delle evidenze dei risultati scolastici (valgono qui
i risultati delle ricerche sugli esiti scolastici, sugli apprendimenti, ed in relazione ai progetti
d'innovazione istituzionale e curricolare). È invece necessario ridisegnare la ‘carriera’
dell'insegnante con ‘livelli di competenze’ e ‘crediti professionali e formativi’ (alternativi a quelli
del passato che sono basati esclusivamente sull' anzianità di servizio) in sintonia con il
prolungamento della vita professionale, con l'articolazione organizzativa della scuola, con
l'interazione con l'università18.
La consuetudine praticata nel recente passato di reclutare i docenti in base a concorsi di
massa, oppure attraverso interventi legislativi con immissione in ruolo in base all'anzianità di
17
Cfr. Donald A. Schon, Il professionista riflessivo, Bari, Edizioni Dedalo, 1993, pp.304 - 305.
M.G. DUTTO, Una nuova formazione per gli insegnanti, «Annali della P. I.», 1-2, Firenze , Le
Monnier 1999, p. 115.
18
19
servizio, hanno impedito lo sviluppo nella scuola di una cultura della qualità delle risorse
professionali, sempre più urgente man mano che vengono fatti tentativi per una ‘rivisitazione’ della
professione docente.
Il docente di qualsiasi disciplina, nel nostro caso di filosofia deve o, meglio, dovrebbe
possedere conoscenze e competenze che gli permettano di acquisire un profilo professionale
caratterizzato da un aggiornamento scientifico, dalla capacità di facilitare l’apprendimento tramite il
‘saper fare’ e il ‘saper dire’, di educare promuovendo la formazione e lo sviluppo di valori e
comportamenti che mirino a migliorare le forme di vita collettiva, di saper educare ad una lettura ed
uso critico dei media in modo da favorire l’inserimento attivo dei giovani nella vita civile.
Per realizzare quelle che sono le funzioni proprie dell’azione educativa è necessario non
abbandonare del tutto quel buon senso che regola la pratica didattica a favore di un tecnicismo
didattico che avanza a grandi passi nella manualistica scolastica odierna. In altri termini, si deve
tenere sempre presente che solo ed esclusivamente il docente ha la funzione di declinare le
conoscenze in modo che queste siano apprese nel loro specifico valore formativo.
Non si potrà mai formare un docente tramite solo le conoscenze psico-pedaogiche, né
tramite un sapere enciclopedico o iperspecialistico. Saper insegnare è anche saper comunicare agli
studenti la propria partecipazione intellettuale ed emotiva alla conoscenza, alla ricerca di un sapere
che non trova mai una sua forma definitiva.
Oggi, la nuova identità culturale della scuola, collocata in una società industrializzata e
globalizzata, in cui le agenzie formative si sono moltiplicate, richiede a chi insegna una
professionalità caratterizzata da competenze didattiche complesse che gli permettano di ‘mediare’,
come detto, la mente del giovane studente, le sue esperienze e la cultura storicamente sedimentata
nella società con cui il giovane educando deve interagire criticamente. Come tutte le attività
lavorative, anche l’insegnamento richiede in chi lo pratica una specifica attitudine; come ogni altra
professione, anche l’insegnamento richiede una formazione tecnica che permetta a chi la esercita di
operare efficacemente sulla formazione dei giovani; come ogni buon professionista, anche
l’insegnante esprime nel proprio lavoro la propria credenza in ciò che fa, in ciò che sa.
Non c’è tecnica didattica o teoria pedagogica che possa supplire al rapporto che il docente di
filosofia deve avere con la filosofia, con la sua idea di filosofia. Condizione necessaria per un buon
insegnamento della filosofia è, quindi, il ‘sentimento’ avvertito dal docente nei confronti delle
proprie idee, del proprio pensare filosofico al di là di ogni condizionamento esterno. È questo
‘sentimento’ che, riconosciuto, avvicina gli studenti alla filosofia intesa come pensare critico. Alle
capacità cognitive ed agli atteggiamenti affettivi da attivare negli studenti devono corrispondere
uguali capacità ed atteggiamenti in chi si pone di fronte e accanto a loro come docente. Un puro e
20
semplice tecnicismo didattico non potrà mai supplire alla mancanza nel docente di ‘amore’ per
quello che egli fa ed insegna.
5. Conclusione: presupposti per un insegnamento ‘ attuale’ della filosofia.
Alla luce di quanto sopra detto, mi paiono confermate e condividibili le seguenti tesi:
- che lo stato attuale della scuola, dopo una lunga stagione di ipotesi di riforma
‘abortite’, richiede un intervento strutturale di riforma che la renda adeguata alle esigenze
formative delle nuove generazioni;
- che nessuna formazione umanistica ‘forte’, capace di promuovere ‘soggettività’
propositive, idonee al progresso civile globale, può prescindere da un’adeguata formazione
culturale che tenga conto del passato storico e sia contemporaneamente proiettata verso il
futuro;
- che la formazione culturale richiede un ripensamento dello statuto delle discipline
d’insegnamento per una loro significativa collocazione nei piani di studio o curricoli
scolastici; in particolare della filosofia che dovrà riacquistare la sua naturale dimensione di
‘ricerca del significato’ tramite il dialogo con le altre discipline, con gli altri saperi,
attraversandoli ed acquisendo i loro linguaggi;
- che tutto l’impianto culturale della ‘nuova’ scuola richiede una formazione
professionale docente che rimandi ad un’adeguata preparazione disciplinare e ad una
adeguata conoscenza dell’identità socio-psicologica del soggetto da educare, oltre ad una
conoscenza dei problemi connessi alla ‘didattica’ disciplinare;
- che (ma non da ultimo) l’insegnamento è atto di cultura animato da una ‘vocazione’
permanente per il sapere.
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