Apparve una sola volta di lanfranco caminiti [www.lanfranco.org] Il 26 settembre 1988 i Versetti satanici di Salman Rushdie vengono pubblicati per la prima volta, in Gran Bretagna. La storia ha ben poco a che fare con l’islam, ma il titolo richiama un episodio della vita del profeta Maometto [LA PACE SIA SU LUI] che la storiografia ufficiale non riporta ma quella apocrifa sì: durante un assedio della Mecca, per piegare i politeisti Meccani all’adorazione di un solo dio, il profeta rivelò una sura. In essa venivano citate Allat, Uzza, e Manah, le tre divinità adorate dai Meccani, a cui peraltro gli abitanti della città avevano l’abitudine di sacrificare le bambine appena nate, interrandole vive. Era chiaramente una concessione, una mediazione, per aver ragione della loro resistenza. Il mattino dopo, Maometto [LA PACE SIA SU LUI] disse che quei versi gli erano stati suggeriti da Satana nell’orecchio sinistro, e che la cosa gli era stata spiegata poi dall’arcangelo Gabriele. Chiaramente una ritrattazione. La controversia religiosa [anche se nel Corano non c’è traccia di quei versi] ruota intorno la questione: come è possibile che un testo divino contenga delle parole sataniche? «Versi satanici», però, è un’espressione usata dagli studiosi occidentali: il mondo islamico si è sempre riferito a quei versi come gharaniq [uccelli] verses, perché le tre divinità apparivano in forma di cicogna o gru. La cosa curiosa è che quella parola è un hapax. L’hapax [dal greco: hàpax legòmenon – detto una sola volta], in linguistica e in filologia, è una parola che in un dato corpus di testi o in un autore o in un sistema linguistico ricorre soltanto una volta. E la parola gharaniq appare nel Corano una sola volta. Quello che successe dopo lo sanno tutti: l’ayatollah Khomeiny, guida spirituale dell’islam e dell’Iran, lanciò una fatwa contro Rushdie, perché ritenne che il libro fosse blasfemo [che il titolo del libro desse un’idea blasfema del Corano, contaminato da Satana], e da quel momento qualunque musulmano poteva considerare santo attentare e uccidere Rushdie; ne avrebbe pure avuto un premio: un privato pakistano offrì una taglia. Mentre centinaia di manifestazioni infiammavano le piazze musulmane, Rushdie fu costretto a vivere protetto e nella clandestinità. Una clandestinità che solo recentemente si è allentata, anche se la fatwa non è stata mai – né sarebbe mai possibile – ritirata. Se a Rushdie è andata bene sinora, non così è stato per Hitoshi Igarashi, il traduttore giapponese, ferito a morte nel luglio del 1991; per Ettore Capriolo, il traduttore italiano, ferito seriamente lo stesso mese; e per William Nygaard, l’editore norvegese che scampò miracolosamente a un attentato nel 1993. Negli anni, poi, abbiamo fatto l’abitudine all’ira musulmana per un film, una vignetta – ogni volta aprendosi qui una controversia sulle libertà irrinunciabili dell’espressione e la nostra evidente superiore civiltà – e talvolta qualcuno ha armato la propria mano, versando sangue. Eppure tutto nasce per un hapax. Per una parola apparsa solo una volta. I Versetti satanici sono il compimento e il crinale di una storia che ha i piedi negli anni Sessanta, quando mai un libro riusciva a infiammare le piazze? Per la nostra storia, dall’Inquisizione al nazismo, erano le piazze a infiammare i libri. Erano state le Guardie rosse cinesi ad agitare il libretto delle citazioni di Maozedong per bombardare il quartier generale del potere rivoluzionario, a centinaia di migliaia, a milioni. Nel 1968, quel libretto rosso veniva agitato nelle piazze di tutta Europa, di tutto l’occidente: era l’arrivo dei «cinesi». Anche se altri – e più corposi e complicati, benché il più influente di tutti, L’uomo a una dimensione di Marcuse, fosse solo uno smilzo testo – erano i libri di cui si nutrivano l’intelligenza e la rabbia di quella generazione, il libretto rosso – da Parigi a Milano e Roma, da Berlino a Berkeley e San Francisco – era emblematico [uno dei leader più significativi delle Black Panther, Huey P. Newton, lo racconta bene]. L’importanza di un libro, l’importanza politica di un testo: una cosa che era sempre stata chiara alle forme del potere [temporale e religioso] ma che divenne un processo sociale, un processo di appropriazione sociale solo nei Sessanta. Nei Settanta era stata tutta la produzione letteraria dei dissidenti dell’est [i samizdat] a occupare la mobilitazione degli intellettuali occidentali in nome della libertà, la «leva» per raccontare al mondo l’orrore dei socialismi reali. Molti, quasi tutti, venivano dalle battaglie del ’68, come i nouveaux philosophes: adesso, gli intellós stanno con Sarkozy, sempre in nome delle libertà, dei diritti, dell’opposizione ai totalitarismi: qualcuno si spinge a criticare «da destra» Sarkó perché troppo condiscendente, a raccontarci una parabola. Negli Ottanta, quindi, qualcosa si amplifica e si rovescia: la percezione reale di cosa stia accadendo nel mondo islamico si ha per la prima volta con le piazze musulmane assatanate contro Rushdie. È solo un libro, diremmo noi: sono solo canzonette. E pure, noi stessi sapevamo che non sono solo canzonette: lo sapevamo nel ‘68 e nel ’78 [Arcipelago Gulag di Solženitsyn uscì tra il 1973 e il 1978]. Una moltitudine è infiammata da un libro, come le Guardie rosse come gli studenti in rivolta. Per un libro, certo, agitando un libro, ma per la prima volta contro un libro. Il crinale iniziava la caduta all’incontrario, antica e moderna: in nome di un testo religioso, la fatwa, si dava alle fiamme un testo narrativo. La religiosità del testo ha di nuovo assunto la sua importanza in quell’anno lì. Il carattere politico di un testo, l’appropriazione di un testo da una moltitudine – una scoperta del ’68 – esplodeva in un fenomeno inatteso. E tutto per un hapax, una parola detta una volta sola. Bisbigliata in un orecchio. Roma, 10 gennaio 2008