Tra poesia e storiografia: l’immagine della nazione negli scritti storici di donne italiane, 1861-1915 di Maria Pia Casalena All’indomani dell’unificazione il Risorgimento divenne un soggetto centrale nella letteratura e nella cultura italiana. Lo stesso termine di Risorgimento ricevette allora, tra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento, il significato che ha ancor oggi; e da allora si formò attorno a questo concetto un insieme di immagini che dovevano esaltarne il valore di epoca di fondazione della nuova nazione italiana. La nazione italiana era tornata ad essere una famiglia, la cui unità storica e culturale era ora testimoniata anche dall’assetto statale. A questa famiglia si attribuirono delle nuove figure paterne: i padri della patria di età risorgimentale subentravano finalmente ai capostipiti di epoche più remote e ne ereditavano la funzione spirituale e l’aura mitica. La nazione nata dal Risorgimento, e che del Risorgimento fece un vero e proprio mito, era quindi al contempo una giovane creatura, figlia del diciannovesimo secolo e dei suoi eroi; e un’entità millenaria, che solo di recente e dopo drammatiche traversie aveva portato a compimento la propria missione. La storiografia sull’epoca risorgimentale, fiorita fin dai primissimi anni dell’Unità1, coltivò ed esaltò entrambi questi aspetti. Nelle opere degli autori più famosi, da sempre o da poco vicini alla Casa regnante, si celebrò l’immagine di una comunità che da tempo ormai immemorabile, consapevole della propria unità ideale, lottava per darsi un’unità reale; e che alla fine aveva trovato nella monarchia sabauda la guida ‘paterna’ necessaria per scrollarsi di dosso l’ultimo giogo: quello dei tiranni esterni (l’Austria) e interni (i Borbone, i satelliti dell’Austria, il Papato). Se certa storiografia accantonò gli aspetti mitopoietici per esaltare la prosa dell’azione diplomatica e bellica, e sfigurò l’eroismo degli individui nella celebrazione di un esercito statale; nondimeno altre opere non rinunciarono a fare della storia contemporanea un ‘luogo’ di creazione letteraria, a volte addirittura poetica, di miti e valori unificanti per la borghesia della nuova Italia. Ma quale immagine aveva ora, a Risorgimento concluso, l’Italia? Restava l’immagine della patria come famiglia, ma si poneva sempre di più l’accento sulle gerarchie naturali, sulle regole indissolubili dell’equilibrio fra le classi sociali. Si celebrava con commozione l’eroismo dei patrioti come ottimi figli della nazione, ma si mettevano a punto anche modelli di eroismo molto più pacifici e rispettosi di legge e ordine. Si faceva strada, pervadendo di sé 1 Cfr. l’opera classica di W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1962. 1 anche la storiografia sul Risorgimento e la biografia esemplare, il canone del self-helpismo, che consacrava il lavoro e metteva da parte, per il momento, le congiure e ogni contenuto anche lontanamente eversivo2. Insomma, la nazione era ora diventata o avrebbe dovuto al più presto diventare una comunità ordinata e regolata3, quietamente consapevole del suo retaggio storico e culturale, pacificamente sicura della sua indipendenza, orgogliosa dei suoi padri e grata alle istituzioni – la monarchia e l’esercito – che ne difendevano e sublimavano le conquiste recenti. La fratellanza e la parentela erano ora fatti acquisiti. L’onore e la santità, che già avevano alimentato l’azione dei patrioti, si avviavano a diventare regole di rispettabilità e pilastri della pace. Il genere biografico dovette recepire entrambe le istanze, la patriottica e la educativa, alle quali rispondeva dagli anni Settanta il mito del Risorgimento4. Da una parte, quella della narrazione storica, erano centrali la deplorazione della triste condizione della patria soggiogata vista con gli occhi dei giovani eroi; l’uso anche acritico e pedissequo di immagini e metafore attinte dai testi più noti del ‘canone’ letterario (fino alla riproposizione inveterata di epigrafi da Dante e da Foscolo); la commozione suscitata dai nobili valori del patriottismo romantico. Ricorrono spesso, anche nelle biografie risorgimentali, gli accenni alla disfida di Barletta e dei Vespri siciliani; le note immagini della patria come donna e madre sofferente e ridotta in schiavitù; le icone di fulgido eroismo maschile, da Ferruccio in poi. Dall’altra parte dominavano però, soprattutto nei volumetti destinati alle scuole, le istanze educative, che guadagnavano spazio e autonomia, fino a perdere ogni legame con la forza evocativa delle immagini storiche e poetiche, e a farsi prosaiche ed esplicite digressioni. Gradualmente, e in particolar modo in certi autori, il pathos venne via via scemando assieme allo spazio riservato alla ricostruzione storica vera e propria. Molte biografie, anche per la loro brevità, riproducevano piuttosto l’andamento bozzettistico, quasi acronico, del tutto didascalico che era stato proprio di tanta produzione agiografica di larga circolazione nella prima metà dell’Ottocento. Cfr. S. Lanaro, Il Plutarco italiano: l’educazione del popolo dopo l’Unità, in Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981. 3 Anche la festa dello Statuto rispecchiava questi valori: cfr. I. Porciani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Italia unita, Bologna, il Mulino, 1997. 4 Per una rassegna delle forme, dei momenti e degli spazi della celebrazione del ‘Mito del Risorgimento’ cfr. i saggi contenuti nel volume Il Mito del Risorgimento nell’Italia unita. Atti del convegno, Milano 9-12 novembre 1993, Milano, Comune di Milano-Amici del Museo del Risorgimento, 1995. 2 2 Le biografie esemplari dei patrioti, che avrebbero dovuto affiancare la poesia e la letteratura romantica per infiammare i giovani di amor patrio e di nobile abnegazione, non rivestirono la storia recente della stessa presa emotiva. Questa si attinse ancora dai testi della prima metà del secolo, dalle immagini più felici e fortunate create dall’entusiasmo patriottico durante la Restaurazione. Di queste immagini si crearono allora delle antologie ad uso dei giovani e delle famiglie, come quella celebre di Carducci5. Anche molte donne scrissero sulla storia recente6. Anzi, molte si incontrarono con la narrazione della storia nazionale perché vollero scrivere le vicende dei propri eroici familiari e consegnare il nome della famiglia ad una posizione prestigiosa nel Pantheon nazionale o locale7. Neppure in questi testi a metà tra storia e autobiografia, basati in gran parte sul ricordo, l’effusione sentimentale basta a creare pathos. La nazione resta un oggetto esterno ai fatti, o vi rientra per il debole mezzo di abusati calchi. Lo slancio patriottico rimane privo di motivazioni credibili e profonde. Nulla si dice, di solito, della maturazione sentimentale e intellettuale dei personaggi; nulla dell’elaborazione di un’idea personale di comunità e di patria per la quale si è affrontato il sacrificio; nessun quadro ritrae il fervore e la solidarietà fraterna che univano – a quanto apoditticamente vi si afferma - i cospiratori. Non si trovano immagini e momenti che possano dotare di qualche potenza evocativa la ricostruzione di queste nobili vite, pur spesso attraversate dalle dolorose vicende della prigionia e dell’esilio. Vi furono tuttavia anche delle scrittrici che si confrontarono in modo significativamente diverso, e originale, con la storia nazionale dell’età risorgimentale. Nei loro scritti - non sempre destinati a larga circolazione e a grande fortuna, quasi mai considerati benevolmente dalla critica storiografica e letteraria – si può ritrovare spesso un pathos autentico, acceso dall’uso disinvolto di toni profetici, dal rimando ad un futuro ancora lontano di autentica rinascita nazionale, dalla scelta di sospendere la narrazione in una dimensione di sofferente e anelante attesa. Perché per queste autrici il Risorgimento era tutt’altro che finito, né l’unificazione aveva comportato il compimento dei destini nazionali. C’erano ancora degli ‘oppressi’: il popolo, le donne, e i democratici “ingannati” nel 1860. Per queste autrici l’Italia, nella sua espressione autentica e storicamente legittima, era tutt’altro che “fatta”. Erano scomparsi i tiranni esterni, ma il loro posto era stato preso da 5 Cfr. G. Carducci, Letture del Risorgimento italiano, Bologna, Zanichelli, 1895-96. L’elenco completo di autrici e opere è ora consultabile in M.P. Casalena, Scritti storici di donne italiane (18001945). Bibliografia, Firenze, Olschki, in corso di stampa. 7 Cfr. I. Porciani, Les historiennes et le Risorgimento, in « Mélanges de l’Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée », 2000. 6 3 vecchi e nuovi ‘tiranni interni’ che impedivano il libero dispiegarsi della vera fratellanza attraverso le istituzioni democratiche. Le loro biografie dovevano davvero spronare all’azione, sebbene ora si trattasse di azione politica (pubblica e parlamentare), e non di cospirazione. Non deve sorprendere, quindi, che nella loro scrittura certe autrici – molto spesso italiane non di nascita, ma di adozione - vollero recuperare ed esaltare nuovamente i contenuti e lo spirito di tutta la produzione patriottica risorgimentale. Modelli (auto)biografici come l’Ortis o come l’Esule; scritture militanti come il Misogallo; dense rappresentazioni simboliche di derivazione spesso religiosa; atmosfere guerresche o eventi cospirativi vivacizzati dall’uso del discorso diretto, come nel romanzo e nella poesia storica: queste le risorse espressive che alimentavano, pur con vario esito, le opere più meditate di autrici come Jessie White Mario e Ludmilla Assing8. Si trattava di due scrittrici straniere, educate nel protestantesimo, a loro agio con le cifre espressive, lo svolgimento diacronico insoluto e le profezie veterotestamentarie. Entrambe avevano una ottima conoscenza del romanzo storico europeo che aveva portato sulla scena le moltitudini infiammate d’amor patrio e sete di giustizia. Entrambe, seppur con risultati diseguali, sapevano riprodurre con sincero calore il contesto del ‘circolo delfico’ e della perfetta comunione spirituale che legava i loro eroi alla cerchia dei pochi compagni fedeli. La vera nazione, quella ancora da redimere, finiva per identificarsi, in certi loro passi, con l’immagine delle ‘plebi’ oppresse, del popolo operoso, semplice e buono, ‘tradito’ dall’egoismo delle élites, le cui speranze si affidavano unicamente agli eroici ‘democratici’, ai veri figli, e profeti, di questa nazione. Come stiamo per vedere più in dettaglio, queste autrici – e altre con loro – trasferirono nel contesto dei primi decenni postunitari l’atmosfera di anelante sofferenza che aveva caratterizzato i secoli precedenti e il cinquantennio risorgimentale. Il cliché del tradimento, da cui l’immagine della nazione perennemente oppressa centrale nella loro economia narrativa, si spostava ad un certo punto dai nemici storici (gli stranieri) ai nemici del momento (i moderati), in una chiara e lucida storicizzazione del conflitto politico attuale. 8 Su J. White Mario, cfr. la biografia di E. Adams Daniels, Jessie White Mario: Risorgimento Revolutionary, Athens, Ohio University Press, 1972 [trad. it.: Milano, Mursia, 1977], e gli studi di R. Certini (Jessie White Mario: una giornalista educatrice, Firenze, Le Lettere, 1998) e I. Biagianti (La nuova Italia nelle corrispondenze americane di Jessie White Mario a cura di Ivo Bigianti, Firenze, Centro editoriale toscano, 1999). Su L. Assing, cfr. N. Gatter, Das Literatenthum im Weiberrock. Ludmilla Assing: Zeitzeugin, Schriftstellerin, Dokumentaristin der Maerzrevolution, in J. Ludwig-I. Nagelschmidt-S. Schoetz (a cura di), Frauen in der buergerlichen Revolution von 1848/49, Leipzig, 1999, pp. 129-146; M. Casalena, Ludmilla Assing: storia e politica in una donna dell’Ottocento, in «Passato e presente», 2002, n. 56, pp. 57-84. 4 Anche l’uso delle immagini storiche venivano adattati alle esigenze del momento. Lo spirito di popolo conosceva altri momenti fondativi, relativi all’ultimo secolo. Ai valori dell’onore, del sacrificio, della religiosa abnegazione, si affiancava ora, precisamente, quello della democrazia. Perché la loro nazione, la loro e l’autentica Italia, aveva nel proprio destino anche la democrazia, attinta dalla vicenda comunale come anche da certi innesti della Rivoluzione francese. E in questa nazione, soprattutto, le donne non erano ‘solo’ vittime potenziali, passive incitatrici, custodi del civismo domestico: le donne erano state protagoniste attive del Risorgimento, e dovevano continuare ad essere protagoniste della sfera pubblica. La nazione italiana era sì una famiglia, ma una famiglia regolata dalla perfetta comunione spirituale e dalla sistematica condivisione di diritti e responsabilità. La ‘vera’ nazione, nelle biografie di queste democratiche, era precisamente il popolo, guidato dagli spiriti eletti della migliore borghesia; e il popolo era composto egualmente di uomini e donne “in armi”. La festa nazionale e il nuovo giuramento Nel necrologio In memoria di Giovanni Grilenzoni (1869)9, Ludmilla Assing individua chiaramente il momento fondativo della nazione moderna, cioè della nazione democratica. La nazione italiana, dunque, non era per lei un’entità immutabile, che dalle origini preromane o dai fasti della civiltà comunale avesse attinto una volta per tutte i suoi originali caratteri e il suo genio. Nella vicenda nazionale c’era stato un nuovo momento iniziale, una vera e propria rinascita, un nuovo e decisivo giuramento. Un nuovo simbolo entrava nell’iconografia nazionale: quello dell’albero della libertà, alla cui base la nazione si riuniva dopo secoli, momentaneamente libera, e pronta a promettersi unità e sacrificio in nome della democrazia. La nazione si risveglia dunque a fine Settecento, ed entra in un’epoca nuova attraverso il rito qui squisitamente pagano - della danza al quale, si noti bene, partecipano ugualmente uomini e donne. Nel ‘patrimonio genetico’ della nazione doveva da questo momento essere compreso il fattore nuovo, quello della moderna democrazia. E’ contemplando questo spettacolo, e non attraverso la lettura di poesie e romanzi, che il giovane Grillenzoni decide, già a fine Settecento, di rinnegare – moderno San Francesco – suo padre, le sue ricchezze, il suo titolo nobiliare e la ‘vergognosa’ mentalità dell’aristocrazia. Ai piedi dell’albero della libertà, nel mezzo di una folla di uomini e donne festanti, un giovane aristocratico subisce un’improvvisa e rapida mutazione interiore: diventa un altro, diventa un democratico, diventa un patriota, abbandona l’aristocrazia della terra per entrare in quella 9 Cfr. L. Assing, In memoria di Giovanni Grilenzoni, Genova, Stabilimento degli artisti tipografi, 1869, pp. 3 ss. 5 dello spirito. Con lui, sotto quell’albero, era nata una nuova generazione: quella dei veri italiani, cioè dei democratici. La Bibbia in carcere E’ abbastanza conosciuta una delle numerose immagini che corredano la Vita di Mazzini di Jessie White Mario. Il patriota genovese, ai suoi esordi come rivoluzionario, è in carcere, di fronte al padre sdegnato. Accanto al patriota, in bell’evidenza, stanno due tomi: Tacito e la Bibbia. L’Italia come secolare comunità di cultura e valori, riscopriva nel pieno delle lotte risorgimentali due grandi pilastri del suo patrimonio, e della sua stessa identità storica. La storia nazionale diventava, in questa immagine, e nel patrimonio espressivo che ad essa si connetteva, una vicenda dialettica e ancora incompiuta: come la storia del popolo della Bibbia, come la lotta contro i tiranni. In nome di questa missione inesauribile, essenziale all’essere della nazione, si disintegrano anche le famiglie, pure loro portatrici di autorità discutibili. Anche Mazzini diventa grande patriota nel momento stesso in cui rifiuta l’autorità paterna, ignora la disapprovazione del genitore, sceglie una nuova strada che si prevede irta di ostacoli e sofferenze. Per i democratici la ‘missione’ inizia spesso con l’allontanamento anche traumatico dal proprio retaggio, dalla propria famiglia. Alle origini della nuova Italia, ancora non concretizzata in senso istituzionale, c’è una rottura, personale, generazionale e anche collettiva. Pur non disconoscendo il patrimonio storico più risalente, i patrioti si votano ad un valore sostanzialmente nuovo: quello della democrazia moderna, che ha già avuto, dalla Rivoluzione americana in poi, delle grandi ‘epifanie’ nel mondo. La riscoperta degli scrittori politici dell’Impero, di Tacito in particolare, è coerente con l’immagine, cara alle nostre due scrittrici, della ‘tirannia interna’, del giogo esercitato da istituzioni che pure non sono imposte dagli stranieri. In questo senso, Tacito è molto più utile di Machiavelli e della fortunatissima immagine del ‘campo segnato col gesso’: perché la schiavitù della nazione italiana non era terminata con la cacciata dello straniero. Il popolo italiano, il nuovo popolo eletto, anche dopo l’uscita dall’Egitto, aveva bisogno di un vero profeta e soprattutto di un nuovo decalogo che spazzasse via le opprimenti istituzioni volute dalle oligarchie. La nazione, quindi, e anzi il ‘popolo eletto’ della democrazia, doveva ancora ribellarsi e lottare per la libertà, fino al trionfo di un giusto legislatore. La falange eroica e la nuova Terra promessa 6 La nazione vera, l’Italia dei democratici, sarebbe stata guidata dunque dai giusti legislatori, da un’oligarchia dello spirito, composta da coloro che Mazzini stesso qualificò come “Dei ignoti”. I giovani che in nome dell’albero della libertà hanno giurato di redimere la nazione sia dal giogo straniero sia dalle ingiustizie sociali, rappresentano la nuova e vera élite. Per individuare i caratteri fondamentali di questa élite, Ludmilla Assing fa ampio uso, in un’opera del 1865, di immagini di guerra e di morte, affiancate ad altre profondamente religiose. Antico e moderno, immagini classiche e sacre scritture, appartenenza religiosa e moderne idee di cittadinanza si succedono senza soluzione di continuità nelle pagine di questa scrittrice romantica tedesca. I “patrioti” per i quali l’Italia “si è distinta” come madre esemplare, hanno infatti formato una “falange numerosa” che ha combattuto contro i suoi nemici “spiegando la bandiera della libertà”. Questi individui eletti hanno dimostrato di possedere “la fede e l’abnegazione di apostoli”: hanno intrapreso l’“apostolato della libertà”, e hanno dato vita alla “chiesa militante della democrazia italiana”. Oltre che apostoli, e martiri, questi eletti sono stati dei profeti degni di venerazione in un prossimo futuro di democrazia: “I grandi uomini che precorrono le moltitudini, e che patiscono per le loro idee, non patiscono invano”, perché sono “Cittadini dell’avvenire [che] preparano la via del progresso umano”10. La nazione democratica, quindi, si identifica nella Terra promessa post-rivoluzionaria, nella moderna Città di Dio, nel regno terreno della libertà, della fraternità e soprattutto della giustizia e dell’uguaglianza. Ma da dove attinge, questa élite militante, la certezza della propria missione profetica, la consapevolezza e anche la legittimazione per assurgere a moderni ‘apostoli’? Quali letture, oltre ad una certa conoscenza del corpus mazziniano, permette alla scrittrice di attribuire tanto valore religioso ad una dialettica politica? L’avvenire a cui pensa Ludmilla Assing, e in nome del quale – come degno compimento del cammino recente dell’umanità – sprona all’apostolato i suoi lettori, sembra identificarsi con quello profetizzato in una celebre opera del Romanticismo tedesco. Nella Europa Novalis, uno scrittore conosciuto dalla nostra biografa, aveva scritto di “un’età aurea […], un’età profetica e consolatrice che chiuderà ogni ferita e accenderà la fiamma della vita eterna!”. E’ in vista di un avvenire tanto luminoso, per la Assing, che hanno combattuto e patito i figli dell’albero della libertà, ed è questo il destino esaltante che attende la nazione eletta, l’Italia della democrazia, il popolo finalmente arbitro della propria sorte. 10 L. Assing, Vita di Piero Cironi, Prato, Giachetti, 1865, pp. 5-8. 7 In un’altra pagina densa di varia memoria letteraria, la scrittrice aggiunge qualche particolare sul destino di perfezione e pace che attende la nazione di eletti. I quali, quando “non sarebbe [stato] più d’uopo combattere … avrebbero potuto darsi di tutto cuore all’ammirazione del Bello”, appagando le loro aspirazioni, degne delle grandi figure di età romantica11. Le donne moderne di Palermo e le brutte figlie della nazione nuova Le storiche della parte democratica, le più innovative e originali tra loro, non declinano solo al maschile questa nazione votata alla benedizione divina. Al ‘giuramento’ sotto l’albero della libertà avevano partecipato anche le donne; e le donne non avrebbero mancato di dare un contributo attivo alle lotte, di condividere pienamente la sofferenza, meritando sul campo, quindi, i benefici della libertà e dell’uguaglianza. Nell’iconografia risorgimentale, lo sappiamo bene, Palermo era per tutti la città dei Vespri: dell’oltraggio, dell’onore minacciato, della manifestazione eroica del risentimento a difesa della famiglia e in nome della patria. Per una delle nostre scrittrici, per Jessie White Mario, Palermo è peraltro una delle città dove più fortemente ha soffiato il vento della democrazia. Se altrove, nel corso del Lungo Quarantotto, le donne combatteranno assieme agli uomini sulle barricate, le palermitane di Jessie White Mario si sollevano per prime, la mattina del 10 gennaio 1848, sfidano apertamente le autorità, aprono i combattimenti, si espongono ad ogni rischio nelle strade e nelle piazze. Accese quanto i loro padri e mariti dai nobili sentimenti patriottici, le palermitane non temono più oltraggi, non invocano la protezione maschile, non accettano di seguire gli eventi dal perimetro sicuro della loro casa12. Molti anni dopo, nel 1908, un’altra scrittrice di parte democratica, di lì a poco sposa del leader socialista Mondolfo, ci dà la prima definizione compiuta del ruolo della donna nella nuova Nazione. Nella breve biografia di Eleonora Reggianini, Lavinia Sacerdote invalida, uno per uno, tutti i valori cardinali dell’immagine femminile mutuata dalla tradizione cattolica e rielaborata nelle opere più famose del canone risorgimentale13. La donna espressa dalla nuova nazione democratica non avrà per la nostra biografa nulla di angelico, non sarà un modello di virtù né tanto meno una creatura tenera e affascinante che invoca amore e soccorso. Non per questo la donna diventa una guerriera alla Giovanna 11 Ibidem. Cfr. J. White Mario, Giuseppe Garibaldi e i suoi tempi, Milano, Treves, 1884. 13 Cfr. A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Santità, onore e parentela alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, passim; R. De Longis, Maternità illustri: dalle madri illuministe ai cataloghi ottocenteschi, in M. D’Amelia (a cura di), Storia della maternità, Roma-Bari, Laterza, 1997; I. Porciani, Il Plutarco femminile, in S. Soldani (a cura di), L’educazione delle donne. Scuole e modelli di vita nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Angeli, 1989. 12 8 d’Arco, figura che pure certe scrittrici democratiche della Restaurazione avevano tentato di recuperare alla tradizione femminile e femminista italiana. La donna della nazione democratica sarà, molto più semplicemente, una persona. Non sarà necessariamente bella. Non brillerà per educazione e modestia pur essendo, se vorrà, buona cattolica. Sarà una cittadina, libera quanto gli uomini di coltivare le proprie facoltà, di prendere parte alla sfera politica. Le migliori tra loro, le più infiammate d’amor patrio, saranno parte dell’aristocrazia degli spiriti, del ‘circolo delfico’ dei migliori figli della nazione. Come la Reggianini, che sfidò con i suoi versi l’autorità di Francesco IV, e che fu per questo reato politico mandata in esilio nel 1831. I topoi della femminilità ideale sono attaccati e ironicamente demoliti, assieme all’orizzonte culturale che li sosteneva, in poche rapide sentenze: Chi leggendo questo nome di donna fra quelli dei più famosi liberali emiliani e romagnoli […] volesse per avventura avere di lei una conoscenza un po’ profonda […], rimarrebbe, a tutta prima, un po’ deluso nella sua aspettativa. Era brutta, si sentirebbe rispondere […]; era strana, era originale, ma era buona. […] Veniva chiamata ‘la poetessa’ e per il popolino spesso poeta e matto sono la stessa cosa. […] Noi non la vediamo perseguire vane illusioni, effimere speranze; ma la vediamo raccolta e seria nella sua sventura, e nella sua bruttezza, bella d’entusiasmo quando segue palpitante l’ardente parola di Mazzini […]; bella di una pura bellezza morale quando persegue con ogni attività dell’anima e del pensiero lo scopo di tenere alto […] il nome della patria lontana14. Corsi e ricorsi della storia nazionale La nazione italiana, quindi, ancora nel 1909 sembrava tutt’altro che redenta alle nostre biografe. Lo stadio decisivo per il compimento del destino divino era quello della ‘riforma sociale’, dell’epifania della democrazia nel tessuto vivo delle istituzioni e della società. L’ultima barriera da infrangere, l’ultimo ‘ricorso storico’ che di nuovo aveva condannato la nazione alla ‘schiavitù’, era rappresentato molto chiaramente dalla classe moderata. Nella definizione dei nuovi ‘tiranni interni’, figli degeneri della loro stessa madre votata alla democrazia, si sprecano nelle pagine delle nostre scrittrici i riferimenti alla derivazione di questa élite dall’antico regime. Come certi signori nel celebre coro manzoniano, i moderati sono coloro che per viltà sono scesi a patti con i despoti, hanno rincorso le comodità della vita di Corte lasciando il popolo nella triste condizione di soggiogamento. Tanto che spesso, soprattutto ma non solo nelle pagine della Assing, il partito moderato sembra ereditare la funzione, l’habitus mentale e perfino le fattezze della peggiore aristocrazia di epoche ormai 14 Cfr. L. Sacerdote, Eleonora Reggianini, Modena, Ferraguti, 1908, pp. 3 e 16. 9 remote. Ovunque, dalla Rivoluzione in poi, il cammino della democrazia si è scontrato con i maneggi e gli intrighi di questo ceto, con la sua doppiezza, con la sua paura del popolo e dunque con il suo atteggiamento profondamente antinazionale. Per compiere la propria missione, e scoprire a se stessa il suo volto autentico di regno terreno della giustizia, la nazione dovrà combattere quest’ennesimo sopruso. Ai più giovani membri della falange, ai nuovi apostoli della Chiesa militante, ai patrioti di fine Ottocento la Assing dice chiaramente che la nazione attende ancora la sua età dell’oro; ma anche che i nemici sono condannati alla sconfitta. Quelli stessi, che sorridevano sdegnosi delle Utopie del Mazzini, degli insuccessi dei suoi tentativi, sapevano benissimo goderne i frutti, ma temevano sempre di lui, e sapevano purtroppo, che le sue profezie prima o poi si dovevano avverare15 Anche Jessie White Mario identifica alla fine la nazione italiana con il popolo, e la sua élite naturale con le forze della democrazia. Tutti gli altri, i ‘tiranni interni’, a ben vedere, non appartengono se non limitatamente alla comunità nazionale: sono estranei al suo spirito e riottosi alla sua autentica volontà. L’Italia nelle loro mani non è la grande nazione spirituale e romantica dei profeti e dei martiri, ma una copia in tono minore della ‘geometrica’ Francia napoleonica resa ancor più vile dal persistente potere feudale della Chiesa e dei ceti. La fiducia storicista nel destino di Casa Savoia allora celebrata dalla storiografia moderata; nonché la funzione storica della Chiesa a favore dell’identità nazionale, durevole portato del neoguelfismo, venivano sistematicamente demolite dall’attesa di un futuro completamente ‘altro’. Anzi, ciò che la White aborriva era proprio l’immagine della nazione, retta dalla monarchia paterna e desiderosa di riconciliarsi con l’autorità religiosa, che si voleva far passare anche negli scritti storici e biografici per le scuole, e per le famiglie. Le parole della nostra storica sembrano tanto più impietose proprio perché colpiscono duramente un insieme di immagini e di figure che dopo l’Unità si ritenevano essenziali all’educazione alla patria e allo Stato, cioè alla nazionalizzazione, dei giovani Italiani. Cosa era questa Italia […] se non il fedecommesso di un Papa e di un Re? L’Italia per gli Italiani? Che! L’Italia per i preti, per il re, per la sua corte, per i suoi ministri, per i suoi prefetti, per i sottoprefetti, per i generali, per gli impiegati16. 15 16 Cfr. L. Assing, Giuseppe Mazzini, in “Rivista europea” III (1872), p. 214 Cfr. J. White Mario, Garibaldi e i suoi tempi, Milano, Treves, 1884, p. 808. 10 La vera nazione che prendeva quasi immagine di persona, quella nata dall’albero della libertà, fiorita idealmente con la diffusione della dottrina mazziniana e della fede democratica, aveva vissuto nel Risorgimento una straordinaria stagione di “giovinezza”, o di età dei “profeti”. Poi era subentrata una difficile “maturità”, quasi un’ulteriore “decadenza” senile. Tuttavia, se la vittoria dei moderati aveva il significato di una morte, per la nazione eletta, per l’Italia democratica come Israele eletta da Dio a prodigiosi destini, non poteva trattarsi che di una morte provvisoria. Al martirio provocato dal ‘tradimento’ avrebbe fatto seguito, come per Cristo tradito da Giuda, la Resurrezione. L’Italia … fu singolarmente privilegiata nel numero e nella qualità degli iniziatori de’ suoi nuovi fati […]. Essi divinarono quella meta, crederono fermamente poterla raggiungere con il coraggio e colla perseveranza, non ostante gli ostacoli creduti insuperabili dai più. […] E vi riuscirono: coll’esempio infusero la loro fede […] prima nei pochi martiri volontari […]; poscia nei molti […]; finalmente nelle moltitudini vincitrici in mille contro migliaia, poi sconfitte di nuovo per risorgere vincitrici17. Il Risorgimento, o Resurrezione della nazione, non era un fatto storico attraverso il quale educare il popolo. Il Risorgimento era piuttosto, per queste scrittrici, il contenuto di una missione per l’avvenire. A tale missione, riscaldando le loro pagine di sincero risentimento e di romantico impeto profetico mutuato da letture italiane ed europee, le nostre biografe avevano richiamato uomini e donne ‘eletti’, e nuovi giovani pronti, come i “profeti”, a rinunciare al peggior egoismo per guidare la grande famiglia verso il suo destino di vera democrazia. Perché per queste donne l’Italia era, ancora nel 1890 e oltre, una madre dolorosa, tradita dai figli degeneri. Ma grazie ai democratici l’Italia avrebbe rivestito presto anche i panni di una Cornelia orgogliosa e fiduciosa dei suoi tanti figli pronti al “sacrificio” in nome della più autentica libertà. 17 Cfr. J. White Mario, Prefazione a Scritti e discorsi di Agostino Bertani, Firenze, Barbera, 1890, pp. VIII-IX. 11