Roberto Fondi (Dipartimento di Scienze della Terra dell’ Università di Siena) IL RUOLO DELLA PALEONTOLOGIA NELLA RICERCA DI UN NUOVO PARADIGMA PER LE SCIENZE DELLA VITA PREMESSA E’ naturale che lo scopo di ogni discussione di carattere bioteoretico debba essere fondamentalmente quello di portare nuova luce sui sistemi cellulari e sulla loro evoluzione, in rapporto con gli altri sistemi fisici del mondo in cui viviamo. D’altra parte, poiché il concetto di evoluzione biologica include almeno due significati di valore differente, riteniamo necessario iniziare illustrandoli. Se per evoluzione si intende il fenomeno del semplice succedersi nel tempo delle forme viventi che, dalla loro prima comparsa ad oggi, hanno popolato la Terra, tutti concorderemo immediatamente sul fatto che tale fenomeno corrisponde a qualcosa di reale come la luce del Sole, bastando a dimostrarlo la sola documentazione paleontologica. Per contro, se per evoluzione si vuole intendere un processo di “discendenza con modificazione”, implicante perciò la connessione genetica o ereditaria diretta e la spiegazione con gli antecedenti secondo la regola del post hoc, ergo propter hoc, allora risulterà altrettanto evidente come tale processo non corrisponda ad un fatto constatabile o dimostrabile, bensì ad una formulazione di natura ipotetica. Nessun essere umano, infatti, ha mai visto e documentato la formazione di nuove specie. Secondo noi, soltanto l’evoluzione intesa in base alla prima di queste accezioni puo’ costituire oggetto di studio di una vera biologia teorica. Diversamente, infatti, si correrebbe costantemente il rischio di fermarsi a teorizzare sull’ipotetico anziché sul reale, ingolfando con disquisizioni a carattere più o meno sofistico il cammino della scienza, la quale - come tutti sappiamo - deve pur sempre progredire traducendosi in specifici e concreti programmi di ricerca. Parte I LA GRANDE RIVINCITA DI CUVIER Dai primi del secolo scorso ad oggi, i paleontologi hanno offerto alle scienze naturali un contributo di informazioni enorme ed in continuo arricchimento, in virtù del quale essi hanno potuto tracciare un quadro che, malgrado risulti sotto vari aspetti problematico, viene da loro considerato come fedelmente rappresentativo del decorso storico della vita sulla Terra. Il quadro in oggetto presenta una configurazione di grandiosa drammaticità ed è stato pazientemente costruito sulle fondamenta del criterio metodologico attualista e dei postulati della stratigrafia. Il criterio attualista, secondo cui occorre partire dall’assunzione che nel passato la natura è stata governata dalle medesime leggi fisiche e biologiche operanti nel nostro tempo, non è di pertinenza esclusiva delle scienze della Terra, ma costituisce la necessaria impalcatura di sostegno di qualsiasi nostra costruzione scientifica. Quanto ai postulati della stratigrafia, fu appunto nel loro pieno rispetto che Georges Cuvier, assieme ad Alexandre Brongniart e quasi 2 ogni settimana per quattro anni consecutivi, compì le sue escursioni lungo la valle della Senna per decifrarne la storia geologica. Concentrando principalmente la loro attenzione sull’obiettivo di determinare la corretta successione verticale, ovvero l’ordine cronologico, dei livelli sedimentari fossiliferi, e pubblicando nel 1811 l’Essai sur la géographie des environs de Paris, i due studiosi francesi gettavano le fondamenta della moderna biostratigrafia, mentre William Smith compiva indipendentemente un’opera analoga realizzando, più o meno nello stesso periodo, la sua grande carta geologica dell’Inghilterra. Gli storici della scienza che ne hanno approfondito la figura e l’opera sono stati unanimi nel considerare Cuvier uno dei più grandi zoologi di tutti i tempi, nonché il vero padre della paleontologia e dell’anatomia comparata. Ciò nonostante, a partire già dalla seconda metà del secolo scorso, egli ha ricevuto un’attenzione ed una considerazione che non sono neppure lontanamente paragonabili a quelle che sono state rivolte a Darwin e, sebbene in misura molto minore, a Lamarck. Come sottolinea anche Martin Rudwick 1, il motivo di ciò risiede essenzialmente nel fatto di avere egli fermamente voltato le spalle all’interpretazione evoluzionistica dei fenomeni viventi. Cuvier vide la storia della Terra e della vita come caratterizzate da parossismi catastrofici e da discontinuità morfologiche. Per lui, era semplicemente impossibile interpretare i differenti gruppi di organismi come elementi transitorii di successioni di forme sfumanti insensibilmente le une nelle altre e procedenti nel senso di una crescente complessità, in quanto essi dimostravano di essere regolarmente riconducibili ad un numero ben definito di piani strutturali nettamente separati fra loro. E ciò non valeva unicamente per gli organismi attuali, ma anche per quelli del passato, in quanto le differenti forme che avevano lasciato resti fossili, osservate secondo il corso del tempo geologico, risultavano presentarsi all’improvviso nella successione stratigrafica, perdurare per tempi più o meno lunghi senza sostanziali modificazioni e, alla fine, estinguersi altrettanto improvvisamente come erano apparse. D’altra parte, questi fenomeni di discontinuità erano da considerarsi come autentici eventi naturali, la cui realtà poteva essere dimostrata in qualsiasi momento da sicure e copiose prove di natura paleontologica. Con il successivo e progressivo diffondersi, ad opera soprattutto di Lyell e di Darwin, del paradigma uniformistico-evoluzionista, il modo cuvieriano di interpretare la storia della vita sulla Terra venne scalzato e messo da parte, fino ad essere dimenticato o indicato quale esempio di pensiero retrivo e reazionario. Per Lyell, ogni interpretazione geologica basata sull’idea di parossismi catastrofici come il biblico “diluvio universale”, in quanto introduceva fenomeni o eventi non riscontrabili nel nostro tempo, non rispondeva al criterio metodologico attualista e doveva perciò essere considerata come priva di base scientifica. Al medesimo tempo, però, egli mostrava di voler ancorare il suddetto criterio al preconcetto uniformista, ossia alla tesi secondo cui l’evoluzione del globo terrestre sarebbe soggetta unicamente a fattori fisici dall’azione lenta, graduale ed uniforme. Quanto a Darwin, egli impegnò tutte le sue energie nel cercare di convincere che ogni forma vivente, sia fossile che attuale, altro non poteva essere se non il risultato del lento accumularsi di piccole e fortuite variazioni favorevoli preservate da processi selettivi naturali. Alla luce delle conoscenze successivamente acquisite, comunque, le opinioni dei due naturalisti britannici hanno finito col mostrare tutti i loro limiti. Lyell, evidentemente a causa di idiosincrasie personali, aveva evitato di sottolineare il fatto che nell’indagine geologica molti fenomeni non possono essere osservati direttamente, ma soltanto inferiti, e ciò senza che il criterio attualista venga in alcun modo compromesso. D’altra parte, catastrofi di portata planetaria come quelle che si produrrebbero per effetto della caduta di una cometa o di un asteroide, sebbene abbiano scarsissime probabilità di verificarsi nell’arco di un tempo limitato come quello della vita di un uomo, ne avrebbero sicuramente non poche nell’ambito di durate dell’ordine delle centinaia di migliaia o dei milioni di anni, come appunto quelle dei tempi geologici. Ed è ormai accertato che corpi celesti sono effettivamente caduti sul nostro pianeta, non soltanto durante le ere passate, ma perfino a memoria d’uomo, com’è dimostrato da 3 quello che esplose con grande violenza sulla taiga della Siberia orientale il 30 giugno 1908. Quanto all’interpretazione darwiniana dei fenomeni biologici, è sufficiente riflettere sull’inaudita complessità di questi ultimi - dai sistemi cellulari a quelli ecologici - per ridimensionarla definitivamente nel suo significato e nella sua portata reali. Si trattò di una costruzione essenzialmente speculativa, sorta nella mente di un naturalista dilettante in seguito alla lettura delle opere di un economista (Smith), di un sociologo (Malthus), di uno statistico (Quételet) e di due naturalisti professionisti (Lyell e Blyth). Una costruzione semplicistica ad un punto tale, peraltro, da indurre il barone von Uexküll, padre fondatore dell’etologia moderna, ad esprimersi in questi termini icastici: “Ogni volta che mi capita di sfogliare L’origine delle specie di Darwin, mi torna alla mente una vecchia filastrocca per bambini: ‘Con poca spesa nutro mio figlio con il mio latte’. Solo dei fanciulli possono rimanere soddisfatti dalla teoria darwiniana” 2. Mentre per Cuvier, che in ciò seguiva Aristotele e Linneo, il compito fondamentale del naturalista era essenzialmente quello di ricercare i modelli o archetipi, ossia i piani strutturali, in base ai quali risultavano plasmate le produzioni della natura, per Darwin tutto ciò non aveva alcun senso, in quanto quei modelli semplicemente non esistevano. Tra i gruppi di viventi non c’erano barriere o discontinuità qualitative, ma soltanto vuoti o lacune determinatisi nel corso del tempo in seguito all’eliminazione delle forme intermedie da parte dei processi selettivi naturali. Ne derivava, pertanto, che i suddetti gruppi, in quanto aventi origine comune, erano tutti imparentati fra loro; per cui l’obiettivo del naturalista diventava essenzialmente quello di ricostruirne il più fedelmente possibile i relativi percorsi storico-genealogici o filogenetici. Ma come si puo’ pensare di assolvere un tale compito senza tener conto della documentazione paleontologica? E in tal caso, quale peso dobbiamo attribuire al “messaggio” di Cuvier? A nostro modo di vedere, questo messaggio rimane a tutt’oggi sostanzialmente valido. Anche per noi, come per Cuvier, la storia della Terra e della vita si presentano caratterizzate rispettivamente da eventi di natura catastrofica e da discontinuità di natura primaria e qualitativa, anziché meramente secondaria e quantitativa come pensava Darwin. La prima e più enigmatica di queste discontinuità coincide con la comparsa della vita sul nostro pianeta. Secondo gli astronomi e i geologi, la Terra si originò intorno ai 4,7, le prime rocce intorno ai 4 e i primi organismi viventi - procarioti marini - intorno ai 3,8-3,5 miliardi di anni fa 3. In pratica, dunque, la vita risulta essere altrettanto antica quanto le prime rocce, avendo essa fatto la sua prima apparizione proprio allorché le condizioni superficiali della crosta terrestre divennero tali da consentirne la sussistenza. Sembra poi che sia stato essenzialmente a causa dell'attività fotosintetica di alcuni tipi di organismi, se la primitiva atmosfera della Terra, - povera in ossigeno e composta per lo più da vapore acqueo e da anidride carbonica - modificò la sua composizione fino a diventare analoga all'attuale. La seconda grande discontinuità risale approssimativamente a 1,4 miliardi di anni or sono. Essa coincide con la comparsa dei protisti, ossia della vita unicellulare di tipo eucariotico 4, ed è espressa da organismi marini planctonici del gruppo estinto degli Acritarchi, la cui derivazione diretta dai precedenti procarioti risulta sicuramente improponibile. La comparsa della vita pluricellulare coincide con la terza grande discontinuità riscontrabile nella documentazione paleontologica. Mentre per più di 800 milioni di anni non si assiste ad alcun diffuso “tentativo”, da parte dei protisti, di mettersi insieme per formare strutture pluricellulari, si constata invece come queste ultime abbiano fatto la loro apparizione in maniera improvvisa, e contemporaneamente in varie parti del mondo, intorno ai 680-620 milioni di anni fa. Con riferimento a questo fatto, possono venir citati sia le flore marine a tallofite trovate nella Cina meridionale, sia gli enigmatici organismi marini a corpo molle del tipo rinvenuto a Ediacara in Australia, i quali non possono venire assegnati con certezza ad alcuno dei phyla biologici conosciuti 5. 4 La quarta grande discontinuità si verificò circa 14 milioni di anni dopo l'inizio dell'Era Paleozoica, durante le età Tommotiana e Atdabaniana del periodo Cambriano, in un arco di tempo pari a soli 5 milioni di anni: vale a dire corrispondente, da un punto di vista geologico, al bagliore di un fulmine 6. Come le precedenti, anche questa nuova discontinuità ebbe luogo simultaneamente in ogni parte del globo e segnò la comparsa di rappresentanti di tutti i phyla zoologici conosciuti, accompagnati a molti altri incertae sedis che successivamente sarebbero andati in estinzione. Possiamo menzionare, a questo proposito, le numerose faune dotate di parti dure del piano Tommotiano, come pure quelle scoperte a Chengjiang in Cina. In pratica, se si eccettua la comparsa del genere umano, verificatasi approssimativamente all’inizio del Quaternario, dopo la grande discontinuità del Paleozoico inferiore non troviamo più nessun'altra importante novità. Infatti, se ripercorriamo la storia della vita dall'inizio del Cambriano ad oggi, si puo' facilmente constatare come le flore e le faune siano senz’altro cambiate da un periodo all'altro e, soprattutto, da un'era all'altra; ma ad un'analisi più dettagliata ci si rende conto che tali cambiamenti sono consistiti in nient’altro che variazioni su temi fondamentali rimasti praticamente immutati per oltre mezzo miliardo di anni. Per dirla in altro modo, le faune dell'era Paleozoica non erano nè meno complesse nè meno diversificate, ma semplicemente differenti, da quelle delle ere Mesozoica e Cenozoica mantenendosi in ogni caso fedeli ai piani di organizzazione anatomica relativi ai vari phyla. D’altra parte, anche non considerando i suddetti piani di organizzazione anatomica per soffermarsi unicamente sulle morfologie esterne degli organismi, non puo’ non colpire il fatto che queste ultime, ben lungi dal variare all'infinito nella maniera più libera e sbrigliata, tendono invece regolarmente a riproporsi nello spazio e nel tempo secondo uno spettro finito di modelli o schemi strutturali: modelli sia semplici come lo sferico, lo spirale, il conico o il frattale, che complessi come quelli rappresentati dai casi cosiddetti di “convergenza” o di “parallelismo”. Ma la peculiarità più importante e paradossale della documentazione paleontologica risiede essenzialmente - secondo noi - nel suo non riuscire a fornire alcuna chiara ricostruzione filogenetica. “Palaeontology has to date contributed almost nothing to evolutionary theory” 7, è costretto ad ammettere Niles Eldredge, propositore assieme a Stephen Jay Gould del modello evolutivo cosiddetto degli “equilibri intermittenti” (punctuated equilibria). Provenendo da uno dei più noti e stimati paleontologi del nostro tempo, questa ammissione conserva un peso formidabile, se non proprio decisivo. In effetti, malgrado il lavoro ininterrotto di circa due secoli eseguito su materiali di studio provenienti da ogni parte del mondo e dai più svariati livelli della successione stratigrafico-sedimentaria, si ha veramente l’impressione che non sia possibile collegare le forme viventi attuali a quelle delle ere passate mediante relazioni lineari di causa-effetto sviluppantisi con continuità lungo la direzione del tempo. Ovvero, per dirla in parole più semplici, che non sia possibile rappresentare la storia della vita sotto forma di albero genealogico. Affinché vi sia un albero, è necessario che esista un tronco con tanto di radici e di rami, e affinché vi siano rami è necessario che esistano altrettanti punti di biforcazione quanti sono i rami medesimi. E invece questi punti di biforcazione rimangono sistematicamente assenti, nebulosi o sfuggenti nella documentazione paleontologica. Il quadro paradossale che ne scaturisce, dunque, è quello di miriadi di tronchi verticali di differenti lunghezze, più o meno strettamente affiancati in parallelo secondo la direzione del tempo e, proprio in quanto privi di radici o di connessioni causali dirette fra di loro, beffardamente come "sospesi per aria"!. Né questo è tutto. Infatti, sebbene la storia della vita sulla Terra si esprima, come si è detto, in un insieme di “tratti di esistenza” più o meno lunghi e addensati, ma sempre regolarmente separati, pure questi, come ha dimostrato A.J. Boucot 8, non mostrano affatto di essere distribuiti a caso lungo la successione stratigrafica, bensì risultano formare parte di comunità inserite nel contesto di una dozzina di “unità ecologiche” succedutesi dall’inizio del Cambriano ad oggi. E anche queste unità mostrano regolarmente di essere comparse all’improvviso, di essersi mantenute sostanzialmente immutate per tratti di tempo geologico 5 più o meno notevoli e, infine, di essersi estinte (tranne ovviamente l’ultima) altrettanto improvvisamente come sono apparse. Né questo andamento discontinuo si presenta obbligatoriamente correlato al grado di stabilità ambientale o alla competizione fra le comunità, come imporrebbe il contesto interpretativo darwiniano. Poiché le miriadi di “tratti di esistenza” che descrivono la storia della vita non risultano distribuite a caso, è lecito domandarsi se esse non rappresentino l’esecuzione di un “progetto” insito nella natura. E’ chiaro che, se così fosse, ciascun “tratto”, al medesimo modo di ogni punto di colore nei quadri dei pittori divisionisti, acquisterebbe significato unicamente in rapporto a tutti gli altri. Si ricorderà che sul nostro pianeta sono comparsi prima i procarioti, poi gli eucarioti; tra questi ultimi, prima i protisti, poi i pluricellulari vegetali ed animali. Nel regno vegetale, sono comparse prima le alghe, poi le pteridofite, quindi le gimnosperme e, infine, le piante a fiore. Nel regno animale, prima gli invertebrati e i vertebrati agnati, poi i pesci, quindi gli anfibi, successivamente i rettili, infine i mammiferi e gli uccelli e, come ultima tappa, gli esseri umani. Questa straordinaria successione riflette una serie di mere coincidenze o assolve un preciso e grande disegno della natura? Si rifletta poi sul complesso ed articolatissimo sistema gerarchico dei cicli naturali (dell’ossigeno, del carbonio, dell’azoto, del fosforo, ecc.), nel quale tutti gli organismi si inseriscono contribuendovi in maniera attiva e determinante, ed in assenza del quale la vita stessa sarebbe impossibile. Darwin non ne aveva minimamente tenuto conto. Dobbiamo davvero considerarlo un intreccio inaudito di fortunate coincidenze? O non vederlo, piuttosto, come espressione di un grandioso disegno strutturale della natura? Anche qui, Cuvier aveva visto giusto. Con la sua consueta lungimiranza, infatti, egli aveva ben compreso che gli organismi, per poter sussistere, dovevano avere le loro parti non soltanto collegate in modo tale da funzionare insieme armonicamente, ma anche strutturate in modo tale da rendere gli stessi in grado di sopravvivere nei loro ambienti. Le leggi che governavano le forme organiche, dunque, dovevano necessariamente agire di comune accordo con quelle che governavano le loro stesse condizioni di esistenza. “Prendendo l’avvio dal fatto ovvio che nessuna creatura potrebbe sopravvivere se i suoi organi non fossero armoniosamente coordinati, Cuvier saltò alla conclusione che appunto questa necessità era la causa, o spiegazione dell’armonia dell’ordinamento. In altri termini, gli animali e i loro ambienti erano stati progettati in modo tale da risultare reciprocamente adatti” 9. Possiamo perciò concludere questa prima parte rimarcando il punto che segue: lungo tutto l’arco della storia della vita, se si escludono i processi cosiddetti “microevolutivi” - che si collocano a livello intraspecifico e consistono in meri aggiustamenti o adattamenti di un qualcosa che già esiste alle fluttuazioni ambientali - la comparsa di tutte le novità biologiche risulta essere avvenuta all'insegna della discontinuità, esprimendosi con una straordinaria varietà di forme, le quali non mostrano affatto di essere derivate le une dalle altre, ma semplicemente di essersi succedute nel corso del tempo. Insomma, la discontinuità interna al Systema Naturae, inteso come insieme di tutti i viventi attuali e passati, è strutturale e non puo' essere attribuita a mera carenza di documentazione paleontologica. Darwin si afferrò ad un tale pretesto appunto per scavalcare o sminuire le difficoltà che i fossili opponevano alla sua teoria; ma pochi paleontologi, oggi, sarebbero disposti a concordare con lui su questo punto fondamentale 10. In effetti, benchè la fossilizzazione sia in se stessa un processo dipendente da situazioni ambientali piuttosto particolari, le documentazioni in proposito rimangono abbondanti; e malgrado ogni anno nuove forme fossili vengano riportate alla luce e descritte, ciascuna nuova acquisizione non invalida affatto il quadro delle conoscenze precedenti, ma semplicemente ne precisa e ne raffina i particolari, confermandone però regolarmente i connotati di discontinuità. Se i “vuoti” fossero dovuti semplicemente ad insufficiente documentazione paleontologica, essi dovrebbero tendere a colmarsi e a farsi sempre meno evidenti via via che le ricerche proseguono e tale documentazione si arricchisce; invece, come si è visto, le cose vanno in maniera contraria. 6 In questo quadro paradossale, e contrariamente a quanto mostrano di continuare a credere soprattutto i paleontologi specialisti in vertebrati, gli "anelli di congiunzione" tra le differenti categorie biosistematiche succedutesi nel tempo non trovano alcuno spazio dimostrabile. Noi non ne conosciamo nessuno che possa essere considerato tale in maniera unanime; mentre tutti quegli esempi che abitualmente vengono portati a sostegno della loro esistenza - l’anfibio Ichthyostega, il rettile Probainognathus, l'uccello dentato Archaeopteryx, il “dinosauro pennuto” Caudipteryx 11, il cetaceo Pakicetus e lo scimmione australopitecino "Homo habilis" 12: dovrebbe essere possibile menzionarne a centinaia, mentre sono sempre gli stessi, e possono contarsi sulle dita delle mani! - si rivelano in realtà, ad un esame approfondito, tutt’altro che indiscutibili. L’accertamento della natura discontinua del “cronòtopo biologico”, e perciò - alla resa dei conti - della correttezza della posizione di Cuvier nei confronti di quella di Lamarck e di Darwin, rappresenta secondo noi il contributo più importante ed originale della paleontologia alle scienze della natura. Esso non implica affatto che sia impossibile proporre soluzioni al problema dell'origine delle forme viventi, ma soltanto che è impossibile identificare tali soluzioni in quelle proposte dalla dottrina classica della “discendenza con modificazione”. Quanto al motivo per cui ancora oggi la maggior parte dei paleontologi mostri di continuare a fingere di non vedere, accontentandosi di proporre alberi genealogici costruiti unicamente con linee tratteggiate e punti interrogativi, o semplicemente desunti in base ai principii della fede hennigiano-cladista, è questione che riguarda molto più l’ambito della psicologia che non quello delle scienze naturali. Parte II NECESSITÀ DI UN PARADIGMA ALTERNATIVO A QUELLO CLASSICO DELLA “DISCENDENZA CON MODIFICAZIONE” Se le argomentazioni finora esposte sono corrette, la paleontologia viene ad assumere un ruolo di stimolo fondamentale nelle attuali discussioni di carattere bioteoretico. Nessun’altra disciplina biologica, infatti, invita in modo altrettanto esplicito a compiere il passo - di significato veramente epocale - verso un paradigma differente da quello classico, o lamarckiano-darwiniano, della “discendenza con modificazione”. Siamo ben consapevoli delle implicazioni di questo fatto. Si tratta infatti, in pratica, di aprire audacemente le porte alla duplice idea - del tutto indigesta ed insopportabile al comune “buon senso” - che i taxa biologici, per usare un’espressione comune in fisica quantistica, sono regolarmente “collassati nello spazio-tempo” in maniera istantanea e “già pronti”, e che ciò è sempre avvenuto nel rispetto di un disegno strutturale unitario e denso di significato. Nella seconda metà del secolo scorso, e fino a non troppi anni fa, questa proposta sarebbe stata considerata un chiaro frutto di pregiudizi fideistico-religiosi e quindi accolta con il massimo disprezzo in quanto codina, anti-scientifica e reazionaria. Oggi, però, le prospettive sono radicalmente differenti. Tutta la scienza del novecento, infatti, è andata ben al di là della visione del mondo codificata da Cartesio, Newton e Maxwell (sebbene questa rimanga tuttora la più familiare al vasto pubblico), sostituendola con quella ereditata da Keplero, Einstein e Planck. Chiameremo per comodità “meccanica” la visione ottocentesca e “sistemica” quella del nostro tempo. Quanto ai motivi che ci inducono ad affiancare Keplero ai padri della fisica relativistica e quantistica, essi sono spiegati in appendice. Nella visione meccanica, la realtà è composta di corpi materiali e di campi energetici tra loro indipendenti e collocati nello scenario, esso pure indipendente, dello spazio e del tempo considerati come entità separate ed esistenti a priori. Inoltre, le leggi che governano la materia e l’energia sono reputate di tipo continuo e tali da poter essere descritte in termini di connessioni o interazioni lineari e locali di causa ed effetto. Al contrario, nella prospettiva 7 sistemica i corpi materiali ed i campi energetici sono considerati manifestazioni differenti di una medesima entità, la quale è strettamente dipendente dalle dimensioni spaziali e temporale, viste come fuse in un blocco unico, o cronòtopo. Inoltre, le leggi che governano il mondo fisico sono di tipo discontinuo o discreto (“quantico”) e si esprimono mediante interazioni di natura non-lineare e globale. Heisenberg, uno dei padri fondatori della fisica quantica, vide appunto in questo spostamento dalle parti al tutto l’aspetto centrale della rivoluzione concettuale da essa provocata, e fu per questo che ritenne di dover intitolare la sua autobiografia scientifica Der Teil und das Ganze, ovvero “La parte e il tutto” 13. Nella prima parte abbiamo visto come, stando ai risultati della paleontologia, il quadro storico della vita sulla Terra si presenti caratterizzato - in piena analogia con i risultati della fisica - dalla discontinuità di tutti i dettagli connessa alla coerenza unitaria del tutto. Sembra veramente, insomma, che anche il mondo dei viventi, o Systema Naturae, ben lungi dal poter essere interpretato come mero aggregato meccanico di elementi o processi tra loro separabili ed indipendenti, sia invece dominato da leggi di tipo non-lineare e globale. Nella nostra opinione, soltanto qui risiedono e possono essere indicate le basi reali di quell’”olismo” che caratterizza non soltanto la fisica, ma anche la biologia del nostro secolo, nonostante che in quest’ultima il “paradigma vincente” (per usare un’espressione singolarmente appropriata di Silvano Scannerini 14) sia sempre stato quello evoluzionistico darwiniano. E’ indubbio, infatti, che il darwinismo ha potuto assumere il monopolio del pensiero bioteoretico soltanto dacché l’Europa è divenuta culturalmente dipendente delle potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. In precedenza il successo del darwinismo non era mai stato completo, in quanto aveva incontrato l’opposizione dei neolamarckisti (Eimer, Rabaud, Caullery, McDougall, Cannon, Cuénot, ecc.), dei vitalisti (Driesch, Berg, Rignano, ecc.) e di tutti quei biologi - in gran parte definitisi appunto “olisti” - che, prendendo le distanze al medesimo tempo dal darwinismo e dal vitalismo, si erano mantenuti fedeli alla idealistische Morphologie di Goethe e all’organicismo di eredità aristotelica (Kleinschmidt, von Uexküll, Troll, von Bertalanffy, Haldane, Dürken, Russell, ecc.; per l’Italia possono essere ricordati Raffaele, Pasquini e Canella). Dopo la Seconda Guerra Mondiale divenne veramente impossibile, soprattutto per i biologi “olisti”, entrare in sintonia con i colleghi delle Università nordamericane e sovietiche, in quanto i primi aderivano spontaneamente all’idea di una “selezione dei migliori” risultante dalla libera competizione sociale, mentre i secondi vedevano la sorgente di ogni progresso nella potenza trasformatrice dell’ambiente fisico-sociale. Lo sviluppo della biologia “olista” fu perciò bloccato o rallentato in ogni parte del mondo dall’intesa “sindacale” promossa dai biologi sostenitori della cosiddetta “teoria sintetica” neodarwiniana (Huxley, Dobzhansky, Mayr, Simpson ed epigoni), la quale combinava la selezione naturale con la genetica di Mendel e il mutazionismo di De Vries. Le opere di biologi universalmente reputati eminenti, ma estranei al “sindacato” (come Goldschmidt, Schindewolf, Nilsson, Portmann, Willis, D’Arcy Thompson e, in Italia, Colosi) furono aspramente combattute, screditate come frutto di pura fantasia, o circondate da barriere di silenzio. Per nostra fortuna, ormai questo clima da caccia alle streghe è definitivamente tramontato e l’”olismo” sta tornando al ruolo che gli compete nelle discussioni di carattere bioteoretico. In Italia, ciò sta avvenendo grazie soprattutto agli stimoli intellettuali prodotti dagli incontri del Gruppo di Osaka per lo Studio delle Strutture Dinamiche e dalla “Rivista di Biologia/Biology Forum”. Permangono in ogni caso, a parer nostro, non poche indecisioni e perplessità in proposito, ed un buon esempio di ciò puo’ essere rappresentato dalla posizione contraddittoria di Michele Sarà 15. Questo zoologo, infatti, si proclama apertamente olista, sostenendo che “la teoria dell’evoluzione non puo’ oggi prescindere, diversamente da come fa il neodarwinismo ortodosso, dall’ordinamento dei fenomeni entro gerarchie”; e tuttavia insiste nel situare il “centro motore dell’evoluzione” a livello dell’organismo individuale, richiamandosi in tal modo, e non meno apertamente, a Lamarck. 8 Con tutta franchezza, ci sembra che l’operazione di accostare a Lamarck l’olismo biologico del nostro tempo sia del tutto fuori di luogo. Siamo ben lontani dal non riconoscere l’importanza di Lamarck nella storia della scienza, però neppure possiamo dimenticarci del nucleo originale della sua dottrina. Questo non risiedeva affatto, come erroneamente si continua a sostenere, nell’idea dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti (prima di Weismann, e senza escludere Darwin, questa idea è sempre stata generalmente accettata), bensì unicamente in quel besoin o impulso necessitante nei confronti dei processi di generazione spontanea dei microorganismi e di trasformazione graduale e progressiva dei macroorganismi, fino alla produzione dell’uomo e della sua mente, che Lamarck attribuiva a fluidi imponderabili e sottili circolanti sia all’interno degli organismi che negli ambienti e nell’atmosfera nei quali essi vivevano. Nonostante vedesse la luce nei primi anni dell’ottocento, insomma, la Philosophie zoologique rimaneva saldamente ancorata al sensismo tardo-illuministico dell’abate di Condillac, di Condorcet e di Cabanis, dei quali Lamarck fu sempre convinto ed acceso sostenitore: a tal punto che fino alla morte si rifiutò di riconoscere validità alla “nuova chimica” propugnata da Lavoisier e da Fourcroy, con il rilievo da questa assegnato agli elementi, all’analisi quantitativa ed al ruolo dell’ossigeno nei processi di combustione. Lamarck poneva alla base del suo concetto di besoin un modello di processi organici dominato dalla continua interazione tra parti solide e parti fluide, con le prime passivamente plasmate dalle seconde. E anche l’azione nervosa veniva da lui spiegata al medesimo modo: come un fluido particolare che scorreva lungo le morbide fibre nervose fino al cervello, modificandolo gradualmente e progressivamente 16. Ben altre prospettive, invece, troviamo in Marcello Barbieri, che secondo noi rimane sicuramente una delle figure di punta del panorama bioteoretico attuale. Circa 30 anni fa, riflettendo sul fatto che i processi di cristallizzazione che avvengono negli embrioni sono strettamente dipendenti dal differenziamento cellulare, Barbieri pensò che fosse possibile ottenere informazioni sul rapporto esistente tra il metabolismo dei ribosomi e le fasi dello sviluppo embrionale; pertanto iniziò ad isolare cristalli ribosomiali da embrioni di pollo, lavorando con Crick, Perutz e Klug a Cambridge. Qui egli si occupò anche del problema matematico della ricostruzione di strutture da proiezioni “incomplete”, iniziando ad elaborare algoritmi che consentissero di simulare il modo con cui un sistema aumenta di complessità. Successivamente, Barbieri ha proseguìto le sue ricerche negli Stati Uniti e in Germania; ma essendosi reso conto che i cristalli ribosomiali sono i più complessi esistenti in natura, e poiché allo stato attuale non esistono tecnologie idonee a consentirne una completa ricostruzione, ha dovuto pressoché interrompere il lavoro sul loro isolamento per rimandarlo ad un futuro più propizio. Nel frattempo, ulteriori studi ed approfondimenti hanno condotto Barbieri alla conclusione che l’insieme delle ribonucleoproteine cellulari costituisce una categoria distinta sia dal genotipo che dal fenotipo: una categoria che puo’ dunque essere definita a pieno titolo “ribotipo”. Più esattamente, se equipariamo la cellula vivente ad un computer, il fenotipo corrisponde all’elemento materiale-energetico o hardware, il genotipo all’elemento trasportatore dell’informazione o software e il ribotipo all’elemento caricante di significato l’informazione stessa, o “codeware”. Se trasmettiamo la successione di quattro lettere BURRO contemporaneamente ad un nostro connazionale e ad messicano, entrambi riceveranno la medesima informazione; però questa avrà per loro un significato ben differente, in quanto l’italiano immaginerà un derivato del latte da spalmare sul pane a colazione, mentre il messicano immaginerà un asino. Basta questo semplice esempio a far capire come l’elemento veramente decisivo della strutturazione, perpetuazione e differenziazione sistematica degli organismi viventi sia quello semantico, ed è appunto per questo motivo che Barbieri ha definito “teoria semantica dell’evoluzione” la sua visione bioteoretica 17. Nel computer, il responsabile del codeware è unicamente l’uomo che lo ha concepito e costruito. Ma nella cellula? E’ chiaro che al “cronòtopo biologico” devono essere inerenti meccanismi producenti significati a mezzo di codici idonei: tali cioè da aver consentito quella 9 straordinaria successione di forme che ha caratterizzato la sua evoluzione dall’inizio dell’eone Archeozoico ad oggi. Barbieri, infatti, non manca di sottolineare energicamente che nel sistema dei viventi non esistono soltanto il codice genetico universale (presente in tutti gli organismi) ed i codici culturali umani (con i linguistici in primo piano), ma ve ne sono sicuramente molti altri. Il processo dello splicing, ad esempio, che si verifica a livello dei ribosomi e che è tipico delle sole cellule eucariotiche (ove gli esoni, o parti geniche traducibili in proteine, sono inframezzate da introni, o parti non traducibili), consiste nel tagliare via gli introni dai segmenti genici e nel connettere tra loro gli esoni. E’ impossibile che un processo così delicato avvenga senza che siano rispettati precisi codici di attuazione. E lo stesso deve dirsi circa i particolari processi di trasduzione dei segnali negli organismi pluricellulari e circa i differenti patterns di sviluppo embrionale negli animali. Riconosciuta l’esistenza in natura di fattori che aggiungono significato all’informazione, e che perciò mostrano di essere del tutto equivalenti alle convenzioni linguistiche umane, Barbieri definisce questi fattori convenzioni naturali, e ne conclude che l’evoluzione biologica non puo’ essersi verificata secondo i soli dettami della teoria sintetica neodarwiniana rappresentati dalla dualità genotipo-fenotipo, dalla selezione naturale e dall’adattamento all’ambiente -, bensì deve essersi svolta soprattutto all’insegna della trinità genotipo-ribotipo-fenotipo, delle convenzioni naturali e dell’adattamento ai cicli naturali. Cicli che “sono stabili, sono potenzialmente immortali e si dispongono in gerarchie di cicli entro grandi cicli; e soprattutto ci dicono che tutti gli organismi sono complementari”, riflettendo dunque chiaramente “un disegno,... un grande principio della natura” 18. E’ importante sottolineare che il riconoscimento dell’esistenza nei sistemi biologici di fattori producenti significato equivale a porre precisi programmi di ricerca. Infatti, dal momento che è stato possibile individuare il codice genetico universale, è ragionevole ritenere che con intense ed appropriate indagini potranno essere individuati anche i codici caratterizzanti gli eucarioti, i pluricellulari e gli animali, nonché le loro innumerevoli varianti. Pur senza sottoscrivere ogni pagina de La teoria semantica dell’evoluzione, soprattutto là dove (come nel capitolo relativo alla teoria ribotipica delle origini) maggiormente si fa sentire l’influenza del paradigma della “discendenza con modificazione” di stampo sette-ottocentesco, non possiamo che condividerne pienamente il messaggio di fondo. D’altra parte, poiché ci sembra che la scelta da parte di Barbieri dell’espressione “convenzioni naturali” sia suscettibile di generare equivoci, crediamo che valga la pena approfondire la nostra analisi per vedere se per caso non sia possibile apportare ulteriori chiarimenti a questi problemi. La domanda cruciale è: “Nell’ambito umano, qual’è il fattore responsabile di ogni convenzione, sia essa specificamente linguistica o culturale in senso generico?”. Riteniamo di non essere in errore dando alla domanda questa risposta: “La mente o psiche”. Se ciò è esatto, comunque, ne segue che anche le “convenzioni naturali”, essendo del tutto equivalenti alle convenzioni linguistiche, non possono che essere il frutto di processi di natura mentale o psichica inerenti al sistema biologico naturale. Questa conclusione è in pieno accordo con quanto insegna la fisica del nostro tempo. Mentre per la visione meccanica del mondo l’uomo e la natura, ossia “la cosa che osserva” e “la cosa che viene osservata” (nel linguaggio cartesiano, rispettivamente la res cogitans e la res extensa) erano entità fra loro separate ed indipendenti, per l’attuale visione sistemica queste sono interdipendenti e legate l’una all’altra in maniera inscindibile. La psiche, afferma il fisico inglese Paul Davies 19, “non è un carattere insensato e fortuito della natura, ma un aspetto assolutamente fondamentale della realtà”. Per converso, come sottolinea l’astrofisico Fred Hoyle 20, l’universo è “intelligente”, e dunque impregnato di mente. Queste affermazioni non devono essere considerate come formulazioni filosofiche, ma come risultati effettivi della ricerca scientifica, dei quali possono ormai darsi più prove. Ci sembra particolarmente significativo, a questo proposito, quanto viene scritto da un altro fisico britannico, Freeman Dyson, in un brano che riteniamo giusto riportare per esteso: 10 “Tra i fisici vi sono punti di vista filosofici molto differenti e molti differenti modi di interpretare il ruolo svolto dall’osservatore nella descrizione dei processi subatomici. Ma nessun fisico ha mai messo in discussione le prove sperimentali che rendono inutile la ricerca di descrizioni indipendenti dalle modalità di osservazione. Quando ci occupiamo di entità minuscole come gli atomi e gli elettroni, l’osservatore o sperimentatore non puo’ venire escluso dalla descrizione della natura. E’ un campo in cui il dogma di Monod, ‘La pietra angolare del metodo scientifico è il postulato che la natura sia oggettiva’, non risulta vero. Negare il postulato di Monod, non significa negare i risultati della biologia molecolare e sostenere la dottrina del vescovo Wilberforce. Non vogliamo dire che il caso e la risistemazione meccanica delle molecole non possano trasformare in uomo la scimmia. Vogliamo soltanto dire che se, in veste di fisici, cercheremo di osservare nei particolari il comportamento di una singola molecola, il significato delle parole ‘caso’ e ‘meccanico’ dipenderanno dal modo in cui effettueremo le nostre osservazioni. Le leggi della fisica subatomica non possono neppure venire formulate, senza fare riferimento all’osservatore. Il ‘caso’ non puo’ essere definito, eccetto che come misura dell’ignoranza del futuro da parte dell’osservatore. Le leggi assegnano un posto alla mente, nella descrizione di ogni molecola. E’ interessante notare come la mente compaia a due separati livelli, nella nostra conoscenza della natura. Al livello più alto, che è il livello della coscienza umana, la nostra mente è in qualche modo consapevole del complicato flusso di schemi elettrici e chimici che si svolge nel nostro cervello. Al livello più basso, che è il livello dei singoli atomi e dei singoli elettroni, la mente dell’osservatore è nuovamente chiamata in causa nella descrizione degli eventi. Tra questi due livelli si colloca quello della biologia molecolare, dove i modelli meccanici sono validi e dove la mente risulta irrilevante. Ma io, come fisico, sono indotto a sospettare che vi sia una connessione logica tra i due modi in cui la mente si presenta nel mio universo. Non posso impedirmi di pensare che la consapevolezza del nostro cervello abbia qualcosa a che fare con il processo che chiamiamo ‘osservazione’ in fisica atomica. Ritengo in altre parole che la nostra coscienza non sia solamente un epifenomeno passivo, un portato degli eventi chimici che hanno sede nel cervello, ma che sia un agente attivo che induce i complessi molecolari a scegliere tra uno stato quantico e l’altro. In altre parole, la mente è già una caratteristica intrinseca di ciascun elettrone, e il processo della coscienza umana differisce unicamente in grado, ma non in qualità, dal processo di scelta tra stati quantici che noi chiamiamo ‘caso’ quando viene effettuato dagli elettroni” 21. In sostanza, quando Dyson dice che “la mente è già una caratteristica intrinseca di ciascun elettrone”, non sembra esprimere un concetto molto diverso da quello sottolineato da Barbieri a conclusione del suo libro, laddove si afferma che non è che la vita “abbia” un linguaggio: essa stessa, intrinsecamente, “sarebbe” un linguaggio. D’altra parte, come non riallacciare quanto precede all’opera Mind and nature dell’antropologo Gregory Bateson 22, la cui tesi di fondo considera la mente una proprietà essenziale dei sistemi viventi? Per Bateson, la vita non sarebbe una sostanza-forza, né la mente sarebbe un’entità separata dalla vita che, in qualche modo, interagisce con essa; al contrario, tanto la vita quanto la mente sarebbero aspetti differenti di un medesimo sistema auto-organizzantesi, di una medesima totalità fatta di relazioni dinamiche coordinate. Dal punto di vista di Bateson, insomma, la mente e la materia non sarebbero affatto, come credeva Cartesio, categorie fondamentalmente diverse ed indipendenti l’una dall’altra, ma semplicemente aspetti differenti di un medesimo processo universale. Il biologo George Coghill 23 era arrivato a conclusioni simili già negli anni ‘40. Egli, infatti, distingueva negli organismi viventi una trinità di elementi fra loro strettamente interagenti: struttura, funzione e “mentazione” (mentation). La struttura corrisponderebbe all’organizzazione nello spazio, la funzione all’organizzazione nel tempo e la mentazione ad 11 un tipo di organizzazione che integrerebbe le due precedenti in un livello più elevato di complessità, fungendo perciò da centro direttivo di tutte le strutture-funzioni. Poiché, per tornare a Bateson, la mente corrisponderebbe alle leggi di organizzazione dei sistemi viventi, e poiché questi ultimi comprendono entità non soltanto individuali, ma anche sociali - i taxa - ed ecologiche, essa è immanente sia in noi che in tutto il sistema biosferico a livello planetario, del quale costituiamo altrettanti sottosistemi. Il che ha vastissime implicazioni culturali, in quanto porta alla conclusione che, allo stesso modo in cui esiste tutta una gerarchia di sistemi viventi, così esisterà anche una corrispondente gerarchia di sistemi mentali. Vi saranno, ad esempio, livelli di mente “metabolica”, organizzante le strutture e le funzioni delle cellule, dei tessuti e degli organi; e vi saranno livelli di mente “specifica”, “generica”, “familiare”, ecc., organizzanti le morfologie spazio-temporali delle varie specie, generi, famiglie, ecc. E tutti questi livelli, retti dalla loro particolare logica minor, faranno a loro volta parte integrante della logica maior relativa alla totalità del cosmo. Il significato concettuale del nuovo approccio sistemico non rimane in alcun modo compromesso associando questa “mente cosmica” all’idea tradizionale di Dio, purché questo venga concepito non come creatore in veste personale, (maschile o femminile che essa sia), ma soltanto come centro dinamico auto-organizzante dell’intero universo. In ogni caso, il concetto dell’Essere come kosmos o Systema Naturae, ossia come ordine gerarchico implicante livelli molteplici a diversa complessità e mutualmente interagenti ed interdipendenti in maniera tale da riflettere una mente di ordine superiore, ha sempre giocato un ruolo preponderante nelle tradizioni di tutte le culture. Nelle sedi scientifiche europee, tale concetto si è mantenuto stabilmente - in pratica - fino a Linneo e a Cuvier, e soltanto il diffondersi del paradigma lamarckiano-darwiniano ha fatto sì che esso venisse messo da parte. Appendice SU KEPLERO, KAYSER E L’ARMONISTICA DEL MONDO All’inizio della seconda parte abbiamo affermato che l’attuale visione scientifica del mondo riposa sull’eredità intellettuale di Keplero, di Einstein e di Planck. Mentre Einstein ha intimamente connesso fra loro lo spazio, il tempo, la massa e l’energia, Planck ha aperto la porta all’immagine “olistica” della realtà. Ma perché Keplero? Per rispondere a questa domanda dobbiamo rimandare a quanto abbiamo detto circa il legame indissolubile tra il mondo psichico e il mondo fisico, del quale oggi possono ormai darsi più prove. Queste prove vengono per lo più dalla microfisica, ma possono essere date anche facendo leva sul mondo macrofisico o visibile. E ciò è appunto quanto è stato fatto da Keplero. Nelle culture dell’Età Antica era diffusa l’idea, ripetutamente espressa e drammatizzata da simboli e da miti, che il mondo non soltanto è stato generato da suoni, ma puo’ sussistere unicamente in quanto composto da suoni. A partire dal VI secolo a. C., nell’ambito culturale greco questa idea ebbe la sua più compiuta espressione nel pensiero pitagorico. In base ad esperienze acustiche e a relazioni analogiche, Pitagora ed i suoi seguaci erano giunti alla conclusione che esisteva una stretta concordanza tra le leggi della natura, dell’uomo e della musica, nel senso che le regole numeriche che presiedono alle composizioni musicali - le quali, come sappiamo, producono precisi e particolari effetti nell’animo umano - sarebbero riscontrabili anche nella più svariate espressioni della natura. Fino agli albori dell’Età Moderna, questa idea di un ordine universale basato su leggi di natura armonica o musicale si mantenne generalmente diffusa tra gli studiosi, i quali vi si riferirono più volte e con una certa naturalezza; tuttavia nessuno di essi, con la sola eccezione di Keplero 24, avvertì la necessità di approfondirla. Sebbene oggi i meriti scientifici del grande astronomo tedesco siano indicati essenzialmente nelle sue tre leggi relative alle orbite planetarie, le quali rappresentano una delle basi fondamentali della fisica newtoniana, pure si 12 è completamente dimenticato che tali leggi non costituirono affatto l’obiettivo e l’interesse primario delle ricerche di Keplero, ma ne furono una conseguenza secondaria, se non proprio marginale. In Mysterium Cosmographicum, pubblicato all’età di 26 anni, Keplero aveva, come Galileo, preso apertamente posizione in favore dell’idea copernicana e presentato l’universo come un’unità dinamica. Proponendo che i pianeti fossero tenuti in moto da una forza proveniente dal Sole, anzi, egli era stato il primo a parlare di gravità in termini di attrazione reciproca fra corpi legati da qualche affinità materiale. Al medesimo tempo, comunque, Keplero era profondamente convinto - allo stesso modo degli antichi pitagorici che il mondo fosse un tutto coerente ed ordinato secondo criteri di armonia; e poiché di questa “armonia universale” si erano sempre avute, fino all’epoca in cui egli viveva, soltanto idee molto vaghe e confuse, dedicò lunghi e faticosi anni di lavoro a cercarne almeno una prova che fosse oggettivamente verificabile. Dopo aver tentato più volte, e sempre inutilmente, di mettere in relazione i raggi delle orbite planetarie con quelli delle sfere inscriventi e circoscriventi i cinque solidi platonici, Keplero riuscì finalmente a dimostrare, ormai quasi cinquantenne, che le orbite dei pianeti erano ellittiche anziché circolari, e che le velocità angolari orbitarie dei singoli pianeti al perielio e all’afelio stavano tra loro in rapporti semplici ed interi, corrispondenti con mirabile precisione agli intervalli musicali fondamentali. A partire dal centro del Sole, anzi, l’insieme orbitale dei sei pianeti conosciuti veniva a formare, a seconda che si prendesse in considerazione il perielio o l’afelio di Saturno, l’intera scala musicale maggiore o minore; per cui, sovrapponendosi i toni-base dei singoli pianeti, ne risultava come un immenso accordo di contrappunto. Pur silenziosamente, insomma, il mondo emetteva la musica impartitagli dal suo Creatore. Esultante, Keplero rivelò al mondo la sua scoperta pubblicando a Linz, nel 1619, l’Harmonices mundi libri quinque (“I cinque libri dell’armonistica del mondo”), che segnò il trionfo ed il coronamento dell’opera di tutta la sua vita. Uno studioso odierno che si metta a sfogliare quest’opera - molto più simile ad un trattato di teoria musicale che di astronomia - non puo’ che rimanere perplesso; eppure, proprio questo ne fa una pietra miliare della storia della scienza: non soltanto perché si tratta della prima teoria armonistica del mondo, ma perché le dimostrazioni di Keplero, nonostante siano trascorsi quasi tre secoli dalla loro formulazione, nulla hanno perduto della loro sostanziale validità. D’altra parte, la direzione successivamente imboccata dal pensiero scientifico ha fatto sì che le fatiche di Keplero venissero rapidamente perdute di vista, fino ad essere fraintese e addirittura derise 25. Tutt’altra strada, infatti, ha percorso la scienza con Galileo e con Newton. Dopo Keplero, occorre in pratica saltare a piè pari l’intero secolo XVIII e la prima metà del XIX, prima di incontrare un cambiamento realmente significativo nella storia dell’armonistica. Nel 1868, infatti, comparve nelle librerie di Colonia il primo dei due volumi di un’opera monumentale intitolata Die Harmonikale Symbolik des Altertums (“Il simbolismo armonicale del Mondo Antico”) 26. L’autore, il barone germanico Albert von Thimus, era un erudito di cultura enciclopedica che, nell’impegnarsi in tale opera, era stato mosso da intenti di natura essenzialmente filologica. Dedicatosi allo studio delle antiche concezioni pitagoriche, von Thimus aveva potuto stabilire che i neopitagorici, disponendo delle relazioni - determinate per via sperimentale - tra le differenti lunghezze delle corde vibranti e i suoni da esse prodotti, erano giunti a costruire un particolare diagramma, o “sistema di coordinate tonali”, nel quale tali relazioni erano adeguatamente rappresentate. Von Thimus riuscì a ricostruire tale diagramma; tuttavia la sua opera, spesso appesantita da discutibili speculazioni personali, avrebbe registrato un successo appena degno di menzione, se un suo connazionale, Hans Kayser (1891-1964), non ne avesse ripreso ad ampliato la parte più valida collegandola con altre conoscenze scientifiche. Seguendo l'esempio di Keplero e dedicando l'intera sua vita a sottoporre le differenti manifestazioni naturali alla griglia interpretativa del sistema di coordinate tonali, Kayser ha potuto così proseguirne l’opera, fornendo la dimostrazione che i rapporti interi, 13 corrispondenti agli accordi musicali semplici e “gradevoli all’udito” (l’ottava, la quinta, la quarta, la terza e, seppure in grado subordinato, la sesta e la settima), costituiscono un fenomeno primigenio della natura. Kayser si è spinto nell'atomistica, nella chimica, nell'indagine spettrale, nell'astronomia, nella cristallografia, nella botanica e nell'architettura, trovando dovunque la conferma che a pervadere la Terra ed il Cosmo sono sempre quei rapporti numerici, corrispondenti agli accordi musicali fondamentali e pertanto suscettibili di essere "uditi" e sperimentati 27. E' stato così gettato un ponte tra il mondo naturale, o fisico-biologico, e quello archetipico della mente oggettiva, e ciò senza sfociare in alcuna evocazione di carattere mistico-sentimentale o costruzione speculativa magari anche razionale ed elegante, ma scientificamente sterile in quanto non dimostrabile. Sulla base di pensieri esatti e di calcoli sempre controllabili, Kayser ha dimostrato che ogni suono prodotto non è soltanto un "numero", ma anche un "valore". E' possibile, cioè, parlare di un "numero tonale" (Tonzahl) e di un "valore tonale" (Tonwert), dei quali soltanto la stretta ed armonica connessione forma il suono o tono musicale in quanto tale. Il numero tonale - corrispondente alla frequenza delle vibrazioni relative alla nota considerata - rappresenta l'aspetto naturale misurabile, e perciò quantitativo e razionale, del suono; per contro, il valore tonale costituisce l'aspetto apprezzabile a livello psicologico profondo, e quindi qualitativo ed intuitivo, del suono medesimo: rappresenta, insomma, la valutazione spontanea che viene assegnata ad ogni suono dalla sensibilità interiore dell'uomo, che nell'orecchio ha la sua diretta espressione organica. Da tutto quanto precede, possiamo dunque trarre la conclusione che la scienza armonistica, inaugurata da Keplero e continuata in epoca moderna da Kayser, implica una visione del mondo in cui la natura e l'uomo sono elementi non più indipendenti e contrapposti alla maniera cartesiana, bensì integrati e complementari alla maniera goethiana. Questa conclusione potrà sembrare illecita a quanti si ostinano a pensare che le percezioni di accordi o disaccordi esistano unicamente nel nostro ambito soggettivo, e che in natura non siano registrabili oggettivamente nient'altro che relazioni quantitative del tutto neutre o indifferenti a tale ambito. Si tratta del medesimo pregiudizio contro cui doveva scontrarsi Goethe 28 ogni volta che gli veniva obiettato che i colori esistevano soltanto nelle nostre percezioni, consistendo essi "in realtà" - dopo quanto era emerso dalle ricerche di Newton - in grandezze fisiche descrivibili quantitativamente come mere differenze di lunghezza d'onda (così oggi si direbbe) della luce o radiazione elettromagnetica solare. Anche sulla base di quanto ci ha insegnato la rivoluzione quantistica nell'ambito della fisica, questo smembramento della realtà in aspetti quantitativi ritenuti "oggettivi" (perciò degni di essere presi in considerazione) e qualitativi ritenuti "soggettivi" (perciò non degni di essere presi in considerazione) è da ritenere anacronistico ed ingiustificato. Dato che anche gli aspetti quantitativi della realtà possono essere scoperti soltanto tramite l'attività della nostra mente, perché dovremmo escludere aprioristicamente da questa attività i colori, i suoni, i sapori, gli odori e le altre "qualità" che pure rientrano a pieno titolo nell'ambito delle nostre percezioni della medesima realtà? Giustamente, pertanto, il fisico svizzero Walter Heitler ha insistito nel proporre che tutto quanto nell’uomo ha a che vedere con la conoscenza venga integrato, e che non sia ammesso soltanto - come fin dal tempo di Cartesio è stato stabilito ciò che è suscettibile di essere formulato in termini matematico-quantitativi 29. D’altra parte, riteniamo tutt’altro che privo di significato il fatto che il supporto fisico per eccellenza delle nostre capacità conoscitive - il cervello - sia formato da due emisferi aventi proprietà e funzioni per molti versi opposte. Poiché è ormai generalmente ammesso che è soprattutto l'emisfero sinistro a presiedere alle funzioni analitico-razionali, mentre quello destro presiede essenzialmente alle funzioni sintetico-intuitive 30, qualora venissero escluse le qualità percettive, la conoscenza si ridurrebbe ad un'opera di mera e fredda giustapposizione e classificazione di grandezze numeriche più o meno eterogenee ed indipendenti fra loro. Una tale esclusione, comunque, è inaccettabile, perché ogni scienziato sa bene quanto siano importanti le intuizioni, le pulsioni emozionali, le influenze di carattere storico-sociale e le 14 motivazioni estetiche nella genesi stessa dei paradigmi, delle ipotesi e delle teorie, in assenza dei quali diviene del tutto privo di senso parlare di scienza. E' unicamente sulla base di paradigmi, ipotesi e teorie nuovi, infatti, che possono venire imbastiti programmi di ricerca e di sperimentazione suscettibili di far progredire la conoscenza, sbloccando così il cammino di quest'ultima da rallentamenti o impedimenti dovuti ad un eccessivo consolidarsi, fino ad un loro fossilizzarsi in dogmi, di paradigmi ormai giunti al limite delle loro possibilità esplicative. L'inclusione dell'elemento sintetico-intuitivo-qualitativo, dunque, ben lungi dal rappresentare un pericolo per il rigore di quello analitico-razionale-quantitativo, contribuisce in realtà ad integrare costantemente le diverse espressioni di quest'ultimo in un tutto unitario e coerente. NOTE Rudwick M.J.S., Georges Cuvier, Fossil Bones and Geological Catastrophes: New Translations and Interpretations of the Primary Texts, 301 pp., University of Chicago Press, Chicago 1997. 2 Uexküll J. von, Der unsterbliche Geist in der Natur (tr. it. di A. e M. Cottrau: L'immortale spirito nella natura, 120 pp., Laterza, Bari 1947; cit. p. 22-23). 3 Mojzsis S.J., Arrhernius G., McKeegan K.D., Harrison T.M., Nutman A.P. & Friend C.R., Evidence for life on Earth before 3,800 million years ago. In “Nature”, 384: 56-58, 1966. 4 Vidal G. Le prime cellule eucarioti, in “Le Scienze”, 188: 94-105, 1984. 5 Knoll A.H., La fine del Proterozoico, in “Le Scienze”, 280: 50-60, 1991; Conway Morris S., The fossil record and the early evolution of the Metazoa, in “Nature”, 361: 219-225, 1993; McMenamin M.A.S., The Garden of Ediacara: Discovering the First Complex Life, Columbia University Press, 284 pp., 1998, New York. 6 Cfr.: Bowring S.A., Grotzinger J.P., Isachsen C.E., Knoll A.H., Pelechaty S.M. & Kolosov P., Calibrating rates of Early Cambrian evolution, in “Science”, 261: 1293-1298, 1993; Kerr R.A., Evolution’s Big Bang gets even more explosive, in “Science”, 261: 1274-1275, 1993. 7 Eldredge N., Trilobites and evolutionary patterns, in Hallam (Ed.), Patterns of Evolution, as Illustrated by the Fossil Record. 305-332 (la frase citata è a pag. 306). Elsevier, 1977, Amsterdam-Oxford-New York. 8 Boucot A.J., Evolution and Extinction Rate Controls, Elsevier, Amsterdam 1975; Does evolution take place in an ecological vacuum? II. In “Journal of Paeontology”, 57: 1-30; Evolution of Communities, in: Briggs & Crowthers (Eds.), Palaeobiology: A Synthesis, 391-394, Blackwell, Oxford 1990. 9 Greene J.C., The Death of Adam. Evolution and its Impact on Western Thought (tr. it. di L. Sosio: La morte di Adamo, Feltrinelli, Milano 1971, cit. p. 204). 10 Cfr: Newell N.D., Adequacy of the fossil record, in "Journal of Paleontology", 33, 488-499, 1959; Shaw A.B., Time in Stratigraphy, McGraw-Hill, New York 1964; Paul C.R.C., The adequacy of the fossil record, in Joysey & Friday (Eds.), Problems of Phylogenetic Reconstruction, 75-117, Academic Press, London 1982. 11 Quiang J., Currie P.J., Norell M.A. & Shu-An J., Two feathered dinosaurs from northeastern China, in “Nature”, 393: 753-761, 1998. Per un commento critico di questi ritrovamenti, cfr.: Gibbons A., Dinosaur fossils, in fine feather, show link to birds, in “Science”, 280: 2051, 1998. L’opinione più diffusa tra i paleontologi, spesso anche in base ad argomentazioni di natura cladistica, è che gli uccelli derivino dai dinosauri teropodi. Alan Feduccia (The Origin and Evolution of Birds, Yale University Press, New Haven 1966) non è d’accordo con questa tesi e ritiene di dover individuare le loro origini in tecodonti poco 1 15 specializzati. Sankar Chatterjee (The Rise of Birds: 225 Million Years of Evolution, Johns Hopkins University Press, 1998) ritiene di aver rinvenuto un uccello fossile dai tratti relativamente moderni, Protoavis, in sedimenti del Triassico superiore, ovvero 75 milioni di anni più antichi di quelli contenenti Archaeopteryx. 12 Cfr.: Johanson D.C., Masao F.T., Eck G.G., White T., Walter R.C., Kimbel W.H., Asfaw B., Manega P., Ndessokia P. & Suwa G., New partial skeleton of Homo habilis from Olduvai Gorge, Tanzania, in “Nature” 327: 205-209, 1987; Wood B., Who is the “real” Homo habilis?, in “Nature”, 327: 188-189, 1987. 13 Heisenberg W., Physics and Beyond (tr. it. di M. e D. Paggi: Fisica e oltre, Bollati Boringhieri, Torino 1984). Né l’edizione anglosassone né quella italiana hanno rispettato il titolo originale del volume. 14 Scannerini S., La biologia teorica: un guazzabuglio o un mazzo di chiavi?, in: AA.VV., Biologia teorica, 9-44, Jaca Book EDO, Milano 1994. 15 Sarà M., L’olismo, la teoria dell’evoluzione e la chiave lamarckiana, in: AA.VV., Biologia teorica, 107-139, Jaca Book EDO, Milano 1994. 16 Jordanova L.J., Lamarck, Oxford University Press, Oxford 1984. 17 Barbieri M., La teoria semantica dell’evoluzione, Boringhieri, Torino 1985. 18 Barbieri M., Op. cit., pp. 192, 176. 19 Davies P., The Mind of God (tr. it. di M. D'Agostino e A. Gulotta: La mente di Dio, Mondadori, Milano 1993, cit. p. 7). 20 Hoyle F., The Intelligent Universe (tr. it. di G. Paoli e R. Morelli: L'universo intelligente, Mondadori, Milano 1984). 21 Dyson F., Disturbing the Universe (tr. it. di R. Valla: Turbare l’universo, Boringhieri, Torino 1981, cit. pp. 287-288). 22 Bateson G., Mind and Nature: A Necessary Unity (tr. it. di R. Longo: Mente e natura, Adelphi, Milano 1984). 23 Herrick C.J., George Ellett Coghill: Naturalist and Philosopher, University of Chicago Press, Chicago 1949. 24 Su Kepler, cfr.: Koestler A., The Sleepwalkers, (tr. it. di M. Giacometti: I Sonnambuli. Storia delle concezioni dell'universo, Jaca Book, Milano 1981); Petroni A.M., I modelli, l'invenzione e la conferma. Saggio su Keplero, la rivoluzione copernicana e la "New Philosophy of Science", Angeli, Milano 1989. 25 Spiace dover constatare anche in Koestler, cui si devono opere genuinamente anticonformiste e non di rado originali ed appassionanti, la più totale incomprensione del valore dell'opera di Kepler. Ecco quanto egli scrive, infatti, a proposito di quest'ultima: "L'importanza obiettiva della Terza Legge è quella di aver procurato a Newton gli indizi più preziosi: essa racchiude l'essenza della Legge della Gravitazione. La sua importanza soggettiva, invece, fu, per Keplero, di servire le sue chimere e nulla più... Non piccolo è il merito di Newton per aver individuato le tre leggi negli scritti di Keplero, in cui esse si dissimulano come non-ti-scordar-di-me in un giardino tropicale. Cambiamo ancora di metafora: le tre leggi sono i pilastri che sostengono l'edificio della cosmologia moderna, mentre Keplero vide in esse soltanto delle pietre tra le tante che gli dovevano servire a costruire un tempio barocco, opera di un architetto pazzo." (Op. cit., pp. 388-389). 26 Thimus A.F. von, Die harmonikale Symbolik des Altertums, I-II, DuMont-Schauberg, Köln 1868 e 1876. 27 Le principali opere di Kayser sono: Der hörende Mensch: Elemente eines Akustischen Weltbildes. Schneider, Berlin 1932; Vom Klang der Welt: Ein Vortragzyklus zur Einführung in die Harmonik. Niehans, Zürich 1937; Harmonia Plantarum, Schwabe, Basel 1943; Akróasis. Die Lehre vom Harmonik der Welt, Schwabe, Basel 1946 (tr. ingl. di R. Lilienfeld: Akróasis. The Theory of World Harmonics, The Plowshare Press Inc., Boston 1970; tr. it. di A. P. von Ditró: Akroasis. La dottrina dell’Armonia, Il Cinabro, Catania 1998); Lehrbuch der Harmonik, Occident, Zürich 1950 (la traduzione italiana di quest'opera curata da M. F. Frola e 16 I. Valtolina - Manuale di armonica, Fonte Editore, Milano 1998 - per il momento riguarda unicamente la prefazione, l'introduzione e i paragrafi 1-16); Orphikon. Eine harmonikale Symbolik., Schwabe & Co., Basel/Stuttgart 1973. Malgrado la loro importanza, nessuna di queste opere - salvo le due sopra indicate - è mai stata tradotta in altre lingue. 28 Steiner R., Goethes Weltanschauung (tr. it. a cura di E. Erra: La concezione goethiana del mondo, Tilopa, Roma 1991). 29 Heitler W., Der Mensch und die naturwissenschaftliche Erkenntnis (tr. it. di A. Sparzani: Causalità e teleologia nelle scienze della natura, Boringhieri, Torino 1967). 30 Cfr.: Restak R.M., The Brain (tr. it. di L. Sosio: Il cervello, Mondadori, Milano 1986).