CANTIERI DI STORIA II (LECCE, 25-27 SETTEMBRE 2003)
SIMONE NERI SERNERI
LA «SOCIETÀ CIVILE» NELL’ITALIA DEGLI ANNI SESSANTA
Relazione introduttiva
Il nostro tema, l'oggetto di questo panel, è l'Italia degli anni Sessanta, l'Italia che fu investita dal «miracolo
economico» e ne fu trasformata, «modernizzata», tanto sul piano strutturale quanto su quello culturale.
Convinti che la conoscenza di una stagione decisiva della storia sociale e politica dell'Italia contemporanea, i
cui esiti si riverberano ancora sul nostro presente, possa arricchirsi dal ricorso a strumenti analitici meglio in
grado di rilevare le dinamiche di aggregazione sociale, abbiamo voluto verificare l'efficacia storiografica
della categoria di «società civile» proponendola come chiave di lettura peculiare, anche se certo non
esclusiva, di quel periodo. Confortati dal fatto che il generale ritorno di interesse verso questa categoria
analitica ha discretamente coinvolto anche gli storici, come dimostrano, tra l'altro, gli studi numerosi avviati
nel contesto tedesco e centro-europeo, specialmente in seguito al crollo delle 'democrazie popolari'1, abbiamo
impostato il panel muovendo dall'assunto che il concetto di «società civile» possa essere uno strumento utile
per descrivere i soggetti che animano quella società, le modalità con quei soggetti definiscono se stessi,
esprimono i propri interessi ed entrano in relazione tra loro e con il sistema politico. Sullo sfondo vi è, e non
potrebbe essere altrimenti, l'esplosione del 1968, quella eccezionale mobilitazione, che segnò l'avvio di una
lunga stagione di conflittualità sociale e, in tal modo, dimostrò la radicalità dell'antagonismo maturato tra
quei soggetti sociali e la crisi radicale apertasi nei rapporti tra alcuni di questi e il sistema politico.
Definire la «società civile»
Notoriamente, quella di «società civile» è stata una categoria fondante della filosofia politica e, poi, della
scienza politica moderna. Se un dibattito ormai secolare ha moltiplicato ed arricchito le definizioni di
«società civile», largamente prevalente è rimasta la considerazione della «società civile» quale ambito
sostanzialmente 'pre-politico' – talora, addirittura, pre-statale – definito, delimitato e dominato da una
qualche specifica istanza: in tal modo, la «società civile» è stata di volta in volta identificata con lo spazio
sociale del lavoro e del bisogno, con quello del mercato, con la sfera del privato o con quella degli interessi
collettivi, o, più generalmente, con la sfera del 'pubblico'. Spazi e sfere che il 'politico' sarebbe chiamato a
rappresentare e ordinare2. In realtà, alla varietà di fattori e di relazioni tra le diverse sfere pare corrispondere

Testo provvisorio, da non citarsi senza il consenso dell'autore.
M. Hildermeier, J. Kocka, C. Conrad (Hg.), Europäische Zivilgesellschaft in Ost und West. Begriff, Geschichte, Chancen, Campus,
Frankfurt/New York, 2000; C. Conrad, J. Kocka (Hg.), Staatsbürgerschaft in Europa. Historische Erfahrungen und aktuelle
Debatten, Krber, Hamburg, 2001; cfr. anche la sessione coordinata da A. Bauerkämper e J. Kocka e dedicata a Zivilgesellschaft als
Prozess und Projeckt. Konzept und Forschungerträge, svoltasi al «44. Deutschen Historikertag» (settembre 2002). Prevale in questi
contributi la tendenza a considerare la crescita della società civile come causa determinante della crisi dei regimi autoritari e
premessa per uno sviluppo politico democratico. Più in generale, negli anni recenti la categoria di «società civile» sta incontrando un
interesse diffuso, declinato secondo accezioni politiche diverse, ma accomunate dall'avversione allo statalismo e, in generale, alla
concentrazione dei poteri. In ambito internazionale sta acquistando visibilità una accezione più radicale, inclinea a valorizzare la
mobilitazione dal basso e la vitalità dei gruppi di azione sociale poco formalizzati, a vocazione tematica piuttosto che classista,
organizzati su base locale e connessioni orizzontali, antagonisti ai poteri politico-economici centralizzati e globali. In Italia, invece,
tende a prevalere una declinazione moderata, che identifica la «società civile» con l'insieme dei valori e dei soggetti protagonisti di
una «società liberale moderna», contrapposta ad un sistema dei partiti considerato eccessivamente pervasivo e, più ampiamente, allo
statalismo e agli interessi corporativi.
2
Oltre la classica voce di N. Bobbio, Società civile, in Id., N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino, Utet,
1990, e quella di M. Riedel, Gesellschaft, bürgerliche, in O. Brunner, W. Conze, R. Koselleck, Geschichtliche Grundebegriff,
Stuttgart, Klett Cotta, 1975, si veda tra gli studi recenti almeno J.L. Cohen, A. Arato, Civil Society and Political Theory, Cambrdige,
1
1
un medesimo e ricorrente schema concettuale, secondo il quale la «società civile» è caratterizzata da una
dimensione dominante – che può essere 'naturale', 'economica' o 'culturale' – ed è la premessa del sistema
politico, che da essa scaturisce, ma che ad essa è superiore3.
Senza avere l'ambizione di discutere qui l'utilità di queste definizioni ai fini della ricerca storica, si
deve però notare come la loro origine filosofico-politica comporti alcune discutibili gerarchie concettuali e
rischi di alimentare altrettanto discutibili derive interpretative. Troppo sbrigativamente, difatti, si tende a
spostare lo sguardo dalla «società civile» al sistema politico, troppo rapidamente ci si lascia alle spalle una
«società civile» sommariamente evocata per concentrarsi sui tratti e la storia degli attori e delle istituzioni
politiche. Soprattutto, quelle definizioni tendono a porre la «società civile» in una relazione dicotomica con il
sistema politico, per considerarla simmetrica o complementare ad esso, cosicchè lo sviluppo dell'una sarebbe
premessa e condizione della maturità dell'altro.4 Un simile approccio assume come riferimento implicito
l'esperienza storica dei paesi anglosassoni, ove alla forza e complessità della società civile corrisponde
storicamente un sistema politico-istituzionale relativamente poco strutturato e autonomo: ne consegue che la
vicenda italiana risulta inevitabilmente connotata da un esiguo sviluppo della «società civile», a sua volta
considerato causa ed effetto dell'abnorme crescita dei partiti politici, per un verso, e dell'espansione dello
stato ai danni della società, per l'altro. Ebbene, per quanto sorrette da riscontri fattuali e dotate di una certa
efficacia descrittiva, tali ricostruzioni appaiono fortemente improntate dagli schemi funzionalisti e teleologici
tipici delle teorie classiche della modernizzazione, che ben poco sono in grado di restituire le dinamiche
sociali e, nello specifico, i rapporti tra attori sociali e sistema politico. Ne resta fuori, rispetto a quel che qui
ci interessa, tutta la corposità e la densità delle aggregazioni sociali presenti nelle società contemporanee,
anche, o addirittura soprattutto, in quelle maggiormente investite dalla modernità: organizzazioni di interesse
e formazioni neo-comunitarie, movimenti collettivi e gruppi di iniziativa, e quante altre forme di
associazione danno vita alla pluralità di soggetti e di pratiche di identificazione e mobilitazione che
storicamente hanno dato forma e vitalità alla «società civile».
Se la «società civile» è, anzitutto, il luogo in cui i soggetti sociali si esprimono in forme organizzate,
in una prospettiva storica il primo quesito da porsi riguarda proprio il mutare di queste forme e dei criteri di
identificazione ad esse sottesi, giacchè sappiamo che essi possono essere di genere più diverso: strutturali,
economici, generazionali, culturali, ideologici, programmatici, religiosi, ecc. Evidentemente, tale quesito
precede ogni altro interrogativo sui rapporti con il sistema politico, proprio perché la «società civile» non è
costituita semplicemente dalla sommatoria degli interessi individuali e collettivi. Se essa è il luogo ove
interessi collettivi di vario genere si aggregano e si confrontano, ne discende che la sua costituzione è data,
oltrechè dal numero e dalla consistenza di quei soggetti, dalle modalità con cui quelle aggregazioni e quel
confronto si realizzano. Ne deriva che la «società civile» non è una entità indifferenziata e omogenea al
proprio interno, né riguardo ai modi i soggetti che la compongono si identificano e agiscono, né riguardo alle
finalità e alle richieste che essi esprimono. Parimenti, infine, sono necessariamente diverse le modalità con
cui quei soggetti possono entrare in relazione con il sistema politico. Dunque, la relazione con il sistema
politico è solo una delle caratteristiche – né necessariamente quella determinante – della «società civile».
Per tali ragioni, l'identificazione la «società civile» con «le alleanze, i movimenti, i gruppi e le
associazioni volontarie che, al di fuori dello Stato, dei partiti politici e della sfera economica, assumono un
ruolo crescente nella sfera pubblica»5 risulta problematica, per quanto in discreta misura condivisibile.
Condivisibile nella descrizione dei soggetti e degli spazi costitutivi della «società civile», che appare come
uno spazio sociale 'pubblico' delimitato da dinamiche e relazioni proprie. Ma problematica, perché comporta
una distinzione a priori tra gli interessi generali, che si vorrebbero rappresentati dalla «società civile», e gli
interessi particolari, che si ritengono ad essa estranei, come esplicitamente si afferma a proposito di quelli
economici. Invero, se è assai difficile tracciare il confine tra «società civile» e soggetti politici, ancor più lo è
separare gli interessi particolari da quelli generali, gli interessi 'economici' da quelli 'sociali'. A ben vedere,
anche questo passaggio costituisce un interrogativo storiografico tutt'altro che secondario.
Mit Press, 1992; cfr. infine la vasta guida bibliografica a cura di A. Maccarini, in P. Donati (a cura di), La società civile in Italia,
Milano, Mondadori, 1997.
3 E' questa, tra l'altro, l'impostazione di P. Farneti, Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica Torino,
Giappichelli, 1971, che resta ancora il più importante tentativo di sistemazione concettuale e applicazione della categoria di «società
civile» al caso italiano.
4
A. Panebianco, Società civile e sistema politico, in La società civile in Italia, cit.
5
R. Biorcio, La società civile e la politica: dagli anni del boom a fine millennio, in Storia d'Italia. Le Regioni dall'Unità a oggi. La
Lombardia, a cura di Marco Meriggi, Torino, Einaudi, 2001.
2
Esplicitata questa presa di distanza e assuntala come quesito, l'indagine storica indubbiamente può
trarre alimento dal considerare che «il nucleo della società civile è costituito da una rete associativa che
istituzionalizza – nel quadro di una "messa in scena" di sfere pubbliche – discorsi miranti a risolvere
questioni di interesse generale». Ne può trarre alimento, anzitutto perché lo storico è sollecitato ad
individuare i presupposti in base ai quali determinati soggetti ambiscono e talora riescono a 'rappresentarsi'
come generali e 'pubblici'. Tanto più che «sono queste associazioni a formare il sostrato organizzativo di un
universale "pubblico di cittadini" emergente per così dire dalla sfera privata. Questi cittadini cercano sia di
dare interpretazioni pubbliche ai loro interessi e alle loro esperienze sociali sia d'influenzare la formazione
istituzionalizzata dell'opinione e della volontà»6. Difatti, l'interesse dello storico si appunta sulla tensione tra
la originaria dimensione privata – intesa come particolare, anche in termini di interessi economici – con cui
si manifestano i diversi soggetti della «società civile» e la successiva formazione di quell'«universale di
cittadini», e, parallelamente, non può non trascurare la duplicità dei piani – da un lato l'esperienza sociale e,
dall'altro, la sua interpretazione discorsiva – su cui quella tensione si dispone nel mentre procede la
formazione di quell'universale.
Proprio per quanto sopra detto, dunque, è oltremodo opportuno problematizzare e storicizzare il
compito di intercettare e intensificare «la risonanza suscitata nelle sfere private di vita delle situazioni sociali
problematiche, per poi trasmettere questa risonanza – amplificata – alla sfera pubblica politica», attribuito
alla «società civile». Giacchè è presumibile che l'esercizio di quel ruolo da parte dei singoli soggetti e,
quindi, dalla «società civile» nel suo insieme dipenda fortemente dalle risorse materiali e comunicative
disponibili e dalla collocazione di ciascun soggetto in seno alla «società civile» e in rapporto al sistema
politico. Tanto meno appaiono acquisite, agli occhi dello storico, la capacità o la necessità del sistema
politico di recepire ed elaborare quella «risonanza». In sostanza, proprio il rapporto tra «società civile» e
sistema politico è una delle questioni storiche aperte. Ne è conferma, tra l'altro, il fatto i soggetti componenti
la «società civile» – proprio in quanto parte della 'sfera pubblica' – sovente stabiliscono modalità dirette di
relazione tra loro, tramite le quali esprimono e compongono contrasti di interesse o, altrimenti, alimentano
competizioni ed antagonismi, a prescidere dall'intervento del sistema politico ed istituzionale.
Da quanto finora detto, discende anche che soltanto l'indagine storica può verificare in quale contesto
e misura la «società civile» abbia incentivato i processi di democratizzazione o, comunque, abbia contribuito
a diffondere valori congrui con la civilizzazione. Assumere, invece, che la «società civile» in quanto tale
promuova la democratizzazione o la 'civilizzazione7 rischia di assolutizzare il ruolo svolto dalla «società
civile» in taluni contesti e di offuscare le differenti identità e finalità esistenti al suo interno e, di
conseguenza, i diversi rapporti intrattenuti con il sistema politico. Proprio perché le modalità di questi
rapporti possono grandemente variare – andando da varie modalità di integrazione sussidiaria o corporativa
nel sistema amministrativo, talora anche giuridicamente sanzionata, (come accade, ad esempio, per
l'Automobil o il Touring Club, gli ordini professionali e taluni organismi sindacali), passando per l'azione di
lobbyes e il collateralismo alle organizzazioni partitiche, fino alla dissociazione aperta o antagonismo –
occorre distinguere di volta in volta l'apporto dato ai processi di democratizzazione o, altrimenti, è
indispensabile adottare una definizione ristretta di «società civile», basata su criteri 'normativi' o
contenutistici. In conclusione, in una prospettiva storica la crescita della «società civile» non può, almeno in
prima istanza, essere ricondotta alla diffusione di taluni specifici valori oppure alle caratteristiche del sistema
politico. Spiegare quella crescita significa, piuttosto, tornare a guardare ai mutamenti strutturali e culturali,
alla distribuzione delle risorse materiali e immateriali, alle modalità di identificazione e integrazione, alle
forme di comunicazione e relazione, in conclusione alle dinamiche di sviluppo dei soggetti sociali.
La «società civile» negli anni Sessanta
La storia della «società civile» nell'Italia repubblica resta ancora in buona parte da scrivere, anche se molti
materiali e importanti profili sono già disponibili, soprattutto per chi sappia leggere in controluce – e ciò non
sorprende – la storia dei movimenti politici e delle organizzazioni di interesse e magari integrarla con quella
6
J. Habermas, Fatti e norme, Milano, Guerini e Associati, 1996, pp. 434 ss.
Cfr. ad esempio, rispettivamente per il primo termine J. Kocka, Zivilgesellschaft als historisches Problem und Versprechen, in
Europäische Zivilgesellschaft, cit., o P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato. 1980-1996, Torino,
Einaudi, 1998, pp. 180 ss., e, per il secondo termine, P. Donati, Alla ricerca di una società civile. Che cosa dobbiamo fare per
aumentare le capacità di civilizzazione del paese?, in La società civile in Italia, cit.
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3
di alcune significative esperienze culturali e, su un altro versante, con quella della 'amministrazione' pubblica
latamente intesa.
Quali che siano, questi e altri materiali sono da collocarsi e da intendersi nel crogiuolo che, in due
decenni cruciali, riplasmò la società italiana, allorchè esperienze soggettive inedite ed intense e
trasformazioni sociali radicali si cumularono in rapidissima successione: al crollo del fascismo e alla
Resistenza seguirono la ricostruzione postbellica e i 'dieci inverni' della «guerra fredda» e del centrismo,
quindi le migrazioni di massa, l'esodo dalle campagne e, infine, il «miracolo economico» e la «rivoluzione
dei consumi», sancirono il definitivo affermarsi della società urbana-industriale. Non sorprende che la
«società civile» – prima corporativizzata dal fascismo e, poi, ingabbiata dalle gerarchie socio-politiche
imposte dalle asprezze della «ricostruzione», dall'oltranzismo della «guerra fredda» e dal bigottismo centrista
– all'indomani della Grande Trasformazione, nei più ariosi anni Sessanta, abbia conosciuto una stagione di
crescita intensa e di dinamismo interno ed esterno.
Si logorò allora in maniera irreversibile quel ruolo di cerniera tra stato e società che i partiti politici
avevano assunto alla caduta del fascismo, proprio in conseguenza della distruzione della «società civile»
operata dal regime e dell'estraneità di larga parte della società nei confronti di uno stato che si era
pienamente identificato con l'assetto gerarchico-corporativo creato dalla dittatura. Dunque, nei primi anni
Sessanta la «società civile» rinacque non perché si liberò dal giogo dei partiti8, ma perché l'assetto sociopolitico sorto nell'immediato dopoguerra fu fatalmente incrinato dai nuovi soggetti sociali e dai processi di
laicizzazione, non solo religiosa, innescati dalla deruralizzazione e dallo sviluppo urbano-industriale9.
La crescita e il dinamismo della «società civile» riflettevano il frantumarsi degli schieramenti e dei
soggetti tradizionali, lo sfaldarsi delle modalità consolidate di aggregazione sociale e di identificazione
culturale. Il rapido mutare delle condizioni materiali e delle esperienze di vita indusse, anzitutto, una diffusa
mobilitazione dei gruppi di interesse – di cui quella espressa nelle organizzazioni sindacali fu solo la più
vistosa e massiccia – e, come per effetto di questa, lo svilupparsi di attriti e tensioni tra vecchi e nuovi
soggetti collettivi. Non meno significative, e feconde per la crescita e l'articolazione della «società civile»,
furono le tensioni che un medesimo soggetto, individuale o collettivo, sovente avvertì al proprio interno, tra
la cultura di formazione o di appartenenza e le nuove condizioni di vita: fu il caso, tra gli altri, dei contadini
inurbati o dei lavoratori emigranti, dei cattolici praticanti, delle casaligne e degli studenti, vale a dire dei
soggetti la cui identità fu più direttamente investita da esperienze di mobilità territoriale, sociale e culturale.
Né, su un altro piano, furono meno rilevanti le tensioni avvertite nei confronti del sistema politico-partitico,
al quale si rivolgevano richieste di tutela o, per lo meno, di rappresentanza, proprio mentre se ne
sperimentava la persistente chiusura e staticità.
Quelle tensioni minarono l'equilibrio sociale post-fascista e diedero nuovo impulso allo sviluppo
della «società civile», rinnovandone le modalità di espressione e organizzazione e i rapporti con i partiti e le
istituzioni. Ciò significa che l'insieme della «società civile», i diversi soggetti che la componevano,
condividevano alcuni tratti sociali e culturali: anzitutto, le esperienze e i valori della modernizzazione
urbano-industriale, quale andava compiendosi anche in Italia, e l'inadeguatezza delle modalità tradizionali di
aggregazione sociale e rappresentanza politica. Tuttavia, quella «società civile» era anche notevolmente
differenziata al proprio interno, tra l'altro, per la collocazione che le sue componenti assumevano nei processi
in corso, le diverse posizioni di relativo vantaggio che ciascuna di loro era in grado di assumere, le risorse
materiali e culturali possedute e la capacità di influenzare l'apparato amministrativo e il sistema politico. In
sostanza, si manifestarono modalità diverse di essere «società civile», perché – accanto alla dialettica, o al
cleavage, tra 'civile' e 'politico' – esisteva anche una dialettica in seno alla stessa «società civile». Era la
dialettica determinata dalla variabile 'sviluppo', che si dimostrò una discriminante decisiva per orientare
l'aggregazione degli interessi – basti pensare agli imprenditori e lavoratori dell'industria o, altrimenti, ai ceti
medi, 'vecchi e nuovi', autonomi e dipendenti –, perché rispecchiava le diverse possibilità di accedere alle
risorse distribuite dal mercato, per un verso, e alle risorse distribuite dalle istituzioni, per l'altro.
Occorre, dunque, interrogarsi sulle caratteristiche nuove che la «società civile» assunse negli anni
Sessanta. Quali fattori indussero la crescita e lo sviluppo della «società civile»? Quali tratti di novità la
distinsero? Una prima risposta certamente deve accogliere gli inviti, da tempo formulati, a considerare i nessi
tra modernizzazione e mobilitazione sociale: senza dubbio parte rilevante dei bisogni e delle culture che della
prima furono il portato alimentarono la seconda e – fino all'onda culminante, il 1968 – pure ne sostennero la
8
Cfr. P. Farneti, Introduzione a Id. (a cura di), Il sistema politico italiano, Il Mulino, 1973, e, con maggiore schematismo, A.
Panebianco, Società civile e sistema politico, cit.
9
Cfr. F. De Felice, Nazione e sviluppo: un nodo non sciolto, in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia repubblicana. 2. La
trasformazione dell'Italia: sviluppo e squilibri. I. Politica, economia, società, Torino, Einaudi, 1995.
4
valenza critica10. Ma la modernizzazione, va ricordato, non investì soltanto le forme e i ruoli familiari, i
rapporti generazionali, i consumi e gli stili di vita, in sostanza la sfera del privato. Indusse anche nuove
stratificazioni ed aggregazioni sociali e nuove modalità di organizzazione e mobilitazione degli interessi,
basate – come sovente accade nella «società di massa» – nella rapida trasmutazione delle identità
comunitarie tradizionali in identità collettive inedite, per effetto di nuovi strumenti di socializzazione, azione
e comunicazione. Non fu soltanto il passaggio dal mondo rurale a quello urbano11, ma – molto più
radicalmente – l'affermarsi di un «modello acquisitivo» di nazionalizzazione12, nel quale la costruzione della
propria soggettività era affidata, in misura assai più rilevante che in precedenza, alle capacità di relazionarsi
individualmente con gli altri soggetti partecipando alla circolazione e alla fruizione dei beni materiali e
immateriali. Proprio l'affermarsi di questo modello favorì la costruzione di inediti circuiti identitari e
associativi, imperniati su percorsi finallora secondari, quali quelli che passavano per le relazioni e le affinità
individuali e amicali, generazionali, culturali, consumistiche e ricreative, ecc.
Analogamente, il nesso tra modernizzazione e mobilitazione merita d iessere richiamato – forse più
che per evocare evoluzioni simmetriche tra sviluppo economico, sviluppo sociale e sviluppo politico o
parallelismi tra la maturità della «società civile» e la modernità del sistema politico – per ricordare il fatto
che nei periodi di espansione e di transizione economica la disponibilità di maggiori risorse e l'intensità dei
mutamenti in atto accrescono le possibilità di acquisire conoscenze e informazioni e, su queste basi, di
stabilire nuove reti sociali di iniziativa e di solidarietà, alternative a quelle esistenti. In questi spazi nuovi, la
«società civile» torna a crescere. Inoltre, in fasi di quel genere – e gli anni Sessanta indubbiamente furono
una di quelle – si ridefiniscono le opportunità politiche, via via che i gruppi finallora più tutelati avvertono
minacciate le proprie posizioni e si rivolgono allo stato o al sistema politico per chiedere ulteriori tutele,
proprio come fanno, dal canto loro, i gruppi emergenti che, consapevoli del ruolo e delle risorse acquisite,
chiedono di essere riconosciuti e di accedere al potere da cui si sentono esclusi13.
Gli interrogativi si accumulano: quali erano i soggetti collettivi nuovi o in formazione? Come
operavano? Quali relazioni intessevano tra loro e con il resto della società? Nè è meno rilevante chiedersi
come si muovessero i soggetti e i gruppi già consolidati e meglio collocati? Domande destinate a restare
ancora in larga misura senza risposte, anche se non mancherebbero i materiali per approntarle, a partire da
quelli rintracciabili nei coevi studi sociologici. Nel suo piccolo, anche questo panel intende contribuire – se
non a rispondere – a formulare quegli interrogativi, ordinare le conoscenze e delineare, come si suol dire,
delle piste di ricerca. A tale scopo, abbiamo concentrato l'attenzione su alcuni protagonisti maggiori, su
alcuni attori meglio organizzati e più visibili – il sindacato, gli imprenditori –, e su alcune realtà più fluide,
più assimilabili ai movimenti collettivi, come l'universo giovanile o già inserite in reti associative – i gruppi
religiosi, le associazioni di volontariato. Ben consapevoli che diversi altri sarebbero stati di non minore
interesse, riteniamo che questi soggetti consentano di tracciare un primo quadro d'insieme. Li abbiamo scelti
perché certamente rilevanti, forse addirittura centrali, nella «società civile» italiana negli anni Sessanta,
oltrechè perché meglio conoscibili allo stato degli studi. Ma li abbiamo scelti, anche, perché rappresentano
interessi sociali diversi e tra loro distanti, talora, anzi, contrapposti. E' nostro intento, infatti, analizzare la
«società civile», non solo i «movimenti», che, pure, per molti aspetti ne sono parte essenziale. Così, alcuni
dei soggetti prescelti si collocavano in posizione critica o antagonistica e altri, invece, con disposizione
favorevole o conservatrice rispetto agli equilibri socio-politici esistenti. D'altronde, riteniamo che la
radicalizzazione eventuale di alcuni soggetti della «società civile» non possa spiegarsi assumendo
l'antagonismo al sistema politico come variabile di partenza, ma debba essere ricondotta alle dinamiche e alle
opzioni interne alla «società civile».
Contesti, soggetti e culture
Quali erano quei soggetti, come si formarono, come si aggregarono? Non desidero, né sono in grado di
anticipare i relatori. Vorrei solo proporre alcuni riferimenti e indicare qualche passaggio. Sullo sfondo, come
è a tutti noto, stavano le differenziazioni sociali che, nel defintivo affermarsi dell'Italia urbana e industriale,
seguirono alla marcata riduzione della popolazione agricola, alla consistente crescita degli addetti
10
P. Ginsborg, L'Italia del tempo presente, cit.
Gaetano Forni, Una analisi antropologico-culturale del '68, in Il Sessantotto. l'evento e la storia, Annali della Fondazione Luigi
Micheletti, 4, 1988-89.
12
F. De Felice, Nazione e sviluppo, cit., pp. 837 ss.
13
S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e politica in Italia. 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990, pp. 31 ss.
11
5
all'industria, operai e impiegati, e ai rimescolamenti in seno al complesso dei ceti medi, non meno che alle
migrazioni di breve e di lunga distanza. Nello stesso breve torno di tempo, nuovi assetti demografici,
innalzamento della scolarizzazione e della protezione sociale e mutamenti di costume, indussero inedite
segmentazioni sociali, tra uomini e donne, tra genitori e figli, tra giovani, adulti e anziani. Se già allora fu
rimarcato come quelle trasformazioni investissero – frantumandola – la tradizionale base di consenso della
maggioranza di governo, va adesso aggiunto che pure quella dell'opposizione ne fu ridisegnata in misura
oltremodo rilevante.
Erano figure sociali nuove che agivano in contesti nuovi. Anzitutto, in quello urbano, che in quegli
anni crebbe enormemente e fu profondamente trasformato. In quel contesto, si strutturarono nuovi spazi di
aggregazione collettiva: il quartiere ove si viveva, la fabbrica ove si lavorava, la scuola, ma anche l'oratorio,
il campetto di calcio, la strada di periferia. E, per i ceti più benestanti, i salotti, i circoli sportivi, i locali di
intrattenimento e di svago. In questi spazi, si producevano e si acquisivano nuove risorse culturali e
comunicative, dal cinema alla musica, dalle feste tra amici all'abbigliamento, le motociclette e le automobili.
In quel nuovo contesto socio-culturale, anche i ceti medi più 'tradizionali' divennero partecipi di una cultura
dell'ostentazione che, riecheggiando i miti americani, coniugava consumi e modernità, mondanità e socialità,
e che sanciva il riconoscimento pubblico della propria affermazione sociale, adesso esplicitamente
legittimata dal 'successo' individuale, sostituendo alla deferenza delle gerarchie paternalistico-conservatrici
l'affiliazione ai circoli della socialità laica, imprenditrice e 'progressista', primi tra i quali erano il Lions o il
Rotary Club. A ben vedere, anche i ceti medio-borghesi ambivano a generare una 'società nuova', ove
ciascuno – imprenditore, funzionario o 'intellettuale' – potesse al meglio valorizzare le risorse individuali,
materiali e immateriali, che possedeva o riteneva di poter acquisire.
In altri termini, le trasformazioni strutturali e culturali che investirono il paese chiamarono tutti i ceti
sociali a confrontarsi con quel «modello acquisitivo» di socializzazione prima menzionato. Per quanto
diverse fossero le reazioni individuali e collettive, analoghi furono i fermenti che ne scaturirono e
assimilabili le spinte alla mobilitazione individuale e collettiva, peraltro già allora colte con efficacia dalla
narrativa coeva e dal giornalismo d'inchiesta. Quei fermenti si tradussero in un distacco almeno relativo dalle
consuete forme di partecipazione e rappresentanza politica, da molti rilevato14, e soprattutto – per quel che
qui interessa – nel fiorire di una varietà di forme associative e iniziative di mobilitazione. Basta ricordare, in
proposito, quanto emergeva da una indagine sociologica sui «gruppi spontanei di base» presenti in Italia alla
fine del decennio15: accantonati quelli in qualche modo riconducibili ad organizzazioni nazionali e partitiche
(parlamentari e non), l'inchiesta censì 312 gruppi «politici» di base: un campione assolutamente parziale
rispetto alle nostre definizioni di «società civile», ma pertinente perché la definizione di «gruppi politici»
rinviava in realtà ad socio-politici, civili e religiosi. Tra i due molti dati scatuiriti dalle ricerca, due almeno
vanno qui richiamati e riguardano anzitutto il fatto che quei gruppi risultavano omogeneamente diffusi nelle
grandi come nelle piccole città ed erano comunque presenti su tutto il territorio nazionale, anche se in
prevalenza nelle regioni settentrionali. In secondo luogo, il fatto che oltre la metà dei gruppi erano sorti nel
1967-68, ma 9 risalivano a prima del 1955, 55 erano stati fondati nel periodo fino al 1963 e altri 84 nei tre
anni successivi. A conferma di come la spinta associativa fosse radicata nel tempo e, però, avesse conosciuto
un recente intenso incremento.
Se poi, ancora utilizzando quell'inchiesta, guardassimo alla collocazione sociale dei promotori e
degli affiliati, alla condizione professionale o all'identificazione ideologica, facilmente noteremmo
rappresentate le figure sociali protagoniste di quei fermenti. Ne uscirebbe, anzichè un «autoritratto di
gruppo», un affresco a tutta parete, certo assai composito, ma sostanzialmente coerente. Difatti, vi si
distinguerebbero figure e percorsi individuali e collettivi diversi tra loro, ma collocati entro orizzonti
intersecati e in discreta misura sovrapponibili. Probabilmente, il più vasto orizzonte comune fu una matrice
cattolica diffusa, un patrimonio concettuale e valoriale che rapidamente travalicò i recinti delle associazioni
ecclesiali e che – coniugando francescanesimo e solidarismo della tradizione, riferimenti al personalismo
mouneriano, aperture conciliari ed echi delle encicliche legittimanti l'impegno sociale e terzomondista –
divenne una koinè in grado di sostenere la radicalizzazione sollecitata dalle emergenti identità classiste e/o
generazionali scaturite dalla vita di fabbrica e di quartiere, almeno sin quando queste non trovarono
linguaggi più coerentemente 'sovversivi' nelle ideologie più critiche della modernizzazione, neomarxiste o
francofortesi, o anche solo esistenzialiste. Con ciò, non si intende tracciare frettolose e approssimative
14
Cfr. infine P. Ignazi, I partiti politici e la politica dal 1963 al 1992, in G. Sabbatucci, V. Vidotto, Storia d'Italia. 6. L'Italia
contemporanea dal 1963 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 101-144.
15
F. Ferraresi et al., La politica dei gruppi. Aspetti dell'associazionismo politico di base in Italia dal 1976 al 1969, Edizioni di
Comunità, Milano, 1970.
6
genealogie culturali, quanto rimarcare come l'universo associativo cattolico o, sempre più, ex- o postcattolico, costituì una porzione decisiva di quella parte della «società civile» che rifletteva le aggregazioni a
base territoriale, culturale, solidaristica e giovanile.
Altro protagonista di primo piano di quella rinascente «società civile» furono i sindacati dei
lavoratori. Per vari fattori interni ed esterni, all'inizio del decennio, il baricentro dell'azione sindacale si
spostò sensibilmente verso la periferia, verso le strutture decentrate, territoriali e di categoria. La ripresa
economica, l'espansione quantitativa e geografica del sistema industriale, il diffondersi della contrattazione
decentrata, sospinsero il sindacato ad agire localmente, a tornare nelle fabbriche e, soprattutto, a uscire dalle
fabbriche, a farsi – con modalità ed intensità inedite – soggetto sociale organizzato, tutore degli interessi
economici, ma anche della presenza civile e politica dei lavoratori dipendenti. Questo processo, con alti e
bassi, giunse a maturità alla fine del decennio e fu sospinto da un intenso confronto tra le organizzazioni
sindacali e, ancora, tra queste e i partiti politici di riferimento, ma, soprattutto, fu sospinto dalla crescente
mobilitazione di base. Ne scaturì – ed è quello che qui ci interessa – la legittimazione del sindacato come
attore autonomo e, quindi, come protagonista non secondario della «società civile». Quella legittimazione
rifletteva la rappresentatività del mondo del lavoro che il sindacato era ora in grado di esprimere, ma
certamente rifletteva pure le trasformazioni che andavano facendo dei lavoratori dell'industria un soggetto
sociale in crescita, più omogeneo al proprio interno e, al tempo stesso, per condizioni strutturali e culturali,
più forte per numero e capacità di iniziativa, in una società ove le gerarchie materiali e ideali tradizionali
andavano rapidamente sfaldandosi.
Non sorprende, perciò, che, dal canto loro, anche gli imprenditori avvertissero l'urgenza di ridefinire
le proprie modalità di presenza e di iniziativa nella società e nei confronti del sistema politico, a fronte delle
trasformazioni socio-economiche in atto e delle incerte prospettive che parevano attenderli, tra l'indebolirsi
della Democrazia cristiana, la ristrettezza del mercato interno, i rischi di quello europeo e un
rivendicazionismo salariale apparentemente incontenibile16.
Non furono soltanto i lavoratori immigrati dalle campagne, meridionali e non, a lasciarsi dietro le
spalle gerarchie e deferenze sociali, a rovesciare di segno una morale comunitaria che cattolicesimo e
fatalismo avevano finallora orientato alla passività e alla subordinazione. Non fu solo l'incrinarsi del
«modello militarizzato» di nazionalizzazione17 ad allentare la coesione che aveva assicurato il primato
dell'opinione e degli interessi moderati. Fu, più ampiamente, la dinamica sociale centrifuga innescata dalle
Grande Trasformazione ad indurre una redislocazione e riaggregazione dei diversi gruppi sociali e a far
maturare, accanto a quello classista, pur sempre prevalente, nuove forme di conflitto, scaturite dalle tensioni
proprie della realtà urbana o dall'approfondirsi dei divari generazionali. Fu in quella dinamica centrifuga che
anche i ceti medi, il saldo ancoraggio dell'Italia postfascista e postbellica, tornarono a segmentarsi,
implicitamente riacquistando una qualche autonomia sociale. Tanto più si fece significativa, quella
autonomia, quanto più nella crisi dell'ideologia del cattolicesimo moderato e nazionale fiorì la rapida
laicizzazione dei primi ceti medi 'colti' e a dimensione di massa, che, anzitutto tra i tecnici della scuola, della
sanità, della comunicazione e di qualche altro 'pubblico sapere', presero ad interrogarsi sulla propria
collocazione nella nuova 'moderna' Italia. Furono quelle domande, ancor prima delle pur apprezzabili
risposte radicali formulate da una piccola minoranza, a mostrare il rifiorire della «società civile»
nell'allentarsi delle tradizionali egemonie politico-sociali e culturali.
Chi, infine, da quella dinamica centrifuga emerse come soggetto sostanzialmente nuovo, perché
figlio primogenito della modernità strutturale e culturale furono i giovani. Accomunati da un fattore
generazionale divenuto specificazione sociale, forgiati dall'istruzione di massa e da stili di vita e consumi
peculiari, i giovani portarono lo sguardo assieme più interno e più originale sulla modernità avanzante. Uno
sguardo, per questo, capace di cogliere facilmente l'obsolescenza delle strutture relazionali, comunicative e
aggregative più tradizionali e di immaginarne di più coerenti con le dinamiche e le tensioni del presente. I
giovani e, tra loro, ancor più gli studenti, erano – è stato acutamente notato18 – «intellettuali in formazione»,
vale a dire un soggetto incline a concepirsi come esterno ed estraneo agli interessi consolidati e da quella
posizione chiamato, proprio perché 'in formazione', ad elaborare una visione originale, generale e coerente,
16
Cfr. P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, pp. 223 ss. 580 ss.; G. Berta, Imprese e sindacati nella
contrattazione collettiva, in F. Amatori, D. Bigazzi, R. Giannetti, L. Segreto (a cura di), Storia d'Italia. Annali 23. L'industria,
Torino, Einaudi, 1999, pp. 1023 ss., e Id., L'Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell'industrialismo nel Novecento,
Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 186 ss.
17
F. De Felice, Nazione e sviluppo, cit., pp. 825 ss.
18
N. Gallerano, La stagione dei movimenti e le sue periodizzazioni, in P. Ghione, M. Grispigni (a cura di), Giovani prima della
rivolta, Roma, Manifestolibri, 1998.
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dell'universo sociale. Quella collocazione, intrinsecamente critica verso gli assetti esistenti, rifletteva la
distanza della condizione giovanile e studentesca dai cleavages socio-culturali tradizionali e dalle pratiche
della rappresentanza e mediazione politica come della negoziazione sociale. Da qui derivava la particolare
dinamicità della loro presenza nella «società civile», nonché la prevalente tendenza alla radicalizzazione.
In conclusione, la «società civile» nell'Italia degli anni Sessanta pare aver posseduto lineamenti
oltremodo variegati, dei quali qui si sono potuti richiamare solo i più evidenti ed interessanti. Essa scaturì
dalle trasformazioni schematicamente riconducibili al «miracolo economico», ma si espanse – e non poteva
essere altrimenti – in direzioni diverse e divergenti, quando non apertamente contrastanti e incompatibili.
Anche per questo, le sue componenti intrattennero rapporti diversi con la 'sfera pubblica', alla quale ebbero
possibilità di accesso assai diseguali, e con il sistema politico, che, dal canto suo, si mostrò assai poco
recettivo e reattivo alle trasformazioni in corso.
Così, in seno alla «società civile» da un lato permanevano differenze riconducibili alle ambigua
valenze pubblicistiche di molte e diverse forme associative (dagli ordini professionali alle camere di
commercio, dagli enti solidaristici ed assistenziali, dalle associazioni di utenti agli organismi consortili, ecc.),
dall'altro si manifestavano gli effetti della crisi delle modalità tradizionali di partecipazione politica. In realtà,
dietro al paventato 'distacco dalla politica' e alla cosiddetta deideologizzazione, stava l'avanzare di relazioni
inedite tra «società civile» e società politica: ad uno sguardo più ampio, ciò che risalta non è tanto uno iato
crescente tra società e sistema politico o una radicalizzazione sociale diffusa, quanto il fatto che il rapido
mutare ed il moltiplicarsi delle identità sociali – nonché, sovente il cumularsi di diverse di esse nello stesso
soggetto – alimentavano forme di partecipazione basate su single-issues, piuttosto che una appartenenza
sostenuta dalla capacità di questo o quel partito di ricondurre a sintesi compiuta quelle molteplici identità.
Cosicchè le nuove forme di relazione tra «società civile» e sistema politico– come tra l'altro testimoniano il
fenomeno della «maggioranza silenziosa» nei primi anni Settanta e altri analoghi casi di mobilitazione
moderata o conservatrice – potevano essere connotate assai diversamente per contenuti contenuti ideologici o
richieste di merito.
In questa prospettiva, è possibile e opportuno chiedersi quanto e in che modo le caratteristiche del '68
italiano risentirono dell'intensità e della rapidità della crescita della «società civile» e, al tempo stesso, delle
asimmetrie, le tensioni e i conflitti maturate al suo interno. Forse, nell'attribuire al 1968 la paternità di una
stagione di 'autogoverno selvaggio' Silvio Lanaro ha ancora una volta coniato una definizione caustica, ma
efficace19: difatti, essa contiene un'indubbio un nucleo di verità quando evoca un 'autogoverno', che va inteso,
però, come autogoverno della «società civile», anziché delle 'corporazioni', come invece egli intende. Così
pure, un nucleo di verità sta nel definirlo 'selvaggio', giacchè la «società civile» fu forse più selvaggia che
effettivamente civile, ovvero improntata dai principi della 'cittadinanza' o, in altri termini, dalla condivisione
di regole e pratiche della rappresentanza, del conflitto e della mediazione. Concludendo, appare perciò in
buona misura da accogliere e da approfondire il giudizio che riconduce i movimenti collettivi di protesta alle
irrisolte tensioni presenti nella «società civile»20, perché, senza voler affatto sminuire la irriducibile
particolarità del '6821, non sembra espressione di vieto storicismo ritenere che il '68 italiano non sia
comprensibile quando lo si disgiunga o lo si contapponga ai soggetti e alle domande cresciuti nel decennio
precedente.22
19
S. Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana, Padova, Marsilio, 1992, p. 342
S. Tarrow, Democrazia e disordine, cit., pp. 5-6, 16.
21
Sulla quale insistono, tra gli altri, N. Gallerano, La stagione dei movimenti, cit., e M. Revelli, Movimenti sociali e spazio politico,
in F. Barbagallo (a cura di), Storia dell'Italia repubblicana. 2. La trasformazione dell'Italia: sviluppo e squilibri. II. Istituzioni,
movimenti, culture, Torino, Einaudi, 1995, pp. 399 ss.
22
Il nesso positivo tra le mobilitazioni degli anni Sessanta e il movimento del '68 è rimarcato anche da S. Tarrow, Democrazia e
disordine, cit., nonché, pur con evidenti forzature, da alcuni studi recenti, tra i quali si veda almeno il pur ricco volume C. Adagio, R.
Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio. L'Italia prima del '68, Verona, Cierre, 1999, e ivi, il saggio di S. Urso, Il lungo
decennio nel lungo dopoguerra.
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