Se mille anni vi sembran pochi… Tentativo di sintesi di filosofia medievale 1. Il periodo Il termine “Medioevo” significa età di mezzo: fu creato dagli umanisti del XIV secolo, tra cui Petrarca, che interpretarono il periodo compreso tra il V e il XV sec. d.C. come un’età di ripiegamento e decadenza, un periodo buio collocato tra due epoche luminose, l’antichità greco-romana e il rinascimento europeo, caratterizzato dal ritorno dei classici. La storiografia attuale rifiuta questa interpretazione, perché ritiene assurdo pensare che un periodo così lungo (un millennio) possa essere letto unicamente come declino e regresso. Anche dal punto di vista filosofico, come vedremo, il Medioevo fu creativo e innovativo. Chi sottovaluta il pensiero medievale di solito ne sottolinea la scarsa originalità e l’assenza di una riflessione razionale indipendente dalla fede cristiana. In realtà, come osservò uno dei più grandi storici della filosofia medievale, il francese Etienne Gilson (1884-1978), i pensatori medievali furono grandi proprio perché, nonostante l’esiguità delle fonti classiche di cui disponevano (fino al sec. XIII, poco Platone e pochissimo Aristotele), dimostrarono una capacità di scavo e di sottile analisi che ci stupisce ancor oggi. Per quanto riguarda il rapporto con la fede cristiana, la lettura diretta dei testi smentisce la convinzione che non si possa filosofare all’interno di un orizzonte religioso, perché la Verità (cioè Dio) sarebbe già data, e non da cercare. Nella cornice delineata dalla fede cristiana trovano posto analisi e discussioni genuinamente filosofiche di logica, teoria della conoscenza, metafisica, etica e politica. Di questo aspetto, comunque, tratteremo più diffusamente in seguito. 2. La periodizzazione Secondo la periodizzazione tradizionale, il Medioevo inizia nel V secolo d.C., più precisamente nel 476, per concludersi nel 1492 (anno della “scoperta” o “conquista” dell’America, dell’espulsione di ebrei e musulmani dalla Spagna, della morte di Lorenzo il Magnifico). Anche se la data finale appare più plausibile, entrambe possono essere messe in discussione. Che cosa accadde nel 476? un fatto che nella percezione dei contemporanei non sembrò così “epocale”: da tempo l’Europa occidentale era teatro di scorrerie di popoli germanici, e in quell’anno il capo barbaro di turno, lo sciro Odoacre, depose l’ultimo imperatore d’Occidente, il ragazzo Romolo, detto “Augustolo”, cioè piccolo imperatore, senza però sostituirsi a lui. Odoacre chiese soltanto terre e qualche privilegio fiscale per i suoi, e restituì all’imperatore d’Oriente (ricordiamo che dal 395 c’erano due Cesari, uno nella capitale occidentale, Roma, poi Milano e Ravenna, e un altro a Costantinopoli, la città imperiale fondata nel 323 da Costantino) le insegne imperiali. Da quel momento, quindi, l’unico imperatore romano fu quello d’Oriente. Questo evento politico tuttavia non decretò la fine della civiltà romana: l’Urbe continuò ad essere una città “capitale”, per il suo passato glorioso e il suo presente di sede del vescovo di Roma, il latino era la lingua parlata da tutti, il cristianesimo la religione ufficiale, le istituzioni politiche e giuridiche romane mantennero ancora a lungo la loro importanza, le città erano ancora popolate. Il declino però era iniziato sul piano economico, della produzione, della circolazione monetaria aurea, dei commerci, dei trasporti. Un primo attacco alla periodizzazione tradizionale fu sferrato nel 1937 dallo storico belga Henri Pirenne (1862-1935) nell’opera – pubblicata postuma – Maometto e Carlomagno, in cui Pirenne sostiene che l’evento che diede inizio al Medioevo non fu la presunta “caduta” dell’impero d’Occidente nel 476, ma fu la rottura dell’unità religiosa e culturale del Mediterraneo, determinata dall’espansione islamica nel VII secolo d.C. Più recentemente, Jacques le Goff (1924-2014), ha proposto la sua affascinante e discussa teoria del “lungo Medioevo”: se si esce dalla storia intesa come sequenza di re, papi e imperatori, o come succedersi di guerre, conquiste e trattati di pace, ma si bada alla storia quasi immobile delle strutture economiche e sociali, e alla vita quotidiana delle persone, si deve ammettere che il Medioevo non è affatto finito nel 1492, ma è durato fino alla Rivoluzione industriale, come spiega Le Goff nel brano seguente, tratto da un’intervista: “Il concetto di Medioevo è nato nel Trecento dal distacco degli Umanisti dall'arte del loro tempo, non a caso qualificata come "gotica", cioè barbarica. Petrarca parla addirittura di "tenebre", dalle quali si poteva uscire solo tornando ai canoni dell'arte e del latino della classicità. Per noi oggi il medioevo non è né può essere un'unica epoca storica, delimitata da date precise: innanzitutto perché la storia degli uomini non è più solo vista come sequenza di re, papi, imperatori, guerre. Oggi ci interessano certo i grandi protagonisti - tanto che ha ripreso importanza il genere delle biografie - ma anche e forse più ci interessano gli uomini e le donne di tutti i giorni, come vivevano, cosa pensavano, quali eredità ci hanno lasciato: tutti aspetti che hanno una storia scandita però in grandi periodi, non certo in giorno, mese e anno preciso, come si può fare per una battaglia o un trattato di pace. I secoli passati, dalla crisi e fine dell'Impero romano in Occidente (IV-V secolo), alla Rivoluzione industriale (XVIII-XIX secolo) sono attraversati da alcuni aspetti di lunghissima durata, come la presenza determinante del cristianesimo, la continuità del latino come lingua dei dotti, l'importanza centrale dell'agricoltura per le strutture economiche, sicché si potrebbe parlare di un "lungo Medioevo", definitivamente superato solo dai rivolgimenti che hanno dato origine alle società del nostro tempo, cosiddette sviluppate” 3. L’ultimo canto dell’antichità classica: Plotino Plotino è sicuramente l’ultimo grande filosofo pagano, nella cui figura troviamo quelle caratteristiche che secondo il grande storico della filosofia antica Pierre Hadot (1922-2010) contraddistinguono i pensatori dell’antichità: non solo scrittori di opere teoretiche e professori di una materia, la filosofia appunto, ma autentici maestri di vita, saggi a cui ci si rivolgeva non solo per apprendere una disciplina ma per imparare a vivere bene. Come vedremo in seguito, i filosofi cristiani furono figure di tipo diverso: apologeti (cioè difensori della loro fede), chierici (consacrati), professori universitari, in ogni caso dediti più all’impegno intellettuale e all’insegnamento che alle applicazioni pratiche della loro ricerca. Notizie biografiche: Plotino nacque in Egitto intorno al 205 d.C.; studiò ad Alessandria d’Egitto avendo come maestro l’iniziatore del cosiddetto “neoplatonismo” Ammonio Sacca, un filosofo che non lasciò nulla di scritto, in obbedienza a una tradizione dei pitagorici. Dopo avere partecipato nel 242 a una spedizione in Persia al seguito dell’imperatore Gordiano, approdò a Roma all’età di 40 anni. Nell’Urbe divenne famoso come filosofo, educatore e maestro di vita, e godette della protezione dell’imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina. Morì nel 270. Scrisse 54 trattati filosofici, che furono raccolti e ordinati dal suo discepolo Porfirio in 6 volumi di 9 trattati ciascuno, da cui il titolo complessivo Enneadi. Porfirio fu anche il biografo del suo maestro: a lui dobbiamo tutte le notizie sulla vita di Plotino che sono in nostro possesso. Il pensiero di Plotino: la filosofia di Plotino è comunemente definita “neoplatonismo”, ovvero platonismo nuovo, platonismo rivisitato. In realtà Plotino si considerava un platonico autentico, fedele, se non alla lettera, al significato più profondo del pensiero di Platone. Il suo platonismo giunse al punto di che egli si fece promotore di un progetto politico/filosofico in Campania, consistente nella fondazione di Platonopoli, la città dei filosofi seguaci di Platone. Purtroppo il progetto, appoggiato dall’imperatore Gallieno e da Salonina, non si realizzò. Plotino è un filosofo della totalità. Egli cerca di definire il principio supremo della realtà, ciò da cui tutto ha origine, la sostanza prima, e lo trova nell’Uno. Questa convinzione si spiega con il fatto che l’essere di ogni cosa del mondo ha a che fare con l’unità; nel mondo non esistono realtà semplici, tutto è composto di vari elementi (una casa, un albero, il corpo umano, un animale ecc.), però nel momento in cui definiamo una cosa, le diamo un nome, è perché l’abbiamo colta, percepita, pensata come “una” cosa. Nel gran mare della molteplicità in cui siamo immersi l’unità è pertanto il principio che ci guida, che ci orienta. Ciò significa che all’origine di tutto vi è l’Uno con la U maiuscola, ovvero il principio supremo. L’Uno di Plotino è Bene, è Divino (non Dio creatore e signore però, concetto estraneo alla cultura ellenica!), è energia traboccante, è Tutto, ma è talmente al di sopra del nostro livello di realtà che è “ineffabile”, ossia può essere definito solo per via negativa, dicendo che cosa non è, oppure per via analogica, dicendo a cosa somiglia, o per via iperbolica, dicendo che è al di sopra di qualunque realtà: “super-pensiero”, “super-essere”, “super-bene” e così via. L’Uno è la prima “ipostasi” ovvero sostanza. L’Uno non è staticamente appagato di se stesso, perché è una totalità dinamica. Ha una duplice attività: attività di (che lo fa essere e rimanere Uno) e attività da (che è la processione dall’Uno, la derivazione di altre entità dall’uno stesso). La sua infinita energia trabocca, e dall’uno “procedono” (attenzione a questo termine, che fu poi integrato nella teologia cristiana per spiegare la derivazione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio “che procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”, come recita il Credo niceno) la seconda e la terza ipostasi, Nous e Anima. Il Nous (intelletto o, come preferisce Giovanni Reale, Spirito, ossia attività) è pensiero che pensa e che è pensato (sdoppiamento, inizio della molteplicità), matrice delle Idee platoniche, o Forme. L’anima è (come in Aristotele) principio di movimento, ciò che dà vita ed energia ai corpi. Nel punto più lontano dall’Uno, che è Luce, vi è la materia, che è privazione di essere, tenebre, indistinzione. Il principio spirituale che è in noi, l’Anima, avverte il bisogno di ritornare all’Uno che è la sua casa, la fonte del suo essere; questo desiderio dell’anima, che dà inizio all’ascesa, percorso a ritroso verso l’Uno, può essere descritto come una forma di nostalgia (dal greco nostos: ritorno, e alghia: dolore; la nostalgia è il dolore del ritorno, l’aspirazione a sentirsi ovunque come a casa propria). L’Anima pertanto inizia un percorso in direzione contraria a quella della processione dall’Uno ai molti: l’Anima è nella molteplicità e vuole andare verso l’Unità. Le tappe di questo cammino, di questa ascesa sono 3: la prima consiste nella pratica della virtù (morale); la seconda è la contemplazione del bello (arte); la terza è la conoscenza teoretica (filosofia). Al culmine di questo processo ascendente non c’è però un’esperienza conoscitiva, ma di tipo mistico: l’estasi (ek-stasis, uscire fuori di sé), in cui l’anima, ormai staccata dalla corporeità, avverte il contatto con il divino, si congiunge con il divino. Fortuna di Plotino: La fortuna del neoplatonismo nei secoli successivi fu immensa, paragonabile a quella di Platone; rispetto al pensiero platonico, la filosofia di Plotino intercettò bisogni spirituali, di salvezza individuale e di contatto con la divinità, che nel platonismo originario non erano presenti. Sparisce completamente la riflessione politica e si accentua il tema dell’Uno, che fonde elementi platonici e pitagorici. La filosofia di Plotino presentava temi (la trascendenza dell’Uno, la sua divinità, l’ascesi, l’immortalità e immaterialità dell’anima) che poterono essere integrati nel cristianesimo, e che fecero del platonismo (in gran parte conosciuto attraverso Plotino) il riferimento filosofico privilegiato dei pensatori cristiani. 4. L’incontro tra la religione cristiana e la filosofia greca L’evento che caratterizza tutta la storia della filosofia medievale è l’incontro tra la religione cristiana e la filosofia greca del V e IV secolo (Platone, Aristotele, stoicismo). La filosofia medievale è una filosofia cristiana: i pensatori medievali sono credenti e assumono come punto di partenza non la ragione ma la rivelazione: essi non dubitano dell’esistenza di Dio perché Egli stesso si è rivelato attraverso i Profeti (soprattutto Mosè, a cui Dio ha comunicato direttamente la sua esistenza con l’espressione “Ego sum qui sum”) e attraverso l’incarnazione in Cristo. Nonostante queste premesse, a partire dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo si è progressivamente “ellenizzato”, adottando lessico, tecniche argomentative e stili di pensiero della filosofia greca. La storia dell’incontro tra il cristianesimo e il pensiero greco è una vicenda lunga, complessa e niente affatto lineare, nella quale si possono individuare alcuni momenti significativi: L’opposizione tra filosofia e cristianesimo: Paolo e Tertulliano Nelle lettere di san Paolo è spesso presente il tema dell’inutilità della sapienza ai fini della salvezza. Nella prima lettera ai Corinti (1, 22-23) leggiamo queste parole: “mentre i Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”: non è dunque la sapienza che salva, ma la fede; lo stolto che ha fede vale più dell’intellettuale che si fida solo della ragione. Anche nello scrittore latino Tertulliano (155-220) troviamo una decisa contrapposizione tra “Atene”, ovvero la filosofia, e “Gerusalemme” (il mondo ebraico-cristiano). La fede non ha bisogno di giustificazioni razionali: ciò che per la ragione è follia o assurdità, per la fede è perfettamente plausibile. A Tertulliano è attribuita una celebre frase (ma non è sicuro che l’abbia scritta o pronunciata davvero): “Credo quia absurdum”, che significa: “in nome della fede accetto anche ciò che alla ragione sembra assurdo”. L’apertura verso la filosofia: Giustino e Clemente Alessandrino Giustino è uno dei primi apologisti, intellettuali cristiani che scrivono “apologie”, ovvero difese della fede cristiana dagli attacchi dei pagani, indirizzate anche a personaggi famosi. Vissuto nella prima metà del II secolo (forse tra il 100 e il 165), Giustino scrisse due apologie, rivolte agli imperatori Marco Aurelio, Antonino Pio e Lucio Vero. Nelle sue opere Giustino sottolinea la razionalità del cristianesimo e identifica Cristo con il Logos (ragione del mondo). Giustino apprezza la filosofia greca, affermando che i pensatori greci hanno cercato la verità e si sono avvicinati a essa; ne possiedono però solo un seme, un accenno, perché solo il cristianesimo è fonte di verità. Sulla stessa linea è Clemente Alessandrino (150-215), che individua una continuità tra filosofia greca e cristianesimo ma stabilisce un rapporto di subordinazione della prima al secondo. L’assimilazione della filosofia: la Patristica greca e latina Con i Padri della Chiesa, autori che pongono le basi della dottrina cristiana, si compie l’assimilazione della filosofia greca, soprattutto della tradizione platonica, al cristianesimo. Origene, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo sono i principali Padri greci (così definiti perché scrivono in greco), mentre il più importante Padre della Chiesa latino è Sant’Agostino, un gigante del pensiero e della fede, uno degli autori più letti e studiati di ogni tempo. BOX: IL CRISTIANESIMO Il cristianesimo è la religione dei seguaci di Gesù di Nazareth, vissuto in Palestina tra il 4 a.C. (secondo altre periodizzazioni nacque un po’ prima, verso il 7 a.C.) e il 30 d.C. , quando fu processato e ucciso a Gerusalemme con il più crudele dei supplizi conosciuti dai romani, la crocifissione. All’inizio il cristianesimo si presentò come una setta ebraica, i cui aderenti (poco numerosi)credevano fermamente in una prossima fine del mondo e nell’avvento del Regno di Dio, ma già verso la fine del I secolo aveva acquisito una dimensione più ampia, diffondendosi all’interno dell’impero romano, soprattutto nei centri urbani. In questo passaggio fu determinante la predicazione di Paolo di Tarso, l’«apostolo delle genti», che convertì e battezzò molti “gentili” (con questo nome gli ebrei designavano i non ebrei), dimostrando in tal modo che per diventare cristiani non era necessario essere ebrei e che quindi il cristianesimo era una fede universale, aperta a tutti gli uomini e le donne. L e lettere di san Paolo, indirizzate alle comunità cristiane sparse nelle città dell’Impero romano (Corinto, Tessalonica, Efeso, la stessa Roma) sono i più antichi documenti cristiani, più antichi dei 4 vangeli, sono scritte in greco (la “koiné”, ovvero lingua comune del Mediterraneo antico)e contengono elementi dottrinari importanti: l’universalità del messaggio di Cristo, l’importanza della carità, la grazia di Dio che salva. L’unità linguistica presente nell’impero romano, la cui lingua veicolare (koiné) era il greco, unitamente all’efficiente sistema di comunicazioni e trasporti e alla spiccata urbanizzazione (presenza di moltissime città), favorirono la diffusione del cristianesimo, che fino alla metà del III secolo non fu apertamente osteggiato e perseguitato dal potere imperiale. Ci furono isolati episodi di persecuzione anche grave (si pensi a Nerone), ma in genere prevalse la linea di realismo politico che i Romani avevano sempre adottato nei confronti delle altre religioni: se non si oppongono al potere dello Stato, se non commettono atti criminosi e se rispettano le istituzioni romane, siano tollerate. Nella seconda metà del III secolo, in concomitanza con l’acuirsi della crisi dell’impero, costretto a difendersi ai confini esterni, in preda all’anarchia interna, con imperatori di fatto deboli e nelle mani degli eserciti, ma che tendevano a presentarsi come sovrani assoluti e come personaggi degni di venerazione (secondo un modello orientale), i cristiani furono visti come un pericolo per lo Stato romano, in cui religione e politica erano strettamente intrecciate. Assimilati a una setta superstiziosa, accusati di magia e sacrifici umani, sospettati di ateismo perché non sacrificavano agli dei cittadini, i cristiani erano malvisti per la loro fede in una divinità astratta ed estranea alle cose del mondo e anche per le ricchezze che avevano accumulato. Gli imperatori Decio, Valeriano e Diocleziano furono i più grandi persecutori dei cristiani; nel 313 Costantino promulgò un editto che garantiva libertà di culto ai cristiani, nel 325 convocò un concilio (assemblea di vescovi) a Nicea, nel quale furono stabilite le linee fondamentali della religione cristiana (credo niceno). Con i successori di Costantino il cristianesimo si diffuse e consolidò, con l’importante eccezione di Giuliano (361-363), che tentò, senza ottenere successo, di restaurare il culto degli dei. Alla fine del IV secolo Teodosio stabilì che il cristianesimo era “religione di stato”.