Anima e corpo nella letteratura medievale, Atti del V Convegno di studi della Società Italiana per lo Studio del Pensiero medievale (Venezia, 25-28 settembre 1995), a cura di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, 1999, pp. 332, € 54,23 Il volume raccoglie, in una veste editoriale elegante e accurata, i contributi presentati al V Convegno della Società Italiana per lo Studio del Pensiero Medievale, svoltosi a Venezia nel settembre del 1995. Al centro del Convegno (il primo organizzato dalla SISPM secondo la formula monotematica tradizionale) era un argomento complesso e proteiforme, “naturalmente indisciplinato”, come sottolineano le curatrici nella Introduzione (p. IX), che è stato affrontato da molteplici angolature - la teologia e la medicina, la musica e la psicologia, l’antropologia e l’iconologia, l’embriologia e la politica. La varietà di prospettive adottate dai relatori mette in evidenza la continua modificazione semantica e concettuale che la visione del rapporto anima-corpo subisce nel dibattito medievale, cogliendolo non soltanto nel suo sviluppo in senso diacronico, ma anche nel suo aspetto sincronico, di confronto e intersecazione di tradizioni diverse. Se, per esempio, il contributo di L. Sileo, La definizione aristotelica di anima nel dibattito della prima metà del Duecento, pp. 21-49, segue il percorso della ricezione latina della definizione aristotelica di anima attraverso la mediazione avicenniana (da Gundisalvi all’elaborazione di Filippo il Cancelliere nella Summa de bono fino all’ontologia creaturale di Giovanni della Rochelle), I. Tolomeo, “Corpus carcer” nell’alto Medioevo. Metamorfosi di un concetto, pp. 3-19, mostra che l’immagine del corpo-carcere, di derivazione platonica e neoplatonica, emerge nel cristianesimo dotto di Rabano Mauro, Ambrogio e Boezio, ma di fatto convive con la visione liturgica romana occidentale del mondo-carcere (o, meglio, del peccato-carcere). Anche il corpo è opera di Dio e oggetto della redenzione di Cristo: ed è sul corpo che si sviluppa il culto delle reliquie, esaminato da F. Bruni, Teologia del corpo e pietà popolare. Le reliquie come metonimia, pp. 259-275. Conferma lo sguardo non pregiudizialmente ostile della riflessione filosofica cristiana nei confronti della corporeità la valutazione delle passioni in San Tommaso, oggetto del chiaro e lineare contributo di I. Sciuto, Le passioni dell’anima nel pensiero di Tommaso d’Aquino, pp. 73-93. Sciuto sottolinea l’interesse anzitutto fisico con il quale Tommaso esamina il problema delle passioni, poste in riferimento alla naturale costituzione umana e, quindi, ai princìpi generali della natura fisica. L’originalità dell’antropologia tomistica è certo collocabile nel fatto che l’anima umana, duplice nella sua relazione con il corpo (forma e motore), viene pensata all’interno di una metafisica dell’ordine gerarchico, secondo una “concezione ontologica e dinamica … che si oppone al dualismo platonico leggendo insieme Aristotele e Dionigi” (p. 77). Direi anche, più in generale, che è proprio la connessione tra antropologia e organizzazione cosmologica (l’uomo come nexus mundi) a consentire a Tommaso un (tacito) distacco dalla concezione agostiniana delle condizioni dell’uomo in statu viatoris. Come afferma Sciuto (p. 79), “la tendenza dell’appetito sensibile a non obbedire alla ragione non costituisce una caduta rispetto alla natura originaria dell’uomo: è costitutiva, anzi, di questa natura in quanto tale. Viene perciò modificata la concezione di Agostino, secondo cui la disobbedienza è un effetto del peccato originale che modifica la natura umana”. In altre parole, se il piano originario della creazione divina ha previsto l’esistenza di un essere nel quale la natura spirituale degli angeli e quella materiale degli animali si incontrino, completando in tutti i suoi gradi la scansione gerarchica del mondo (insomma, facendo del mondo creato un ‘cosmo’), l’uomo, così come è uscito dalle mani del Creatore, si confronta con una difficoltà che è per lui un dato strutturale, legato alla sua specifica condizione ontologica: il mantenimento dell’equilibrio tra le sue due componenti, che hanno per natura fini divergenti. Il punto è importante e diventerà essenziale nel futuro dibattito teologico cinquecentesco su libero e servo arbitrio. La polemica di Erasmo contro i ‘paradossi’ di Lutero muoverà proprio da una considerazione in senso lato tomistica dell’uomo, per la quale ‘carne’ e ‘spirito’ rappresentano tendenze contrastanti sì, ma compresenti nello stesso essere e a lui proprie - non opposizione categoriale di natura e grazia, lotta tra un uomo tutto carnale e lo Spirito divino, che dall’esterno esercita la sua azione su di lui. Che l’uomo sia ben presente alla discussione medievale non dimostrano soltanto – come è lecito attendersi – le relazioni che si occupano in modo specifico della nascita (R. Martorelli Vico, Anima e corpo nell’embriologia medievale, pp. 95-106, che esamina i testi di Egidio Romano, Dino del Garbo e Mondino de’ Liuzzi, sottolineando la tendenza alla progressiva laicizzazione dei contenuti propri dell’embriologia), della infusione dell’anima (J. Bascher, La parenté partagée: Engendrement charnel et infusion de l’âme. À propos d’une miniature de la fin du Xve siècle, pp. 122-137) e della morte (L. Cova, Morte e immortalità del composto umano nella teologia francescana del XIII secolo, pp. 106-122, che analizza il problema nel dibattito francescano prescotista – la Summa Halensis, Bonaventura, Pietro di Giovanni Olivi e Riccardo di Mediavilla – dal quale scaturiscono posizioni non poco diverse: la morte come esito naturale dell’esistenza creaturale oppure come punizione del peccato originale), della beatitudine (C. Trottman, Sulla funzione dell’anima e del corpo nella beatitudine. Elementi di riflessione nella Scolastica, pp. 139-155), delle mediazioni che collegano corpo e anima (S. Nagel, La vox come medium tra anima e corpo. Annotazioni in margine ai commenti al De animalibus attribuito a Pietro Ispano, pp. 190-205; G. Spinosa, Vista, spiritus e immaginazione, intermediari tra l’anima e il corpo nel platonismo medievale dei secoli XII e XIII, pp. 207-230), del rapporto tra armonia umana e armonia cosmica (L. Mauro, La “musica del polso” in alcuni trattati del Quattrocento, pp. 235-257; e, sugli effetti della musica, F. Gallo, Anima e corpo nell’ascolto della musica. Il raptus secondo Pietro d’Alvernia, pp. 231-233), o nell’uso del binomio animacorpo come analogia esplicativa all’interno della discussione sul linguaggio (C. Marmo, Corpo e anima del linguaggio nel XIII secolo, pp. 305-316). Assai meno prevedibilmente, la limpida e solida relazione di B. Faes de Mottoni, Bonaventura e il corpo dell’angelo, pp. 157-179, mette in evidenza che persino la discussione sul corpo degli angeli nasce e si sviluppa in funzione dell’uomo: il corpo artificiale, che l’essere spirituale provvisoriamente assume e con il quale intrattiene la relazione estrinseca e accidentale del motore con il mobile, è lo strumento del quale l’angelo, ministro della volontà divina, si serve per mostrarsi all’uomo e per soccorrerlo, aiutarlo, confortarlo. Proprio grazie alla loro eterogeneità tematica e disciplinare, gli interventi riuniti in questo volume hanno il merito di evidenziare la centralità del tema anima-corpo nella cultura medievale. Il risultato è interessante non solo per l’innegabile progresso che le singole ricerche apportano sul piano critico (significativo, in tal senso, l’intervento di F. Mignini, Anima e corpo negli scritti psicologici di Sigieri di Brabante, pp. 51-72, che esamina le Quaestiones in tertium de anima e il Tractatus de anima intellectiva attraverso l’impiego di indici quantitativi e secondo il metodo della analisi strutturale); ma anche perché, indirettamente, esse contribuiscono a mettere ancora una volta in discussione vecchie e consunte categorie storiografiche, tuttora tenacemente radicate e tuttora attive nell’arrière-plan di tante ricostruzioni del Rinascimento (il chiudersi di un’epoca, l’aprirsi di una nuova epoca; l’involuzione ripetitiva e ormai sterile dell’aristotelismo, l’approccio al platonismo liberatorio: insomma, il Medioevo che si è occupato solo di Dio, il Rinascimento che ha scoperto l’uomo). La legittima – anzi, doverosa - percezione delle differenze non può esimersi dalla coscienza che il ‘nuovo’ scaturisce da un confronto con il ‘vecchio’: solo in parte il confronto si esprime come rifiuto e opposizione; per larga parte è anche accettazione e ripensamento nell’ambito di condizioni sociali diverse. È perciò condivisibile, almeno in un certo senso, la posizione di D. Knox, Disciplina del corpo e dell’anima. L’eredità del Medioevo, pp. 277-287, per il quale (p. 277) “è stato il Medioevo, non il Rinascimento o l’inizio dell’età moderna, se così lo volete chiamare, a formare la cultura ed il pensiero dell’Europa occidentale” e, p. 287, “Alberti e molti altri autori del Rinascimento, nonostante la loro ammirazione per gli antichi, proposero una interpretazione decisamente medievale della modestia”. Ma, forse, ai termini ‘Medioevo’ e ‘medievale’ si potrebbero più fruttuosamente sostituire i termini ‘Cristianesimo’ e ‘cristiano’. È il Cristianesimo a costituire il nesso di continuità tra Medioevo e Rinascimento: non a caso, è proprio in questo ambito che grandi pedagogisti come Erasmo e Vivés colsero i limiti del modello educativo medioevale (monastico) e proposero un proprio modello (laico) di civilitas che - pur adeguandosi alla mutata realtà della vita sociale, nella quale uomini e donne si incontrano e interagiscono – resta tuttavia civilitas christiana. Solo tenendo conto dell’interrelazione con il Medioevo è possibile valutare con serietà la cosiddetta ‘età nuova’. Il Principe il libro più scandaloso del Rinascimento secondo la definizione di Giovanni Gentile che lo riteneva, in questo, eguagliabile solo al De immortalitate animae di Pomponazzi - ha le sue radici nella lettura dell’aristotelismo e porta alle sue conseguenze estreme quella visione organicistica dello stato, i cui precedenti sono esaminati nel contributo di R. Lambertini, Il cuore e l’anima della città. Osservazioni a margine sull’uso di metafore organicistiche in testi politici bassomedievali, pp. 289-303. D’altra parte, la riflessione di Marsilio Ficino - non soltanto relativamente al versante magico, ma anche (e di più) relativamente a quello antropologico - è profondamente segnata dalla ripresa dei temi fondamentali dell’Asclepius, a cui è dedicata la bella relazione di P. Lucentini, Il corpo e l’anima nella tradizione ermetica medievale, pp. 181-190. Se è vero che (p. 182) la “concezione ‘eroica’ dell’uomo, cittadino del mondo, posto al confine dell’eterno e del tempo, e destinato, nella sua terrena esistenza, a governare la terra e glorificare l’universo” ispirò largamente la visione ficiniana e pichiana della dignitas hominis, Lucentini ricorda che l’Asclepius fu disponibile dalla metà del secolo XII e orientò, già allora, aspetti centrali della meditazione antropologica - forse con maggiore forza che nel Rinascimento, ove la celebrazione dell’uomo nella sua natura duplice (magnum miraculum est homo) era mitigata o, comunque, resa problematica dal confronto con l’insieme di tutti i dialoghi filosofici ermetici, nei quali la corporeità è presentata a tratti (per esempio, nel Pimander) come conseguenza di una caduta originaria. Lucentini insiste giustamente sulla lettura profondamente simpatetica di Alberto Magno, che trae dall’Asclepius non soltanto isolati concetti e singole espressioni, ma una vera e propria teorizzazione del dominio umano sul mondo – in altri termini, l’idea, nient’affatto utopica, di magia naturale, che anche attraverso Alberto si sitematizzerà nel De vita coelitus comparanda di Ficino. VITTORIA PERRONE COMPAGNI