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La Sardegna nella seconda guerra mondiale
Manlio Brigaglia?
Quando parliamo della “specificità”, della “particolarità” della Sardegna abbiamo
qualche volta l’impressione di ricalcare un luogo comune, di rendere un omaggio
ripetitivo a una consolatoria mitologia locale.
Eppure anche la storia della Sardegna durante la Seconda guerra mondiale (e in parte la
stessa storia della partecipazione dei sardi alla Resistenza) è diversa da quella di ogni
altra parte d’Italia. Anzi, diremmo quasi d’Europa, se è vero che la Sardegna è stata
l’unica regione d’Italia (e forse d’Europa, almeno dell’Europa coinvolta nel conflitto) in
cui non è passata la guerra guerreggiata, che non è stata calpestata dalle avanzate e dai
disordinati riflussi degli eserciti combattenti.
Questa “separazione” della storia della Sardegna è frutto più della geografia che della
storia, perché è conseguenza della nostra condizione di insularità. Ma poi questa
condizione eminentemente geografica ha prodotto profondissimi esiti storici, se è vero
che nell’isolamento (che fu drammaticamente totale, se si pensa – per esempio – alla
radicale interruzione della navigazione di passeggeri e di merci verso e dalla penisola: la
Olbia-Civitavecchia, la madre di tutte le comunicazioni fra i sardi e il resto del mondo,
ridivenne giornaliera solo il 9 novembre 1947), nacque la necessità di un autogoverno,
riconosciuto ufficialmente dallo Stato, se così si può dire, con la creazione, nel gennaio
1944, di un Alto Commissariato per la Sardegna, sotto il quale facemmo le prime
esperienze di un reggimento autonomo, se non proprio autonomistico.
La Seconda guerra mondiale comincia in Sardegna non il 10 ma il 16 giugno 1940,
domenica: alle 5 e mezzo del pomeriggio, 5 bombardieri inglesi Glenn Martin 167
sganciano alcune bombe sull’aeroporto di Elmas: a Cagliari la gente stava affacciata ai
terrazzi e alle finestre dei piani alti, a vedere quello spettacolo inconsueto.
Ma la Sardegna entra nell’occhio del ciclone a partire dal febbraio 1943, quando – dopo
lo sbarco in Africa settentrionale – gli Alleati preparano l’assalto finale alla «fortezza
Europa». I bombardamenti che avevano toccato sino a quel punto quasi soltanto
obiettivi militari, puntano ora sulle città portuali. Cagliari è colpita duramente tre volte
in febbraio, il 17, il 26 e il 28: la prima incursione, un pesante spezzonamento diurno
condotto da 70 bombardieri americani, fa la prima strage di cittadini inermi (un
centinaio), mentre pochi minuti più tardi una formazione che avrebbe dovuto
bombardare Villacidro sgancia i suoi spezzoni sul piccolo centro rurale di
Gonnosfanadiga, uccidendo 83 persone, di cui la gran parte bambini; il secondo
bombardamento, che fece 73 morti e 286 feriti secondo il bollettino di guerra, fu di gran
lunga più rovinoso, spingendo la popolazione civile ad un esodo di massa; ma ancora
più terribile fu la terza incursione, condotta da 46 «Fortezze volanti» e 39 caccia,
all’una di una domenica mattina di gran sole: colpita da 538 grandi bombe, che fecero
oltre 200 morti e alcune centinaia di feriti (ma tutte le cifre ufficiali vanno largamente
aumentate), la città era il giorno dopo un deserto fumante. Meno tragiche sul piano delle
vite umane, ma non meno devastanti, furono le conseguenze di un altro grande
bombardamento subìto dalla città il 13 maggio: attaccata da 107 quadrimotori e 120
bombardieri medi con bombe da 1000 libbre (nella notte poi seguì un’altra incursione,
stavolta di bombardieri inglesi), la città ebbe distrutto quasi il 70% dell’abitato.
Il 19 maggio 1950 Cagliari sarebbe stata decorata di medaglia d’oro al valore militare.
In effetti furono soprattutto i cagliaritani, fra tutti i sardi, quelli che soffrirono più
duramente le conseguenze della guerra: non soltanto per l’alto numero dei morti, ma
anche per le difficoltà, le privazioni e non di rado le umiliazioni che accompagnarono la
fuga dalla città martoriata di diverse decine di migliaia di cittadini (il prefetto di Nuoro
calcolava che solo nella sua provincia fossero arrivati in 50 mila). «La città è morta»,
cantavano i poeti, e c’era anche qualcuno che pensava egoisticamente di ereditarne il
?
Università di Sassari.
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ruolo istituzionale.
Tranne Sassari, su cui furono lanciati pochi spezzoni nel terribile maggio 1943 (fra il 13
e il 14 maggio la Sardegna fu attaccata da oltre 650 aerei), gli altri centri maggiormente
danneggiati furono Portotorres, colpita più volte, Olbia, Carloforte ed Alghero: ad
Alghero, nella notte fra il 17 e 18 maggio, l’incursione fece 52 morti.
Non esistono statistiche ufficiali sulle perdite umane subite dalla Sardegna ad opera
dei bombardamenti alleati: accurate ricerche recenti hanno calcolato in oltre 1000 i
civili caduti, la cui morte è registrata nei pur lacunosi documenti ufficiali del periodo
(863 a Cagliari, 58 ad Alghero, 13 ad Arbatax, 12 a Carloforte, 3 a Chilivani, 1 a
Decimomannu, 83 a Gonnosfanadiga, 1 a Macomer, 28 a Monserrato, 22 a Olbia, 5 a
Portotorres, 8 a Quartu, 3 a Sassari, 1 a Pabillonis, 3 a Villacidro).
Gravi sono stati i danni subiti dalle installazioni militari e dal naviglio civile e militare:
il 10 aprile formazioni di bombardieri americani avevano affondato l’incrociatore
Trieste (facendo un altissimo numero di vittime) e gravemente danneggiato
l’incrociatore Gorizia, da giorni alla fonda sulla costa davanti a La Maddalena.
2. Sono le sofferenze della guerra, in Sardegna come in ogni altra parte d’Italia, a far
precipitare la latente, a volte inconsapevole avversione al regime in una opposizione
sempre più aperta, man mano che la guerra di Mussolini procede verso il suo esito
fatale: i bombardamenti delle città, i sacrifici alimentari e l’isolamento allargheranno
rapidamente la frattura.
Ma già all’approssimarsi del conflitto alcuni ambienti cattolici avevano espresso il loro
rifiuto: il sacerdote Francesco Giua, viceparroco di Oschiri fu mandato al confino per 2
anni per essersi augurato,, predicando in uno “stazzo” del Limbara il 28 maggio 1940,
che la guerra non venisse.
Anche la Sardegna, del resto, aveva conosciuto l’antifascismo e la repressione: 208
sardi erano stati giudicati davanti al Tribunale speciale (che aveva loro irrogato 208 anni
di carcere) e 260 erano stati assegnati al confino.
L’opposizione al fascismo si era manifestata soprattutto nell’emigrazione sarda. In
particolare in Francia, dove i sardi – in genere organizzati anche in circoli o associazioni
a carattere regionale – erano numerosi nelle miniere del Nord, nei cantieri navali intorno
a Marsiglia, nell’edilizia di Parigi e nelle officine meccaniche intorno alla capitale. 120
sardi erano accorsi, a partire dallo stesso luglio del 1936, in difesa della Spagna
repubblicana. Dei nove caduti nella battaglia di Monte Pelato, dove a fine agosto aveva
fatto le sue prime prove la colonna Rosselli, due erano sardi – Giuseppe Zuddas,
sardista, di Monserrato, componente del comitato centrale di “Giustizia e Libertà”, e
Pompeo Franchi, anarchico nuorese.
Alla guerra di Spagna partecipò anche l’ingegner Dino Giacobbe, già dirigente del
Partito sardo d’Azione, che obbedendo a un appello di Lussu aveva lasciato
clandestinamente la Sardegna nel settembre 1937 e aveva combattuto sull’Ebro al
comando di una batteria “Carlo Rosselli”.
Durante la guerra la propaganda e l’organizzazione dell’antifascismo si nutre soprattutto
della presenza, nell’emigrazione, di due grandi personaggi come Emilio Lussu (cui fa
capo l’opposizione sardista, repubblicana e, naturalmente giellista) e Velio Spano
(infaticabile “lavoratore” creatore di cellule comuniste in Francia, in Egitto, in Africa
Orientale e – durante la guerra – in Tunisia).
All’opposizione dei gruppi sardisti che stanno in Sardegna filtrano attraverso canali
misteriosi – cui non sarebbero estranei elementi antifascisti che fanno parte del SIM – le
notizie sul progetto perseguito da Lussu sin dall’inizio del conflitto: quello d’uno sbarco
di commandos in Sardegna, capace di innescare nell’isola, attraverso la guerriglia di
montagna, un focolaio di ribellione del Paese al regime. Questo progetto, che Lussu
andrà a discutere a Londra e negli Stati Uniti (Lussu ha raccontato quelle vicende nel
suo Diplomazia clandestina), sarà accantonato per la diffidenza degli Alleati, ma
soprattutto per la stessa decisione di Lussu di non dargli corpo sinché gli Alleati non
avranno preso impegni precisi sul destino dell’Italia dopo la fine del conflitto.
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Ma uno scambio di lettere fra Lussu (da Lisbona) e Giacobbe (riparato a Boston) viene
intercettato dal servizio segreto inglese, che se ne serve per organizzare lo sbarco di due
agenti sulla costa orientale dell’isola. La vicenda ha uno svolgimento ancora oggi
misterioso: è sicuro che i due, appena a terra, si consegnano ai carabinieri (o vengono
presto scoperti), e nel loro materiale viene trovata una piantina che porta al podere che
Salvatore Mannironi ha presso Nuoro. La polizia arresta lo stesso Mannironi, suo
fratello Cosimo, il sardista Ennio Delogu, loro amico, e il mezzadro dei Mannironi sotto
l’accusa gravissima di spionaggio, senza che nessuno di loro abbia in realtà potuto avere
modo di entrare in contatto non solo con elementi stranieri ma con lo stesso Giacobbe o
con Lussu (la totale estraneità di Mannironi al fatto verrà chiarita nel dopoguerra nel
corso di un processo intentato dall’uomo politico nuorese ad alcuni giornali di destra
che lo avevano accusato di essere stato «al servizio degli inglesi»; ma intanto
Mannironi, condotto nella penisola, rischierà la morte nel bombardamento del campo di
concentramento di Isernia dove è tenuto prigioniero sino all’autunno del 1943.
Intanto Lussu, abbandonato il suo progetto, è tornato in Francia, unico dei leader
dell’antifascismo italiano – ha fatto notare Giorgio Amendola – che, pur avendo
raggiunto il territorio libero, decide spontaneamente di riprendere il proprio posto
nell’Europa occupata dai tedeschi. Dopo aver partecipato alla resistenza francese (così
come, dopo l’occupazione di Parigi, aveva diretto da Marsiglia la complessa operazione
attraverso la quale antifascisti ed ebrei di ogni parte d’Europa saranno salvati dalle mani
delle SS: un nitido resoconto ce ne ha lasciato sua moglie Joyce in Fronti e frontiere),
tornerà in Italia nell’agosto del 1943, per prendere poi parte alla difesa di Roma e alla
resistenza romana durante l’occupazione tedesca.
Nello stesso periodo Spano, che ha formato e animato in Francia, negli anni Trenta,
diverse “fratellanze sarde” in Tunisia, lavora alla riorganizzazione del partito comunista
tunisino: per questa sua attività, per due volte, nel marzo e nel giugno del 1942,
tribunali militari della Francia di Vichy lo condanneranno a morte in contumacia. Dopo
aver diretto la propaganda antifascista fra i resti dell’esercito italiano provenienti dalla
Libia, dalla sconfitta di El Alamein alla liberazione di Tunisi (aprile 1943), tornerà in
Italia il 16 ottobre di quell’anno, per guidare la ricostruzione del partito nel Sud liberato.
Un altro protagonista dell’antifascismo sardo, Luigi Polano, comunista, emigrato in
URSS già dagli anni Venti, sarà protagonista, dopo Stalingrado e El Alamein, di una
curiosa esperienza: parlando da una postazione radiofonica segreta (e rimasta sempre
segreta per obbedienza al rigore della clandestinità rivoluzionaria) riuscirà ad “entrare”
nei fascistissimi “Commenti ai fatti del giorno” dell’Eiar, polemizzando col Mario
Appelius di turno.
3. «Ognuno sappia che la Sardegna è un bastione della Patria», diceva una lettera
autografa di Mussolini recapitata al generale Basso, comandante militare dell’isola,
proprio la mattina del 25 luglio.
Anche l’anno prima, durante una rapida visita all’isola (10-15 maggio), Mussolini era
rimasto colpito dalla «fedeltà» de sardi: «È molto contento del suo viaggio – annota
Ciano nel proprio diario – […]. Parla con entusiasmo del popolo di Sardegna, dal quale
non ha sentito né una protesta per il pane scarso, né un’invocazione di pace […] che
invece non sarebbero mancate nella Valle Padana […]. Anche per quanto riguarda la
difesa dell’Isola ha tratto dalla sua visita motivi di sicurezza. Buone truppe, armamento
efficiente e nelle zone di possibile sbarco […] una malaria che varrebbe a decimare in
pochi giorni le truppe inglesi».
Sembrerebbe che il duce non legga più neppure i rapporti dell’OVRA, la sua «pupilla»:
«Circa la visita del Duce in Sardegna – dice un rapporto del giugno –, si hanno
particolari che dimostrano stanchezza della popolazione, e più o meno nascosti fermenti
di reazione. Si dice che a Sassari la popolazione avrebbe fatto trovare nella città
manifestini chiedenti pane. Si dice che alcune persone, specialmente donne, abbiano
insultato, o tentato di insultare il Duce con frasi offensive. […]. Da voci da noi udite
ripetutamente si dice che i Sardi, pur di finirla, vedrebbero favorevolmente un distacco
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dalla Madre Patria e magari una occupazione inglese. […]. Sempre più insistentemente
si fa risalire alla persona del Duce la responsabilità dell’attuale stato di cose; è ormai
apertamente se ne parla in ogni ambiente, anche in quelli del Partito. Negli ambienti
militari, poi, lo si ritiene responsabile dell’impreparazione dell’Esercito, della
corruzione delle Alte Gerarchie del Regime, che ha portato alla impreparazione stessa»
(L. Marrocu).
In realtà le truppe non avevano mai avuto un armamento neppure sufficiente, né
sarebbero state in condizioni di resistere più di qualche ora ad uno sbarco come quello
che (dopo essere stato a lungo temuto in Sardegna) avvenne invece in Sicilia. A quel
punto nell’esercito serpeggiava già la sfiducia, e fra molti ufficiali sardi veniva
prendendo consistenza un gruppo di «sardisti» (così li chiamava lo stesso generale
Basso) che da una parte tendevano l’orecchio alle notizie su Lussu, dall’altra pare non
fossero estranei ad un abbozzo di complotto che avrebbe dovuto – secondo i
partecipanti – costituire un governo separatista, sotto la protezione degli Alleati. Il
progetto, che avrebbe dovuto portare al «pronunciamento» di interi reggimenti di stanza
nell’isola, non andò più avanti della sua prima ideazione, ma la polizia eseguì
perquisizioni nelle case di molti ufficiali, fra cui quella del medico Ferruccio Oggiano,
che non nascondeva le sue simpatie lussiane.
Il 25 luglio non arrivò inaspettato. Testi della propaganda antifascista (il messaggio da
Montevideo di Carlo Sforza, copie del giornale del Pd’A «Italia libera» e del
«memoriale di Ventotene» di Altiero Spinelli) circolavano fra militari e civili, mentre
l’opposizione interna produceva altra propaganda d’origine locale, come il giornale
dattiloscritto «Avanti Sardegna!», redatto fra il giugno e l’agosto del 1943 dai sassaresi
M. Berlinguer, M. Saba, Salvatore Cottoni, o come i volantini che, «stampigliati» dallo
stesso Cottoni, da Antonio Borio e da Giuseppe Dessì (già scrittore di rinomanza
nazionale, allora provveditore agli Studi di Sassari, dove lo aveva nominato il ministro
Bottai, delle cui riviste era stato collaboratore), erano stati diffusi a Sassari nella
primavera del 1942, o come il «Manifesto del Partito socialdemocratico sardo», redatto
da Dessì, Borio, Cottoni e Francesco Spanu Satta, che riprendeva sostanzialmente il
programma del primo sardismo: «Repubblica federale Italiana, decentramento
amministrativo dello stato, autonomia amministrativa della Sardegna, autonomia
doganale, istituzione di un Consiglio Generale Sardo e di un Consiglio Provinciale con
poteri normativi suj alcune materie e su determinate zone della vita economica» (F.
Spanu Satta).
Ma per gli alti comandi «la guerra continuava»: gli antifascisti sardi che all’indomani
del 25 luglio si riunirono nella piazza centrale di Sassari, fra cui M. Berlinguer e il
socialista Gavino Perantoni, furono arrestati per ordine dell’autorità militare.
L’8 settembre ha in Sardegna uno svolgimento unico fra tutti i tragici scenari cui
l’armistizio dà vita in Italia e fuori d’Italia. Il generale Basso, interpretando molto
estensivamente la «Memoria O.P. 44» del Comando Supremo che dava disposizione di
opporsi alle prevedibili reazioni tedesche alla notizia dell’armistizio, accordò
immediatamente ai tedeschi la garanzia che avrebbero potuto lasciare l’isola
indisturbati. C’erano in Sardegna, in quel momento, due Corpi d’Armata, il XXX, a
nord, che comprendeva la divisione di fanteria Calabria, una divisione ed una brigata
costiera, e il XXI, a sud, che comprendeva la divisione Sabaudia e due divisioni
costiere, più, nella riserva, la divisione Bari, un’altra divisione costiera (seppure in via
di formazione), e un raggruppamento motocorazzato forte di circa 5000 uomini, e la
divisione paracadutisti Nembo, che si era battuta valorosamente in Africa settentrionale:
in tutto – secondo i calcoli di B. Anatra – 5108 ufficiali e 126.946 soldati. I Tedeschi
avevano, concentrata nella zona centrale dell’isola, la 90.ma divisione corazzata
comandata dal generale Lungerhausen, composta dai resti di alcuni reggimenti
dell’Afrika Korps di Rommel: in tutto circa 30.000 uomini, con un numero di grandi
carri (che Basso calcolava, con larga approssimazione, in due o trecento unità).
Lungo la dorsale Oristano-Macomer-Ozieri-Tempio i tedeschi – usando anche
automezzi messi a disposizione dallo stesso Basso, e seguiti a distanza dai reparti
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italiani in uno strano inseguimento «al rallentatore» – si avviarono ai porti d’imbarco
verso la Corsica, Palau e Santa Teresa di Gallura. Fu una marcia quasi senza incidenti: il
9 settembre, in un confuso episodio presso Baressa, veniva ucciso un giovane contadino
di 17 anni, e al posto di blocco stabilito dal 132.mo reggimento fanteria sul Ponte
Mannu del Tirso, al comando del ten. col. Sardus Fontana, iglesiente, ci fu un breve
scontro a fuoco; gli italiani ebbero un morto e 6 feriti, i tedeschi lasciarono sul terreno 2
morti ed 8 feriti.
Il punto-chiave dell’intero piano era l’isola di La Maddalena. Collocata sulla rotta fra la
Sardegna e la Corsica, ma soprattutto armata con numerose batterie di marina, La
Maddalena era ancora una delle più munite piazzeforti d’Italia; non per niente vi era
stato tenuto prigioniero dal 7 al 28 agosto lo stesso Mussolini, e nell’imminenza dell’8
settembre si era pensato di far riparare lì, insieme con parte della flotta, la famiglia
reale: lungo la rotta protetta da La Maddalena si muove la flotta italiana, il 9 settembre,
quando, al largo dell’isola dell’Asinara, viene affondata la corazzata Roma, in
navigazione verso i porti alleati. (Tra i 1953 morti, 25 erano sardi, fra cui il
guardiamarina Angelo Brozzu, 21 anni, e il sottotenente di vascello Stanislao Palomba,
22 anni, entrambi cagliaritani).
Dunque, assicurarsi La Maddalena è per i tedeschi un passo assolutamente necessario
sulla strada per la Corsica. Alle 12,30 del 9 settembre un ufficiale germanico, il
comandante Unes, si presenta al circolo ufficiali dove i suoi «colleghi» italiani si sono
appena seduti a tavola dopo un rapporto tranquillizzante tenuto dal comandante della
piazza, l’ammiraglio Bruno Brivonesi, e con la pistola in pugno, affiancato da due
soldati armati di Machinepistolen, li dichiara tutti prigionieri.
Inizia una vicenda in cui incomprensione, tendenza al compromesso e viltà dei capi si
mescolano con l’eroismo di uomini che non vogliono arrendersi. A capo dei «ribelli» si
mette il capitano di vascello Carlo Avegno, già comandante dell’Accademia Militare di
Livorno. È Avegno che tesse la trama dei contatti, tenuti da portaordini e messaggeri
anche occasionali fra i diversi reparti di stanza nell’isola, molti dei quali non sono
concentrati nell’abitato di La Maddalena, ma sono dislocati lungo gran parte del
perimetro costiero.
Avegno e il suo braccio destro, l’ufficiale Rinaldo Veronesi, raccolgono attorno a sé un
manipolo di coraggiosi, in cui, insieme con alcuni civili, sono marinai (tre plotoni, un
centinaio di uomini), soldati e il reparto speciale dei carabinieri della Stazione Marina,
una trentina di uomini per due terzi sardi, comandati dal maresciallo Antonio Ledda.
L’attacco alle postazioni tedesche, fissato per la notte del 12, è spostato alla mattina del
giorno dopo. Mentre Avegno e i suoi uomini presidiano la porta di ponente
dell’Arsenale, un commando di carabinieri, guidato dal vicebrigadiere Enzo Mazzanti,
aggira le posizioni tedesche e raggiunge un reparto di fanteria dislocato al lato opposto
dell’isola; un commando di marinai, guidato da un sottufficiale esperto in
telecomunicazioni, porta via dall’isola Chiesa una ricetrasmittente con cui si lanciano
messaggi in Corsica e a Malta alla ricerca di Supermarina: da Malta si limitano ad
accusare ricevuta, dalla Corsica si ordina di attaccare i tedeschi ad ogni costo.
Questa è, a quel punto, anche la decisione del gen. Basso, che soltanto la sera del 12 ha
finalmente capito il senso della Memoria O.P. 44, anche perché ha ricevuto l’ordine
«5V» che dice: «Urge attuare con massima decisione la memoria 44, facendo fuori
rapidamente comando e reparti tedeschi che si trovino ovunque in Sardegna et Corsica
alt a tale scopo si rende indispensabile impedire passaggio 90.ma divisione dall’una
all’altra isola». Ma Basso, in quel momento, era ancora a Sassari, dove inutilmente un
gruppo di antifascisti, capeggiati da G. Dessì, gli aveva chiesto che si dessero armi ai
civili per partecipare alla lotta contro i tedeschi. E intanto aveva fatto rispondere al
Comando Supremo che nessun attacco sarebbe stato possibile prima del 17, data nella
quale – guarda caso – sarebbero scaduti gli otto giorni di tempo assegnati a
Lungerhausen per portare i suoi uomini fuori dalla Sardegna.
Alle nove e trenta scoppia la battaglia. Per reagire a un gruppo di tedeschi che si è
impadronito di una motozattera italiana, la batteria di Punta Tegge apre il fuoco su di
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loro. Avegno porta i suoi fuori dalle caserme e punta sul comando, dove sono
prigionieri Bivonesi e l’ammiraglio Bona. Lo scontro dura cinque ore. Alle 17 i tedeschi
chiedono la tregua, con l’impegno di liberare Bivonesi e gli altri ufficiali. Ma 24
italiani sono già caduti in battaglia: fra questi, a Villa Bianca, cade il carabiniere
Giovanni Cotza, di Muravera; accanto a lui cade Avegno, colpito a morte da una raffica
di mitraglia – sarà decorato di medaglia d’oro al valor militare (VM) – al suo fianco
muore Veronesi, e, tra gli altri, cadono i sardi Giovanni Serra, caporale, di Aggius, e
Vittorio Murgia, caporalmaggiore, di Cagliari.
I tedeschi avevano avuto nella battaglia 8 morti. 46 i feriti fra gli italiani, 24 i feriti fra i
tedeschi: «questa giornata – ha scritto in un suo memoriale inedito un ufficiale medico
sardo che partecipò alla battaglia, Giommaria Dettori – assunse la fisionomia non di uno
scontro contro soldati, ma quella di una battaglia tra dei soldati e dei gruppi di insorti,
tanto la condotta finì per polarizzarsi sulla buona volontà e sull’entusiasmo dei singoli
in contrasto con la perfetta inquadratura delle truppe tedesche».
Nelle cupe giornate dell’8 settembre, anche in Sardegna, come ha scritto Dettori,
«l’unico sprazzo di luce sono loro: i morti, i poveri ragazzi che ho visto soffrire e morire
e di cui un ufficiale scrisse su un rapporto: il merito di quello che è stato fatto, almeno
di quello che ho visto, è tutto unicamente della gente che ha trovato da sé la strada della
dignità e dell’onore».
Il 15 l’ultimo tedesco lasciava La Maddalena. Il giorno prima, a Tempio, Basso e
Lungerhausen avevano pranzato insieme, ribadendo i termini del «contratto»
precedente: per quel «contratto» Basso sarebbe stato accusato di «omessa esecuzione di
incarico», arrestato nell’ottobre del 1944 e, dopo una lunga detenzione, assolto il 28
giugno del 1946 da un Tribunale militare.
Con i tedeschi avevano lasciato la Sardegna anche due compagnie della Nembo. Il
vice-capo di SM, il colonnello Alberto Bechi Luserna, che aveva tentato di opporsi alla
loro decisione di continuare la guerra a fianco degli «alleati», era stato ucciso presso
Macomer da un capitano delle compagnie «ribelli». Il suo corpo, portato via in un
sacco, fu gettato in mare nello stretto di Bonifacio. «Per qualche tempo dei paracadutisti
si vantarono di aver sparato sul colonnello ‘traditore’; altri cercarono poi di costruire
una versione dei fatti che scagionava i responsabili, a carico dei quali si intendeva aprire
un processo; altri, infine, si liberarono dallo sgomento di quelle giornate sarde andando
a combattere tra i partigiani» (F. Spanu Satta).
4. Ma per tanti altri sardi «la guerra continua» davvero. E continua da Roma in su,
continua in Grecia, in Jugoslavia, in Francia. Continua dovunque le vicende della guerra
hanno portato questi uomini che, lontani dalle loro case, alcuni anche nell’impossibilità
di tornare nell’isola pure vicina (come quelli che si troveranno a Roma o nel Lazio al
momento dell’armistizio), decidono per vie e motivazioni diverse ma tutte fortemente
sofferte di prendere le armi contro il nazifascismo.
È un drammatico intreccio di vicende, ognuna legata ad un destino particolare. La stessa
ricostruzione della partecipazione dei sardi alla lotta di liberazione deve molto alle
memorie dei protagonisti e soprattutto alle ricerche di Simone Sechi e al lavoro di Aldo
Borghesi sulle vicende della deportazione al lavoro ancora in corso presso l’Istituto
Sardo per la storia della Resistenza e dell’Autonomia di Sassari.
Tra questi uomini, portati da destini individuali a partecipare a una grande lotta di
popolo, si possono distinguere due generazioni, che nella maggior parte dei casi
corrispondono anche a due differenti categorie di motivazioni alla lotta: da una parte c’è
la generazione di coloro che avevano partecipato alla lotta contro il fascismo già nel
primo dopoguerra o durante gli anni Venti e Trenta; e accanto a loro vanno messi anche
uomini più giovani, che soprattutto nell’emigrazione hanno riconosciuto il volto
oppressivo della dittatura e hanno già fatto esperienza di confino, di carcere o guerra;
dall’altra c’è la generazione dei giovani, che sono stati allevati sotto il fascismo e che
dopo l’8 settembre, in condizioni spesso drammatiche, compiono una scelta di libertà,
sia che essa fosse già maturata precedentemente (come accade a molti di quelli,
fra
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loro, che guideranno, in diverse parti d’Italia, alcune formazioni della lotta partigiana)
sia che essa venga come conseguenza di un rifiuto quasi istintivo di continuare a
battersi sotto le bandiere del nazifascismo.
Della generazione degli «anziani» sono rappresentanti emblematici uomini come Lussu
e Fancello, ma anche come Stefano Siglienti (n. Sassari, 1898) che guidano a Roma,
dalle file del Pd’A, la lunga resistenza (la compagna di Lussu Joyce, col nome di
battaglia di Simonetta, passerà più volte le linee tedesche per tenere i contatti con il
governo ed i comandi militari del Regno del Sud).
Nella resistenza romana saranno attive altre donne, che combatteranno a fianco dei loro
mariti o dei loro figli: come Ines Berlinguer (n. Sassari, 1899), moglie di Stefano
Siglienti; come Bastianina Martini (n. Sassari, 1900), madre di Maria Musu e
«avversaria irreducibile del fascismo» (M. Berlinguer), che dopo la Liberazione sarebbe
stata chiamata a far parte della Consulta Nazionale per il Pd’A. Figure di donne
dell’antifascismo sardo il cui simbolo è forse nell’immagine d’un personaggio quasi
sconosciuto in Sardegna, simile a quello di una Niobe trafitta ed inflessibile, la
cagliaritana Antonietta Marturano Pintor, «mirabile figura di madre che ricorda ai
compagni la Madre di Gorkij» (A. Amendola), sempre presente a fianco dei suoi quattro
figli, inesauribili antagonisti del fascismo.
Ma ci sono militanti meno noti, ma anche non per questo meno rigorosi e decisi, che l’8
settembre fa uscire allo scoperto dopo la lunga cospirazione degli anni bui: uomini
come il medico Flavio Busonera (n. Oristano, 1894), tra i primi iscritti del PCd’I in
Sardegna, che partecipa alla resistenza nel territorio di Cavarzere e che, arrestato e
condannato, è impiccato a Padova il 17 agosto 1944; come il comunista Maurizio
Garino (n. Ploaghe, 1892), tecnico industriale a Torino, già sostenitore dei Consigli ai
tempi dell’«Ordine nuovo», che arrestato nell’ottobre 1944 avrà salva la vita grazie ad
uno scambio di prigionieri; come Bartolomeo Meloni (n. Cagliari, 1900), dirigente delle
Ferrovie dello Stato a Venezia, autore di una incredibile serie di azioni di sabotaggio
contro i treni che portano armi e rifornimenti alla Repubblica di Salò, che morirà a
Dachau; Raimondo Melis, operaio della Fiat, fucilato a Torino insieme col genero.
E ci sono combattenti di lunga data, che le vicende della guerra hanno riportato in Italia
e qui riprendono le armi: uomini colme il comunista Sisinnio Mocci (n. Villacidro,
1903), combattente in Spagna nelle Brigate Internazionali, deportato nel campo francese
Vernet e poi a Ventotene che, liberato dopo il 25 luglio, partecipa all’organizzazione
della resistenza romana e, catturato, sarà fra i martiri delle Ardeatine; o come Andrea
Scano (n. Santa Terea di Gallura, 1911), anch’egli comunista, espatriato
clandestinamente per andare a combattere in Spagna, rimpatriato dopo la fine della
guerra e che, liberato dal confino alla caduta del fascismo, sarà commissario politico dei
Gap genovesi e poi della 108.ma brigata Garibaldi nell’Alessandrino. (Altri «vecchi»
dell’emigrazione resteranno fuori d’Italia e parteciperanno alla resistenza in altri paesi
europei come Giacomo Parodo, n. Carloforte, 1919, fucilato a Bordeaux, e Francesco
Abbinante, di Cagliari, già combattente in Spagna). L’ex-popolare Gesumino Mastino
Del Rio (n. Ballao, 1899), comanderà a Turrita Tiberina una banda partigiana (sarà
decorato di medaglia d’argento al VM).
Ma esemplare della lenta emersione alla coscienza della libertà è la vicenda di un
gruppo di giovani soldati sardi (tutti poco più che ventenni), che è stata raccontata da
uno di loro, l’orgolese Luigi Podda. L’8 settembre Podda ha poco più di 19 anni,
soldato a Perugia. Con un gruppo di una sessantina di coetanei, tutti sardi, raggiunge
Civitavecchia per cercare un imbarco per la Sardegna: ma la parola d’ordine «tutti a
casa» è più difficile per chi deve anche passare il mare. I ragazzi si sbandano, dandosi
alla campagna tra Roma e Viterbo: in quell’ambiente naturalmente congeniale alle loro
abitudini, divisi in tre gruppi secondo i paesi di provenienza, attenderanno la fine della
guerra. Ma, braccati dai fascisti e dai tedeschi, sono costretti ad arruolarsi, a Roma, in
un battaglione di guardie della repubblica di Salò composto in gran parte di sardi e
comandato da due ufficiali anch’essi sardi, i colonnelli Barracu e Fronteddu. Trasportati
poi a Cremona e quindi a Trieste, nel gennaio del 1944 disertano per raggiungere i
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partigiani del «Battaglione triestino d’assalto» col quale combatteranno sino alla
liberazione. Molti di loro cadono in battaglia, i più maturi diventano capi-formazione. In
tutti, la solidarietà regionale agisce allo stesso modo in cui, su quelle stesse alture,
aveva agito nella Brigata «Sassari». Non è un’immagine retorica: «Vi comunichiamo –
scrive il capo di stato maggiore della Natisone al comando del 9° Korpus nel dicembre
del ’44 – che presso la 158.ma brigata si trova un forte gruppo di sardi, cioè nativi di
Sardegna. A noi consta che nella brigata Triestina esiste un nucleo di sardi che
desiderano passare alla 158.ma brigata, per formare un battaglione sardo. Dato che il
comandante della 158.ma brigata, compagno Moro (è Salvatore Bulla, n. Bultei, 1920),
è pure sardo, è ovvio spiegare il significato politico che avrebbe la formazione di un
battaglione sardo».
Più tragica la sorte di un gruppo di 17 giovani avieri sardi, sbandati anche loro, come il
gruppo di Podda, sulla strada di Civitavecchia. Rimasti insieme quando non erano
riusciti ad imbarcarsi per la Sardegna, vengono sorpresi a Sutri, il 17 novembre 1943, da
una «spedizione» di tedeschi e di fascisti e tutti fucilati, senza processo. Di 12 di loro si
conosce il nome: uno solo, Ferdinando Zuddas di Sardara, lasciato per morto sul terreno
e curato dalla popolazione del luogo, riuscirà a salvarsi.
Per altri, invece, il passaggio alla Resistenza è un evento immediato: la stessa urgenza
degli avvenimenti non lascia spazio che a decisioni rapide. Sono i casi di tutti coloro
che, in posizioni di comando o come semplici soldati, combattono nei reparti militari
che, subito dopo l'armistizio, non accettano di consegnare le armi o di passare nelle
formazioni repubblichine. Sono episodi innumerevoli: a Lero il capitano di fregata
Luigi Re, cagliaritano, comandante della difesa marittima dell’isola, parteciperà alla
lunga resistenza all’attacco tedesco e, dopo la resa, morirà in prigionia; il ten. col.
Raffaele Delogu viene fucilato, con altri nove sardi, nel massacro della «Acqui» a
Cefalonia; il colonnello Giovannino Biddau (n. Ploaghe, 1896), a Spalato con la
divisione «Bergamo», è fatto prigioniero e muore d’inedia a Flossemburg (è medaglia
d’argento alla memoria); il colonnello Paolo Tola, sassarese, morirà nel lager di Bergen
Belsen, dove era stato internato subito dopo l’8 settembre per avere rifiutato di
combattere con i tedeschi e la repubblica di Salò
Molti dei sardi che sono sotto le armi sono colti dall’armistizio in Jugoslavia, alcuni
anche in Grecia. La partecipazione dei sardi alla liberazione della Jugoslavia è un
capitolo ben preciso della storia della Repubblica federale: fra i 210 caduti della
divisione «Italia» molti sono sardi. Il loro contributo è stato riconosciuto dal Governo
jugoslavo, che ancora oggi ha rapporti con le associazioni italiane dei partigiani per
assegnare sempre nuove onorificenze (oltre le 6 medaglie d’argento e le 4 di bronzo
concesse dal governo italiano a combattenti sardi di Jugoslavia).
Nella penisola, uno dei centri in cui – anche qui per una presenza più folta connessa alle
esigenze della mobilitazione – è più intensa la partecipazione dei sardi alla resistenza è
Roma. Sardi sono presenti in molte formazioni partigiane che operano in città, e molti
di loro cadranno nella lotta: lo studente Mario Demartis (n. Sassari, 1920), tenente
pilota, catturato dai tedeschi a Grosseto l’8 settembre, evade, raggiunge Roma ed entra
nella banda «Hazon- Napoli»: arrestato e torturato a via Tasso, è fucilato a Forte
Bravetta il 3 giugno 1944; a Forte Bravetta era stato fucilato, il 31 dicembre 1943, il
comunista Antonio Feurra (n. Seneghe, 1898), piccolo venditore di ortofrutta a Roma,
ma che dopo l’8 settembre era diventato comandante militare dei Gap di Monte Sacro.
Nove sardi, detenuti a Regina Coeli, saranno tra i martiri delle Ardeatine: Gavino Luna
(n. Padria, 1895), che, impiegato civile al Ministero dell’Aeronautica, tiene informati i
comandi romani della Resistenza sui movimenti dei tedeschi; Salvatore Canalis (n,
Tula, 1908), professore, militante di «Giustizia e Libertà»; Pasquale Cocco (n. Sedilo,
1920), studente; Candido Manca (n. Dolianova, 1907), ufficiale dei carabinieri,
medaglia d’oro alla memoria (molti saranno i carabinieri sardi collegati alla lotta di
resistenza a Roma); Agostino Napoleone (n. Carloforte, 1918), sottotenente di vascello;
Gerardo Sergi (n. Portoscuso, 1918), sottotenente dei carabinieri, evaso da un vagone
piombato che lo trasportava in Germania, medaglia d’oro alla memoria; Giuseppe
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Medas (n. Narbolia, 1908), avvocato; e Sisinnio Mocci, già ricordato.
A Teramo, poco prima dell’avanzata alleata, i fascisti catturano un gruppo di partigiani
che fanno parte della banda di Armando Ammazzalorso: tra di loro c’è il giovanissimo
Elio De Cupis (n. Aggius, 1924), che si comporterà da eroe davanti al plotone
d’esecuzione (alla sua memoria è stata assegnata, nel 1980, la medaglia d’oro al VM).
Altri sardi sono presenti in molte formazioni in diverse regioni d’Italia: la divisione
«Coduri» in Liguria, la «Gramsci» in Valsesia, la «Bianconcini» nel Ravennate, la
Brigata Garibaldi «Lanciotti» in Toscana. Parecchi di loro hanno anche posizioni di
responsabilità, come Pietro Borrotzu (n. Orani, 1921), impiccato dai fascisti: alla sua
memoria viene intitolata una brigata di GL in Lunigiana; e come Gavino Cherchi
(Ittireddu), professore di liceo a Parma, fucilato dai tedeschi sulla riva del Po.
Il calcolo che si fa oggi è che i sardi che hanno partecipato alla Resistenza sono stati da
6500 a 7000. Solo in Piemonte ne sono stati contati oltre 550. I deportati politici in
Germania furono più di 200. Le fonti ufficiali dicono che nella Seconda guerra
mondiale la Sardegna ha avuto 3151 militari morti e 1970 dispersi.
Durante la guerra di Liberazione altri sardi moriranno combattendo nel Corpo Italiano
di Liberazione: tra loro, a Cingoli, il 14 luglio 1944, Giovanni Maria Simula (n. Ittiri,
1917), medaglia d’oro alla memoria.
Molti combattenti sardi nella lotta per la libertà sono stati insigniti di medaglie al valore
militare: 8 d’oro, 34 d’argento, 34 di bronzo.
Bibliografia
Oltre i due volumi dedicati a L’antifascismo in Sardegna a cura di Manlio Brigaglia,
Francesco Manconi, Antonello Mattone e Guido Melis, si citano qui di seguito,
nell’ordine, solo le opere richiamate nel testo: V. SPANO, Per l’unità del popolo sardo,
a cura di Antonello Mattone, Cagliari, Ed. Della Torre, 1978; A. MATTONE, Velio
Spano. Vita di un rivoluzionario di professione, Cagliari, Ed. Della Torre, 1978; M.
BRIGAGLIA, Emilio Lussu e “Giustizia e Libertà”, Cagliari, Ed. Della Torre, 1976; E.
LUSSU, Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di “Giustizia e Libertà”, Sassari, Ed.
Libreria Dessì, 1979; G. FOIS, Storia della Brigata Sassari, Sassari, 1981; L. NIEDDU,
Dal combattentismo al fascismo in Sardegna, Milano, 1979; F. FANCELLO, Il
Fascismo in Sardegna, in “Il Ponte”, a. VIII, n. 8-10, settembre-ottobre 1951; S.
SECHI, Dopoguerra e fascismo in Sardegna. Il movimento autonomistico nella crisi
dello Stato liberale (1918-1926), Torino, 1969; G. MELIS, I partiti operai in Sardegna
dal 1918 al 1926 in F. MANCONI, G. MELIS, G. PISU, Storia dei partiti popolari in
Sardegna 1890-1926, Roma, 1977; P. DETTORI, Ricordo del canonico Doranti, in
Scritti politici e discorsi autonomistici, a cura di P. Soddu, Sassari, 1976; G. MELIS,
Un episodio della propaganda clandestina del PCd’I in Sardegna negli anni del
fascismo, in “Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico”, n. 3,
1974; R. TURTAS (a cura di), “L’Ortobene” 1926-1976. Una voce per il Nuorese,
Nuoro, 1976; E. TOGNOTTI, Le campagne sarde nel regime fascista (1927-1939), in
“Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico, n. 8-10, 1977; F.
MANCONI, G. MELIS, Sardofascismo e cooperazione: il caso della Fedlac
(1924-1930), in “Archivio sardo del movimento operaio, contadino e autonomistico”,
1979, n. 8-10, pp 203 ss; G. FIORI, L’anarchico Schirru, condannato a morte per
l’intenzione di uccidere Mussolini, Milano, 1983; M. CONI e F. SERRA, La portaerei
del Mediterraneo. Storia e cronaca della Sardegna nella seconda guerra mondiale,
Cagliari, 1981; L. MARROCU, Aspetti dello “spirito pubblico” in Sardegna durante la
seconda guerra mondiale (1939-1943), in “Archivio sardo del movimento operaio,
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Storia e cronaca della Sardegna 1942-1946, Sassari, 1978; B. ANATRA (a cura di), La
marina e l’aviazione italiane di fronte all’armistizio, in R. ZANGRANDI, 1943: 25
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