aspetto storico-esistenziale - missionarie della Regalità di Cristo

Ospitare nella laicità.
OSPITARE…
“Ospitalità è oggi la nuova frontiera della relazione, l’humus che può favorire la
crescita di una nuova umanità. (…)
La grazia del Battesimo, sviluppa in noi quell’ospitalità per la quale siamo stati
creati.
La misura della nostra maturità coincide con la nostra disponibilità ospitale e di
conseguenza con la capacità di:
– vivere la consacrazione universale (…) chiamate a testimoniare il Vangelo
nella ferialità e nella marginalità;
– vivere la profezia della consacrazione secolare, rispondendo agli appelli
della storia, “standoci”, nella certezza che la Pasqua del Signore, che in essa
quotidianamente si rinnova, l’ha già salvata”.1
L’ospitalità la si comprende contemplando il mistero della Trinità, la relazione
d’amore tra le persone, relazione che dice totalità di dono, comunicazione,
movimento, ritmo diverso e armonia.
Il Dio trinitario, operante negli eventi salvifici, è anche il Dio della prima
origine, che ha dato e dà vita a tutte le cose. Tutta la creazione, quindi, si
rapporta innanzitutto a Dio Padre come a colui da cui tutto ha origine; al Figlio
incarnato, prima rivelazione della creazione; allo Spirito che unisce il Padre al
Figlio e che ci dice che, nel legame eterno della carità divina, tutto è stato
eternamente amato.
Nei due racconti della Creazione - Gen 1,1-2 e Gen 2,4 - emerge la
manifestazione di un Dio che mette ordine nel caos e dà origine a tutte le
creature, le sostiene nel percorso di vita e dà loro un senso.
Tutto ciò che esiste è sotto la signoria di Dio.
La narrazione insiste sulla bontà della creazione, “e vide che era cosa molto
buona”, cioè bella, con un senso, realtà aperta su Dio, nei confronti del quale
risponde con una relazione di obbedienza.
La Creazione dunque, realtà creaturale, terrena, quotidiana, è amata da Dio e
sostenuta con la sua Parola. Accanto alla signoria di Dio e alla bontà della
creazione, la narrazione afferma il primato dell’uomo, creato a immagine e
somiglianza di Dio, a cui è affidata la creazione “molto buona” e che si salva nel
mondo e con il mondo.
La laicità è strettamente legata a questa dipendenza del mondo da Dio, creatore
e ordinatore, per cui il mondo ha valore in quanto ha in sé delle regole di bontà,
immesse dal Creatore stesso. Il mondo visto quindi non solo come ambiente,
ecosistema, ma come opportunità di bene da scegliere, custodire e condividere.
1
Noi in formazione Speciale Assemblea, Documento Progettuale, pag. 124
Ospitare allora è accogliere, storicizzare, partecipare per dono e per grazia
all’ospitalità della Trinità ma anche della creazione e dell’uni-versalmente umano,
“molto buoni”, degni cioè di ammirazione e di benedizione perché in essi c’è il
senso immesso da Dio.
Quanto più tengo insieme nella mia vita la modalità dell’ospitalità, che è dono
di grazia, con il mio essere strutturalmente inserita nella laicità universale in
quanto creatura obbediente, tanto più sono laica: faccio cioè crescere in me uno
stile di sequela che dice relazione di condivisione, di solidarietà, di misericordia.
Questa prospettiva ci permette di ospitare nel nostro spazio ristretto tutta
l’intuizione e la passione di Dio per la creazione che si è storicizzata nel percorso
incarnazione-passione-morte-resurrezione-redenzione.
NELLA LAICITÀ.
Il termine “laicità” è, nel nostro contesto culturale e politico, una delle parole
più usate e abusate: tutti ne parlano, tutti dicono di voler essere laici (pensiamo
al dibattito sulla laicità dello stato di questi ultimi tempi), ma non si riesce a
capire bene cosa significhi effettivamente.
Si ritiene comunemente che “laico” sia derivato dal sostantivo laòs, popolo,
termine designante il popolo di Dio, in opposizione alle nazioni pagane. In seguito
è divenuto sinonimo di “profano”. Ma il termine laòs, sia nella Bibbia che nei testi
profani, assume anche il significato speciale di popolo distinto dai capi, sacerdoti,
profeti…
Riferendoci alla storia successiva al primo secolo, il termine laico ha designato
tutti i credenti che facevano parte del popolo di Dio, senza avere però un’altra
ulteriore qualifica di prete o vescovo, né occupavano delle cariche nella comunità
ecclesiastica. Questo significato per estensione è stato applicato in seguito a
coloro che non erano neanche membri della chiesa o che addirittura erano contro
la chiesa.
Oggi il termine “laico” è utilizzato per indicare un membro della società civile;
spesso indica separazione e contrapposizione, ma è derivato dall’uso che se ne
era fatto prima, come membro della Chiesa.
La laicità, anche come posizione di rivendicazione dell’autonomia delle cose
terrene, della ragione, della politica, dello Stato, affonda quindi le sue radici nella
civiltà cristiana perché nasce dalla scoperta che non c’è dualismo tra sacro e
profano, affermando che Dio lo si può trovare ovunque. Gesù si incarna in un
contesto di mondo rigorosamente profano.
Con il nome di “laici” si intendono “tutti i fedeli ad esclusione dei membri
dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito nella Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo
essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro
misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro
parte compiono nella chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo
cristiano. L’indole secolare è propria e peculiare dei laici”.
Il “luogo” di esistenza è la vita nel secolo: “cioè implicati in tutti e singoli doveri e
affari del mondo (…). Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a
modo di fermento, alla santificazione del mondo (...), a manifestare Cristo agli altri,
principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro
fede, della loro speranza e carità.
A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose
temporali (…),in modo che siano fatte e crescano e siano di lode al Creatore e
Redentore”.2
L'intensa stagione di riflessione teologica, svoltasi negli anni ottanta fino al
sinodo del 1987, aveva posto l'accento sulla laicità di tutta la Chiesa mentre
l'orientamento del Magistero è stato quello di riprendere, sia pure con una serie
di arricchimenti e di approfondimenti, la posizione conciliare, ritenuta degna,
soprattutto a proposito della questione dell'indole secolare dei laici, di essere
ancora riproposta.
Si registra pertanto una continuità col Magistero di Paolo VI. Già l’ Evangelii
Nuntiandi, in riferimento ai laici affermava:
«II loro compito primario e immediato non è l'istituzione e lo sviluppo della
comunità ecclesiale - che è il ruolo specifico dei pastori - ma è la messa in atto di
tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nel
mondo. Il campo proprio della loro attività evangelizzatrice è il mondo» 3.
Questa posizione è stata ripresa e sviluppata nella Christifideles Laici4,
documento nel quale - ribadita l'«indole secolare» di tutta la Chiesa, che «vive nel
mondo anche se non è del mondo» e la cui opera redentrice è rivolta non solo alla
salvezza escatologica, ma anche al «rinnovamento di tutto l'ordine temporale» - si
precisa che questa «indole secolare» si esprime «in forme diverse»5.
Di questa secolarità i laici sono partecipi con modalità loro proprie e peculiari,
in quanto il mondo è il luogo nel quale ricevono la chiamata di Dio:
«L'indole secolare del fedele laico non è quindi da definirsi solo in senso
sociologico, ma soprattutto in senso teologico. Il termine "secolare" va inteso alla
luce dell'atto creativo di Dio, che ha affidato il mondo agli uomini e alle donne,
perché essi partecipino all'opera della creazione, liberino il creato dall'influsso del
peccato e santifichino se stessi nel matrimonio e nella famiglia, nella professione di
fede e nelle varie attività sociali. (…) Pertanto la condizione dei fedeli nella Chiesa
(...) viene radicalmente definita dalla novità cristiana e individuata dal loro
carattere secolare»6.
2
3
4
5
6
Lumen Gentium, 31
PAOLO VI, Evangelii Nuntiandi, 8/12/1975 in «Insegnamenti» XIII (1975), n. 70, 1478.
Giovanni Paolo II, Christifideles Laici, 1988.
U. SARTORIO, Linee del dibattito sui laici nel postconcilio italiano, il «Sinodo ‘87» e la «Christifideles Laici» in
«Credere oggi» 81 3/1994,. 48-63.
ChL 15; Cfr. E. VIGANÒ, II significato della Christifideles Laici alle soglie del terzo millennio, in M. TOSO ed., Laici
per una nuova evangelizzazione, Torino 1990, 12.
Nei testi conciliari emerge che il laico, nella definizione che ne viene data, è
colui che è privo di qualcosa che altri hanno e che non ha una specifica
caratteristica, ma ne è cosciente; allora il laico è colui che, nell’ecclesiologia di
Comunione, è consapevole di non essere tutto, di avere dei limiti, colui che non
assolutizza le proprie posizioni, le proprie idee, la propria identità. C’è il pieno e
anche il vuoto nella laicità; ciò significa che il laico è capace di intendere il
confine tra se stesso e il mondo, non come una grande muraglia difensiva, ma
come un interessante luogo di incontro con altri che possono fornirgli delle
ricchezze.
Il laico è una persona capace di uscire fuori dal proprio confine perché sa che
oltre non c’è solo deserto ma vi può trovare qualcosa di prezioso. Sa che ascoltare
quello che viene da fuori non è inutile, può dirgli qualcosa, gli permette di
percepire il volto dell’altro per cui si pone in atteggiamento di ricerca.
Parlare di laicità significa allora interrogarci sulla responsabilità di tutti nella
vita e nella gestione della comunità, ma anche sul senso del mondo, della storia,
della convivenza, della politica, del lavoro. Il laico si definisce per la sua indole
secolare, per la sua piena assunzione della realtà mondana che ha leggi proprie.
E’ il valore della realtà mondana che dunque deve essere compreso e assunto dal
laico, in quanto dimora della presenza di Dio.
Già il popolo ebraico aveva fatto progressivamente esperienza che nel Tempio,
luogo sacro per eccellenza, abita un Dio molto interessato a ciò che succede fuori,
per cui, attraverso le proprie vicende, ha maturato lentamente la fede in Jahvè
come Dio della storia e della salvezza, che non è più prigioniero di un luogo sacro
specifico ma può incontrare l’uomo dovunque.
Anzi, per il pio israelita un luogo diventa sacro quando l’uomo, il popolo, vi fa
esperienza dell’incontro con Dio: “Certo il Signore era in questo luogo e io non lo
sapevo! (Gen 28, 10-19)”
Se la laicità è un valore, si tratta di favorirne la diffusione in tutti gli ambienti,
dentro e fuori la Chiesa. È chiaro che, proprio perché non si tratta di un
contenuto filosofico, ma di uno stile, ciò non varrà a mettere d’accordo posizioni
diverse e talora inconciliabili ma contribuirà sicuramente a stabilire un confronto
leale, senza demonizzazione alcuna.
Più alla radice, lasciarsi misurare dal criterio di una seria laicità può portare a
un riesame dei propri atteggiamenti mentali e pratici, contribuendo così a una
più adeguata definizione della propria identità.
Infine, se la laicità è un valore evangelico, confrontarsi con essa può costituire
un contributo teologico e spirituale di cui forse oggi la comunità cristiana ha
bisogno.
Nell’esperienza spirituale di Francesco la laicità è soprattutto sintesi e armonia
che non nascono da un moto spontaneo del cuore ma da un Sì incondizionato al
Padre, all’uomo e a tutta la creazione.
È la povertà come condivisione e spogliazione scelta da Cristo che lo induce a
sviluppare quegli atteggiamenti di profonda accoglienza del tutto che
costituiscono il suo stile missionario e la sua laicità.
Attraverso la sua esperienza Francesco diviene ponte, dialogo continuo tra
“cielo e terra”; intuisce che per essere segno profetico bisogna “uscire fuori” ma
nello stesso tempo “rimanere dentro”, condividere la storia dei poveri, parlare il
linguaggio degli uomini. Francesco ci insegna l’arte di raccogliere i frammenti
poveri dell’umano perché in ciascuno di essi c’è qualcosa di buono, nel
frammento c’è il tutto da riconoscere e valorizzare.
NELLA LAICITÀ DELLA FEDE.
Nello spirito della Perfectae Caritatis si dice che i laici consacrati tendono a
operare nel mondo per condurlo a essere Regno (e in questo caso non si
differenziano dal laico comune), ma con la loro testimonianza religiosa affermano
le leggi finali del Regno instaurato e non le intermedie della sua graduale
costruzione.
In un certo senso i laici consacrati mostrano la condizione finale mentre
curano la costruzione del mondo.
Più viviamo con radicalità i consigli evangelici tanto più viviamo la laicità; in
questo tempo caratterizzato dalla complessità, attraverso la fedeltà alla
consacrazione immettiamo nella storia un annuncio di speranza, frutto della
continua creazione che avviene nella Trinità.
In tutta la nostra vita siamo chiamate a non appropriarci dei doni ricevuti, ma a
restituire.
I consigli evangelici sono un dinamismo di restituzione attraverso cui
riconoscere che tutto riceve vita e senso da Dio; rappresentano il contenuto
storico, esistenziale del nostro modo di rapportarci a Dio, a noi stessi e a tutto il
creato.
Per noi è la modalità attraverso cui siamo chiamate a guardare a Gesù, alla
sua vita, quella meno conosciuta e per nulla appariscente, la vita di periferia,
dell’ordinario di Nazareth, non ben caratterizzata; Gesù attraverso la sua
presenza ha santificato la normalità, il lavoro, il processo naturale di crescita, le
relazioni, la convivenza, ogni marginalità.
I consigli evangelici sono la via per non perdere nulla di quello che ci è stato
donato, per non perdere il significato profondo della vita intesa come luogo che
evoca misteriosamente la presenza di Dio; dicono la precarietà della storia, che
facciamo nostra, per camminare insieme verso il mistero.
La storia di oggi, per molti versi fatta di barbarie, ci interpella ci costringe a
non rimanere neutrali, a fare delle scelte. Proprio in questa storia coltiviamo
insieme a tutta l’umanità il sogno di sempre: vivere relazioni interpersonali e
comunitarie solidali, non violente, all’insegna della giustizia e della fraternità.
La laicità nella comune fede ci chiama a condividere il cammino di tutti,
raccogliendo la fatica di chi non ce la fa e per questo maledice, per farne luogo di
benedizione, cioè di offerta. Diventare isole di benedizione significa per noi
restituire senso all’ordinario riconoscendo che in esso c’è bellezza di vita.
Questa è la laicità vissuta attraverso i consigli evangelici: dinamiche teologali,
risvolti esistenziali dei misteri divini partecipati a noi con il Battesimo.
“Ti è stato insegnato ciò che è buono, ciò che richiede il Signore da te: praticare la
giustizia (povertà), amare con tenerezza (castità), camminare umilmente con il tuo
Dio (obbedienza) (Mi 6, 6-8)”.
L’icona che possiamo contemplare è quella della regalità di Cristo che,
“obbediente fino alla morte e alla morte di croce”, condivide fino in fondo la
condizione umana ed effonde il dono della vita e dello Spirito su tutta l’umanità,
in particolare su quella sofferente, violata e crocifissa.
Tra i doni del Battesimo (Sacerdozio, Regalità e Profezia) quello della Regalità è,
in qualche modo, il più “laico”, perché fa parte della condizione esistenziale di
ogni uomo, a livello più o meno consapevole. E’ dono realmente universale,
generato dalla Pasqua di Cristo, che rende possibile ed attuale la “nuova
Creazione” nel segno dell’amore.
In questa contemplazione si può illuminare il senso profondo della nostra
chiamata:
<<Il nome “Missionarie della Regalità di Cristo” ricorda alle Missionarie il significato
della loro vocazione che le chiama a:
o Vivere nella libertà dei figli di Dio, vincendo, in se stesse, le seduzioni del
successo e del potere, per seguire Colui che ha scelto di regnare dalla croce;
o Perdere la vita per il regno di Dio, annunciando che Cristo è venuto a servire e
dare la vita per tutti;
o Essere, da donne laiche consacrate, “lievito di sapienza e testimoni di grazia” nel
cammino dell’umanità e della Chiesa, fino a quando Cristo sarà tutto in tutti.>>7
NELLA LAICITÀ DELLA VITA.
“La sfida di tutta la nostra vita è come rendere visibile Dio attraverso gesti di
libertà, di liberazione, di trasformazione che siano segni del compimento, della
parusia, del Regno, della gloria (…). Ciò accade se purifichiamo la nostra idea di
laicità immergendola nel mistero dell’incarnazione, facendola attraversare dalla
logica pasquale di morte e resurrezione, alimentandola al banchetto della
comunione trinitaria. Ciò accade quando si offre al mondo il perdono e la
riconciliazione (…).”8
7
8
Bozza nuove Costituzioni, art. 4.
Documento Progettuale, Noi in formazione Speciale Assemblea, 2006:127.
Quali percorsi per rendere visibile Dio attraverso la nostra laicità consacrata?
Quali cammini personali e comunitari per purificare la nostra idea di laicità?
Siamo chiamate a dire il nostro “Eccomi” quotidiano, libero, povero, intelligente,
consapevole, un Sì senza condizioni, collocate con fiducia nelle mani del vasaio
per essere plasmate.
Vivere il mio “Eccomi” feriale non è un’esperienza isolata e marginale, mi
garantisce che lo sto vivendo in tutti gli angoli del mondo e della storia, mi rende
cittadina del pianeta perché qui, nel mio “breve spazio”, sono fedele fino in fondo.
Il progetto che mi raggiunge ogni giorno mi dice che sono strutturata nella
natura per essere laica ospitale: tocco tutta la realtà creata e vi partecipo con la
specificità della consacrazione, ma laica ospitale per grazia.
“Eccomi” nell’essere dimora della Parola.
La Parola che ci viene donata ci raggiunge continuamente in diverse forme,
gesti, sorrisi, storie, volti, parole. Chiede di abitare in noi, di fare casa, vuole
entrare in contatto con tutte le nostre oscurità, domande, smarrimenti, ferite. Il
nostro “Sì”, come quello di Maria, ci rende feconde perché acconsentiamo a
lasciarci visitare.
“Eccomi” nell’accogliere “lo Spirito del Signore e la sua santa operazione”
dentro la storia universale dell’umanità come nella storia a me vicina, costituita
dall’insieme di relazioni, fatti, avvenimenti, fatiche, che formano il mio quotidiano.
Lì lo Spirito mi manifesta progressivamente il cammino, nella via della sequela.
“Eccomi” nella preghiera.
La preghiera, non vissuta come uno spazio residuale, sostanzia e sostiene la
nostra laicità. E’ lo spazio e il tempo in cui pongo a contatto la Parola di Dio
contenuta nella Scrittura con la Parola nel mio vissuto, in quello degli altri e nel
creato.
Acconsento dentro di me che la Parola visiti ogni parola per restituirla
trasformata, fecondata e pacificata. Mons. Rollando definisce la preghiera in tal
senso “terza cultura”, in quanto opera una vera e propria operazione culturale.
“Eccomi” nella dispersione.
È faticoso disperdersi tra le pieghe della storia: la tentazione è quella di stare
insieme a coloro che la pensano allo stesso modo, che hanno gli stessi gusti o che
parlano la stessa lingua.
È la logica della dispersione biblica che ci permette di entrare in contatto con la
diversità dei volti, ci fa vivere nel “frattempo” della storia.
Dispersi nel mondo, solidali con i compagni di viaggio.
La lettera A Diogneto esprime questa intuizione: invita i cristiani a non
disertare, a non estraniarsi dal mondo ma a restarvi immersi, ad amare ogni terra
straniera come fosse la propria patria e nello stesso tempo a considerarla non
definitiva per non accomodarsi troppo nelle logiche dell’umano.
“Eccomi” nel tessere relazioni significative.
In un contesto culturale caratterizzato dalla “virtualità e liquidità”, relazionarsi
non è solo una categoria evangelica, ma un’ esigenza profonda e un sogno
dell’umanità.
Non manca però la paura di legami troppo solidi. Per noi la relazione è una
delle voci più significative della laicità; è saper stare nella città rimanendo nelle
domande, tenendo insieme, senza separare, le molteplicità di risposte e
accogliendo la complessità del quotidiano.
Stare in relazione è il nostro sacrificio interiore, ci fa toccare la fatica e le
contraddizioni dei vissuti, ma ci aiuta a rileggere la nostra e altrui storia con
occhi sapienziali.
Ci fa scoprire in ogni avvenimento tratti di misericordia e di incarnazione, ci fa
recuperare e attraversare ogni aspetto dell’universalmente umano che ogni
creatura vivente coniuga da sempre.
“Eccomi” nel dialogo e nella mediazione.
La dispersione ci chiama al dialogo con la ricchezza delle pluralità; questo
implica la mediazione continua cioè la ricerca di valori comuni condivisi in cui
tutti possano riconoscere spazi di libertà e di realizzazione. La mediazione non è
compromesso, ma appartiene alla sfera dell’etica; biblicamente la possiamo
chiamare pazienza di Dio.
La mediazione, stile di vita, porta ad arretrare dalle proprie posizioni, a
giungere con l’altro a valori di bene da cui insieme ripartire, nella convinzione
che, se è vero che ogni uomo è sempre immagine e somiglianza di Dio, prima o
poi l’incontro e il dialogo è possibile su un valore condiviso.
“Eccomi nella pace”, che è la somma di tutti i beni messianici. E’ il frutto di
alleanze durature e sincere, a partire dall’Alleanza che Dio fa in Cristo, in vista
dell’unità di tutti coloro che Egli ama.
In virtù di questa unità e di questa alleanza, ciascuna di noi è chiamata a
vedere nell’altro una persona amata e perdonata, un volto in cui si riflette lo
splendore della Trinità.
“Eccomi” nella gratuità.
Oggi molti sottolineano l’importanza di coltivare una “spiritualità del gratuito”
laddove sembrano prevalere logiche di potere, di interesse e di denigrazione
dell’avversario (nella politica, nel mondo del lavoro…).
La potenza dell’agàpe, a partire dalla consapevo-lezza del limite creaturale,
rende la persona capace di scelte concrete di donazione che, in questi ambiti, si
rivelano profetiche della “regalità d’amore” che salva.
“Eccomi” nella minorità.
Dalla consapevolezza della propria finitudine creaturale, nasce l’atteggiamento
di chi sa di non possedere tutta la verità e di avere bisogno del frammento di
verità altrui; di chi non ha risposte per tutto ma sa porsi domande con tutti; di
chi è disposto a perdere pur di non cedere all’arroganza perché è certo che nulla
si impone, nemmeno ciò che si ritiene bene.
“Eccomi” nella comunità fraterna.
Ci siamo dette che “siamo corpo e non somma di individui” e che “la fedeltà al
carisma passa attraverso la comunità vocazionale”. 9
Guardando concretamente i nostri gruppi, la qualità delle nostre relazioni, lo
spessore in termini di fede della nostra vita comunitaria, il volto nuovo della
comunità, segnata dalle rughe dell’età che avanza e dalle ferite provocate dalla
poca comunione, ci chiediamo cosa vuol dire oggi, per ciascuna di noi e per la
comunità tutta, dire “eccomi”.
9
Documento Progettuale, Noi in formazione Speciale Assemblea, 2006: 129.