Diocesi di Piacenza-Bobbio Lettera del Vescovo Mons. Luciano Monari Una "Stanza" per la morte 19 maggio 2000 “Il Vescovo mons. Monari interviene sul dibattito dell’eutanasia, alimentato dai ripetuti articoli sul “Corriere della Sera”, l’ultimo martedì 15 maggio 2000, di Indro Montanelli. In questa lettera al settimanale “il nuovo giornale”, il Vescovo fa chiarezza sul problema della vita umana. Per Montanelli, ognuno deve decidere liberamente del proprio futuro. Per la visione cristiana, la vita è qualcosa di più “grande” e non è affatto una questione privata del singolo”. Nella “stanza” che tiene regolarmente sul Corriere della Sera Montanelli torna a parlare di eutanasia. Una stanza non offre certo la possibilità di esprimere una posizione articolata e motivata; ma proprio per questo vale la pena cercare di chiarire il discorso. Anzitutto la posizione di Montanelli. La persona umana – scrive il nostro – ha il diritto di morire (rinunciare alla vita) quando lo desidera; motivo: “Se uno è responsabile della propria vita, non vedo perché non dovrebbe essere responsabile della propria morte”. È questo, per Montanelli, un “principio semplice ed elementare” per il quale bisogna lottare. Perché lottare? Perché ad esso si oppone un “dogma retorico e vuoto”, quello della “sacralità” della vita (si deve intendere, mi pare “della vita umana”). La “vuotezza” di questo “dogma” è dimostrabile storicamente, dice Montanelli, perché la sua accettazione “non ha mai impedito, anzi ha trovato sempre il modo di giustificare come “sacri macelli” quelli compiuti con la benedizione delle chiese” (di quella cattolica così come delle altre). La “battaglia disperata” di Montanelli Da qui la conseguenza: l’eutanasia dovrebbe essere legalizzata; sarebbe giusto e ragionevole, rispettoso della libertà personale. Solo che, a questo punto, il realista Montanelli vede un ostacolo insormontabile; si tratta, dice, di una “battaglia disperata”. Perché? Anzitutto un’affermazione di base comparativista: “non l’hanno vinta nemmeno gli olandesi che sono sempre all’avanguardia in questo genere di cose”. Poi un ragionamento a fortiori: figurarsi se una scelta del genere può compiersi in Italia dove né la Legge, né il personale che serve la Legge brillano per intelligenza. Anzitutto la Legge in Italia “tende più a chiudere che ad aprire”; in secondo luogo la Magistratura (Montanelli parla del “personale che serve la Legge”) “rimette in libertà gli ergastolani, ma infligge ventidue anni di galera a un povero diavolo che, vedendo la moglie dibattersi nelle spire di un’interminabile agonia, le aveva strappato di bocca la canna dell’ossigeno con cui i medici cercavano di perpetuarla”. A questo punto non rimane che una conclusione sconsolata: “Questa è la nostra Giustizia. Che battaglia si può fare con essa?”. Che fare, dunque? Una soluzione c’è: quella di non sperare molto sulla dimensione giuridica dell’eutanasia e concentrarsi, invece, sulla dimensione della coscienza personale, “quello della coscienza del cittadino, e soprattutto dei medici”. A livello di coscienza dovrebbe essere evidente “il diritto dell’uomo a scegliere il quando e il come della propria morte e il dovere del medico di aiutarlo a congedarsi dalla vita quando questa sia diventata per lui una fonte soltanto di sofferenze e di umiliazioni morali”. Tre problemi da chiarire Ho cercato di esprimere nel modo più conciso le affermazioni di Montanelli e, ciononostante, ne è venuto un discorso lungo. Il fatto è che i problemi che Montanelli tocca sono tanti e il tentativo di chiarirli esige spazio. Proviamo a raccoglierne almeno alcuni: - è lecito a un uomo togliersi la vita? - in caso positivo: è lecito a un medico aiutare una persona che ha deciso di morire? Anzi, si può configurare un vero e proprio “dovere” morale a prestare questo aiuto? (Questa sembra essere la posizione di Montanelli che parla esattamente di “dovere” del medico). - il “principio della sacralità della vita” è davvero retorico e vuoto? Si vede bene che tutti questi interrogativi non possono essere trattati facilmente e brevemente. E proviamo a vedere perché. La vita non è una questione “privata” Sul suicidio. Il diritto al suicidio pare a Montanelli evidente; va da sé che l’uomo ha il diritto di scegliere il quando e il come della propria morte. È un principio semplice ed elementare. Davvero? Dice Montanelli che “se uno è responsabile della propria vita lo deve essere anche della propria morte”. Ma che cosa significa “responsabile”? che ciascuno ne può fare quello che vuole? O che ciascuno deve “rispondere” (da qui il termine “responsabile”) a qualcuno? Montanelli suppone evidentemente il primo signifıcato mentre è corretto solo il secondo. Perché? Anzitutto la vita non è un patrimonio che l’uomo possa guadagnare, comperare, vendere o regalare come vuole. La vita ci è “data”, ce la troviamo come un patrimonio confezionato e affidato a noi. Ma la nostra vita è costata qualcosa, anzi molto, a qualcun altro e non possiamo buttarla via a piacere. Il peso che un suicidio mette sulle spalle dei parenti (familiari, soprattutto, ma anche amici) è difficilmente valutabile. Nessuno può pensare che la sua vita sia qualcosa che riguarda solo lui. La vita di ogni uomo è inestricabilmente intrecciata con quella degli altri; volerla considerare a sé, come un valore sciolto da qualsiasi legame, è irragionevole. Certo, può dispiacere a qualcuno non essere padrone assoluto nemmeno della propria vita, ma questa, e solo questa, è la struttura dell’esistenza umana, piaccia o non piaccia. Il perché della sacralità umana Sul principio della sacralità della vita. A Montanelli proprio non va quest’idea di “sacralità”. Il motivo, immagino, è che la sente come clericale, lontana dalla laicità che Montanelli professa. In realtà, c’è una sacralità della vita umana che non ha niente a che fare con la Chiesa e nemmeno, di per sé, con religioni istituite. Vuole semplicemente dire che l’esistenza dell’uomo è per principio sottratta a qualsiasi manipolazione da parte di chicchessia. In altri termini: una volta che un uomo esiste, a nessuno è lecito porre condizioni alla sua esistenza; l’esistenza dell’uomo va semplicemente accettata e rispettata da tutti. Che poi questa sacralità sia fondata sulla rivelazione di Dio o su un patto originario che fonda la convivenza umana è cosa importante, ma che non altera il contenuto del principio stesso. Togliamo quel principio; cosa rimane? Che l’esistenza dell’uomo è un bene confrontabile con gli altri; in linea di principio, dunque, può accadere che qualcuno (singolo o società) giudichi l’esistenza di qualcun altro d’ostacolo al proprio bene e si senta quindi giustifıcato nel sopprimerla. Eutanasia di Stato: una società votata all’autodistruzione Montanelli considera “disperata” la battaglia per un riconoscimento giuridico dell’eutanasia e, incoerentemente, dà la colpa di questa chiusura irragionevole alla nostra ottusa Magistratura. Dico “incoerentemente” perché lui stesso ricorda che nemmeno in Olanda – il massimo del progresso in questi “diritti civili” – si è riusciti a far passare una legge permissiva. Il problema non dev’essere quindi nella Magistratura, ma nella difficoltà intrinseca di formulare una legge sull’eutanasia che appaia decente. Vediamo. Quando ammettere l’eutanasia? Semplicemente quando la persona la vuole? Non va: questo significherebbe ammettere in linea di principio la collaborazione al suicidio, mentre la società considera doveroso impedire il suicidio di qualsiasi persona. Accettare il diritto, anzi il dovere di favorire il suicidio di qualcuno significa per la società ammazzarsi da sé perché significa negare qualsiasi dovere del singolo verso la società stessa. Una società che andasse per questa strada minerebbe le basi stesse della sua esistenza; solo una società con un istinto invincibile di morte potrebbe pensarlo. Non è detto che una tale società non possa esistere, ma certo non potrebbe durare. Libertà di morire, a quali condizioni? Bisogna quindi che, accanto alla volontà della persona, ci siano anche motivazioni oggettive, come, ad esempio, malattia grave, dolorosa e invincibile o qualcosa del genere. Ma allora la legislazione deve definire quali condizioni sono sufficienti per permettere l’eutanasia e quali no. Questo equivale a definire quali sono le condizioni che definiscono una vita “degna di essere vissuta” e quali invece la possono rendere “vita non degna di essere vissuta”. Ma è possibile definire una cosa del genere? Supponiamo che una legge mi dica: “l’eutanasia diventa lecita quando si verificano queste x condizioni”. L’affermazione equivale a quest’altra: “quando si verificano queste x condizioni l’eutanasia è lecita”. Che cosa la rende lecita? Il verifıcarsi delle x condizioni? Ma allora quando si verifıcano queste x condizioni la vita diventa “non degna di essere vissuta”. Non c’è bisogno di spiegare quale tipo di società sorgerebbe quando fosse la legge a determinare le qualità che definiscono “da vivere” o “da non vivere” una vita. L’unica risposta potrebbe essere: l’eutanasia è resa lecita quando compaiono congiuntamente due elementi: certe condizioni oggettive di sofferenza grave e inguaribile e la volontà libera della persona. Potremmo, forse, spiegare così: “la vita è sempre degna di essere vissuta. In certi momenti, però, il peso (sofferenza o umiliazione) che la vita chiede a una particolare persona è tale che la società non se la sente più d’imporglielo e permette a qualcuno di aiutarlo a morire”. A questo punto diventa indispensabile definire “quale” peso (di sofferenza e di umiliazione) sia sufficiente perché la società si ritiri dal suo dovere di difendere l’esistenza di ogni persona umana. Ma è possibile una defınizione del genere? Non si corre il rischio di ricadere nella “libertà di morire” e quindi “liceità/dovere di far morire” con tutte le conseguenze che abbiamo ricordato? E se, quando si verificano certe condizioni, è lecito chiedere di morire, non ne verrà che a quelle medesime condizioni è lecito consigliare di morire, spingere a morire, far morire? che cosa può impedire di compiere questo passo, che sarebbe, evidentemente fatale? “Fatale” perché metterebbe in mano della società il diritto di vita o di morte sui cittadini. Insomma, una definizione giuridica del diritto di eutanasia è difficile e, in ogni modo, pericolosa per la società che rischia di distruggere i suoi stessi fondamenti. La “morte dolce” non è una terapia Ma non basta. Si dà per scontato che, in caso di eutanasia, il compito di attuarla spetterebbe ai medici. Perché mai? Non ci vogliono competenze particolari per far morire. Qualunque persona, con un minimo d’istruzione, sarebbe in grado di somministrare il farmaco/veleno necessario. Perché ci dovrebbe essere bisogno di un medico? Per testificare l’insopportabilità del dolore? Ma il medico può solo fare una diagnosi; la valutazione della soglia di dolore varia secondo le persone e non è certo il medico a dover diagnosticare la insopportabilità del dolore. Certo, si richiederebbe il “nulla osta” del medico che dica essere la malattia grave, irreversibile, dolorosa. Supposta questa certificazione, l’esecuzione dell’eutanasia potrebbe essere affidata a chiunque. Perché c’è bisogno del medico? Il fatto è che il medico serve a far passare l’eutanasia come una “terapia”; una terapia sui generis, certo, ma sempre una terapia. Dietro a questo comportamento si nasconde, mi pare, una “cattiva coscienza”: ci si rende conto che l’uccisione non può essere giustificata solo con la propria volontà e nemmeno con il dolore che si è costretti a sopportare. Se si riesce a fare passare l’eutanasia come terapia, tutto diventa più accettabile. Non si può essere responsabili a metà L‘unica soluzione, dice Montanelli, è quella di fare le cose secondo coscienza (in questo caso significa: secondo la volontà propria del malato che il medico accetta come giustiticazione sufficiente per far morire), disattendendo la legge. È un caso in cui Montanelli si dimostra “italiano” contro tutti i suoi desideri di pensare piuttosto come un gentleman inglese. Ma ciò che maggiormente preoccupa sono i passaggi illogici del ragionamento di Montanelli. Vuole difendere l’eutanasia e pone un principio (la responsabilità della persona sulla sua vita e quindi sulla sua morte) che giustifica non l’eutanasia ma l’aiuto al suicidio; critica una sentenza della Magistratura, ma in un caso che nessuna legge di eutanasia avrebbe potuto permettere (in ogni caso si richiede il consenso del paziente che nella fattispecie non c’era; o semplicemente Montanelli non lo menziona?). Tutta la forza della sua “stanza” è giocata sulla forza emotiva del richiamo alla responsabilità dell’uomo sulla sua vita. È un richiamo emotivo perché tocca una corda delicata del cuore umano, quella della libertà individuale, omettendo, scorrettamente, l’altro che invece tocca una corda scomoda, quello della responsabilità nel confronti degli altri e della società. Nello stesso modo è scorretto il rimando ai massacri non impediti dal principio della sacralità della vita. L’atteggiamento corretto richiede anzitutto di chiarire che cosa significhi esattamente il principio e poi vedere se, così interpretato, il principio sia utile o nocivo, logico o contraddittorio. Capisco che non si possono affrontare tutti questi interrogativi nello spazio di una “stanza”. Ma non c’è alternativa: o si riesce a dire qualcosa di sensato o è meglio tacere. Certi danni sono facili da procurare ma difficili da riparare. † Luciano Monari, vescovo