GALILEO GALILEI Galilei rompe l'integralismo della fede religiosa, ma solo nel rapporto che questa poneva con la natura. Non riesce a rompere lo stesso integralismo nell'ambito dell'etica, e tanto meno in quello della politica. Questo perché egli ha affrontato il problema scientifico sottovalutando quello filosofico. Oppure perché sapeva che nell'epoca controriformistica un affronto progressista della filosofia sarebbe stato più difficile da sostenere. Galilei era uno scienziato, non un filosofo, e assolutamente non era un politico. Naturalmente le sue concezioni scientifiche ebbero dei riflessi positivi sia sulla filosofia che sulla politica, ma non in Italia. In ogni caso, questo modo di fare "scienza" oggi è superato, poiché uno scienziato senza cognizioni etiche e filosofiche rischia facilmente di diventare un individuo pericoloso, soprattutto se è intellettualmente dotato. In sostanza Galilei indusse la chiesa ad adottare l'interpretazione allegorica o simbolico-figurata della Bibbia, specialmente per quei passi non confermati scientificamente. Egli non si preoccupò mai di elaborare una morale laica, né mai credette in un'oggettività non religiosa in materia di etica e di politica. Resta in tal senso significativo che di fronte a una religiosità autoritaria, come quella del cattolicesimo-romano, scienziati e filosofi del '500 e del '600 (nonché politici come il Machiavelli) si sentissero più indotti ad affermare l'inutilità della morale, piuttosto che il valore di una morale alternativa a quella dominante della chiesa. Probabilmente essi pensavano che in tal modo fosse loro più facile proseguire le ricerche e gli studi. Ma si può anche supporre che nell'ambito del cattolicesimo-romano, la morale religiosa, imposta colla forza, porta inevitabilmente (o comunque come tentativo di autodifesa) a non credere in alcun vero principio etico. Il carattere scientifico della scoperta di Galileo si basa esclusivamente sull'osservazione dei fenomeni naturali, ovvero sull'uso della matematica per interpretarli. Sotto questo aspetto, sarebbe bene che il suo metodo venisse studiato non solo nei manuali di filosofia, ma anche in quelli di fisica, matematica, astronomia ecc. Galilei è stato grande nell'affermare che le verità scientifiche sono possibili nella misura in cui sono verificabili o dimostrabili. A differenza di Popper e altri irrazionalisti come lui, Galilei credeva nel valore delle verità scientifiche, cioè nel nesso tra scienza e tecnica. Certo, gli si può rimproverare di non aver considerato la storia superiore alla scienza, o di non aver posto le basi per garantire un rispetto integrale delle leggi della natura, ovvero di aver voluto fare della scienza una disciplina completamente separata dall'etica, oppure di aver voluto considerare scientifico solo ciò che è misurabile quantitativamente. Ma non gli si può rimproverare l'idea che la conoscenza è più il frutto di una libera ricerca sperimentale che non l'acquisizione di una tradizione trasmessa pedissequamente con più o meno autorità. Questo anche se chi, per orgoglio, non volesse fare i conti con questa tradizione, sarebbe ancora più stupido di chi rinunciasse, per paura, alla ricerca personale. Il rischio della scienza galileiana resta comunque quello di ridurre tutto a "calcolo", anche ciò che per sua natura sfugge a un'interpretazione meccanicistica. In effetti, là dove è in gioco la libertà umana, difficilmente si possono applicare i principi dello sperimentalismo. La scienza galileiana vale soprattutto nei confronti della natura e, anche qui, sino a un certo punto, poiché occorre sempre una posizione pre-scientifica (filosofica, ontologica...) che sappia indicare i limiti aldilà dei quali la scienza non può andare. Altrimenti si finirà sempre col considerare la natura un elemento riducibile dall'atteggiamento scientifico a mero oggetto da sfruttare. La filosofia non può aspettare le conseguenze negative di tale approccio per sostenere la necessità di rispettare determinati limiti. 1 IL RAPPORTO CON LA NATURA Le "qualità primarie" per Galileo erano quelle che subivano una variazione quantitativa sistematica rispetto a una scala. Ciò in quanto egli era convinto che il libro della natura fosse scritto nel linguaggio matematico. Egli così eliminò le spiegazioni teleologiche o finalistiche di Aristotele. Lo fece, in verità, a ragion veduta, poiché non si può considerare la natura (a meno che non si sia degli "animisti") come un ente dotato di "ragione". Vi sono "leggi" di natura, ma non vi è un'"intelligenza" (Nous) della natura. Le leggi di natura sono meccaniche, necessarie, universali, valide entro limiti ben più stretti di quelli entro cui può muoversi l'intelligenza umana, la ragione, altrettanto universale, ma libera e volitiva, del genere umano. Il finalismo della natura non consiste in altro che nella propria conservazione equilibrata. O, se si preferisce, il suo fine supremo è l'uomo stesso, il quale però l'ha superata sul piano qualitativo, in quanto solo l'uomo è dotato di libertà. In questo senso resta semmai da spiegare come sia potuto accadere che da un ente strettamente determinato come la natura sia potuto nascere un elemento relativamente indeterminato come l'uomo. Galileo tuttavia umiliò il ruolo della natura subordinandolo nettamente alla volontà manipolatrice dell'uomo. L'uomo, con Galileo, cerca nella natura (e quindi nell'attività tecnico-scientifica) quella compensazione alle frustrazioni vissute in campo sociale. Vi è quindi un atteggiamento di "dominio". Ciò che Galileo non comprese è che anche nella natura esiste un finalismo, il cui obiettivo ultimo è la formazione del genere umano. L'uomo è il prodotto più alto, più consapevole, della natura. Da questa egli dipende, poiché essa lo precede, anche se, in virtù della propria libertà autocosciente, l'uomo può trascenderla. Galileo aveva ragione nel sostenere che una spiegazione scientifica non può avvalersi di asserzioni metafisiche, ma ebbe torto nel non voler sostituire alla metafisica di Aristotele il primato dell'uomo, quale vertice della natura. Galileo distrusse "l'uomo religioso" del MeDioevo e dell'epoca classica, sostituendolo con un uomo "laico e scientifico" individualista, che si serve della ricerca scientifica e dell'applicazione tecnica per sottomettere la natura, senza riconoscerle il valore oggettivito dell'alterità, cioè la sua differenza dai processi storici. Galileo avrebbe dovuto approfondire di più l'idea della stretta correlazione tra microcosmo e macrocosmo, l'idea che nell'essere umano si concentrano tutte le sostanze, le essenze, le energie e le forze dell'universo; l'idea che lo stuDio dell'uomo rappresenta la suprema sintesi di tutto lo stuDio dell'universo; l'idea che nell'universo non c'è nulla di più complesso, di più perfetto, di più armonico, di più infinito dell'essere umano... COPERNICO E GALILEI Spostato il centro del sistema planetario dalla terra al sole, si pensò che la concezione copernicana avrebbe fatto scomparire sia l'antropocentrismo che il finalismo del cosmo: perché? Per la semplice ragione che l'antropocentrismo veniva considerato (ingenuamente) non solo dal punto di vista etico ma anche da quello fisico. L'ingenuità non stava tanto nell'antropocentrismo quanto nel credere ch'esso avesse bisogno di un'immagine naturalistica corrispondente. Ancora non si era compresa la vera natura dell'antropocentrismo, cioè il fatto che l'uomo rappresenta il prodotto migliore dell'universo (del quale non conosciamo ancora né l'inizio né la fine). Chi ha eliminato l'antropocentrismo, basandosi sull'infinità dell'universo, è stato non meno ingenuo di chi l'aveva affermato basandosi sulla finitezza dell'universo. 2 L'antropocentrismo è il finalismo dell'universo. E' difficile pensare che l'universo sia nato perchè l'uomo fosse, però si può con ragionevolezza credere che l'universo era predisposto perché l'uomo fosse. Chi nega questo rischia di diventare indifferente alle sorti dell'umanità o almeno del nostro pianeta. Nell'universo non ci sono altri mondi abitati come il nostro. Il genere umano è un unicum straordinario: il che gli conferisce un enorme responsabilità. L'evoluzione della storia della scienza ha comunque dimostrato che l'antropocentrismo è inevitabile. Paradossalmente infatti, la rivoluzione copernicana, pur negando l'antropocentrismo religioso, lo ha riaffermato (malamente, si deve aggiungere) in sede scientifica, facendo dell'uomo il "dominatore" della natura (con la sua analisi quantitativa dei fenomeni e il suo meccanicismo). Solo oggi ci si sta rendendo conto che l'antropocentrismo non può essere affermato senza riconoscere il rapporto interdipendente tra uomo e natura. L'uomo è sì un prodotto della natura che ha superato la natura stessa, ma non l'ha superata sino al punto da poterne fare meno. Ci sono due modi corretti per avvicinarsi alla natura: contemplarne la maestosità senza operare alcuna vera indagine scientifica; fare questa indagine senza dimenticarne la maestosità. Ovvero servirsi della natura con mezzi limitati o con mezzi sofisticati. L'atteggiamento sbagliato è quello di chi -ignorante o scienziato che sia- ritiene che l'uomo possa fare della natura quello che vuole. Il mondo occidentale scelse lo stuDio scientifico della natura, ma non arrivò mai a contemplarla. Perchè? Per la semplice ragione che nel momento in cui l'Europa occidentale sviluppò l'esigenza di una tale indagine scientifica, dominava, sul piano socio-politico e culturale, una religione da tempo abituata a servirsi della forza nel rapporto con la realtà. SUL CONCETTO DI SCIENZA Sarebbe molto interessante cercare di capire se lo sviluppo della moderna tecnologia è strettamente legato a una concezione scientifica di "dominio" della natura, o se invece esso vi è legato come un effetto inevitabile alla sua causa. Se è vera la seconda ipotesi, allora dovremmo sostenere che in Grecia non si realizzò un elevato sviluppo tecnologico semplicemente perché, a partire da Parmenide, ma soprattutto col platonismo e l'aristotelismo, la metafisica assunse un ruolo egemone su tutte le altre scienze. Se invece è vera la prima ipotesi, allora dovremmo chiederci se può esistere un altro modo di fare scienza, che non sia violento, totalitario come quello borghese, cioè che sia equilibrato come quello greco, ma che non abbia, del mondo greco, la caratteristica ingenuità. A noi occorre una scienza oggettivamente fondata, non basata sull'intuito o sulla logica del sillogismo o sul concetto di evidenza. Noi avremmo bisogno di una scienza al servizio delle esigenze della collettività, una scienza cioè funzionale al bisogno (come lo era per l'uomo primitivo). Probabilmente la scienza totalizzante dell'epoca moderna è nata perché nei confronti del bisogno sociale, collettivo (che è l'unico a garantire la vera oggettività delle cose), vi era una sorta di pregiudizio o d'indifferenza colpevole: ad esso si preferiva anteporre il bisogno particolare, quello del singolo individuo o quello di particolari gruppi sociali, antagonistici alla collettività. Da qui forse è nata l'esigenza di cercare l'oggettività nella natura, attraverso la matematica, la fisica, ecc. L'oggettività più grande risiede nell'uomo, socialmente inteso: una scienza che non si preoccupa di affermare questa "evidenza", non serve a niente. L'origine della scienza moderna è, in questo senso, assai diversa da quella della scienza greca (pre-socratica). Nei confronti della realtà materiale, Cartesio, Galileo, Newton... non hanno mai avuto l'atteggiamento contemplativo dei greci. Non osservavano semplicemente per "capire" ma anche e soprattutto per "dominare" sulla terra. 3 O forse sarebbe meglio dire che anche nel mondo greco l'atteggiamento scientifico voleva essere quello del dominio della natura (esigenza dei ceti commerciali o imprenditoriali), e che a ciò si oppose l'atteggiamento contemplativo, ma astratto, perché metafisico, dei conservatori aristocratici: atteggiamento, questo, tutt'altro che disinteressato. I conservatori (che facevano professione di idealismo) forse ebbero la meglio sulla scienza perché questa non cercò una base popolare (di massa) su cui poggiare. Tornando ai nostri Cartesio, Galilei e Newton, non si ha timore d'affermare che per costoro (e per altri ancora) la natura andava percepita con sospetto e diffidenza, cioè come se fosse una realtà ingannevole per i sensi, per cui l'approccio scientifico doveva essere freddo e distaccato, appunto matematico. Ecco, questo atteggiamento era sicuramente assente nel mondo greco, che semmai poteva essere accusato del contrario, e cioè di essere troppo legato a una visione mitica o magica dell'universo. Fra i greci e Cartesio c'è di mezzo il cristianesimo, che ha abituato gli uomini (soprattutto quelli occidentali, col cattolicesimo latino) a considerarsi superiori alla natura e a guardare le cose con diffidenza, cioè a vedere in queste più il lato negativo che quello positivo. A partire da Cartesio, Bacone, Galilei... la natura viene "usata" per supplire a un'alienazione che l'uomo (borghese) vieve sul terreno sociale. Quest'uomo non si fida della natura perché anzitutto non si fida della realtà sociale in cui vive (caratterizzata dall'egemonia della religione cattolica). E' un uomo profondamente in crisi sul piano etico, e la natura sembra per lui avere la funzione di risolvere questa crisi esistenziale (che è poi storica, epocale, di una fase di transizione da una formazione sociale a un'altra). La natura si va progressivamente sostituendo, nelle filosofie di questi nuovi scienziati, alla tradizionale divinità religiosa. Tuttavia, l'atteggiamento con cui l'uomo borghese si accosta alla natura è non meno violento di quello che aveva l'uomo medievale (cattolico) nei confronti della divinità. Il bisogno d'interpretare in maniera così matematica la natura non è molto diverso dal bisogno che nel MeDioevo la Scolastica aveva d'interpretare razionalmente la volontà divina. La scienza borghese ha fondato l'ateismo borghese: pur avendo spezzato la fiducia dell'uomo nel Dio creatore, è stata costretta a riproporla, in forma laicizzata, a motivo del proprio individualismo. 4