Guida al colloquio del nuovo Esame di stato
© Edizioni Bruno Mondadori 1999
P 13. LA CRISI DELL’IO
La cultura dell’Ottocento è saldamente ancorata a una concezione forte dell’io, inteso
come sostanza razionale unitaria. Tale concezione si era formata gradualmente nel
corso dell’epoca moderna, ma nel XIX secolo compie un salto di qualità. Infatti mai
come in questo secolo il pensiero umano ha considerato tanto potente la sua
soggettività razionale, attribuendole-almeno in linea di principio-una pressoché
assoluta capacità di dominio: la piena autocoscienza di se stessa, il totale controllo
del corpo e dei suoi istinti e perfino la completa padronanza della realtà naturale
esterna.
Certo, già nel corso dell’Ottocento non erano mancate autorevoli voci
controcorrente, precorritrici della successiva evoluzione culturale, ma esse rimasero
non a caso isolate, incomprese e a volte perfino misconosciute fino all’ultimo
trentennio del secolo. È infatti solo durante la fin de siècle che l’immagine forte
dell’io comincia a sgretolarsi sotto i colpi della filosofia di Nietzsche e della
psicanalisi di Freud. Nella prima metà del Novecento, la crisi dell’io
esplode-simultaneamente a due guerre mondiali consecutive-diventando il nuovo
leitmotiv della cultura europea.
I PRECURSORI DELLA CRISI
La filosofia
La filosofia dell’Ottocento è dominata dall’idealismo e dal positivismo. Per quanto
antagoniste, queste due correnti filosofiche condividono un’equivalente concezione
assolutistica dell’io. Eppure, la filosofia ottocentesca comprende anche due grandi voci
controcorrente: Schopenhauer e Kierkegaard.
L’attacco di Arthur Schopenhauer (1788-1860) all’io assoluto, teorizzato dall’idealismo
tedesco e soprattutto da Friedrich Hegel (1770-1831), è frontale e radicalmente
distruttivo. Schopenhauer, ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1818) riduce
il soggetto umano a semplice appendice passiva di un principio metafisico, impersonale
e del tutto irrazionale: la volontà di vita. In questo modo si realizzano due effetti: 1) la
razionalità viene degradata a puro strumento dell’istinto di sopravvivenza, privandola di
qualsiasi rilevanza teoretica; 2) il libero agire del soggetto umano diviene un meccanico
e deterministico prodotto dei bisogni e delle pulsioni naturali in cui si manifesta la
volontà. Se è vero che in Schopenhauer è presente anche una valorizzazione dell’io-in
quanto capace di seguire un difficile cammino di liberazione dalla volontà-, è altrettanto
vero che l’obiettivo finale di questa liberazione è la rinuncia stessa all’io, il suo
annullamento nell’estasi.
Meno drastica, ma non meno incisiva, è la critica condotta all’io da Kierkegaard alla
metà del XIX secolo, quando il modello idealistico dell’io assoluto comincia a essere
soppiantato da quello scientista del positivismo. Innanzitutto Kierkegaard nega la
possibilità teorica e pratica di risolvere l’io individuale in un io collettivo
sopraindividuale, come lo Stato hegeliano o l’Umanità di Comte. Quindi, sulla base di
una rigorosa analisi del vissuto esistenziale, Kierkegaard mette a fuoco i limiti
insormontabili della soggettività individuale. Dal punto di vista della sua relazione con
il mondo esterno, l’io si trova costantemente di fronte alla possibilità di scegliere tra il
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bene e il male, con la consapevolezza del rischio di perdita e annientamento insito in
ogni scelta. Ancora più profondo e inscalfibile è però il limite che l’io incontra nel suo
rapporto con se stesso e che si manifesta nella disperazione.
 Vedi l’opera di Søren Kierkegaard (1813-1855) Il concetto dell’angoscia (1844), in cui, a
partire dalla tematica del peccato originale, il filosofo esplora la dimensione dell’angoscia e della
disperazione come costitutiva dell’essenza dell’uomo.
L’io infatti non può né essere pienamente se stesso, cioè realizzarsi compiutamente
come singola personalità, né essere diverso da se stesso, cioè tentare di mutare la sua
costituzione individuale, in quanto non è l’origine di se stesso, ma deriva da
qualcos’altro da sé. Solo nel rapporto di fede con Dio, inteso come assolutamente altro
dall’io, questo può trovare la sua realizzazione. Ma il rapporto di fede si fonda proprio
sul riconoscimento della radicale insufficienza dell’io.
La letteratura
Anche nella letteratura ottocentesca il tema della crisi della soggettività è prerogativa di
pochi. In particolare esso emerge in Giacomo Leopardi (1798-1837). Come per
Schopenhauer, anche per Leopardi l’uomo vive nell’inganno. Il principio misterioso e
imperscrutabile che ha originato il cosmo, da un lato, pone l’uomo in una condizione di
strutturale dolore, dall’altro, lo vincola alla vita suscitando in lui continue illusioni prive
di fondamento e destinate soltanto ad aggiungere alle altre sofferenze anche quella della
delusione e del pessimismo. Che la vita dell’uomo sia consegnata al dolore è per
Leopardi conseguenza di un conflitto costitutivo del suo stesso io, quello tra
l’infinitezza delle sue aspirazioni e la finitezza insuperabile delle sue possibilità di
realizzazione. L’uomo infatti non solo non è in grado di dominare la natura, ma è anzi
succube del suo dominio che lo limita, lo condiziona, la fa soffrire e può in ogni
momento annientarlo. L’unica possibilità di riscatto del soggetto umano sta per
Leopardi nella sua capacità di comprendere lucidamente la propria condizione,
rinunciando a ogni illusione. Ma ciò significa, paradossalmente, che la sola grandezza
dell’uomo consiste nel riconoscere la propria miseria, la propria insuperabile nullità. E
infatti l’unico vero rimedio alla sofferenza è per Leopardi la morte, cioè
l’annullamento dell’io.
 Vedi di Giacomo Leopardi il Canto notturno di un pastore errante per l’Asia (1831): in questo
canto il pastore, in cui si ritrova il poeta stesso, vaga in un’atmosfera irreale alla ricerca del senso
di vivere e nel tentativo di penetrarne il mistero. Ne Il tramonto della luna (1845) e A se stesso
(1835), la morte è cantata come unico rimedio al dolore della condizione umana.
L’ANNUNCIO DELLA CRISI
La storia
I presupposti storici della crisi della soggettività borghese emergono nell’ultimo
trentennio dell’Ottocento. Dal 1873 al 1896 l’economia europea fu colpita da una nuova
crisi di sovrapproduzione, che innescò enormi processi di ristrutturazione e
riconversione industriale: il fallimento delle piccole e medie imprese, la formazione di
monopoli e oligopoli-anche attraverso la costituzione di trust e cartelli-, l’aumento
dell’intensità del capitale e parallelamente delle dimensioni degli impianti industriali,
l’adozione del taylorismo, il peso maggiore del capitale finanziario nel controllo
azionario delle aziende furono processi che provocarono vasti rivolgimenti sociali non
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solo tra gli strati inferiori della società, ma anche all’interno della stessa borghesia,
provocando fenomeni di declassamento e diffondendo un senso di inquietudine,
insicurezza, precarietà. Ad aggravarlo si aggiunse poi l’esplosione della guerra
commerciale tra le economie nazionali in seguito all’adozione del protezionismo da
parte dei governi delle grandi potenze europee.
 Vedi sul manuale il capitolo dedicato alla “grande depressione” e alla Seconda rivoluzione
industriale.
Ma l’attacco più forte alla saldezza della coscienza borghese venne indubbiamente dal
movimento operaio in seguito al grande rafforzamento sia dei sindacati sia dei partiti
socialisti. L’episodio della Comune di Parigi del 1872 è il primo caso di rivoluzione
socialista della storia moderna. Nonostante i suoi indubbi limiti spaziali e temporali e il
suo fallimento finale, l’evento ebbe una forte valenza simbolica per la società
dell’epoca, aumentando l’inquietudine delle classi borghesi e alimentando la diffusione
del mito rivoluzionario tra le classi proletarie. Nel trentennio successivo si formarono i
grandi sindacati e i grandi partiti socialisti di ispirazione marxista in tutti i principali
paesi europei. Il culmine di questo processo di estensione delle organizzazioni del
movimento operaio fu la costituzione dell’Internazionale socialista nel 1891.
Schiacciata tra il potenziamento dell’alta borghesia da un lato e l’avanzata del
proletariato dall’altro, la piccola borghesia avvertì sempre più profondamente un forte
disagio sociale che a livello individuale si tradusse in crisi d’identità.
 Vedi sul manuale di storia il capitolo dedicato alla nascita e allo sviluppo dei partiti socialisti e
all’origine dei movimenti nazionalistici.
La letteratura
Nell’ambito letterario, la crisi della coscienza borghese ottocentesca si manifesta nel
vasto e diversificato movimento del decadentismo, che si sviluppò a cavallo dei secoli
XIX e XX. Per quanto riguarda il romanzo, un esempio emblematico è Il ritratto di
Dorian Gray di Oscar Wilde (1854-1900). La crisi dell’io borghese è particolarmente
evidente sia nella fuga del protagonista dalla dimensione sociale a favore di una vita
dedicata totalmente al piacere e alla sensazione sia nel suo programmatico
immoralismo, che lo porta ai crimini più efferati, sia soprattutto nel suicidio finale. Il
ritratto del protagonista è il simbolo evidente della sua coscienza, di cui cerca in ogni
modo di liberarsi. Ma è un progetto destinato al fallimento: nel momento in cui Dorian
Gray lo distrugge egli non fa altro che autodistruggersi.
Sempre nell’ambito del decadentismo, ma a livello poetico, è Giovanni Pascoli
(1855-1912) una delle più significative voci che esprimono la crisi della soggettività
razionale. Il poeta viene identificato da Pascoli con un “fanciullino”. Come tale egli
rifiuta la razionalità oggettiva dell’adulto e si affida a una sensibilità infantile che non
coglie le cose come sono, ma come le sente, in modo istintivo, immediato. Il poeta
diventa così un “veggente” capace di intendere il linguaggio simbolico delle cose,
sognando a occhi aperti, mettendo sullo stesso piano reale e irreale. Insomma Pascoli
chiama “fanciullino” ciò che il suo contemporaneo Freud denomina “inconscio” o “Es”,
e contrappone a una poesia dell’io cosciente, una poesia dell’inconscio.
Sul piano formale, la poetica del fanciullino si traduce in una rottura con la tradizione e
in una radicale innovazione linguistica. Se il poeta è un fanciullino, il linguaggio della
poesia deve essere quello del fanciullo. Questi percepisce la realtà in modo alogico,
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sconnesso, frammentario e dunque la poesia deve rinunciare alla sintassi per la paratassi
e per l’analogia. Anche il lessico deve essere quello fanciullesco, semplice, elementare,
dialettale, gergale, ricco di onomatopee. Il metro poetico, a sua volta, viene utilizzato
per esprimere cantilene e il verso viene spezzettato per dargli un andamento
singhiozzante.
Il rigetto dell’io non si manifesta dunque solo e tanto nel contenuto, ma soprattutto nella
forma. Il linguaggio di Pascoli è infatti quello onirico proprio dell’inconscio,
caratterizzato dall’autonomia e dalla superiorità del significante fonico rispetto al
significato logico.
 Vedi di Pascoli la prosa Il fanciullino (1897), in cui è espressa la sua poetica dell’inconscio, e la
poesia Dialogo, da Myricae (1891), importante come esempio sia del linguaggio pascoliano sia
della concezione visionaria e fanciullesca della natura.
La filosofia
Dopo gli annunci di Schopenhauer e Kierkegaard, la crisi dell’io giunge alla piena e
radicale consapevolezza-proprio negli stessi anni in cui nasceva il decadentismo-nella
filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900). Già implicita nell’esaltazione del
dionisiaco come superamento dell’io individuale nella fusione orgiastica con tutte le
cose, la critica di Nietzsche al soggetto si fa esplicita a partire dalle opere del cosiddetto
periodo illuministico, in particolare in Aurora (1881) e La gaia scienza (1882).
Mirando alla decostruzione della morale-nell’opera Genealogia della morale
(1887)-Nietzsche comincia con mettere in dubbio che l’io possa avere una coscienza
piena del significato delle sue azioni per arrivare a negare la libertà del volere. Già in
questa fase emerge la tesi-di origine schopenhaueriana-secondo la quale il
comportamento umano dipende da un istinto di conservazione che sfugge al controllo
conoscitivo e pratico dell’io. Ridotto a una funzione di tale istinto, l’io perde non solo il
suo carattere di sostanza, ma anche quello di unità: l’io, sostiene Nietzsche, è solo un
palcoscenico sul quale si agita disordinatamente una molteplicità di impulsi e di
motivazioni.
Successivamente, Nietzsche chiarisce che l’io nasce e si forma per il bisogno di
comunicazione legato alla condizione sociale. La coscienza è una funzione dei rapporti
sociali, in particolare dell’ordine gerarchico che controlla la società. Ma è soprattutto
nell’ultima fase della sua produzione filosofica che Nietzsche sferra un attacco radicale
all’io, sostenendo che è perfino del tutto infondato considerarlo la causa dei pensieri in
quanto ogni pensiero nasce in modo del tutto indipendente dalla coscienza individuale.
Bisogna pertanto sostituire l’espressione “io penso” con “esso pensa” e addirittura si
dovrebbe eliminare lo stesso “esso” in quanto contiene pur sempre una forma di
razionalizzazione di un processo che per principio sfugge alla razionalità.
 Vedi in particolare Così parlò Zarathustra (1883-1885), opera nella quale Nietzche espone la
dottrina dell’eterno ritorno dell’eguale: ogni cosa è già esistita ed esisterà indefinitamente. L’idea
abissale dell’eterno ritorno fa cadere ogni possibilità di orientarsi nel tempo rispetto a scopi e
princìpi assoluti.
Può sembrare un clamoroso paradosso culturale che pochi anni dopo Sigmund Freud
(1856-1939) arrivi alle stesse tesi di Nietzsche non solo senza mai averne letto-per
scelta intenzionale-le opere ma addirittura partendo da presupposti culturali antitetici e
cioè da una cultura positivista e da una formazione medica. In realtà è un segno evidente
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che la crisi dell’io era ormai un fenomeno epocale, l’espressione di una situazione
storico-culturale. Freud conferma e approfondisce su un piano scientifico le intuizioni
filosofiche di Schopenhauer e Nietzsche sulla dipendenza dell’io da un principio
istintivo, inconscio e irrazionale. Tale principio è da Freud denominato Es-l’“esso” di
cui aveva già parlato Nietzsche-e caratterizzato come libido inconscia, cioè come
un’energia sessuale polimorfa che agisce al di fuori della consapevolezza e del controllo
dell’io. Freud afferma infatti esplicitamente che “l’Io non è più padrone nemmeno in
casa propria". In questo modo, secondo lui, la psicoanalisi ha inferto una terza e più
profonda ferita narcisistica alla coscienza umana, dopo quelle dell’eliocentrismo di
Copernico e dell’evoluzionismo di Darwin. Se Copernico aveva infranto la credenza
nella centralità cosmica dell’uomo come abitante della Terra e Darwin quella della
superiorità della specie umana rispetto al mondo naturale, Freud ritiene di aver
abbattuto la credenza nel dominio dell’io cosciente sul comportamento dell’uomo.
 Vedi, in particolare, di Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), opera in cui l’autore
identifica i sogni come “via regia” per mettere in rilievo i contenuti dell’inconscio e le sue strutture
profonde.
L’arte
Un grande interprete della crisi dell’io tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento fu
il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944), esponente della corrente esistenziale
del movimento simbolista e precursore dell’espressionismo. Munch si ispirò alla
filosofia di Kierkegaard ed ha il merito di aver contribuito alla sua diffusione al di fuori
dei paesi scandinavi all’interno dei quali era rimasta confinata per tutto l’Ottecento. Nei
suoi quadri Munch esprime infatti i temi dell’esistenzialismo cristiano di Kierkegaard e
in particolare quelli dell’angoscia e della disperazione in quanto sentimenti che
manifestano la limitatezza e conflittualità interna dell’io.
 Vedi, in particolare, di Munch, il dipinto L’urlo (1893) e Ansietà (1894), in cui sono
rappresentati i temi kierkegaardiani dell’angoscia e della disperazione, sentimenti che manifestano
la limitatezza e la conflittualità interna dell’io.
L’ESPLOSIONE DELLA CRISI
La storia
La prima metà del Novecento è segnata da due catastrofiche guerre mondiali, dalla
Rivoluzione russa e dalla successiva guerra civile, dalla prima grande crisi economica di
livello mondiale, da conflitti sociali violenti che spesso sfociarono in tentativi
insurrezionali falliti o repressi, da genocidi tecnologicamente pianificati, da regimi
dittatoriali e totalitari diffusi che facevano della violenza sistematica uno strumento
quotidiano di governo. Gli effetti distruttivi di questi cruenti fenomeni storici toccarono
livelli mai prima raggiunti in così poco tempo sia in termini di vite umane sia in termini
di beni materiali. In questo contesto storico il mito ottocentesco di un io razionale
capace di esercitare un pieno dominio sugli istinti umani attraverso la morale e la
politica, e sulle forze della natura grazie alla scienza e alla tecnica si frantumò
definitivamente.
 Vedi sul manuale di storia i dati relativi alle vittime delle guerre mondiali, dell’Olocausto
ebraico, del genocidio degli armeni, della Rivoluzione russa, e alla situazione materiale e spirituale
dell’Europa alla fine della Seconda guerra mondiale.
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La filosofia
In ambito filosofico l’espressione più diretta e consapevole della crisi della civiltà
occidentale fu l’esistenzialismo. Al suo interno fu Jean Paul Sartre (1905-1980) a
teorizzare nel modo più radicale la crisi dell’io. Per Sartre “l’io non è un abitante della
coscienza”, in quanto l’io soggettivo è un elemento del mondo tanto quanto l’io di un
altro uomo. Ciò significa che l’io non è sostanza oppure autocoscienza, non è un ente
dotato di contenuti conoscitivi propri e di un’attività intuitiva interna, ma è letteralmente
negazione, nulla.
Sul piano pratico ciò significa che l’io, a differenza degli altri enti mondani, è libero.
L’angoscia è pertanto il sentimento costitutivo dell’io, in quanto esprime al contempo la
coscienza del suo nulla e della sua libertà incondizionata. Ma proprio perché fondata sul
nulla, la libertà umana è destinata a sfociare nel fallimento. L’io progetta sì di farsi Dio,
cioè di diventare fondamento di se stesso e del mondo, ma ciò è impossibile, perché l’io
dipende dal mondo, è solo possibilità di negare il mondo non di produrlo. Dunque,
conclude Sartre, “è la stessa cosa, in fondo, ubriacarsi in solitudine o condurre i popoli”,
tutte le imprese umane sono equivalenti e l’uomo è solo “una passione inutile”.
 Vedi, in particolare, di Sartre, L’essere e il nulla (1943), opera in cui emerge in modo netto
l’immagine di un soggetto che è solo coscienza del mondo esterno, un ente mondano in mezzo ad
altri. E tuttavia il soggetto, in quanto riflette qualcosa che non è coscienza, è di per sé nulla e
possiede un potere nullificante che consiste nel negare la realtà come puro dato per attribuirle i
propri significati.
La letteratura
Nel primo Novecento il tema della crisi dell’io è il leitmotiv dei grandi romanzi europei:
dall’Ulisse (1922) di James Joyce (1882-1941) al Processo (1925) di Franz Kafka
(1883-1924), da La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo (1861-1928) all’Uomo
senza qualità (1930) di Robert Musil (1880-1942). L’eroe del romanzo ottocentesco
diventa un anti-eroe, l’inetto, l’escluso, l’uomo senza qualità, e parallelamente avviene
una rivoluzione nella forma romanzesca: viene meno il narratore onnisciente, si impone
lo stream of consciousness ( lett. “flusso di coscienza”), la continuità spazio-temporale
viene disarticolata.
L’autore che, almeno sul piano del contenuto, ha forse espresso con più radicalità la
dissoluzione dell’io-e con largo anticipo sugli altri-è Luigi Pirandello (1867-1936), in
particolare nei due romanzi Il fu Mattia Pascal (1904) e Uno, nessuno e centomila
(1925). I personaggi di Pirandello sono uomini disgregati, dalla personalità alterata,
maniacale o schizoide, emblemi del caos dell’esistenza. Mattia Pascal è un caso di
sdoppiamento della personalità, ha abbandonato un io per costruirsene artificialmente
un altro, ma è destinato a rimanere spaccato tra il suo io passato e quello presente, senza
poter essere né l’uno né l’altro. Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno, nessuno e
centomila, scopre l’inconsistenza del proprio io, il suo essere un flusso di percezioni
mutevoli, un susseguirsi di frammenti in perenne mutamento. In altre parole il soggetto
si frantuma in una miriade di sensazione, si sfarina nelle cose che riflette, in un libro, in
un albero, in una nuvola.
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L’arte
Nelle arti figurative la crisi del soggetto razionale si manifesta soprattutto
nell’astrattismo, cioè nella corrente pittorica che rappresenta la più radicale innovazione
artistica del Novecento. In particolare ciò si evidenzia nella poetica di Kandinskij, il
fondatore dell’astrattismo. Per lui infatti lo scopo della pittura non è più quello di
imitare o trasfigurare la realtà esterna, ma è quello di rappresentare l’universo interiore
della psiche umana. Questa però non si configura come una coscienza razionale,
esprimibile in forme chiare e distinte, bensì-freudianamente-come un Es inconscio
contenente forze misteriose e irrazionali. Il ricorso alla pittura “astratta” è l’unico modo
per cogliere e riprodurre tali forze, il linguaggio astratto è il linguaggio dell’inconscio.
In questo modo l’astrattismo porta alle estreme conseguenze quella tendenza artistica a
valorizzare il significante a scapito del significato che è l’altra faccia-quella
formale-della crisi sostanziale della concezione ottocentesca dell’io.
 Vedi, di Vasilij Kandinskij (1866-1944), Primo acquerello astratto (1910), il dipinto che
inaugura l’astrattismo moderno e il suo tentativo di rappresentare linguaggio dell’inconscio, nel
quale linee, figure e forme non hanno più nessun legame con la rappresentazione naturalistica della
realtà.
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