dal manifesto di giovedì 10 ottobre, un'intervista a Zygmunt Bauman, uno dei più lucidi interpreti dei processi di globalizzazione... L'umanità segregata in una discarica «La decisione della guerra contro l'Iraq è già stata presa e gli Usa non ascolteranno le ragioni dell'Europa. Viviamo in un'epoca che passerà alla storia come un'era segnata dalla produzione inarrestabile di scarti umani. La globalizzazione esclude, mentre la flessibilità è lo strumento del capitale per garantire la sua libertà di movimento». Di BENEDETTO VECCHI Zygmunt Bauman è uno studioso riservato, che non ama le luci della ribalta. Ogni giorno, passa alcune ore a leggere attentamente i giornali, ma è restio nel parlare con i giornalisti. Eppure è proprio dall'analisi di alcuni articoli apparsi su un giornale inglese che prende l'avvio di uno dei suoi libri dedicati alla globalizzazione (Solitudine del cittadino globale, Feltrinelli). Anzi si può dire che le «conseguenze della globalizzazione nella vita delle persone» è diventato il suo rovello al quale ha dedicato gran parte della sua recente produzione teorica, da Dentro la globalizzazione (Laterza) a Voglia di comunità (Laterza), da La società dell'incertezza (Il Mulino) a Le sfide dell'etica (Feltrinelli) a La modernità liquida (Laterza) a La società individualizzata (Il Mulino). Polacco di origine ebraica, ha fatto parte di quel piccolo e innovatore gruppo di intellettuali che nel Sessantotto criticarono aspramente la gestione del potere da parte del partito comunista, schierandosi a fianco del movimento studentesco. Ma dopo la normalizzazione e l'ondata antisemita alimentata dal partito unico al potere, lasciò il paese e cominciò un breve pellegrinaggio, che lo ha portato prima in Israele e poi in Inghilterra, dove tutt'ora vive. Un autore prolifico, dunque. Riuscire ad avere un'intervista è un'operazione che comporta pazienza, anche perché Bauman preferisce i tempi lunghi della riflessione per elaborare risposte ai problemi globali che gli stanno a cuore. Così è accaduto che il primo contatto è avvenuto a Roma la scorsa primavera. Poi il dialogo è proseguito via e-mail per tutta l'estate per la sua esitazione a misurarsi con gli spazi, limitati, di una pagina di giornale e per ciò che accadeva nel mondo. I venti di guerra, la crisi della globalizzazione, il silenzio degli intellettuali: tutti elementi che Bauman sente come manifestazione di un Disagio della postmodernità, come recita il titolo di un suo libro uscito in questi giorni in Italia e pubblicato da Bruno Mondadori. (Nelle prossime settimane Raffaello Cortina ne manderà un altro alle stampe con il titolo Società, etica e politica). Dai rischi di guerra prende l'avvio l'intervista. La guerra contro l'Iraq sembra inevitabile. L'Europa non riesce ad affermare una posizione unitaria e autonoma dagli Stati uniti. Se sarà così, sarà difficile parlare di Europa nel prossimo futuro, perché se sarà guerra ridisegnerà il mondo dove gli Usa detteranno legge. Lei che ne pensa? Come Martin Woollacott ha giustamente osservato su The Guardian «il dibattito sull'Iraq è pleonastico – la decisone è stata presa», e «discutere se la guerra sia giusta o sbagliata non influenzerà gli americani». Possono ascoltare, se l'etichetta della diplomazia lo richiede, ma non terreanno in gran conto qualunque cosa dirà l'Europa. Credo che la scelta reale non sia quella, ampiamente urlata e strombazzata, tra l'unirsi alla frenesia del «Dio benedica l'America» o assumere un atteggiamento antiamericano. Ritengo che il vero dilemma - un dilemma vitale - che tutti noi abbiamo di fronte e dovremmo affrontare sia quello tra «Dio benedica l'America» e «Dio benedica l'umanità». Negli ultimi anni, i problemi posti dalla globalizzazione sono entrati nell'agenda politica mondiale grazie alle mobilitazioni di un variegato movimento sociale globale, il quale ha denunciato che esiste una redistribuzione feroce delle ricchezze. In sintesi, nella società individualizzata i rapporti di potere tra le classi, i gruppi sociali e tra il nord e il sud del mondo sono basati sulle diseguaglianze. E' d'accordo? Io stesso non saprei dirlo meglio. Il mondo però è diventato pieno, ma non è uno. Il nuovo mescolarsi di culture e forme di vita è un'altra illusione, frutto di generalizzazioni basate sull'esperienza della élite globale e forse anche funzionale alla sua esigenza di autostima e di comfort spirituale. In realtà, insieme al celebrato cosmopolitismo e all'ibridazione della élite affaristica e del sapere, che è planetaria e sempre più extraterritoriale, anche il nuovo pugnace tribalismo - che si traduce in un feroce territorialismo - è il prodotto principale di una globalizzazione priva di vincoli politici. Recentemente, lei ha affermato che viviamo in una «modernità liquida», dove la «rivoluzione» di consuetudini, modi di essere è la regola dominante: un mutamente incessante, senza soste che non consente di consolidare nuove istituzioni. Tutto ciò provoca, sempre per usare un suo termine, un disagio individuale e collettivo che agisce anch'esso come un caterpillar che tutto distrugge. Siamo quindi in una situazione dove è impossibile un'analisi della società? Si, al giorno d'oggi il cambiamento è una condizione permanente del pianeta, dei contesti locali, degli individui. I cambiamenti si susseguono e non possono più tendere a «soluzioni finali» o essere organizzati in serie coerenti. Inoltre, sono impossibili da prevedere, fortuiti. Così come è impossibile prevedere le loro conseguenze, per non parlare della possibilità di controllarle. Oggi questa è però una osservazione scontata. Ciò che non si comprende a sufficienza è che ogni sviluppo «creativo» porta con sé necessariamente una distruzione. Noi assomigliamo sempre di più agli abitanti di Leonia, una delle Città invisibili di Italo Calvino, i quali se qualcuno glielo chiedesse direbbero che la loro passione è «il godere delle cose nuove e diverse». Per la verità, ogni mattina la popolazione «indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparecchio». Ma ogni mattina «i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzatura» e qualcuno, guardando dall'esterno, si chiederebbe se la vera passione dei suoi abitanti non sia piuttosto «l'espellere, l'allontanare da sé, il mondarsi d'una ricorrente impurità». Dato che gli abitanti di Leonia eccellono nella loro caccia alle novità, «una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne». Mi chiedo se la moderna situazione non passerà alla storia, in primo luogo, come un gigantesco aumento della produzione di rifiuti. Parliamo infatti spesso di «spazzatura», degli scarti materiali che sporcano e avvelenano il nostro «ambiente». Ma la più prolifica e dolorosa delle innovazioni moderne sta emergendo dalla continua crescita di scarti umani. La produzione di scarti umani è stata particolarmente copiosa in due settori (ancora pienamente operativi e che lavorano a pieno regime) dell'industria moderna. Il primo settore riguarda la produzione e la riproduzione dell'ordine sociale. Qualunque modello di ordine sociale è selettivo, e richiede che si tagli via, si spunti, si segreghi, si separi o si asporti quelle parti della materia prima umana che sono inadatte al nuovo ordine. Il secondo settore dell'industria moderna noto per aver prodotto continuamente grandi scarti umani è il progresso economico, che richiede a sua volta lo smantellamento e l'annichilimento di un certo numero di modi e mezzi di integrare l'esistenza umana che non soddisfano standard predefiniti di produttività e redditività. Chi pratica forme di vita «svalutate» non può, di regola, essere inserito en masse nei nuovi modelli di attività economica. Questa produzione di «scarti» umani è stata comunque, per gran parte della storia moderna, depotenziata, neutralizzata o almeno mitigata grazie a un'altra moderna innovazione: l'industria dello smaltimento dei rifiuti. Questa industria ha prosperato grazie alla trasformazione di ampie parti del globo in immondezzai in cui confluiva tutto il «surplus» di umanità. La produzione di rifiuti umani procede quindi senza sosta, fino ai picchi dei nostri giorni dovuti ai processi della globalizzazione, ma è l'industria dello smaltimento dei rifiuti che si è trovata in gravi difficoltà a causa dell'impraticabilità dei modi di trattare gli scarti umani fin'ora inventati. A mio parere, dietro la confusione attuale c'è la crisi dell'industria dello smaltimento degli scarti umani. Lo rivela la disperata, sebbene largamente irrazionale e sbagliata, gestione della crisi scatenata dallo spettacolo dell'11 settembre. Lei è stato spesso accostato a Georg Simmel per la sua capacità di partire dall'analisi del manifestarsi di alcune abitudini e mentalità per fornire una lettura «generale» dei conflitti nella modernità. E' stato così per il fit-ness, è stato così per il turismo di massa. Uno degli approdi del suo lavoro di studioso è di cogliere la solitudine individuale in un mondo unificato, dove non c'è riparo alcuno. Ma è pur sempre una solitudine che si manifesta in aggressività verso l'«altro». Ricordo alcune sue pagine, molto belle, in cui racconta di mobilitazioni contro presunti pedofili in una piccola città inglese. Un'isteria che accompagna anche il razzismo strisciante che vediamo manifestarsi in molti paesi europei? Sono lusingato del suo paragone della mia opera a quella di Georg Simmel. Io cerco solo, sebbene con risultati alterni, di collegare le ansie popolari «localizzate» circa il «nemico alla porta» - che si tratti di un pedofilo, di un malintenzionato, di un molestatore, di mendicanti, di «stranieri» (con il terrorista come ultima aggiunta, particolarmente negli Usa) - alla marea crescente dei sentimenti razzisti, o più correttamente xenofobi, in Europa. Per parafrasare una nota frase, si può dire che uno spettro si aggira sul pianeta: lo spettro della xenofobia. Astio e sospetti tribali vecchi e nuovi, mai estinti o scongelati di fresco e riscaldati, si sono mescolati e saldati alla paura, tutta nuova, per la sicurezza distillata da incertezze e insicurezze vecchie e nuove dell'esistenza moderna. Le persone spaventate a morte da una misteriosa, inesplicabile precarietà dei loro destini e dalle nebbie globali che nascondono alla vista la loro prospettiva, cercano disperatamente i colpevoli delle tribolazioni e delle prove cui sono sottoposte. Le trovano, non sorprende, sotto il lampione più vicino, nel solo punto obbligatoriamente illuminato dalle forze della legge e dell'ordine: «sono i criminali a renderci insicuri, e sono gli estranei che causano il crimine»; e così «è con le retate, il carcere e la deportazione degli estranei che sarà ripristinata la sicurezza perduta o rubata». Lei considera il welfare state come una delle migliori «trovate» del capitalismo moderno. Sicurezza collettiva versus esplosione violenta della società; garanzie sociali come unico rimedio agli effetti distruttivi della mano invisibile del mercato. Ma anche questo sembra un retaggio del passato. Ulrick Beck parla di società del rischio. Seguendo il suo percorso intellettuale, si potrebbe parlare di una società del rischio altamente individualizzato. E' d'accordo? Lei ha di nuovo ragione. Penso che non ci sono, e non possono esserci, soluzioni individuali a problemi prodotti socialmente, così come non ci sono e non ci possono essere soluzioni locali a problemi creati globalmente. Una piccola digressione. Il capitale nomadico in cerca di mercati redditizi e di soste confortevoli, e le popolazioni sradicate, prive di territorio e vagabonde in cerca di lavoro, pane, acqua da bere o pace, sono solo due dei «problemi creati globalmente» che nessun potere locale ha le risorse per affrontare da solo, sebbene tali poteri debbano misurarsi con le loro conseguenze. La mobilità senza precedenti e virtualmente inarrestabile dei beni e delle finanze mondiali li pongono oltre la portata di qualunque potere locale - non solo municipale, ma anche nazionale. I poteri locali non possono fare molto per arrestare la distruzione di mezzi di sostentamento e la dilagante polarizzazione delle condizioni di vita, che mettono intere popolazioni in movimento e aggiungono sempre più vigore alle pressioni dei migranti; o per rallentare, per non dire interrompere, lo sfruttamento delle risorse naturali, l'inquinamento dell'aria e delle riserve idriche, gli effetti climatici legati ai gas dell'effetto serra o un consistente indebolimento dei legami umani, la crescente fragilità dei mezzi di sussistenza e la distruzione dei posti di lavoro. Quando gli amministratori di una città si sforzano in tutti i modi di rendere potabile l'acqua del rubinetto, vivibili le aree residenziali, di mettere scuole, ospedali e servizi sociali locali in grado di accogliere e assimilare i nuovi arrivati nella città e nel paese, di trovare lavoro ai disoccupati, placare l'irritazione crescente e l'ansia dei residenti della città, essi cercano (invano) di trovare soluzioni locali a problemi nati globalmente. Non potendo intervenire sull'incertezza in modo sostanziale, essi cercano di indirizzare la paura e la rabbia conseguenti verso oggetti che sono in grado di gestire, e che possono mostrare di poter gestire: fastidi come le minacce alla sicurezza delle persone e delle loro proprietà che vengono dai rapinatori, dai ladri di automobili, dai mendicanti, da chi compie reati sessuali, da stranieri, da «stranieri tra noi». Poco importa se queste minacce siano genuine o presunte, esse sono sovraccariche emozionalmente: dalla loro soluzione ci si aspetta più di quanto non siano in grado di dare. Allarmi antifurto, televisioni a circuito chiuso, più poliziotti in servizio, pene più dure e politiche di immigrazione più severe lasceranno le vere fonti di incertezza intatte, non dissiperanno le paure e non vinceranno l'ansietà. E così, qualunque cosa si faccia, la domanda di proteggere la sicurezza dei residenti urbani crescerà senza sosta, e gli amministratori della città, impossibilitati a fare molto altro, saranno disposti alla compiacenza... Un'altra parola chiave dei suoi studi è: precarietà. Si è precari nel rapporto di lavoro, nelle relazioni sentimentali, nelle forme di socialità. Prendiamo ad esempio la precarietà nei rapporti di lavoro. Si è precari alla luce di una richiesta sempre più pressante di mettere idee, inventiva, capacità relazionale nella propria mansione. Siamo così condannati a vivere una condizione paradossale: precari, ma creativi. E' questa la logica del «capitalismo flessibile»? La asimmetria di potere tra capitale e lavoro ha acquisito nella nostra epoca una dimensione completamente nuova. Nell'epoca «solida moderna» i boss delle imprese e i lavoratori potevano avere un controllo profondamente diverso sulla propria capacità di azione effettiva, ma entrambi erano «legati al terreno», erano cioè dipendenti dalla collaborazione con l'altra parte; nessuna delle due parti poteva semplicemente fare le valige e andarsene. Entrambi gli attori sapevano di essere destinati, in un modo o nell'altro, a restare in compagnia gli uni degli altri, a incontrarsi ancora il giorno dopo, il giorno dopo ancora, l'anno dopo. Quel «mutuo confinamento» generava ovviamente conflitto, ma produceva anche uno sforzo a negoziare un modus vivendi soddisfacente che rendeva la vita, magari una noiosa routine, ma prevedibile, suscettibile di una programmazione a lungo termine. Questo adesso è tutto finito. Inoltre, la asimmetria di potere tra capitale e lavoro non si manifesta soltanto nella ricchezza di pochi e nella la povertà dei molti, ma anche tra libertà di movimento e l'essere confinati in un posto. Il capitale è libero di abbandonare una località non abbastanza obbediente e servile, ma la grande maggioranza dei suoi dipendenti sono costretti a restare dove sono, non essendo i benvenuti in nessun altro posto. Non la meticolosa e odiosa supervisione e il controllo di ora in ora, ma la minaccia di andare via senza preavviso al primo segno di disobbedienza è oggi il fondamento della dominazione del capitale e il mezzo principale per ottenere la disciplina. La sicurezza del capitale si basa semplicemente sulla precarietà del lavoro. In queste circostanze, la «sussidiarietà» è diventata, accanto alla «flessibilità», l'espediente per fare del «buon management». I manager non hanno bisogno, né hanno voglia, di gestire. Ora sta agli uomini e alle donne che essi assumono dimostrare di meritare l'assunzione, farsi notare dal capo, farsi avanti con idee che riempiano le tasche degli azionisti, facciano vendere più prodotti, seducano un maggior numero di clienti e, allo stesso tempo, dimostrare la propria superiorità rispetto ad altri candidati per la stessa mansione. La «flessibilità» è un termine ingannevole: significa inflessibilità del capitale a negoziare e a fare compromessi. Di fronte a una descrizione senza appello della globalizzazione, lei sostiene che comunque una via d'uscita c'è. In sintesi, lei ripropone una riedizione, per quanto necessariamente aggiornata, del New Deal o del welfare state. Non le sembra che sia troppo poco rispetto alla diagnosi che lei stesso fa della «società individualizzata»? Non ci sono soluzioni locali per problemi generati globalmente. Se lei mi chiede come possiamo cambiare questo sviluppo, la mia risposta è: solo affrontando di petto la sfida principale del nostro tempo - ossia, il bisogno urgente di sottoporre gli attuali sfrenati, erratici, capricciosi processi di globalizzazione al controllo politico e alla legge. L'unica soluzione realistica, anche se lunga, consiste nello sviluppo di politiche planetarie e di un potere planetario in grado di regolare le forze economiche e di affrontare efficacemente i problemi planetari che tali forze, finché resteranno prive di regolamentazione, creeranno tutti i giorni. Gli stati-nazione erano le cornici istituzionali per la sicurezza collettiva contro la sventura individuale. Ma i loro governi, spogliati di una gran parte della loro passata sovranità, non riescono più a far quadrare i conti, né possono dissociarsi dalla mischia globale in cui devono essere attori obbedienti, col rischio altrimenti di «scoraggiare gli investitori» e di fronteggiare una bancarotta. La polarizzazione dilagante della nostra epoca ha le sue radici nel divorzio tra il potere e la politica; essa può essere arrestata o almeno alleviata a condizione di un nuovo matrimonio...