Salvatore Natoli, Parole della filosofia

Salvatore Natoli, Parole della filosofia. O dell’arte di meditare
Prefazione
Questo libro può essere considerato un lessico, un repertorio di voci o, per dirla con Adorno, una
terminologia filosofica. Certamente lo è, e per questo lo ritengo un libro di servizio, utile per coloro che
vogliono confrontarsi con le questioni antiche e nuove della filosofia: a suo modo un libro per tutti. In
realtà è un libro di teoria e, specificamente, è un fare filosofia attraverso le grandi parole della filosofia.
Credo che questo sia, oggi, uno dei modi migliori di filosofare. E dirò perché.
Da tempo, in filosofia non si vedono più grandi sistemi. Non solo in filosofia. E ciò non tanto perché
quelli che nel succedersi delle epoche sono stati elaborati si siano rivelati erronei o inefficaci – che anzi
si sono costituiti come grandi scenari di senso, talmente convincenti da apparire perfino necessari, sono
stati schemi di orientamento – ma perché la complessità del mondo si è talmente dilatata che nessun
sistema si rivela più capace di contenerla ed è destinato inevitabilmente a fallire. O a forzare e
impoverire il reale, che è ancora peggio. Né, allo stato delle cose, hanno ottenuto sorte migliore il
rizomatismo, il bricolage in vario modo praticato, la retorica del frammento. Sicché, nell’impossibilità
di fare sistema, siamo inevitabilmente condannati alla citazione della citazione, al commento, alla
parodia, alla contaminazione, che spesso viene praticata come alibi, come strategia d’aggiramento
innanzi a problemi di difficile soluzione. Siamo divenuti ormai tutti alessandrini? Non credo. Ritengo,
invece, che nell’inabissarsi delle grandi narrazioni, della filosofia siano rimaste superstiti le parole,
affioranti come isole nella corrente. Le parole sopravvivono ai sistemi perché vivono di loro stesse:
sono fuochi di memoria, segnali di trasmissione, transiti tra passato e presente, ancoraggi per evitare
derive, non certo approdi definitivi, ma porti sicuri nel mare aperto della verità.
Le parole, come è noto, sono sapienti di per sé e per questo, ogni volta, prima ancora di pronunciarle
bisognerebbe ascoltarle: come all’inizio. Infatti, non sono nostre, ma ci sono state donate, le abbiamo
apprese. Perché non suonino vane è necessario che non se ne perda l’eco profonda, che nel dirle si sia
ancora capaci di risentirle – quasi a trattenerle – per evitare che con il suono ne svanisca anche il senso.
La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia e per molti versi l’ha preparata: in essa, poi, le parole
sono maturate come frutti, si sono fissate in idee, si sono trasformate in concetti. Variamente definite,
hanno acquisito spessore e pur rimanendo le stesse nel corso del tempo sono divenute polisemiche, in
taluni casi anche equivoche. Una stratificazione di significati tutta da indagare. Le parole della filosofia,
come del resto tutte le parole, sono poi vincolate dalla logica del contesto, ma, ora, nell’attenuarsi dei
vincoli di tradizione hanno acquistato una loro singolare libertà perché nessuno ha più l’autorità di
sottoporle a una previa restrizione. Non si sono affatto sgravate del passato, ma sono più che mai
feconde in forza di quel passato: eccedono se stesse per un sovraccarico di storia che mettono a
disposizione senza ipoteche per la più ampia e libera interpretazione. Per fare una buona filosofia basta,
quindi, meditare sulle sue parole, seguirle nelle loro peripezie, procedere a una loro dilucidatio,
vincolarle di nuovo a più alti e differenziati livelli di definizione. Consapevoli, nel far questo, di
prendere decisioni su di esse, di fare, appunto, teoria.
Le parole, poi, sono depositi di sapienza, sono tradizione e perciò garanzia di continuità pur nella
variazione dei significati: certo, per investigare, scoprire, bisogna disfarsi del peso del passato, ma il già
noto se non costringe sostiene, rassicura, è piattaforma per il futuro, è possibilità di mettersi al riparo se
si perde la rotta e si fa naufragio. Il già trascorso non è mai interamente annientato, ma rimane vivo in
idea. D’altra parte, nessuna civiltà si è mai realizzata nel modo in cui si è rappresentata, ma la
rappresentazione che ognuna di esse ha dato di sé, si è fissata, si è mutata in modello e ha acquistato per
tal via un’indebita eternità. Non v’è dubbio che l’elaborazione di un modello è storicamente
occasionata – non nasce dal nulla –, ma un modello si muta, a suo modo, in qualcosa di sovrastorico e
perciò sempre da realizzare. Prendiamo per esempio una delle grandi matrici dell’Occidente: la Grecia.
Cos’è la Grecia? Il modello che i greci ebbero di sé fu la paideia: modello in gran parte ineseguito – la
storia, si sa, procede per deviazioni –, ma che ha permesso loro di immaginare quel che dovevano
essere, quel che voleva dire essere greci. La sagoma di una civiltà, il suo senso si è fissato in una
parola: paideia. La grecità non si risolve affatto in essa, i greci sono stati altro e di più, ma la paideia
come schema resta, e resta soprattutto come una delle parole della filosofia.
Ogni modello per definizione è sempre da realizzare: in quanto tale è qualcosa da portare a
compimento: storicamente inevaso è, per questo, suscettibile d’essere continuamente ripreso. Di qui i
nostoi ricorrenti, gli immancabili ritorni. Ma per stare ai greci, a essi non si torna, caso mai da essi si
riparte. È questo il rapporto che Nietzsche ha stabilito con loro. D’altra parte quante volte nella storia
dell’Occidente essi sono tornati, quante volte si è ripartiti da loro? Sono stati assimilati dal
cristianesimo, rimodulati dall’umanesimo; il Rinascimento li ha reinventati, ma, poi, sono riapparsi
neoclassici. Sono sempre gli stessi? L’onestà dei filologi non è stata sufficientemente forte da riscattarli
dal mito – ne ha, caso mai, prodotti di nuovi – e le recenti interpretazioni etnografiche e antropologiche
non hanno conferito loro maggiore verità. Ma la Grecia vera è tutte queste cose insieme: è una parola.
È, in particolare, una parola della filosofia che attraverso i greci si è cimentata e continua a cimentarsi
con la storia della verità, con la verità della storia, con la verità tout court. “La Grecia è caduta”,
scriveva Hölderlin, ma egli è la prova che questo non è affatto vero, è il documento vivente del come e
perché i greci, a loro modo, sono sempre di scena. Nel mio far filosofia ho ripreso, e molto, gli stilemi
degli antichi, ma non ho trascurato i modelli cristiani: li ho, però, valorizzati, per disegnare una forma
di vita e uno stile – l’etica del finito – valido per noi oggi. Il modello è di matrice greca e tuttavia non
più greco; di sicuro risente del cristianesimo senza essere affatto cristiano. E se ripropongo l’antico lo
faccio, come per altro da molti è stato fatto – basti pensare di recente all’ultimo Foucault –, per
sottoporre a critica il moderno, per non assumerlo come un’ovvietà, una sorta di feedback nella
convinzione, contro ogni evoluzionismo, che quel che nella storia ha corso non è di per sé il meglio che
sarebbe potuto accadere, e se nella storia qualcosa di grande fallisce ciò non costituisce una seria
obiezione contro di esso, ma indica come il mondo non ne è all’altezza, non è ancora maturo per esso.
E così il passato si fa “parola per il futuro”, si muta in utopia. Queste inversioni di direzione non sono
rare nella storia del pensiero e rivisitare le grandi parole della filosofia significa proprio questo:
riprendere fili spezzati, ricucire trame interrotte, tesserne di nuove, utilizzare un’ immane deposito di
sapienza per il futuro. Senza soggezione.
Ma fare filosofia rielaborando le sue grandi parole ci predispone a qualcosa d’altro e di più decisivo: ci
abitua a pensare filosoficamente tutte le parole, a ponderarle. Oggi non esiste più alcun divieto di
parola, tutti parlano, anche se spesso finiscono per dire le medesime cose. Ma quanti danno peso a quel
che dicono? Eppure le parole, per contare, dovrebbero avere peso. Ma come, quando, quanto pesano? E
perché? Non si può rispondere a queste domande se non ci si mette nelle condizioni di ponderare le
parole, di accertare quali significati intenzionano, come si formano i giudizi. Il linguaggio si ammala –
Wittgenstein lo aveva perfettamente compreso –; la filosofia dovrebbe esserne la terapia. Analizzare
l’impiantarsi delle categorie, considerarne gli spostamenti, le mutazioni semantiche, seguire le parole
nelle loro distorsioni e nei loro adattamenti è già rimedio, è conoscenza. Nel tempo della chiacchiera, in
un tempo mai come questo lontano dal silenzio, il lavoro sulle parole è esercizio teoretico, ma anche
azione morale: lavorare su di esse significa sottrarle all’equivoco, e questo lo si può fare se se ne
mostrano, appunto, gli usi equivoci, impropri. E tuttavia può capitare di imbattersi nella distorsione dei
“modi propri”, nella scomposizione dei canoni ordinari della comunicazione: tutto ciò merita una
particolare attenzione perché non è affatto detto che si tratti di patologie del linguaggio, di un uso
alterato dei termini, di un’improprietà dei concetti, ma, al contrario tutto ciò può essere spia
dell’impiantarsi di nuove funzioni semantiche, dell’emergere di riferimenti nuovi, può denotare il
prodursi di inedite dimensioni di senso. Capita che le parole non afferrino più la realtà, che esauriscano
il loro compito, che si logorino, e questo accade in modo particolare quando i sistemi, entro cui esse
sono abitualmente definite, custodite, protette, si disfano. E tuttavia proprio in queste emergenze le
parole non periscono, piuttosto migrano. Parole migranti, ma cariche di tutta la loro storia e perciò
esplosive, riserva illimitata di significati: antiche per concetti nuovi, nuove per riproporre temi antichi,
parole, infine, per tenere la rotta, zattere per transitare. Per quanto lo spazio-mondo sia divenuto fluido,
per quanto ci si muova in peregrinazioni senza meta, non esiste viaggio che non abbia inizio e non
conosca sosta. Da dove, per dove? Dove ci sono le parole. E lì, si tocca terra.
Questo è un libro fatto di parole, lavora su di esse: è nato da occasioni, raccoglie ricerche su temi e
problemi classici della filosofia, ma si è a mano a mano trasformato in frequentazione e meditazione di
parole antiche, immemorabili, che giungono dalla profondità del tempo e di cui vale la pena accertare
se si tratta di parole consunte o se, al contrario, è possibile usarle ancora, se categorie di pensiero sorte
in contesti storici ben definiti e ormai scomparsi possono essere reimpiantate nel presente e dar luogo a
nuove germinazioni. L’esercizio teorico che qui si pratica è di questo tipo. Cosa può voler dire, per
esempio, “avere misura” in un’epoca in cui la regolarità della natura – il suo ritmo – non dà più norma,
non obbliga, e nel contempo innanzi a noi si apre un universo senza confini, che non siamo affatto in
grado di dominare? Acosmismo? E fino a che punto è lecito avanzare, dove ci si deve fermare? La
mesote¯s degli antichi si ripropone qui in tutta la sua pregnanza e attualità – non sembra mai essere
venuta meno –; ma ci aiuta ad affrontare quel che è sul tappeto, ci aiuta a risolvere? Come darsi oggi
misura? Non è chiaro. Di sicuro, però, la dismisura è pericolo. In qualunque modo la si metta, il tema
non è aggirabile, misura resta la “parola” con cui misurarsi – è parola d’obbligo –, ma non è possibile
farlo se non ripensandola, per valutare se e perché non basta più, a quali modificazioni è necessario
sottoporla per utilizzarla o se non bisogna definitivamente accantonarla, attenderne un’altra per
nominare l’attuale stato del mondo.
Ripensare le parole, infine, vuol dire nutrire una singolare fedeltà al passato, ma tutt’altro che
antiquaria: al contrario, è un modo d’equipaggiarsi per non sporgersi sul futuro disarmati. In questa luce
si capisce perché quando parlo di Aristotele ne parlo come se mi sedesse accanto, e si capisce anche
perché Aristotele risulta spesso irrilevante: resta infatti lontano, le sue parole raramente divengono le
nostre. Per questo fare filosofia con le parole della filosofia finisce per essere anche un buon modo di
praticare la storia della filosofia. Originale non più di tanto, dal momento che a praticarla così ha
cominciato il suo primo storico – Aristotele – e Husserl, Heidegger, i più grandi tra i nostri
contemporanei non hanno smesso di fare lo stesso.
Questo libro in parte ripropone testi precedenti, altri li rielabora, ne aggiunge di nuovi e, come suo
tratto peculiare, ha quello d’essere composto per coppie. Ma coppie, perché? Certamente per indicare
delle opposizioni: attraverso la polarità, infatti, si fissano meglio i significati, dal contrasto emerge
meglio la differenza. La scelta ha, però, una sua più motivata e inusuale ragione ed è data dal fatto che
le parole non sono mai assolutamente opposte, ma tendono a slittare o a sovrapporsi: vi è qui un
impalpabile farsi altro dei concetti, al di là di ogni precisa intenzione, un improvviso trovarsi altrove.
Non solo complementarità, ma anche lo sfumare di una parola nell’altra, quasi una metamorfosi del
vero nel falso. Perdita del significato o permeabilità delle idee, ampliamento della gamma del senso? È
quanto questo libro suggerisce. L’opposizione fissa la differenza, il contrasto permette la mediazione –
dialettica o retorica che sia –, la modulazione trasforma.
Opposizioni/riverberi: il libro si struttura per coppie che, però, non sono affatto chiuse ma stanno tra
loro in catena, e per questo non è inusuale, nel dipanarsi dell’argomentazione, ritrovare gli stessi
concetti in coppie diverse. Evidentemente con una differente formulazione. D’altra parte, se si parla di
filosofia si parla di verità, ma la verità appare, certo, con sfumature diverse se si ragiona di essa come
“tema” della filosofia o la si considera in relazione all’apparenza. Eppure si tratta sempre di verità. E se
si parla di misura, si parla certo anche di legge, ma se ne parla in modo diverso se riferita all’uomo o a
Dio; e se si parla dello smisurato si parla di Dio, ma si parla di Dio se si parla anche del mondo. E così
avanti. Questo libro ha la forma di un lessico, ma sviluppa una trama, se si vuole ha la struttura di un
canone: temi e variazioni, per moto dritto e inverso, parole a specchio, un rispecchiarsi di parole. È un
gioco che dà spazio all’invenzione: la riserva di sapienza trattenuta nelle parole permette a ognuno di
filosofare da sé. Questo vuol dire fare filosofia con le parole della filosofia.