RTF - Biblioteca Italiana per i Ciechi

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IL BRAILLE IN CLASSE TRA PREGIUDIZIO E FORMAZIONE
LATITANTE
Sergio Basciani
Riterrei opportuno soffermarmi, nel ricordare e celebrare la grandiosità intuitiva del
sistema inventato da Louis Braille, su alcune considerazioni critiche che risultano essere
imprescindibili da un punto di vista pedagogico rispetto all'apprendimento del sistema Braille
ed ovviamente anche riguardo al suo insegnamento.
Mi preme porre brevemente l'accento sulla relazione che si stabilisce tra alcuni dei
diversi elementi presenti in un contesto di apprendimento: da un lato vi è il soggetto che
apprende un contenuto o un'abilità, in questo caso il Braille, trasferendovi tutto il proprio
vissuto; dall'altro vi è l'ambiente esterno, costituito da coloro che vivono vicino alla persona
che non vede; infine, vi è la didattica, ovvero quella fondamentale forma di mediazione che
avviene in tutti gli ambiti di riferimento della personalità (cognitivo, affettivo-relazionale e
motorio).
Tale delicato compito di mediazione è affidato da un lato ai genitori ed alla famiglia in
genere, dall'altro agli insegnanti, agli educatori, alla scuola.
L'attenzione di chi opera in tal senso viene a distribuirsi su questi aspetti, sia sulla
singola specificità degli stessi sia sulla loro relazione.
In riferimento a tali elementi spesso le difficoltà più significative non ineriscono al
bambino che apprende il Braille, nell'aspetto più tecnico-didattico, ma al modo in cui egli vive
tale apprendimento, come riflesso di conferma o meno della propria identità, del proprio
essere.
Non si dice nulla di nuovo in tal senso, tuttavia si rifocalizzano alcuni quadri: si pensi,
ad esempio, a quanti nuovi autori della pedagogia contemporanea rivolgano l'attenzione alla
scuola come ambiente d'apprendimento, come contesto allargato, in cui il risultato finale
dell'educazione è la derivante di variabili concomitanti.
Nel
considerare
l'apprendimento
del
Braille
e
del
pertinente
percorso
didattico-educativo necessario, è vincolante il riferimento al suddetto contesto, alla sua
idoneità ed alla sua funzionalità.
Le difficoltà ad entrare nella sfera emotivo-affettiva di bambini non vedenti, da parte
dei genitori e spesso anche da parte degli operatori di scuola, rappresentano un primo grande
ostacolo.
Afferma la Calligaris (2002) in un suo recente articolo: "... solo una famiglia che
accetta il proprio figlio nella sua specificità di minorato visivo con, tra altre specificità, quella
di leggere e scrivere in maniera diversa dalla norma, potrà crescere un bambino con il
desiderio ed il piacere di leggere e scrivere autonomamente".
Ovviamente tale considerazione, con i dovuti accorgimenti, è ancor più riferibile al
mondo della scuola ed a ciò che da essa ci si attende.
È purtroppo presente una disarmante cultura dell'integrazione, largamente diffusa,
nella quale vi è assenza di quella sensibilità ed attitudine alla mediazione, rappresentata,
come anello di congiunzione con la classe, dall'insegnante specializzato.
L'aspetto più caratteristico ed insolito di tale situazione è costituito dal fatto che per la
minorazione visiva la pedagogia del settore è ormai in grado di rispondere alla quasi totalità
delle domande e di avviare a soluzione i problemi legati alla letto-scrittura differenziata.
È facile scadere in una facile polemica sulla formazione degli insegnanti di sostegno,
basti ricordare che il sistema Braille, come le problematiche specifiche inerenti alla tipologia
della minorazione, non viene insegnato negli attuali corsi di specializzazione delle università;
l'apprendimento di questo sistema è rimandato ai così detti corsi di "alta qualificazione" di
ottanta ore.
E per coloro che non hanno avuto l'opportunità di cimentarsi nello studio del Braille?
Consentitemi di esprimere un pizzico di ironia e molta preoccupazione con le parole di
Ennio Flaiano, più inquietanti e significative di quanto non si ritenga comunemente: "Oggi
anche il cretino è specializzato".
E dobbiamo dargli pienamente ragione quando, sull'argomento in questione, ci capita
di ascoltare che l'attuale
formazione richiesta non prevede l'acquisizione dei linguaggi
specifici, se non nei citati corsi di alta qualificazione.
È critico F. Rocco (2002) circa l'assenza di forme di studio e di apprendimento dell'uso
dei sussidi didattici per la letto-scrittura Braille: "Le conseguenze sono facilmente
immaginabili: si immettono nella scuola insegnanti pressoché analfabeti dei sistemi speciali
che dovrebbero insegnare agli alunni disabili visivi".
Non possiamo che riconoscergli parole di verità quando lo stesso autore afferma che
nella scuola italiana permane al riguardo uno stato di sofferenza che non accenna a ridursi e
ciò anche a causa della figura dell'insegnante di sostegno che, senza propria colpa, ha
generalmente ricevuto nei corsi di specializzazione una formazione del tutto insufficiente.
Il fatto che non si sia di fronte ad una sterile polemica, bensì al cospetto di una
latitanza grave nella formazione del personale docente ed educativo da specializzare, ce lo
ricordano non orientamenti generali di pedagogia, e neanche la tiflopedagogia, ma recenti atti
giuridici.
Di fronte a tale preparazione ed organizzazione formativa e dinanzi allo specifico
contenuto dell'apprendimento-insegnamento della lettura e scrittura Braille è del tutto ovvio
che le reazioni in classe degli stessi docenti di sostegno siano maggiormente assimilabili a
quelle di chi non abbia avuto al riguardo alcuna formazione, ed è consequenziale rilevare una
prevalente reazione di smarrimento, di paura, di disagio di fronte a ciò che non si conosce,
con un atteggiamento di fuga possibile dal campo o di delega, di sospensione dell'impegno, di
razionalizzazioni pseudopedagogiche del non fatto, o di quello che è stato svolto in maniera
inadeguata, di negazione delle difficoltà incontrate e presenti.
Non a caso su tale problematica di formazione è stato posto l'accento da esperti e
pedagogisti che operano nei confronti delle diverse difficoltà, e vorrei ricordare al riguardo
alcune considerazioni di Vincenzo Bizzi (1997), quando riferisce che il danno che subisce un
bambino dalla deprivazione visiva in realtà è triplice:

il primo danno deriva dall'assenza di percezione visiva, con gli annessi rischi
d'impossibilità ad esprimere il proprio potenziale cognitivo, ed il sistema di lettura e
scrittura Braille rientra a pieno titolo in questo potenziale;

il secondo danno deriva dall'assenza di un ambiente educativo competente (anche perché
non formato) e sereno, in grado di compensare buona parte dei limiti indotti dalla cecità in
sé (anche qui il Braille si inserisce a pieno titolo come una componente fondamentale e
significativa dell'ambiente), dunque l'incompetenza educativa si configura come causa del
secondo danno, o secondo danno stesso;

il terzo danno, grave quanto il secondo, deriva dal fatto che spesso l'ambiente educativo,
incompetente nello specifico, si ritiene competente, manifesta cioè una presunzione di
competenza.
Tale atteggiamento può essere preso con convinzione dall'insegnante di
sostegno, oppure può subire, quest'ultimo, una delega tecnica da parte dei colleghi che vedono
in lui un esperto e lo inducono a svolgere un ruolo per cui non è formato.
In realtà le reazioni dei docenti disciplinari sono in gran parte comprensibili, in quanto
spesso essi vedono in questo linguaggio una elevata complessità, un argomento esoterico ad
alto contenuto di conoscenza e pertanto tale da richiedere, a sua volta, elevate competenze.
La registrazione di questo disagio ad avvicinare ed utilizzare funzionalmente il sistema
nasce, come sempre, da un'insufficiente conoscenza e da un'interpretazione soggettiva e
pregiudiziale, sostanzialmente condizionata da un accostamento emotivo alla difficoltà ed in
assenza di mediazione.
Mi capita a volte di leggere su articoli o testi di didattica specifica affermazioni circa
l'inutilità della diatriba riguardo all'uso del sistema Braille e comprendo come sia superflua
agli occhi di chi opera nel settore tale disputa: eppure, in molte circostanze, capita
frequentemente di dover ascoltare affermazioni allarmanti.
Antonio Quatraro ed Eliseo Ventura (1992) nel loro volume Il Braille: un altro modo
di leggere e di scrivere, affermano: "...capita molto spesso si assistere a ingiustificati ritardi
nella introduzione del sistema di lettura - scrittura Braille nel curriculum scolastico dei
bambini che non vedono, oppure capita di osservare come il bambino che non vede, certo a
causa di un sistema non congeniale alla vista e quindi di difficile uso per i vedenti, sia
deprivato di occasioni per scrivere e leggere". Gli stessi autori riferiscono così delle più
diffuse modalità di comportamento rinvenibili spesso nelle nostre aule al riguardo: l'uso del
registratore fin dalle prime classi della scuola elementare, il riferire compiti oralmente o
tramite scritti di compagni, con l'immancabile riferimento a qualche adulto che aiuti,
l'accontentarsi di elaborati orali anziché scritti, il far trascrivere in nero da un compagno o
dall'insegnante di sostegno il pensiero del ragazzo.
E continuano: "... ciò è controproducente per diversi motivi, si limita così la possibilità
di accedere autonomamente alla cultura scritta nel modo più idoneo", inoltre "... accedere
personalmente ad una fonte scritta significa poter fare a meno dell'aiuto e di qualsiasi
intermediazione".
A tal proposito questi autori definiscono le forme di accesso all'informazione ed alla
cultura scritta classificandole e distinguendole tra indirette (lettura a viva voce, lettura
mediante cassette registrate) e dirette (optacon, fonti informatizzate in forma acustica e tattile,
lettura mediante il Braille).
Tra le due scelte vi è una radicale differenza, non riconducibile solo ad un proficuo
discorso di autonomia strumentale ed intellettiva, ma connessa anche alle modalità percettive
di memorizzazione derivanti dalle diverse aree di sollecitazione corticale, che influiscono in
modo importante e differenziato, sullo sviluppo del linguaggio e su quello cognitivo.
Inoltre, e mi riferisco sempre alla attenta analisi riportata nel testo di Quatraro e
Ventura, è evidente come il Braille consenta quella libertà, tipica dei linguaggi lineari come lo
scritto, attraverso la quale è possibile soffermarsi, verificare, interrompere, riflettere, tornare
indietro, accelerare il ritmo, sospendere l'attività.
Chi ricorda il testo Come un romanzo di Daniel Pennac (1993) non avrà certamente
dimenticato la sua carta dei diritti del lettore e le considerazioni sulla necessità del "piacere"
della lettura, ovviamente di una lettura autonoma e libera.
E sono proprio queste caratteristiche ad incidere sugli aspetti motivazionali da un lato, ma
anche su quelli tecnici dall'altro: l'uso del Braille consente, infatti, di verificare in proprio
l'ortografia, la punteggiatura, la lunghezza del testo, la distribuzione sequenziale dei concetti, la
costruzione di mappe concettuali.
Ciò è impossibile se si ascolta una persona che legge, in quanto tale atteggiamento
rappresenta un modo di porsi differente rispetto ai concetti affrontati, passivo nella ricezione
delle informazioni, molto più condizionato e tale da rendere più labile il ricordo di ciò che si
ascolta.
D'altro canto il Braille non rappresenta solo uno strumento di apprendimento e di
approccio al sapere, ma anche un insostituibile strumento di comunicazione.
Cannao e Moretti (1982) assimilano la gravità dell'handicap alle potenzialità ed alle
possibilità di comunicazione, ritenendo tale gravità tanto minore quanto maggiori sono le
potenzialità e le forme del comunicare.
Il Braille, a tale riguardo, si pone come formidabile strumento comunicativo e pertanto
come efficace strumento per un'autentica integrazione scolastica: nello scritto il non vedente
può comunicare con la stampa in nero attraverso la mediazione informatica con gli altri,
questi potrebbero a loro volta comunicare con lui acquisendo la conoscenza del sistema
Braille.
Le possibilità comunicative sembrerebbero così quasi ridondanti, ma le diverse
configurazioni dialogiche esposte rappresentano in tal senso un miglioramento qualitativo
nell'ambito emotivo/affettivo, e quindi relazionale, della comunicazione.
L'aspetto comunicativo si pone come sostanziale nel rapporto con gli altri ed incide
radicalmente sulle modalità di relazione, sul contesto socio-affettivo e sulla rappresentazione
identitaria della persona.
Inevitabile risulta essere pertanto il collegamento al danno derivabile da una
sottostimata considerazione dell'importanza dello strumento e da un'assurda e disattesa
applicazione.
Ricorda al riguardo Salmeri (1992): "Il metodo Braille è conosciuto dalla cultura dei
normodotati come il sistema di scritti per ciechi, e non prevale invece il suo aspetto positivo,
per il quale rappresenta il canale privilegiato, l'unico veramente efficace, per conseguire una
piena e autentica integrazione, sociale e culturale".
È vero: "... l'apprendimento della lettura e scrittura pone la famiglia ed il bambino non
vedente in uno stato di angoscia, che espone inevitabilmente la propria diversità, messa a
nudo" (Quatraro e Ventura, 1992); è qui che si richiede lo spessore dell'intervento educativo,
che consiste nell'evidenziare le possibilità di comunicazione diversa come forma di
intelligenza, di creatività, di sereno arricchimento reciproco.
L'importanza dell'utilizzazione del Braille assume così un significato diverso, forse più
pieno all'interno delle strategie d'integrazione.
Le potenzialità del sistema e la sua valenza educativa fanno sì che esso divenga, per
antonomasia, simbolo della qualità dell'integrazione e del rispetto della persona, del suo
essere, delle sue aspirazioni profonde, e non soltanto una semplicistica acquisizione di
strumenti.
Il Braille non è una disciplina a sé stante, ma rappresenta un sistema di lettura e
scrittura; è dunque un particolare strumento la cui acquisizione è fonte di conoscenza, di
autonomia, di libertà di pensiero e di studio, di piacere estetico e di riflessione, di
comunicazione denotativa e connotativa, di conferma dell'essere uomo attraverso la
possibilità espressiva di un comune linguaggio simbolico, riconosciuto e letto dagli altri
uomini, vedenti e non vedenti.
All'interno di tali riferimenti non si rende solo necessario conoscere il linguaggio
Braille, bensì, ed ancor più, conoscere le modalità applicative e didattiche per l'insegnamentoapprendimento del sistema, che si diversificano in considerazione dello stadio evolutivo
della persona, del periodo d'insorgenza della condizione di deprivazione visiva oppure se in
rapporto all'eventuale uso del sistema da parte di persone normovedenti.
È opportuno ricordare che l'apprendimento del sistema nella sua segnografia e della
relativa didattica richiede tempo, pazienza, costanza applicativa, esercizio, creatività, ludicità,
come anche diversi ed importanti requisiti cognitivo-motori senza i quali il sistema è monco:
una buona educazione della mano, una corretta rappresentazione degli spazi, una buona
capacità di coordinazione motoria.
Rappresentano abilità, ma anche obiettivi di lunghi periodi educativi.
Bibliografia
Bizzi, V. (1997). Appunti sulle lezioni al Corso di Specializzazione di Chieti del
Provveditorato agli Studi. A.S. 1997/98.
Calligaris, E. (2002). “Il Braille nella scuola di oggi”. In: L'alfabeto Braille come
fondamento dell'emancipazione culturale e sociale dei ciechi. Monza: Biblioteca Italiana per i
Ciechi.
Cannao, M., Moretti, G. (1982). Il grave handicappato mentale. Roma: Armando.
Pennac, D. (1993). Come un romanzo. Milano: Feltrinelli.
Quatraro, A., Ventura, E. (1992). Il Braille: un altro modo di leggere e di scrivere.
Roma: Bulzoni.
Rocco, F. (2002). La disabilità visiva: le barriere dell'incompetenza. Roma: Anicia.
Salmeri, S. (1992). La minorazione visiva: consapevolezza della diversità e approccio
multimediale. Catania: CUECM.
Sergio Basciani, tiflopedagogista, docente di scuola primaria
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