TENDENZE STILISTICHE DELLA LETTERATURA DELLA PRIMA ETA’ IMPERIALE Tra la fine dell’età repubblicana e l’età imperiale la produzione di TRAGEDIE E COMMEDIE conosce una crisi progressiva. Non ci sono più grandi figure di poeti scenici, come nell’età arcaica, e il gusto degli spettatori sembra inclinare verso altri tipi di spettacoli. come il circo, l’arena, il mimo. Sembra quasi che gli autori preferiscano adattarsi loro alle preferenze del pubblico (sempre più vasto, sempre meno raffinato), piuttosto che impegnarsi a creare una nuova sensibilità teatrale. Al massimo. si cerca di mantenere in vita il repertorio ereditato dalla tradizione, in forme sempre più spettacolari e facilmente consumabili. Si continuarono a scrivere commedie e soprattutto tragedie anche durante il principato di Augusto e poi in età imperiale, ma l’ultima data certa dell’effettiva rappresentazione di una coturnata è il 29 a.C., anno in cui fu dato alle scene il Tieste di Lucio Vario Rufo. Più tardi, sotto l’imperatore Claudio, vi furono altre coturnate portate sulla scena: tra i nomi riportati dalle fonti ricordiamo quello di Publio Pomponio Secondo. A parte Vario e Pomponio. c’è ragione di credere che la produzione, mai completamente interrotta, di coturnate e palliate non fosse più destinata alla recitazione sulla scena, bensì a letture private o al massimo pubbliche. Questo nuovo tipo di comunicazione letteraria veniva detto recitatio, e pare che l’usanza di tali recitationes (di testi anche non teatrali) aperte al pubblico fosse stata inaugurata da Asinio Pollione, un uomo politico di notevole rilievo (console nel 40 a.C.) e autore tragico lui stesso. Alla lettura privata furono probabilmente destinate anche le tragedie giunteci sotto il nome di Seneca: solo dopo la morte di quest’ultimo è ipotizzabile, per alcune di esse, una lettura pubblica (o addirittura una messa in scena), in ogni caso lontano da Roma e dalla corte. Alla lettura - o a recite private di intrattenimento conviviale - furono poi destinate le non molte preteste di cui si ha notizia e pochissime palliate (. Quanto alla togata, essa ebbe cultori fino almeno al tempo di Giovenale. In epoca imperiale, la scelta di un testo da rappresentare era esclusivamente condizionata dalla sua potenziale spettacolarità: tragedie e commedie non venivano più rappresentate per intero, ma, come nei moderni recitals, da singoli attori - raramente erano più di uno - che interpretavano, cantando e danzando su musiche anche d’occasione, antologie di passi o arie celebri: famose le “selezioni” da Euripide e da altri autori ad opera dell’imperatore Nerone (Svetonio, Nerone 20, ci ricorda i temi principali: «Canace partoriente», «Oreste matricida», «Edipo cieco», «Ercole impazzito»). Allo stesso modo e per le stesse ragioni s’era iniziato già sotto Augusto a cantare e soprattutto danzare brani delle Bucoliche di Virgilio, o dell’Eneide (ad esempio un “Turno”), o anche delle opere non drammatiche di Ovidio. In questo clima di strumentalizzazione spettacolare della miglior poesia, il genere teatrale più diffuso era il MIMO. Spettacolo legato sin dalle origini ai toni schietti ma spesso alquanto pesanti della comicità popolare, in età augustea fu convertito quasi in pornografia da un greco d’Asia Minore. Filistione, e sotto Caligola giunse a esibire, a spettatori fanatici dell’arena gladiatoria, la vista raccapricciante di sangue autentico: nel Laureolo del mimografo Catullo, nel 4l d.C., la trama, imperniata sulla figura di un bandito condannato a morte, fu presa con troppo realismo dagli attori e il sangue inondò la scena; e ancor peggio si fece quarant’anni più tardi, all’inaugurazione del Colosseo (80 d.C.), quando l’attore che impersonava il bandito fu sostituito da un vero condannato a morte, che fu crocifisso direttamente sulla scena e fatto sbranare da un orso (vedi Marziale, De spectaculis VII). Ma la grande novità del mimo era stata e restava la presenza di donne sulla scena. A differenza del teatro letterario, affidato esclusivamente ad attori maschi, nel mimo le parti femminili erano interpretate da autentiche attrici: e questo conferiva al mimo tratti realistici anche nella franca esibizione del corpo femminile e nelle scene più sensuali ed erotiche: fin dalle origini era previsto uno spogliarello finale (denudatio mimarum). Un successo forse ancora maggiore arrise al PANTOMIMO, un particolare tipo di spettacolo mimico inventato nel 22 a.C. da Pilade di Cilicia, liberto di Augusto. e da Batillo di Alessandria, liberto di Mecenate. Un solo ballerino interpretava, accompagnato da un’orchestra di flauti e nacchere e con un particolare calzare a soffietto detto scabellum, tutte le parti previste, mentre un coro cantava il testo dell’azione. I libretti per pantomimo (fabulae salticae: su soggetti prevalentemente mitologici e d’argomento tragico) rendevano assai più delle composizioni drammatiche impegnate: Lucano lasciò incompiuta una coturnata sul tema di Medea, ma scrisse almeno quattordici libretti per pantomimo, e libri per pantomimo scrisse anche il poeta epico Stazio. Non è escluso, infine, che libretti per pantomimo siano anche opere più tarde di incerta natura e destinazione (la Medea di Osidio Geta e la Tragedia d’Oreste (ìattribuita a Draconzio). Enorme interesse (e non poche scommesse) suscitavano poi le GARE DEL CIRCO. Il percorso di gara aveva il fondo in sabbia (in latino arena) ed era costituito da due rettilinei paralleli, separati da una balaustra (chiamata spina) che correva nel mezzo e raccordati da due strette curve a 180 gradi. All'interno di ciascuna curva, all'estremità della spina, vi era una colonna, chiamata meta, intorno alla quale i corridori dovevano girare. La distanza tra le due mete era tipicamente di uno stadio (circa 200 metri), ma nei circhi più grandi poteva essere maggiore. I cavalli venivano aggiogati a un carro a due ruote guidato da un auriga ("guidatore"). La biga era un carro trainato da due cavalli; la quadriga da quattro. La partenza avveniva aprendo cancelli o catene e dando il via libera ai carri che potevano passare dai carceres all'arena. La corsa si svolgeva di solito su sette giri di pista. Il percorso era sempre in senso antiorario. Sulla spina vi era una fila di segni (di solito uova di pietra o delfini). A ciascun giro veniva fatta cambiare posizione a uno di questi segni. Carri e aurighi appartenevano a quattro fazioni alba (bianca), prasina (verde), russata (rossa), veneta (azzurra): il tifo era grandissimo, spesso violento. Lo spettacolo più amato restavano comunque i GIOCHI GLADIATORII (munera). La mattina era dedicata alle venationes (caccia, in habitat accuratamente ricostruiti, ad animali selvaggi importati dall’Africche cerca di volare (e, ovviamente, si schianta a terra). Verso mezzogiorno c’erano le esecuzioni capitali dei criminali, spesso spettacolarizzate con notevole fantasia: si rappresentava, p.es. il mito di Atteone sbranato dai suoi cani, o di Icaro che cerca di volare (e, ovviamente, si schianta a terra). Nel pomeriggio arrivavano finalmente i duelli fra gladiatori. I gladiatori (schiavi, ma anche liberi in cerca di fortuna) erano addestrati nelle scuole (ludi) sotto il controllo di un lanista, che li poteva affittare per gli spettacoli ufficiali. Erano divisi in varie specialità (retiarii, mirmillones, secutores, ecc.) e si esibivano il pomeriggio. In questo ambiente sempre più dominato dalla moda degli spettacoli a forti tinte, anche nell’ORATORIA, a partire dall’età di Augusto, si andò affermando progressivamente un nuovo gusto, per così dire “barocco”, detto neuer Stil. Esso nacque nelle scuole di retorica. in cui le vecchie esercitazioni tese a plasmare i futuri oratori erano ormai divenute fini a se stesse, evolvendosi in una sorta di nuovo spettacolo pubblico: le declamationes. Fra i vari esercizi con cui i Romani dei tempi di Cicerone si addestravano alle future contese oratorie, era prevista un’ampia discussione ora di temi generali a carattere filosofico e morale, ora di specifici casi legali. I temi generali si chiamavano «tesi» (dal greco θέσεις) quaestiones infinitae: se si dovesse. ad esempio. prendere moglie. vivere in città o in campagna, se si potesse davvero raggiungere la conoscenza. Gli esercizi su particolari casi giuridici si chiamavano invece («ipotesi», ὑποθέσεις) o quaestiones finitae o anche, come chiama Cicerone, causae. Erano attinti alla realtà concreta dei tribunali coevi, ma anche a casi. storici o immaginari: conseguentemente venivano trattati in base a norme del diritto romano, anche greco, e sempre più spesso in base a norme inventate, cosa che ne incrementò gli aspetti fantastici, romanzeschi e irreali. Quando nel 49 assunse la dittatura, Cesare, per favorire la vita culturale in Roma, fece dono della cittadinanza romana a medici e dottori delle arti liberali, e dunque anche ai retori. Si aprirono nuove scuole di maestri tanto greci quanto latini, e in esse i due tipi di esercizio che abbiamo ricordato divennero il vero e proprio fondamento dell’istruzione. Ebbero presto un nome in comune, quello di declamationes e si canonizzarono in due tipologie ben precise: la suasoriae e le controversiae. La suasoria, o «esercizio di persuasione», nasceva dalle vecchie «tesi» o quaestiones infinitae: in essa l’aspirante oratore doveva calarsi in una situazione storica e convincere un determinato personaggio a comportarsi in un modo o nell’altro, sostenendo, per lo più con tutti i possibili argomenti, entrambe le opposte soluzioni sul tappeto. Ecco alcuni “temi” conservati: Alessandro Magno, giunto alle rive dell’Oceano, deve decidere se osarne o no la navigazione I trecento Spartani alle Termopili devono decidere se affrontare Serse o fuggire Cicerone delibera se implorare la grazia presso Antonio. Siamo dunque nell’ambito del genere deliberativo: per precisione quasi nell’unico ambito che a tale genere rimaneva nelle mutate condizioni politiche in cui ogni decisione importante dipendeva ormai dalle risoluzioni del solo principe. La controversia nasceva invece dalle vecchie «ipotesi» o quaestiones finitae o causae, mantenendone pressoché intatta la struttura. Si fissava un principio giuridico, si esponeva brevemente un ipotetico quadro di avvenimenti, dopo di che il declamatore doveva sostenere il ruolo di uno, o più spesso di tutti i partecipanti al processo immaginato. Un rapido esempio, fra i vari tramandati, renderà chiaro il livello di fantastica lontananza dalla realtà ben presto assunto da questo tipo di esercizi: Principio giuridico: I figli devono mantenere i genitori sotto pena di prigione. Situazione: Due fratelli erano in .grande discordia. Uno aveva un figlio. Lo zio cadde in miseria e il nipote lo manteneva, malgrado il divieto di suo padre; ripudiato per questo, non protestò. Venne adottato dallo zio, che poi un’eredità fece ricco. Il padre cadde in miseria e il figlio mantiene anche lui, malgrado il divieto dello zio. Viene ancora ripudiato. Principio giuridico: A chi uccide il tiranno è promesso un premio. Situazione: un tale, scoperto dal tiranno mentre commette adulterio con sua moglie, lo uccide. Reclama il premio. Principio giuridico: Una giovane violentata può pretendere che il violentatore sia giustiziato, oppure che la sposi senza dote. Situazione: un tale sviolenta due ragazze nella stessa notte: una vuole che sia giustiziato, l’altra che la sposi. La struttura dell’orazione nella controversia è fondamentalmente tradizionale: proemium, narratio (esposizione della situazione), argumentatio, nella quale trovano ampio spazio due caratteri fondamentali di questa oratoria declamatoria: la divisio e il color (o i colores). Nella divisio il retore faceva il punto delle suddivisioni a suo giudizio presupposte dalla causa in oggetto. Il color o i colores sono le «coloriture» del caso, cioè particolari modi di accostare la materia (ad esempio: la pietà religiosa, il pathos solenne come in un personaggio tragico, ecc.), impostazioni psicologiche assai variabili e talora addotte in modo parallelo alle odierne attenuanti o aggravanti. La suasoria ha la stessa articolazione della controversia. In essa tuttavia la divisio riguarda solo questioni morali (non più anche giuridiche.), il color, legato al fittizio dibattimento, non ha più ragione di figurare: assumono invece ampio spazio, come occasioni di bravura, le descrizioni. Ogni declamazione era poi punteggiata di esempi storici (è su questo sfondo che vanno collocate raccolte di casi celebri sul tipo di quella di Valerio Massimo) e soprattutto di una nuova risorsa che diverrà oggetto di un vero e proprio culto maniacale: le sententiae, cioè le frasi ad effetto argutamente epigrammatiche, fondate su un gioco di parole, un paradosso o qualche altro concetto a sorpresa. Il crescente interesse per gli aspetti romanzeschi delle situazioni e per le contorsioni concettuali trasformò, come si diceva, questi esercizi retorici in veri e propri spettacoli, che da principio si svolgevano nelle aule scolastiche e in seguito, con la diffusione della moda di leggere in pubblico le opere letterarie avviata da Asinio Pollione, si trasferirono in apposite sale di declamazione. Suasorie e controversie vi dilagarono. Ogni retore non si limitava ad addestrare gli allievi su questi temi, ma per primo forniva il buon esempio, mandando in delirio i suoi fans. Gli eccessi erano all’ordine del giorno sia nello stile, che esasperava tutto ciò che di artificioso e patetico aveva proposto la corrente dell’asianesimo, sia nelle esibizioni vere e proprie. Accanto al nuovo tipo di produzione letteraria, caratterizzata da tali eccessi e oggi spesso indicata con la generica determinazione di Stile Nuovo o Moderno, nascevano anche nuovi tipi d’uomo. Uomini inclini tanto al sentimentalismo patetico quanto all’artificiosità del tutto esteriore e formalistica, ben consapevoli delle proprie stravaganze e dei propri difetti, e pronti non a correggere bensì a rivendicare tutto ciò come tratto personale. Questi tipi umani e il loro mondo fantastico e assurdo si imposero progressivamente, non senza incontrare critiche e talora i! dileggio aperto dei contemporanei. A condurre la “reazione” fu tra gli altri Cassio Severo, rimasto celebre per i suoi giudizi fulminanti sui declamatori del tempo. Inurbamento di masse rozze di Italici e provinciali Inesistenza dei diritti d’autore Il potere limita sempre più la libertas degli intellettuali Rappresentazioni spettacolari a forti tinte Fine del mecenatismo Fine dell’oratoria politica Gusto per la letteratura spettacolo Propaganda imperiale Ricerca di nuovi patroni Delusione degli intellettuali di fronte alla fine della libertas RECITATIONES volontà di strappare l’applauso del pubblico DECLAMATIONES Disgusto di fronte ai delitti e alla corruzione della corte imperiale Diventano una moda: quantità vs. qualità Πάθος Espressionismo Artifici “asiani” Prevalenza della parte sul tutto: sententiae Gusto per l’orrido e il macabro NUOVO STILE Gusto per il paradosso Concettismo