Executive summary
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Malgrado il rialzo del petrolio, l’anno in corso si presenta come uno dei
migliori da molto tempo per l’area dell’euro e per l’Italia, sotto il profilo
sia della crescita sia dell’occupazione. Nello scenario centrale di questo
Rapporto (tab. I), il PIL dell’Eur11 raggiunge il 3,5%, quello dell’Italia il 3%.
Il divario fra l’Italia e il resto dell’area si riduce rispetto agli anni passati,
ma rimane cospicuo per via dei gap competitivi che ancora gravano sul
nostro paese. Il tasso di disoccupazione dovrebbe continuare a scendere,
collocandosi quest’anno attorno al 9% nell’Eur11 e all’11% in Italia.
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Successivamente, nell’ipotesi che il petrolio si stabilizzi attorno ai 28
dollari, prevediamo una decelerazione del PIL dell’Eur11 (al 3,2% nel
2001 e al 2,8% nel 2002) e dell’Italia (2,8 e 2,6% rispettivamente nei due
anni), a causa del venir meno di alcuni dei fattori favorevoli di quest’anno (il
deprezzamento dell’euro, l’eccezionale rimbalzo dei paesi asiatici colpiti
dalle crisi del 1998), del previsto rallentamento dell’economia americana, del
peggioramento in corso delle ragioni di scambio, dei probabili ulteriori
aumenti dei tassi di interesse della BCE.
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L’inflazione dovrebbe attestarsi al 2,2% nella media di quest’anno
nell’Eur11 e al 2,5 in Italia. Scenderebbe poi gradualmente, collocandosi
nella media del 2001 all’1,8% nell’Eur11 e al 2% in Italia, nell’ipotesi –
cruciale anche ai fini delle scelte della politica monetaria – che i contratti di
lavoro che verranno stipulati nei prossimi mesi non contengano sostanziali
richieste di recupero della gobba inflativa di quest’anno. Questa proiezione
sconta l’ipotesi che l’euro risalga gradualmente, sino alla parità con il
dollaro nel corso dell’anno prossimo, in corrispondenza dei rialzi dei tassi
d’interesse europei e del rallentamento dell’economia americana.
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I bilanci pubblici stanno migliorando per via del ciclo, della
riduzione della spesa per interessi e dei proventi delle aste UMTS, talché
contabilmente il saldo aggregato dell’area dell’euro potrebbe registrare un
avanzo. Al netto del ciclo e dell’UMTS, vi è invece una sostanziale
invarianza, il che significa che l’Europa non sta utilizzando la fase positiva
del ciclo per migliorare i disavanzi strutturali, come sarebbe necessario in
base al Patto di Stabilità. In Italia il gettito è superiore alle previsioni. A
fronte di questo aumento, vi sono però maggiori spese, specie da parte delle
Regioni, talché non è ovvio che il consuntivo per il disavanzo di quest’anno
sia migliore dell’obiettivo concordato con l’UE (1,3% del PIL). Alla luce di
questi dati e delle proiezioni che essi consentono di fare sul 2001, non è
chiaro su quali basi di fatto si fondi l’attuale dibattito sulla restituzione del
cosiddetto “dividendo fiscale della ripresa”.
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L’industria italiana ha colto l’occasione della ripresa internazionale
con miglioramenti dei volumi diffusi alla generalità dei settori. La ripresa è
stata particolarmente forte nel settore dei beni di investimento, di cui
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l’Italia è il secondo esportatore europeo, e nel settore dei beni intermedi. Più
lenta, ma comunque significativa (+3,2% rispetto all’anno scorso), è stata la
ripresa dei beni di consumo. Anche la ripresa dell’export, in linea con lo
sviluppo del commercio mondiale, sta interessando la generalità dei settori
produttivi.
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Malgrado la ripresa dei volumi, i margini operativi tendono a
restringersi per via degli aumenti del petrolio e di altre materie prime (in
particolare nickel, cellulosa, lana, alluminio, rame) e della svalutazione
dell’euro. I dati ISTAT relativi al primo trimestre indicano che la riduzione
dei margini è stata mitigata da fortissimi guadagni di efficienza. Le imprese
hanno reagito all’aumento delle materie prime comprimendo altri costi; ne è
risultata una caduta dell’occupazione industriale, di circa 60.000 unità. La
riduzione dei margini di quest’anno aggrava una situazione già difficile in
relazione ai valori sia degli anni scorsi in Italia sia dei principali concorrenti
internazionali.
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Alla luce di questi dati, l’obiettivo centrale delle politiche
economiche in Europa e, a maggior ragione, in Italia dovrebbe essere
quello di cogliere l’occasione della ripresa per ridurre il debito pubblico e
accrescere la competitività del sistema, ossia il potenziale di crescita nel
lungo periodo. Come in un’azienda, i proventi di un anno eccezionalmente
buono debbono essere devoluti a maggiori investimenti per migliorare la
redditività futura. Non possono tradursi in maggiori spese correnti. Per un
sistema paese investire significa ridurre il debito pubblico, creando così le
condizioni per ridurre la pressione fiscale futura, e fare quelle riforme
strutturali che sono necessarie per accrescere il potenziale produttivo.
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Come si è detto, nel caso dell’Italia non è chiaro se vi sia davvero un
dividendo fiscale da distribuire: ciò non dipende tanto dall’andamento del
gettito e del disavanzo di quest’anno, ma dalle proiezioni per il 2001 e per gli
anni successivi. Gli andamenti di quest’anno rilevano solo nella misura in
cui forniscono indicazioni sugli anni futuri. Sotto questo profilo, le
informazioni che si hanno sino ad oggi sono che il buon andamento del
gettito è spiegato in larga misura dalle imposte sulle plusvalenze, legate al
forte rialzo della borsa del 1999, e a sfasamenti contabili. Al netto di questi
fattori, la crescita degli incassi tributari è nell’ordine del 5% (si veda il par.
3.6). I dati sul fabbisogno indicano un leggero miglioramento rispetto
all’anno scorso per quello che riguarda il settore statale, ma un
peggioramento, di 6.800 miliardi, per quello che riguarda le Regioni. Se lo
scarto del fabbisogno delle Regioni dovesse continuare a cumularsi al ritmo
finora registrato, in assenza di altre compensazioni, l’obiettivo per
l’indebitamento complessivo di quest’anno verrebbe superato. Il motivo è la
crescita della spesa, sia delle Regioni e degli Enti Locali sia dello Stato.
Secondo le stime di preconsuntivo del Progetto di assestamento del bilancio
dello Stato, la spesa al netto degli interessi crescerebbe quest’anno dell’8,7%,
a fronte di aumenti delle entrate pari al 7,5% (5,7% al netto delle imposte
sulle plusvalenze). Complessivamente, non vi è alcuna indicazione che si
stia riducendo l’incidenza sul PIL della spesa primaria delle Pubbliche
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Amministrazioni, come era invece previsto nei piani del governo. Questo
aggregato è rimasto pressoché invariato dal 1995, malgrado le manovre
correttive attuate per raggiungere i parametri di Maastricht.
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Dagli andamenti in corso si può dunque desumere che il
miglioramento che dovrebbe comunque registrarsi quest’anno nei conti
pubblici sarà attribuibile essenzialmente alla componente degli interessi, la
cui incidenza sul PIL dovrebbe ridursi, secondo le nostre stime, di 0,5
punti. Sugli andamenti futuri gravano il prevedibile aumento dei tassi
d’interesse e le prospettive demografiche. Le nostre previsioni indicano che
in assenza di interventi strutturali sul bilancio pubblico non è assicurata la
possibilità di ridurre stabilmente la pressione fiscale.
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Qualora il governo giungesse, come è probabile, a conclusioni diverse
oppure, virtuosamente, attuasse reali interventi correttivi sulla spesa, i
margini di manovra dovrebbero essere utilizzati per la competitività del
sistema. In un anno eccezionalmente buono sotto il profilo della crescita ha
poco senso utilizzare il bilancio pubblico per stimolare la domanda. Ciò va
fatto in anni di recessione o di bassa crescita. Altrimenti la politica di
bilancio finirebbe per essere prociclica ed aggravare, anziché ridurre,
l’intensità delle fluttuazioni economiche e dell’occupazione.
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Gli effetti sulla crescita che si possono ottenere operando dal lato della
domanda con le cifre di cui si potrà prevedibilmente disporre sono assai
modesti. Interventi volti ad attivare meccanismi virtuosi dal lato
dell’offerta sarebbero assai più efficaci, anche se esplicherebbero i loro
effetti su tempi verosimilmente più lunghi. A questa tipologia di interventi
appartengono: misure di riduzione del cuneo contributivo sul lavoro,
nell’ambito di un progetto di lotta al sommerso non solo nel Mezzogiorno;
riduzioni delle aliquote fiscali sulle imprese, che costituiscono un passaggio
essenziale per porre l’Italia in condizioni di attrarre investimenti produttivi
dall’estero e di non farsi spiazzare persino da paesi come Germania e
Francia che questa linea hanno imboccato con decisione; misure volte a
favorire il decollo della previdenza integrativa, come parte di un progetto
complessivo di riforma del sistema pensionistico; investimenti in ricerca,
formazione e infrastrutture.
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In conclusione, ci paiono del tutto condivisibili i principi enunciati il 16
luglio scorso dal Consiglio dei ministri dell’Euro11, che citiamo:
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Dovranno essere evitate politiche di bilancio procicliche;
Riduzioni di pressione fiscale volte a migliorare le prospettive
occupazionali e gli investimenti produttivi dovranno essere accompagnate
da riduzioni di spesa, specie nei paesi in cui gli obiettivi del Patto di
Stabilità e Crescita non sono ancora stati conseguiti;
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La qualità e l’efficienza della spesa debbono essere migliorate e, in
particolare, i sistemi fiscali e la spesa per trasferimenti dovranno essere
rivisti con la finalità di stimolare la crescita dell’occupazione;
… i proventi dell’UMTS dovranno essere utilizzati prioritariamente o
meglio interamente per la riduzione del debito netto e per il finanziamento
delle future passività del sistema pensionistico. In entrambi i casi, ciò
aiuterà ad affrontare i problemi economici legati all’invecchiamento della
popolazione.
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