Doni gerarchici e doni carismatici nella

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Diocesi di Piacenza-Bobbio
Ufficio Stampa: Documenti
Collegio Alberoni – Sala degli Arazzi
Consulta diocesana delle Aggregazioni Laicali
“Doni gerarchici e doni carismatici nella comunione dell’unica Chiesa
per l’unica missione”
Mons. Piero Coda,
Docente di teologia
14 ottobre 2001
00. Due premesse
Prima di entrare nell’argomento proposto alla nostra riflessione inizio con due semplici premesse che
devo fare.
00.1. “La comunità cristiana è il Cristo esistente come comunità”
La prima è sentita proprio per dire la gioia di trovarmi con voi oggi in questo Giorno del Signore,
quando la comunità cristiana si sente convocata con gioia sempre nuova e aperta all’azione dello
Spirito. Dalla Parola del Signore risorto si nutre del “pane di vita” per riconoscere il Signore presente
in mezzo ai suoi e per ricevere lo Spirito di testimonianza e di annuncio. Incontrare oggi una comunità
cristiana, come la vostra in cammino – certamente con le sue gioie, e anche con le sue sofferenze
sempre fonte della più autentica gioia nella fede, con le sue vittorie e le sue prove –, è sempre grazia
d’incontro con il Signore risorto. Come diceva, Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante
morto testimoniando la fede in campo di concentramento proprio sul finire della Seconda guerra
mondiale: “La comunità cristiana è il Cristo esistente come comunità”, quasi preannunciava
molte pagine del Concilio Vaticano II, per cui per me oggi è questa grazia di incontrare Cristo nei
vostri volti, nella vostra fede, nel vostro amore e nella comunione. Incontrare una comunità cristiana
in cammino è incontrare l’umanità del nostro tempo, con la concretezza dei suoi interrogativi delle
sue speranze e delle sue gioie; di qui la seconda premessa che devo fare.
00.2. “Niente sarà più come prima”
Quest’incontro con il Signore risorto, vivente nella comunità cristiana, oggi acquista un senso e un
suono tutto nuovo dopo l’11 settembre. Molte volte in questi giorni abbiamo sentito una frase:
“Niente sarà più come prima”...
Da una decina di giorni, eravamo partiti il 14 settembre u. s., sono ritornato dall’Iran, perché era già
prevista da tempo un incontro ufficiale tra la Santa Sede (una delegazione guidata dal Card. Rife) e i
responsabili per il dialogo interreligioso dell’Iran, visita che è stata confermata; quindi vivo di questo
ricordo. Penso che come uomini, come cristiani, c’è qualche cosa – in questi giorni, nel nostro cuore,
nelle nostre menti, nel nostro animo, in quello che facciamo – che ci inquieta e allo stesso tempo ci fa
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rinnovare in modo più profondo, più radicale, la nostra fede in Cristo. “Niente sarà più come
prima”… anche per noi.
Sono cose che ho scritto pensando a voi venendo in treno da Torino: il nostro essere Chiesa, che è
insieme grazia e responsabilità, lo avvertivamo da tempo con urgenza crescente, ha da acquistare un
timbro, uno slancio, un respiro nuovo. Il Concilio, il Giubileo, il “prendere il largo” il “Duc in altum”
(Lc 5,4) di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte (n. 1), c’è l’ha messo in cuore, ed è ciò che
oggi l’umanità vive. Ho letto proprio in questi giorni una frase del Card. Ratzinger, sul suo nuovo
libro-intervista che è uscito tradotto in italiano, “Dio e il mondo”, dove tra l’altro lui dice: “La Chiesa
non ha ancora effettuato fino in fondo il salto nel presente”. Oggi l’avvertiamo tutti: questo salto è
diventato, forse come mai prima, “necessità di vita o di morte”.
Prego il Signore e lo Spirito Santo che, il tema che affrontiamo oggi e il nostro stare insieme, siano
indirizzati da Dio a farci compiere (come singoli, come gruppi e comunità ) sotto la sua azione
(perché noi non abbiamo né le forze né la capacità) questo salto nel presente. “Salto” che è nel
presente di Dio oggi e nel presente di ciò che vive oggi l’umanità.
Con questa premessa entro nel nostro tema, che contestualizza il momento che viviamo e ci
sintonizza con l’azione dello Spirito nel nostro tempo.
0.1. Introduzione al tema
Il tema che devo affrontare è già enunciato nel titolo: “Doni gerarchici e doni carismatici nella
comunione dell’unica Chiesa per l’unica missione”. Ho riletto di nuovo una parte della Novo
millennio ineunte di Giovanni Paolo II, perché è estremamente ricco, stimolante e da meditare a
lungo; è uno dei testi che hanno più respiro nel pontificato stesso di Giovanni Paolo II, un vero testo
da inizio di nuovo secolo e di nuovo millennio.
Nella Novo millennio ineunte Giovanni Paolo II da parola con gioia e gratitudine alla sorpresa che è
stato per tutti noi il Giubileo dell’anno duemila, con le sue luci e ombre come ogni realtà umana
(non ci nascondiamo le ombre), ma lo Spirito ha certamente operato una sorpresa, “ci ha spiazzati”
(ibidem n. 9), dice ad un certo punto Giovanni Paolo II; è questa l’azione dello Spirito: “spiazzarci”.
Questa sorpresa è stata la bellezza, il manifestarsi, l’epifania della bellezza di un volto pluriforme di
Chiesa colorata da un arcobaleno di tanti colori. Giovanni Paolo II la definisce al n. 40: “un inizio,
un’icona appena abbozzata del futuro che lo Spirito di Dio ci prepara”; una promessa. Senza dubbio,
in quest’icona di Chiesa disegnata dal Giubileo, un aspetto rilevante è stato il venire in luce di una
comunione intensa e profonda da un lato tra il ministero del Papa e dei Vescovi, e dall’altra i fermenti
di rinnovamento espressi dalle aggregazioni laicali, dai movimenti, dalle comunità ecclesiali. In una
parola, per dirlo con la terminologia del Concilio: “tra i doni gerarchici e i doni carismatici”.
Il mio intento è di riflettere sulla realtà di comunione, toccando tre punti:
1. Il significato teologico della realtà di comunione.
2. La sua attualità storica.
3. La sua portata pratica nella missione della Chiesa oggi.
Sono i tre momenti in cui articolo la mia riflessione. Mi soffermerò forse un po’ di più, per
deformazione personale, sul primo punto, eventualmente sugli altri due ci sarà occasione di ampliare
il discorso nel dialogo pomeridiano.
1. Il significato teologico della realtà di comunione
La portata teologica della vivacità della Chiesa nasce dalla comunione tra la dimensione gerarchica e
la dimensione laicale carismatica e aggregativa.
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È un dato di fatto della storia della Chiesa, più che una deduzione teologica, che nella vita della
Chiesa sin dall’origine i carismi di tutti i tipi hanno giocato un ruolo singolare e insostituibile. Il fatto
nuovo è che con il Concilio Vaticano II la Chiesa (e questo lo diceva già Yves Congar leggendo i testi
del Concilio) Cattolica, sotto la guida dello Spirito, ha riscoperto come costitutiva di se medesima la
dimensione carismatica, così come ha rimesso in rilievo la dimensione e la vocazione laicale. Tanto
che Giovanni Paolo II è giunto a dire (veniva ricordato prima) che la dimensione sacramentale
gerarchica e carismatica sono coessenziali alla costituzione divina della Chiesa. Vedendo questa
realtà, sotto il profilo nell’orizzonte teologico, si tratta di un vero e proprio evento di autocoscienza
ecclesiale: la Chiesa di tempo in tempo prende coscienza di se stessa. Il Concilio Vaticano II è stato
certamente uno dei più grandi e determinanti eventi di autocoscienza ecclesiale. Tutti ricordiamo la
domanda fondamentale che così bene Paolo VI pose al Concilio: “Chiesa che cosa dici di te stessa?
Chiesa, qual è la tua missione nel mondo?”. Che cosa significa teologicamente? Come va intesa
questa coessenzialità, la complementarietà di doni gerarchici e doni carismatici?
1.1. I doni gerarchici e i doni carismatici sono entrambi costitutivi della Chiesa
Inizio con il dire che Giovanni Paolo II, quando ha parlato di questo, ha ripreso pari pari la Lumen
Gentium al n. 4 (anche se interessante non sto a rifare un’analisi dei testi conciliari su questo tema, è
già stata fatta da studiosi, io stesso ho scritto qualche cosa in proposito). Mi milito a sottolineare che
la dizione “doni gerarchici e doni carismatici” è ripresa con una sottolineatura fondamentale: “È
l’unico Spirito di Cristo, la sorgente, l’anima e il fine, tanto degli uni quanto degli altri”; nella L.G. n.
4 è descritto in modo molto evidente e lucido. Con ciò si vuol dire che nella visione della Chiesa di
Cristo va scartata in partenza qualunque riduttiva e fuorviante contrapposizione tra istituzione e
carisma; questa può essere la visione di una certa lettura sociologica, ma non è la lettura teologica
dell’evento della Chiesa di Cristo. Non solo i carismi (per “carismi” intendo come si dice nella L.G. n.
4 e 12: “quei doni liberi dello Spirito, concessi alle persone nella Chiesa, di qualunque vocazione essi
siano”), ma innanzitutto il ministero ordinato sono doni dello Spirito. Entrambi hanno natura e
modalità di esercizio diverse, ma sgorgano dall’unico principio dello Spirito del Signore risorto e
sono indirizzate ad un unico fine. L’“unico fine” è rendere attuale la presenza di Cristo risorto nella
storia, per far crescere l’umanità fino alla piena maturità di Lui in noi, come dice San Paolo:
“nell’attesa attiva della sua venuta, del suo ritorno alla fine dei tempi” (cfr. 1 Cor 15,23).
In questo senso i doni gerarchici e i doni carismatici sono entrambi costitutivi della Chiesa.
1.2. Nel rapporto tra i doni gerarchici e i doni carismatici c’è una realtà di comunione e
coessenzialità
E qual è il loro rapporto?
Il Vaticano II, lo dicevamo prima, ha messo in rilievo un’ecclesiologia di comunione che potremo
chiamare Trinitaria, perché la comunione ecclesiale è innestata nella comunione Trinitaria, ed è il
riflesso della comunione Trinitaria, attualizzazione nella vita umana della comunione Trinitaria.
Che cosa significa che dentro la realtà di comunione c’è questa complementarietà,
coessenzialità?
Mi richiamo rapidamente a tre contributi teologici importanti dati in questi ultimi anni. Uno del Card.
Joseph Ratzinger, un secondo di Hans Urs von Balthasar, un terzo di Karl Rahner, ciascuno dei quali
ha messo in rilievo qualche aspetto di questa comunione e coessenzialità.
1.2.1. Il Card. Ratzinger
Il primo aspetto è di Ratzinger, ne troviamo già tracce in sue opere non ancora cardinale professore
di teologia a Tubinga, per esempio nell’opera famosa di ecclesiologia “Il nuovo popolo di Dio”.
Ratzinger è ritornato su questo tema nel ’98, in occasione del Congresso mondiale dei nuovi
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movimenti ecclesiali e delle comunità ecclesiali, dove ha fatto un’analisi storica teologica, che merita
leggere e meditare, pubblicata dal Pontificio Consiglio dei Laici. Lui ha individuato la radice
comune, sia dei doni gerarchi sia dei doni carismatici, nell’Apostolicità della Chiesa – la Chiesa,
Una, Santa, Apostolica e Cattolica. L’apostolicità della Chiesa, cioè la Chiesa non è altro che la
tradizione, la trasmissione apostolica, conforme alla sua origine apostolica dell’evento Cristo. Dice
Ratzinger: “La trasmissione di Cristo – non solo trasmissione orale nel senso dell’annuncio, ma
tradizione dell’evento Cristo nei sacramenti e nella stessa comunione ecclesiale che è il grembo e
luogo in cui Cristo è presente (ricordate la prima Lettera di Giovanni, il Prologo bellissimo, in cui si
parla della comunione che gli apostoli hanno vissuto con il Cristo, il Cristo con Dio, la comunione che
viene trasmessa anche a noi) –, la trasmissione dell’evento ecclesiale, si continua sia attraverso la
struttura sacramentale gerarchica e sia attraverso l’imprevedibile irruzione dello Spirito lungo la
storia, attraverso i carismi”.
Puntualizzando questa tesi io dico: la trasmissione dell’evento Cristo – attraverso la dimensione
sacramentale e gerarchica della Chiesa, cioè i sacramenti e i ministri ordinati che sono deputati
all’annuncio e alla trasmissione dei sacramenti – assicura al ministero ordinato tre cose
fondamentali:
1. Per la vita e la missione della Chiesa assicura il legame apostolico con l’origine della
Chiesa e con la sua norma cristologia. Già Ireneo di Lione (grande Padre della Chiesa
considerato il primo teologo cristiano nel II secolo dopo Cristo) in qualche modo lo mette
in evidenza a chiare lettere di fronte alle critiche che potevano distruggere e minare alla
base la Chiesa di Cristo.
2. Al Ministero ordinato assicura la guida autorevole e sicura della Chiesa locale, dove si
realizza l’unica Chiesa di Cristo, in comunione con la Chiesa universale.
3. Al Magistero, come espressione originale e tipica del ministero ordinato, assicura
l’interpretazione autentica della rivelazione; è il punto di riferimento autentico della
rivelazione.
Quindi è la struttura fondamentale dell’evento della Chiesa che si ripete, si attua e si concretizza.
In contemporanea, l’imprevedibile irruzione dello Spirito, suscita lungo i secoli sempre nuove forme
di adesione, di esperienza e di espansione del Vangelo. Caratterizzata, nota Ratzinger, da due
elementi: - la radicalità evangelica; - la tendenziale universalità. In questo intervento fa una analisi
storica dei grandi movimenti spirituali che hanno attraversato la storia della Chiesa e che nella loro
origine sostanzialmente sono sempre stati movimenti laicali; hanno sempre avuto una origine laicale
appunto perché c’è questa complementarietà. Pensate all’eremitismo di Antonio Abate, e alle forme
monastiche di Francesco d’Assisi; sopratutto S. Francesco ha dato vita ad un movimento di
rinnovamento carismatico della Chiesa con il terz’ordine francescano, quindi è interessante vedere il
valore che aveva questo dal punto di vista della valorizzazione del laicato nella Chiesa; e così tanti
altri, fino arrivare ai nostri tempi.
1.2.2. Hans Urs von Balthasar
Un secondo contributo può sembrare più astratto, ma ha un significato importante, e viene dato da
Hans Urs von Balthasar, questo grande teologo, gesuita originariamente, poi si è messo al servizio
della nascita e della diffusione degli Istituti Secolari; ma siamo prima del Concilio Vaticano II e di
Pio XII. Semplifico il suo discorso, che è più complesso, ma sostanzialmente dice questo:
‒ I doni gerarchici hanno questa finalità: attraverso di loro lo Spirito Santo garantisce
oggettivamente la presenza di Cristo crocefisso e risorto che si dona alla Chiesa; la genera, la nutre e
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la fa maturare attraverso la Parola e i Sacramenti. La dimensione gerarchica dà l’oggettività
dell’evento di Cristo, perché è un evento oggettivo posto da Dio definitivamente, escatologicamente,
nella storia, e come tale nella sua oggettività va testimoniato e prodotto e trasmesso.
L’Eucaristia è il centro e il culmine di questa trasmissione, non per niente c’è un legame fortissimo tra
il Ministero ordinato e l’Eucaristia; il ministero ordinato è a servizio ed è garante dell’oggettiva
presentazione del mistero di Cristo nell’oggi.
‒ I doni carismatici invece quale funzione hanno? Dice Balthasar: di dischiudere e plasmare la
soggettività dei credenti (le loro menti, i loro cuori, la loro esistenza), per farli capaci di accogliere, di
penetrare [uso le parole del Concilio (N.d.R. L.G. n. 12) quando parla del sensus fidei di tutto il
popolo di Dio, quindi del laicato] e di portare a piena efficacia di vita di santità il dono oggettivo
ricevuto dalla Parola e dai Sacramenti.
Quindi la complementarità è molto profonda. Potremo dire che, attraverso il ministero ordinato e
l’annuncio autorevole della Parola e la trasmissione dei Sacramenti, è Cristo stesso (infatti è lui il
soggetto che annuncia attraverso i ministri e si dona nei Sacramenti) che continua a donarsi
oggettivamente alla Chiesa come sua sposa [secondo l’immagine che la Lettera agli Efesini ci mostra
in San Paolo: “Cristo si dona alla sua Chiesa, la fa rinascere dal Sacramento del lavacro battesimale,
la nutre di se nell’Eucaristia, la purifica e la rinnova…”. (cfr. Ef, 5,25-27)] e, attraverso l’azione dello
Spirito, la rende capace di ricevere questo dono, di “adornarsi” (come dice il linguaggio figurato
sponsale del rapporto tra Cristo e la Chiesa) di farsi bella, di accogliere fino in fondo il Sacramento.
Perché, come dice San Paolo, “nessuno di noi può dire Cristo è il Signore, se non sotto l’azione dello
Spirito” (1Cor 12,3). Quindi è lo Spirito che prepara la ricezione dell’evento di Cristo nella Chiesa.
Proprio per questo è evidente che c’è la provvidenziale coessenzialità di doni gerarchici e di doni
carismatici, perché realizzano il rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa. E qui c’è tutta la loro
differenza:
‒ Nel dono gerarchico, il dono di Cristo, proprio perché oggettivo, è garantito dalla fedeltà di Cristo
alla Chiesa; tanto che il ministro ordinato celebra l’Eucaristia. L’Eucaristia è la presenza oggettiva di
Cristo eucaristico, quindi non dipende dalla santità oggettiva del ministro (per fortuna); è la fedeltà di
Cristo che, attraverso il ministro, opera oggettivamente. Quando ammiriamo e penetriamo nel mistero
della Chiesa possiamo esclamare, con Giovanni XXIII, tutto il nostro amore per questa madre che
Cristo ha preparato e fa vivere per noi, e lo Spirito Santo sempre di nuovo attualizza; cioè c’è una
logica di amore divino in tutto ciò che la Chiesa è, vive, e trasmette.
‒ Nel dono carismatico non c’è questa garanzia oggettiva, ma è data dalla fedeltà al dono oggettivo,
quindi alla Parola, al Sacramento e con la comunione con il ministero ordinato. Questo si verifica
proprio nella storia della Chiesa nel fatto che il dono carismatico è sottoposto al discernimento e alla
valutazione del ministero ordinato.
I membri della Gerarchia, configurati sacramentalmente a Cristo, sono chiamati ad essere, nel
ministero, segni e strumenti di Lui; agiscono in persona “perché Cristo si possa donare” (L.G. 10).
Come pastori hanno la grazia e “il dovere” (questo lo ripete il Concilio e Giovanni Paolo II) di
accogliere con gratitudine i doni carismatici (perché se non sono in quest’ottica non hanno capito la
profondità del mistero della Chiesa attuata da Cristo) e di discernere la genuinità dei doni carismatici.
Quindi di accogliere, di discernere e anche di regolarne l’uso ordinato (perché hanno il carisma del
governo) secondo il loro specifico ambito di competenza: della Chiesa universale, del ministero del
Papa (del Vescovo di Roma), e della Chiesa particolare in comunione gerarchica e collegiale con il
Papa (per la Chiesa locale).
Cito il Papa: “Così per i carismi non possono che tendere all’incontro con Cristo nei Sacramenti,
perché sono fatti per incontrare e nutrirsi di Cristo, e sono chiamati a vivere una fiduciosa obbedienza
ai Vescovi” [bello il termine “fiduciosa” (cfr. N.M.I. n. 56), come il pastore chiamato ad accogliere
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con gratitudine (gli avverbi e gli aggettivi non sono secondari perché è un carattere dello Spirito)],
con la fiducia che è Cristo che agisce attraverso il discernimento e l’accoglienza”.
Dunque, riprendendo questo tema di Balthasar, viene spontaneo a questo punto fare una piccola
riflessione sul tema della santità della Chiesa. La Novo millennio ineunte ha una pagina molto forte,
dice: “Premessa di ogni attività pastorale… è la tensione alla santità” (ibidem n. 30 e 31).
“L’universale vocazione alla santità”, come dice la L.G. al cap. V, non è il fervorino pietistico, è la
dimensione ecclesiologica profonda, cioè della Chiesa che si apre all’azione dello Spirito e attraverso
il ministero, i sacramenti, la Parola, viene raggiunta dalla forza santificante di Cristo Gesù.
Allora viene subito in rilievo il rapporto che i doni gerarchici e i doni carismatici hanno entrambi con
Maria madre della Chiesa. Non per niente Paolo VI ha voluto alla fine del Concilio presentare Maria
come madre della Chiesa. Perché Maria è modello, in qualche modo, sia per chi esercita un dono
gerarchico sia per chi esercita un dono carismatico:
‒ Per chi esercita un dono gerarchico perché Maria ha donato l’evento Cristo, ha generato Cristo,
l’oggettività di Cristo. Quindi non è un modo di dire che “il ministro ordinato ha un rapporto singolare
con Maria”, perché Maria è il fiat che accoglie e dona Cristo. Il ministro ordinato, la Chiesa, il dono
gerarchico è a cogliere e donare Cristo, e non se stessa. Quindi Maria in questo senso è il modello
esistenziale ed ecclesiale di chi esercita il ministero gerarchico.
‒ Allo stesso tempo di chi esercita il dono carismatico, perché Maria è la plasmata, è la creatura
dello Spirito Santo, come dice il Concilio. In questo senso non è un caso che questo fatto – che il
Concilio riscopra la realtà del popolo di Dio, l’universale vocazione alla santità, l’eguale dignità di
tutti i battezzati, la coessenzialità di doni gerarchici e doni carismatici – lo faccia nel momento in cui
scopre quello che von Balthasar, e al suo seguito Giovanni Paolo II, hanno chiamato “il profilo
mariano della Chiesa” (ma su questo ritorneremo).
1.2.3. Karl Rahner
Il terzo contributo è di Karl Rahner. Ha un testo che vale la pena ancora oggi riprendere, un libro
intitolato (tradotto anche in italiano dall’ed. Morcelliana) “L’elemento dinamico nella Chiesa,
principi, imperativi concreti e carismi”. Cioè lui sottolinea di fatto che l’apporto specifico dei vari
carismi, dati di tempo in tempo alla Chiesa, hanno proprio il significato di attuare questa dimensione
di dinamicità. Dýnamis in greco viene riferito proprio alla forza dinamica dello Spirito Santo.
Karl Rahner, leggendo la storia della Chiesa, testualmente dice questo: “Il fattore carismatico è
essenzialmente nuovo e sorprendente” (N.d.R. pag. 77 del testo), proprio perché è dinamico; se ci
fosse già non ci sarebbe bisogno che lo Spirito Santo lo susciti evidentemente. Allora per la sua stessa
struttura è “nuovo e sorprendente”; e verrebbe da dire: è nuovo come attuazione dell’unico Cristo che
è già stato dato una volta per tutte, è evidente; cioè l’evento Cristo è dato una volta per tutte. Lo
Spirito però che cosa fa? Dice le parole che Cristo ha detto, guida verso la verità tutta intera, cioè di
tempo in tempo dice quelle parole, suscita quegli atteggiamenti che sono necessari alla vita della
Chiesa in quel momento.
Allora, dice Rahner: “Il fattore carismatico è essenzialmente nuovo e sorprendente. Naturalmente
esso si trova anche in una misteriosa continuità interiore con quanto nella Chiesa precede”. Tanto è
vero che il ministero gerarchico lo riconosce: sì è un carisma dello Spirito di Cristo. “È tuttavia nuovo
e inderivabile, e al primo sguardo non si vede subito che tutto rimane nell’insieme della Chiesa”. Cioè
quando viene suscitato un nuovo carisma (qui parlo soprattutto dei grandi carismi; tutti sono carismi
allo stesso livello, ma ci sono carismi che hanno funzioni più ampie e carismi che hanno funzioni più
determinate), proprio perché sono nuovi non si vede subito come si può collocarli dentro il quadro
della dinamica della vita comunitaria. Questo è normale come quando nasce un nuovo bambino in
una famiglia: ci vuole tempo per ritessere i rapporti in una dinamica di equilibrio. Quindi ci saranno
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delle tensioni, è evidente, ma ogni cosa va fatta con l’atteggiamento di mettersi di fronte allo Spirito e
di capire, di discernere, alla luce di Cristo che cosa è necessario.
1.3. Riassunto conclusivo della prima parte
Concludo questa prima parte ricordando che viene in rilievo dall’insegnamento del Concilio, dagli
approfondimenti teologici che ho accennato, che dinamicità e novità sono caratteristiche peculiari dei
doni carismatici. Cito la Christifideles laici al n. 24: “Sia come espressione dell’assoluta libertà dello
Spirito che li elargisce, sia come risposta alle esigenze molteplici della storia della Chiesa”. Cioè la
novità ha una radice dello Spirito, che è sempre nuova, e dall’altra parte la novità del tempo. Cioè c’è
una novità che viene da Dio e una novità che viene dal tempo che è abitato, come dice il Concilio
Vaticano II, dalla presenza dello Spirito che riempie tutte le cose e guida la storia degli uomini.
Qui voi capite, per esempio, che quando si ha l’impressione – ma qualche volta si dà l’impressione
fuori della Chiesa Cattolica – che la Chiesa Cattolica sia una realtà monolitica e statica; non c’è niente
di più contrario al vero di questo! Perché se uno conosce la Chiesa Cattolica dal suo interno, vede che
è una realtà di una varietà e di una pluriformità enorme e che nel corso dei secoli ha avuto una
dinamicità straordinaria. Certo c’è sempre la tendenza – come gruppo sociologico, perché noi siamo
Chiesa evento dello Spirito di Cristo, ma siamo anche un gruppo sociologico con tutte le dinamiche
della psicologia sociale – all’uniformizzazione e alla staticità, ma questo è l’inerzia umana che
talvolta diventa anche peccato umano, da tutte le parti, perché è un peccato uniformizzare e
staticizzare. L’apertura allo Spirito – faticosamente perché sono sempre “doglie del parto” (Rm 8,22)
–, però è di aprirsi con fatica e fiducia in Dio, aprirsi a fare il salto nel presente che citavo all’inizio.
2. L’attualità storica della realtà di comunione
Questo che dicevo – la “dinamicità” e la “novità”, e aggiungo la tensione verso il ritorno di Cristo,
cioè l’“escatologità”, perché i carismi spingono sempre verso la perfezione della vita evangelica e
quindi c’è la tensione verso l’eschaton – ci introduce nel secondo momento della riflessione.
Potremmo farci queste domande: perché proprio oggi questa riscoperta del significato del laicato, del
valore dei carismi? Perché proprio oggi questi carismi e non altri? In altri termini, secondo la
bellissima espressione dell’Apocalisse che Giovanni Paolo II ha fatto sua nella Tertio millennio
adveniente al n. 23: che cosa lo Spirito vuole dire oggi alla Chiesa?
2.1. La Chiesa in Cristo segno testimoniale credibile e strumento efficace concreto dell’amore di
Dio per gli uomini e della fraternità universale
La Christifideles laici al n. 29 ha parlato “di una nuova stagione aggregativa dei fedeli laici”; e ne ha
parlato Giovanni Paolo II, “di una nuova stagione carismatica”. Dal Concilio sono trascorsi parecchi
decenni e guardandolo ci accorgiamo che prima del Concilio (quasi dall’inizio del ‘900 quando hanno
preso forza le organizzazioni di associazioni cattoliche e poi via via le varie aggregazioni laicali),
attorno e dopo il Concilio c’è un nugolo di effervescenze laicali e carismatiche che precedono e
seguono l’evento conciliare.
Non posso entrare nei dettagli, posso dire solo questa tesi interpretativa globale: a mio avviso c’è
qualche cosa di provvidenziale nel fatto che proprio oggi la Chiesa riscopra la sua costitutiva
dimensione carismatica, il significato e la missione dei laici, e abbia scoperto questi carismi proprio
nel suo grembo; per quale motivo? Per essere nello stesso tempo ciò che è per grazia di Cristo. Lo
dico con le parole, che sempre mi sorprendono per la loro semplicità e profondità di Lumen Gentium
al n. 1: “La Chiesa in Cristo, sacramento, ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e
dell’unità del genere umano”. In una parola: “segno testimoniale credibile e strumento efficace
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concreto dell’amore di Dio per gli uomini e della fraternità universale”. Queste parole della
“fraternità universale”, nei momenti che stiamo vivendo, acquistano un senso e una forza particolare.
E io dico che stando lì in Iran con questa delegazione vaticana per una decina di giorni, mentre
stavano cominciando i bombardamenti in Afghanistan, vedendo questa grande “mezzaluna”, che dal
Marocco attraverso l’Egitto va nell’Iran e poi arriva in Pakistan fino all’Indonesia…, ci siamo resi
conto tutto ad un tratto, dopo il crollo della polarizzazione tra occidente e paesi del blocco
comunista… che ci eravamo fortemente illusi in occidente che oramai la globalizzazione era la strada,
che c’era un’unica superpotenza; abbiamo dimenticato questa immensa “mezzaluna”, abbiamo fatto
finta di dimenticare il terzo e quarto mondo.
E di fronte a queste sfide, “la Chiesa con il Concilio, bussola – dice Giovanni Paolo II – anche per
l’inizio del terzo millennio” (N.M.I n. 57), “in Cristo segno e strumento della fraternità universale a
partire dall’amore con Dio”. O il cristianesimo, grazie allo Spirito, si risveglia ad essere seme di
questo – non dico “lievito” di questo, come dice Gesù (cfr. Mt 16,6), non per il numero e la quantità,
ma per la qualità e la fede – o altrimenti questo sale che non sala, a che cosa serve?
2.2. Le aggregazioni laicali sono state una preparazione e una ricezione dinamica e profetica del
progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio
Nel Concilio è emersa con forza l’idea della Chiesa comunione. Come dice Andrea Riccardi della
Comunità di S. Egidio: la Chiesa Cattolica al nuovo millennio dà il Concilio, dà dei grandi pontificati,
è una grazia di Dio incredibile; dà una stagione aggregativa (una delle ricchezze più grandi sono tutte
le aggregazioni laicali sorte nel corso del ’900); dà grandi scuole di santità, dal dottore della Chiesa
Teresina di Lisieux fino ad arrivare a Madre Teresa, non a caso due donne, quasi inizio e fine del
secolo. Tutte queste realtà aggregative, se guardano dentro di se – e sono chiamate a guardare dentro
di se (ma non per fermarsi a guardare dentro di se, ma per meglio guardare fuori di se) – se guardano
alla loro scaturigine, alla loro fonte e alle forme storico pratiche in cui si realizzano, riconosceranno
sempre l’ispirazione del servizio ad una Chiesa comunione e missione.
Le aggregazioni laicali, i movimenti, le comunità ecclesiali e le realtà assimilabili sono state una
preparazione e una ricezione dinamica, in qualche caso addirittura eccedente, e profetica del
progetto di ecclesiologia proposto nelle sue grandi linee dal Concilio, e in realtà ancora in via di
definizione teologica e pastorale. Il Concilio non è ancora realizzato, si è fatto enormemente, ma
certamente rimane ancora di più da fare, la potenzialità del Concilio è ancora agli inizi; per l’appunto
dicevo: “di una preparazione e di una ricezione dinamica del Concilio”. Certamente ci sono state
intemperanze, ingenuità, immaturità in tutte queste realtà, chi per verso chi per un altro, ecc. Ma
questo è frutto necessario dello sviluppo dell’adolescenza di una realtà che deve entrare
progressivamente nella maturità.
2.3. La figura della missione della Chiesa
Ma complessivamente esaminando da vicino e senza preconcetti le ispirazioni e i frutti, le
intenzionalità delle diverse aggregazioni, dei diversi carismi, si può arguire che ci troviamo di fronte
a provvidenziali robuste premesse spirituali, laicali e culturali per un balzo in avanti nell’attuazione
della figura della missione della Chiesa conforme alla linea di marcia disegnata dal Vaticano II,
anche se si tratta solo di abbozzo e di premessa. Questo lo vedo sotto tre profili, quindi ne richiamo
solo tre tratti.
2.3.1. La forma della Chiesa come comunione
Il primo in fondo l’ho già detto: è la forma della Chiesa come comunione. Non per niente Giovanni
Paolo II nella Novo millennio ineunte al n. 43 parla della Chiesa come “casa e scuola di comunione”,
di una necessità della “spiritualità di comunione”. Perché in fondo uno dei punti delicati del
post-Concilio qual è stato? Che si è talvolta avuto la presunzione di poter realizzare una
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partecipazione, corresponsabilità e comunione ponendo il piede sull’acceleratore delle strutture e
dimenticandosi che non è possibile, con una spiritualità poggiata piuttosto sulla perfezione del
singolo, realizzare una comunione in cui le diverse ricchezze entrano in comunicazione tra di loro.
Questo mi pare che l’esperienza del dopo Concilio lo ha insegnato e oggi ci troviamo nella situazione
provvidenziale di attuare questa realtà; tenendo massimamente conto delle strutture di comunione in
cui deve realizzarsi un’autentica ecclosiologia di comunione. Perché la spiritualità e l’azione dello
Spirito plasma gli atteggiamenti essenziali per realizzare il dialogo, la partecipazione, ecc. Ma poi
sono necessari luoghi, momenti, strumenti e tempi per attuarlo e per concretizzarlo; siamo spirito
incarnato e quindi sono necessarie entrambe le dimensioni.
Girando nelle nostre Chiese ci colpisce molto spesso come le strutture di comunione e di
partecipazione ecclesiale sono non solo sottotono ma quando e dove ci sono non funzionano, e questo
è estremamente indicativo e grave; perché se non ci sono le strutture attive di comunione informate da
uno spirito nuovo della comunione, come si attua l’ecclosiologia di comunione? Non c’è la dinamica!
Giovanni Paolo II usa alcune espressioni forti nel testo Novo millennio ineunte al n. 43, ad un certo
punto dice: attenzione a non ridurre le necessarie strutture di comunione ecclesiali (i Consigli, ecc.) “a
maschere di comunione”, cioè a formalità che non hanno vitalità.
Le aggregazioni laicali, le nuove realtà ecclesiali, sono chiamate a dare un contributo importante,
innanzitutto sotto questo profilo, mettendo in relazione tra loro maggiormente le varie vocazioni che
ci sono nella Chiesa, e cioè il ministero ordinato, la vita consacrata, i carismi laicali… Il loro senso è
di essere in comunicazione tra loro e non di essere uno al di sopra dell’altro.
Insegno “Trinità”, come materia di insegnamento all’Università, e so bene che cosa ha significato
quando la teologia con S. Agostino ha capito che il Dio trinitario vuole dire che le tre persone sono
relazione tra di loro ognuna diversa: il Padre è Padre, il Figlio è Figlio e lo Spirito Santo è lo Spirito
Santo. Ma, diceva S. Agostino, per dire la Trinità, la Relazione – cioè l’essere “per” e con l’altro – è
altrettanto importante che la sostanza, cioè dell’essere in se (– “la relazione è altrettanto importante
che l’essere in se” –). Questo per la Trinità – se l’abbiamo capito – bisogna viverlo nella Chiesa. Il
ministero ordinato ha senso nella relazione ai laici e la vita consacrata, ecc., con questa comunione
Trinitaria tra tutti.
E qui mi permetto di citare il Card. Ratzinger, che ha avuto occasione di dire a proposito dei vescovi
e anche un po’ dei preti, proprio riguardante l’ecclesiologia di comunione: “Il Vescovo, pur
rimanendo rappresentante del sacramento (come abbiamo già detto), quindi rappresentante della voce
del Signore, responsabile della presenza della fede, sarà meno monarca e più fratello in una scuola
dove vi è un solo Maestro e un solo Padre”. E giunge a dire: “Penso che l’espressione “episcopato
monarchico” per molto tempo sia stata intesa in un modo scorretto”. L’idea della “monarchia”
certamente c’era ancora prima del Concilio Vaticano II, perché un mio illustre predecessore
nell’Università Lateranense, diceva: “Se dobbiamo dire: la Chiesa che regime è? La democrazia no! È
una monarchia non costituzionale, perché ha un monarca!”. Questa era un’idea sociologica che
veniva trasposta. Ovviamente nella Chiesa c’è un principio e un fondamento visibile di unità che è il
Papa e il Vescovo, questo è costitutivo dell’essenza della Chiesa, ma è com’è il Padre nella Trinità.
Qui c’è tutta un’ecclesiologia da evolvere.
2.3.2. Il volto laicale della Chiesa
Il secondo elemento della Chiesa del futuro è il volto laicale della Chiesa. Un “volto laicale” che
cosa significa? Significa: non mettere in ombra la struttura sacramentale gerarchica. Tutt’altro, è
mettere in rilievo la funzione di servizio che il sacerdozio ministeriale ha nei confronti del sacerdozio
universale dei fedeli. Lo scopo del ministero gerarchico è di offrire i mezzi di grazia necessaria
perché Cristo, principio e forma dell’umanità nuova, faccia dei cristiani e dei laici il sale e il lievito
del mondo. Qui si gioca una frontiera decisiva nella realtà della Chiesa. Noi abbiamo avuto la grazia
di Dio di avere questo “ministero petrino alto” che ci è stato dato; questi ultimi pontificati hanno fatto
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della Chiesa di Cristo e del Papa un punto di riferimento a livello universale. Io l’ho visto girando in
parecchie religioni, dal Mahayana nel Giappone, all’Iran e alla Tailandia, dove la figura del Papa è il
leader religioso certamente più riconosciuto. Occorrono al contempo delle figure di laici a tutti i
livelli che siano testimoni di questo sale e lievito evangelico. Questo è decisivo, non solo per la vita ad
intra della comunità ecclesiale, ma anche per il suo proporsi ad extra nella società e nella cultura.
2.3.3. Il profilo mariano della Chiesa
Abbiamo detto: la dimensione della comunione correlata alla missione, e la dimensione del laicato.
La terza dimensione (che ho già chiamato) è il profilo mariano della Chiesa. Cioè la riscoperta della
dimensione mariana della Chiesa, non nel senso di devozione a Maria, ma di strutturazione della
Chiesa nei suoi atteggiamenti e nel suo modo di essere e di proporsi sulla figura dell’apertura alla
grazia, e a farsi spazio accogliente dell’incarnazione di Cristo che è Maria.
Che cosa può significare l’ho tentato di tradurre in questi termini: “La Chiesa, che con Maria vive
l’attesa del sabato santo”. Il Card. Martini dice: “La qualità della nostra fede dipende dal nostro essere
capace di stare con Maria, in questo sabato santo che stiamo vivendo”. Qui Lui ha colto proprio
profondamente ciò che lo Spirito fa vivere alla Chiesa oggi. Che cosa significa: una Chiesa che
apprendere da Maria questo “stare”? Significa: primato dell’essere sul fare; primato dell’affidamento
al disegno di Dio sul progetto dell’uomo; primato della vita sull’idea astratta; primato del servizio
sulle tante forme palesi o occulte di tentazione del potere (dice il Papa: “Di tentazione del
carrierismo” (N.d.R. - N.M.I. n. 43); primato della Parola di Dio e della contemplazione sull’azione
che solo può venire dalla Parola di Dio e dalla contemplazione; primato della misericordia sul
giudizio; primato dell’attesa paziente sulla fretta dell’imposizione; primato dello sguardo universale
sulla cura asfittica del particolare; primato dell’amore reciproco tra i cristiani come premessa di ogni
altra cosa, per essere riconosciuti e per agire da discepoli di Cristo.
In fondo quello che la gente si aspetta è la Chiesa del Fiat, del Magnificat, dello Stabat, di Maria a
Pentecoste.
3. Le conseguenze pratiche della missione della Chiesa oggi
Vengo così al terzo punto appena accennato: le conseguenze pratiche. La Novo millennio ineunte,
dice: ogni Chiesa particolare, mettendosi alla scuola di Cristo, si sintonizzi su questo evento di grazia
che abbiamo sperimentato, e discerna le linee concrete che, nell’attenzione alla tradizione, al luogo
particolare, sono oggi essenziali. Mi pare che da questa indicazione viene la risposta al “che fare?”
- Da una parte lo dobbiamo lasciare allo Spirito, credendoci veramente.
- Dall’altra parte contemporaneamente dobbiamo accogliere la risposta che viene dallo
Spirito attraverso un rigoroso e profetico discernimento comunitario.
3.1. Il discernimento comunitario
Sono stato molto contento e ricco di speranza che i Vescovi italiani nei “Nuovi orientamenti per
questo primo decennio del terzo millennio” hanno ripreso quest’idea di metodologia fondamentale,
che era emersa al Convegno ecclesiale di Palermo, proprio per realizzare la dinamicità della comunità
cristiana e della missione: il discernimento comunitario. Cioè il mettersi insieme, tutte le
componenti del popolo di Dio, alla luce della Parola, nella comunione dello Spirito, per leggere i
segni dei tempi, per aprirsi all’azione dello Spirito e individuare le cose che siamo chiamati a fare.
Occorrono scuole di discernimento comunitario; una volta si parlava e si parla tuttora, è e continua
essere fondamentale il discernimento personale. C’è voluto il carisma di Ignazio di Loyola a forgiare
una metodologia del discernimento personale degli spiriti e della vocazione.
Con una teologia di comunione è necessario un discernimento comunitario, l’arte del discernimento
comunitario, avere la passione e la speranza, l’innamoramento di discernere insieme, con la fatica che
ciò comporta e con la gioia che ciò provoca.
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Questo discernimento comunitario potrebbe andare in tre direzioni, come apertura allo Spirito; lo
dico come enunciato molto generale.
3.1.1. L’apertura reale e sincera a ciò che lo Spirito vuole dire alla Chiesa soprattutto ai suoi
pastori
La prima direzione, a cui oggi sono chiamati soprattutto i pastori della Chiesa, è l’apertura reale e
sincera a ciò che lo Spirito vuole dire alla Chiesa, al suo modo profondo e insieme concreto di
essere e di agire oggi. Questo per evitare di strumentalizzare le energie che vengono dalle
aggregazioni laicali, dalle nuove realtà ecclesiali, secondo schemi di comprensione ecclesiale e di
azione pastorale preconfezionata e perciò irrimediabilmente non all’altezza dell’oggi di Dio. Non si
può utilizzare energie, forze, creatività, ecc. mettendole in un quadro ecclesiologico precedente. No,
occorre insieme guidare con autorevolezza e lungimiranza e saggezza verso questa ecclesiologia e
missione; quindi è un esercizio di conversione allo Spirito, che tocca soprattutto i pastori della
Chiesa.
3.1.2. L’apertura delle realtà aggregative, i nuovi movimenti ecclesiali, a trovare se stesse fuori di
sé nell’unica Chiesa di Cristo
Poi c’è una seconda direzione, che è l’apertura a cui sono chiamate le realtà aggregative, i nuovi
movimenti ecclesiali. Anche questa è un’apertura di conversione. Perché, se oggi il novum dello
Spirito è la comunione come principio e fine della nuova evangelizzazione, è un peccato
imperdonabile se queste realtà di aggregazioni – come dice Giovanni Paolo II: “antiche e più recenti
nelle varie forme che hanno assunto” (N.M.I. n. 31) – non vivono la comunione nella forma in cui
ciascuna è chiamata dalla sua finalità e carisma, ritrovando se stesse fuori di sé nell’unica Chiesa di
Cristo. Siamo giunti effettivamente a questo momento importante e decisivo (le realtà sono tutte
mature anche se tutte devono cercare ancora, chi più chi meno a seconda dell’età, della maturità,
ecc.): di trovare se stessi fuori di sé nell’unica Chiesa di Cristo; questa è la legge evangelica
fondamentale, con tutto ciò che questo comporta.
3.1.3. L’apertura del “popolo di Dio” a distogliere tutti lo sguardo da noi stessi
La terza apertura ci riguarda tutti, quindi della Chiesa nel senso come “popolo di Dio” oggi: è la
chiamata, la conversione, a distogliere tutti lo sguardo da noi stessi. Si direbbe in termini teologici: ad
essere meno ecclesiocentrici. Anche il Card. Ratzinger lo ha detto nel Sinodo (N.d.R. Decima
Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi); ho visto dai resoconti dell’“Osservatore
Romano” un’idea che Lui ripete sempre: “Il Vaticano II ha parlato della Chiesa, ma in realtà ha
parlato di Dio”. La gente di oggi, l’uomo di oggi, ha bisogno che noi parliamo non delle nostre beghe
interne, ma parliamo di Dio e testimoniamo Cristo. Quindi dobbiamo distogliere lo sguardo dalle
nostre belle esperienze e dai nostri acuti problemi, così come dai nostri ideali e dalle nostre
frustrazioni di Chiesa. Insomma, per prendere il largo, dobbiamo smetterla di piangerci addosso
oppure di autoesaltarci
Sull’“Avvenire” il teologo Pierangelo Sequeri di Milano ha scritto una cosa molto bella proprio in
questa direzione; commentando la lettera di Martini “Sulla tua parola getterò le reti” [“Duc in
altum!” quello di Giovani Paolo II (N.d.R. N.M.I. n. 58-59)], con una bella immagine dice: “Non si
può stare tutta la vita dove si tocca” (il riferimento è al “mare” in cui il nuotatore può toccare la terra
mentre nuota), un bel momento bisogna prendere il largo”. “Prendi il largo”, dice il successore di
Pietro alla Chiesa, indirizzandola oltre l’umana soglia della speranza. Quanto ciò che facciamo e
progettiamo è al di qua – è nella soglia umana della speranza e non è al di là della soglia umana della
speranza – “prendi il largo”, dice la Chiesa italiana incoraggiando all’improbabile audacia (per la
situazione attuale) della missione. L’irradiazione dell’originaria parola del Signore – Duc in altum,
prendi il largo – nella Chiesa di oggi sta prendendo una strana forza, si sente che lo Spirito ce la fa a
risuonare nel più profondo del nostro animo, come se mettessimo in risonanza qualcosa di speciale
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nell’inconscio ecclesiale della fede, che prende forma di un appello che riguarda esattamente
quest’ora della storia”. Questo era scritto prima dell’11 settembre. Continua Sequeri: “Viene il
momento, ed è ora, in cui dobbiamo in tutta franchezza riadattarci puramente e semplicemente alla
fede, sulla parola del Signore, semplicemente, punto e a capo, mollare gli ormeggi e prendere il
largo”.
Qui c’è la sfida proprio di fede del nostro tempo, della Chiesa del nostro tempo, di ciascuno di noi nel
nostro tempo. Solo se attraverseremo – come Chiesa e come singoli – la porta della città in cui
abitiamo (comodi e protetti anche un po’ stretti e asfittici ma alla fine comodi e protetti), per uscire
dall’accampamento e andare verso di Lui, scopriremo con stupore la realtà, non l’utopia, di ciò che
Lui ci promette. Come dice Isaia: “19 Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne
accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa…21 Il popolo che io –
il Signore – ho plasmato per me celebrerà le mie lodi” (Is 43, 19.21). Ma “forse” lo Spirito del
Signore si sta già plasmando – anzi, senza “forse”, ma certamente, perché è la speranza – un popolo,
se lo sta plasmando là dove noi nemmeno crediamo. Noi non dobbiamo precedere lo Spirito,
dobbiamo essere aperti e prendere il largo.
* Documento rilevato dalla registrazione, adattato al linguaggio scritto, non rivisto dall’autore.
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