Li fermeremo sul bagnasciuga
lanfranco caminiti [www.lanfranco.org]
“La più grande delle isole pelagie fu riguardata dagli andati popoli della Sicilia l'attuale Lampedusa,
la cui etimologia, siccome ci riferisce il Fazzello e Nobili, proviene dagli spessi lampi e baleni che
ivi si osservano; Strabone e Tolomeo la chiamarono Lopadaussa, Plinio, Lapadusa, Scillace la disse
Lampadusa per i fuochi d'avviso che un tempo colà ergevano sopra alcune torri onde avvertire di
notte i naviganti a tenersi lontani dagli acuti scogli che la circondano, e per i quali taluni altri
l'appellarono Lepadusa, e secondo ci riferisce il Massa da un nome greco di una specie di pesce che
ivi si pesca in abbondanza. La maggior parte degli autori qui sopra citati riputavano per Africana
cotesta isola, ma poi in seguito con più ragione fu annoverata siccome terra adjacente alla Sicilia”.
[Rapporto del viaggio scientifico eseguito nelle isole di Lampedusa, Linosa, e Pantelleria, ed in altri
punti della Sicilia, dal professor Pietro Calcara, Palermo, 1846]
Ecco, può apparire strano che un'incerta origine etimologica possa afferire una così piccola terra,
ma l'incertezza, l'ambiguità sembrano appartenere tutt'uno a Lampedusa, quel suo stesso difficile
definirsi se africana o siciliana. Non è cosa da poco, ma per secoli se lo chiesero tutti. E dev'essere
una sorta di condanna eterna - o di felice condizione - se tra le figure, poche, di cui è rimasta traccia
v'è quella dell'eremita che nel solitario santuario esercitava un doppio culto cristiano-musulmano,
con l'uso di dividere un medesimo luogo sacro tra due differenti religioni, ma anche per lo scambio
di merci che avveniva per tramite il santuario, divenuto anche centro di raccolta di vettovaglie e
mezzi con le donazioni lasciate ai piedi della Madonna, venerata anche con sommo rispetto dai
Maomettani. E ammetterete che di un simile culto “doppio” non v'è traccia in alcun'altra parte del
mondo. L'immagine della Madonna finì nel sacello della famiglia Tomasi, proprietaria dell'isola
fino al 1843, proprio quella a cui apparteneva il Giuseppe Tomasi che scrisse, controvoglia, il suo
Gattopardo: e qui - come sempre accade quando si parla di cose siciliane -, non c'è chi non veda un
intreccio, un significato, un qualcosa che sfugge all'umana comprensione.
John Lennon ebbe la sfacciataggine di dire che nel mondo i Beatles fossero più conosciuti di Gesù
Cristo: era abbastanza vero, e non so dire se questo fosse di per sé motivo di alcun conforto per lo
stesso Lennon. Io credo che la parola oggi più comune fra i kurdi che si spandono dall'Armenia
all'Iraq, tra gli africani che galleggiano dal deserto del Maghreb alle periferie suburbane di Lagos o
di Dakar, tra pakistani di Islamabad o cingalesi di chissadove, sia “Lampedusa”. Anche fra i cinesi
dello Zhejiang, questi forse a più diritto, visto che il primo territorio d'Italia descritto da un autore
cinese fu proprio la Sicilia. La storpieranno nei loro accenti questa parola, la aspireranno o la
caricheranno di gutturali tonalità, ridando incertezza a un nome che sembrava aver trovato
definizione: di nuovo, suonerà Lepadusa, Lopadaussa, come mill'anni fa. Di nuovo, non sappiamo
se dirla più africana o siciliana. Di nuovo, uno strano culto vedrà insieme uomini di religioni diverse
adorare la stessa immagine cui chiedere salvezza.
Emanuele Crialese ha girato uno dei più bei film che siano passati quest'anno nelle sale
cinematografiche [in realtà è ri-passato nelle sale]: si chiama Respiro e è girato proprio a
Lampedusa, benché l'isola non venga mai citata. Non è chiaro neanche il tempo in cui si svolge la
storia, potrebbe essere adesso, potrebbe essere prima, l'unica traccia che abbiamo è il mangiadischi
colorato che la protagonista stringe sempre al petto ascoltando Bambola di Patty Pravo. La donna,
ribelle a qualunque convenzione sociale, affamata dell'amore dei propri figli e del proprio marito
pescatore, è data per pazza da tutto il villaggio. Fuggirà, nascondendosi in una grotta, e tutto il
paese la cercherà dandola ormai per morta e quasi rimpiangendo la sua presenza “sacra”. Poi,
d'improvviso riappare, nuotando fra le acque cristalline, e tutti la venereranno. Come la madonna
che protegge l'isola. Come il mare stesso, che protegge e danna l'isola. Ma prima di questo finale,
prima di nascondersi per non andare “a Milano” - dove tutti la vogliono mandare a curarsi - la
donna libererà i cani che a centinaia sono chiusi in un luogo abbandonato e dove lei porta gli avanzi
che riesce a raccattare qui e là. Quei cani, bastardi, riottosi, tranquilli, affamati, sono condannati a
essere uccisi e persino il suo cane, che le è fedele tanto da ringhiare anche al marito, vi viene
rinchiuso. I cani, che nessuno vede mai, scapperanno per tutta l'isola, impazziti di libertà. Allora, gli
uomini dell'isola salgono sui terrazzi e con i fucili li uccideranno uno per uno, crudelmente. Poi, le
donne laveranno con l'acqua di mare e le ramazze tutto il sangue. Lei fugge. A me la storia sembra
ispirarsi a un racconto breve di Giuseppe Tomasi. Ma questo, che nulla toglie e nulla mette, lo dico
quasi con cautela e prudenza.
Al Tg1 delle 13.30 di venerdì 20 giugno, è andato in onda un servizio su Lampedusa - veniva dopo
quello sull'incontro di Salonicco, in cui la “vecchia Europa” ha deciso di difendere le proprie
frontiere. Hanno chiesto a qualche abitante dell'isola cosa ne pensassero di tutto questo marasma,
dell'essere sulla bocca di tutti i politici, di tutto il paese, verosimilmente. Una signora anziana ha
detto che lei sapeva che “li portano là, al centro, e non li fanno uscire, poi li spediscono lontano, a
Milano forse”. Un altro signore ha detto, sorridendo, divertito dalle sue stesse parole, dai suoi stessi
pensieri, da tutto quell'ingiustificato chiasso: “Io non li ho visti mai, li chiudono”.
Roma, 21 giugno 2003