IL DANNO ESISTENZIALE DA INADEMPIMENTO CONTRATTUALE 1. Premessa. Legislazione: c.c. 1218, 1223, 1226, 2087. Ad una prima sommaria analisi del repertorio giurisprudenziale in tema di inadempimento contrattuale, parrebbe quasi necessario contenere l’esposizione delle problematiche sottese all’argomento in esame a poche considerazioni. Infatti, partendo dai casi più frequenti nella aule giudiziarie (malpractice medica 1 , rapporti di lavoro 2 , rapporti di locazione 3 , contratti di trasporto ecc…) passando attraverso le « nuove frontiere » della responsabilità civile contrattuale (vacanza rovinata, interruzione dell’energia elettrica4, ritardata attivazione della linea telefonica5 ecc…) sino ad arrivare a situazioni del tutto peculiari (errato taglio di capelli6, mancata realizzazione del filmato nuziale7, rottura del tacco delle scarpe della sposa8 ecc…) e limitandosi ad una rapida lettura delle massime delle varie pronunce, parrebbe che la risarcibilità dei danni aventi natura non patrimoniale sia questione tanto assodata quanto scontata. Conferma la natura contrattuale del c.d. « contatto sociale »: Cass. 19.4.2006, n. 9085, GCM, 2006, 4. 2 Le SS.UU. rinvengono nella formulazione dell’art. 2087 c.c, il quale assicura la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, il fondamento della risarcibilità di « tutti i danni non patrimoniali »: Cass. Sez. U. 24.3.2006, n. 6572. 3 Offre interessanti spunti di riflessione: Cass. 3.2.1999, n. 915, GC, 1999, I, 2358. 4 Giud. pace Napoli 13.7.2005, DeG, 2005, 38, 76; Giud. pace Casoria 12.7.2005, www.personaedanno.it, Giud. pace Capaccio 20.10.2004, GM, 2005, 11, 2306. 5 Giud. pace Verona 16.3.2000, GI, 2001, 1159. 6 Giud. pace Catania 29.4.1999, inedita. 7 Pret. Salerno 17.2.1997, GC, 1998, I, 2037. 8 Giud. pace Palermo 17.5.2004, n. 4859, GDir, 2005, 10, 19. 1 2 Eppure, se si entra più nel dettaglio e si confrontano le motivazioni di tali pronunce con le obiezioni della dottrina che, pur essendosi occupata in maniera sporadica della questione, nelle poche occasioni in cui ha ritenuto di approfondire la materia ha manifestato non poche perplessità circa l’effettiva possibilità di ammettere il risarcimento dei danni aventi natura non patrimoniale nei casi di inadempimento contrattuale, ci si accorge dell’esistenza, in alcune occasioni, di una certa superficialità e, in altre, di una prudente attenzione nel non indagare oltre il necessario. Stante la brevità che deve contraddistinguere questa relazione, ci si limiterà in questa sede ad evidenziare alcuni degli aspetti che possono offrire maggiori spunti di riflessione – senza alcuna pretesa di esaustività – premettendo sin d’ora di ritenere di aderire alla tesi favorevole, non tanto perché in tal senso è l’opinione costante della giurisprudenza (che come detto ha scarsamente approfondito la tematica), quanto piuttosto perché le obiezioni sollevate dalla dottrina contraria appaiono superabili con argomentazioni convincenti. 2. L’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. alle ipotesi di inadempimento contrattuale. Legislazione: c.c. 1223, 1225, 122, 1227, 2056, 2059. Bibliografia: Bonilini G. 1983 – Busnelli F.D. 1996 – Pizzoferrato A. 2000 – Tursi A. 2003. Un primo punto di partenza, comunemente assodato, riguarda l’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. alle ipotesi di inadempimento contrattuale. A tale conclusione si giunge, senza particolare impegno ermeneutico, attraverso un’elementare osservazione della tecnica utilizzata dal legislatore: ove, infatti, si è voluto ritenere operanti talune regole, inserite in un determinato comparto, ad altro e diverso settore, si è provveduto a predisporre una norma che effettuasse un apposito richiamo. Così, in tema di responsabilità civile, le regole dettate in riferimento alle ipotesi di responsabilità contrattuale (art. 1223 c.c. sull’identificazione del danno risarcibile; art. 1226 c.c. sulla liquidazione equitativa; art. 1227 c.c. sul 3 concorso del fatto colposo del creditore) sono applicabili in ambito extracontrattuale in ragione dell’espresso richiamo dell’articolo 2056 c.c., mentre, di contro, proprio dall’assenza di un espresso richiamo, altre regole sono da ritenersi inapplicabili (art. 1225 c.c. sulla prevedibilità del danno). Viceversa non vi è alcuna norma dettata in ambito contrattuale degli artt. 1218 e seguenti c.c. che richiami l’articolo 2059 c.c.. Tali osservazioni sono peraltro già state svolte da tempo della dottrina, la quale ha affermato che « il legislatore fa estensione dei canoni risarcitorii del campo contrattuale a quello extracontrattuale - e non viceversa sicché, conseguentemente, appare impensabile che, supposta una volontà legislativa indirizzata ad escludere una dimensione giuridica del danno non patrimoniale contrattuale, ponga la relativa norma nel titolo dedicato agli illeciti aquiliani »9. Non deve ingannare, a tal proposito, il richiamo effettuato – in un caso di demansionamento – dalla Corte di cassazione alla « lettura costituzionalmente orientata » dell’art. 2059 c.c. e la conseguente affermazione dell’applicabilità anche in tema di inadempimento contrattuale dei principi elaborati in ambito extracontrattuale. Infatti, la Suprema Corte è ben chiara nel precisare che tale applicazione attiene solo all’ultima fase del processo risarcitorio – vale a dire quello di liquidazione del danno – e riguarda esclusivamente l’individuazione delle tre autonome categorie di danno non patrimoniale e la loro risarcibilità indipendentemente dall’esistenza di un illecito a rilevanza penale10. Tuttavia, l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 2059 c.c. alle ipotesi di inadempimento contrattuale non può condurre, di per sé sola, all’automatica esclusione della risarcibilità dei danni aventi natura non patrimoniale nelle ipotesi medesime, costringendo semmai l’interprete, molto più semplicemente, a doverne ricercare altrove il fondamento normativo. Prima di effettuare tale operazione, peraltro, merita evidenziare come alcuna dottrina abbia sostenuto che l’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. in ambito contrattuale, oltre a non precludere la Bonilini G., Il danno non patrimoniale, Giuffrè, Milano, 2003, 229 ss.; confermano tale opinione: Busnelli F.D., Interessi della persona, in RTDPC, 1996, I, 9 ss.; Pizzoferrato A., Molestie sessuali sul lavoro, Cedam, Padova, 2000, 255. 10 Cass. 26.5.2004, n. 10157, GCM, 2004, 5. 9 4 risarcibilità dei danni non patrimoniali, possa addirittura portare a vantaggi in tal senso. Secondo tale tesi, infatti, l’accoglimento dell’opinione prevalente semplificherebbe drasticamente il quadro argomentativo consueto in materia di risarcibilità dei danni alla persona nel rapporto di lavoro, giacché si configurerebbero come risarcibili, in caso di responsabilità contrattuale, tutti i danni non patrimoniali, con l’ulteriore conseguenza che diventerebbe superfluo l’ancoraggio costituzionale dei diritti da tutelare in via risarcitoria11. 3. Il fondamento normativo della risarcibilità dei danni non patrimoniali. Legislazione: c.c. 1174, 1321, 2059. Bibliografia: Rescigno P. 1982 – Costanza M. 1987 – Bilotta F. 2001. La affermazione circa l’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. alle ipotesi di inadempimento contrattuale impone all’interprete la ricerca del fondamento normativo della risarcibilità dei danni non patrimoniali. La tesi più accreditata 12 , rintraccia tale fondamento nell’art. 1174 c.c. il quale, com’è noto, sottolinea che l’interesse che il creditore deduce in obbligazione può essere anche di natura non patrimoniale. Secondo tale impostazione la mancata o non corretta esecuzione della prestazione contrattuale può riverberarsi su momenti della vita del creditore non suscettibili di valutazione economica. Il disposto contenuto nell’art. 1321 c.c., in base al quale l’obbligazione deve avere per volontà di legge carattere patrimoniale13, non impedirebbe che il creditore possa preordinare Tursi A., Il danno non patrimoniale alla persona nel rapporto di lavoro: profili sistematici, in RIDL, 2003, 3, 283. 12 Bilotta F., Inadempimento contrattuale e danno esistenziale, in GI, 2001, 6, 1159. 13 Una tale previsione ha lo scopo, secondo un’illustre dottrina, di limitare la possibilità per il creditore di restringere la libertà del debitore a proprio vantaggio per mezzo del rapporto obbligatorio: Rescigno P., Manuale di diritto privato, Jovene, Napoli, 1982, 611. 11 5 il contratto alla realizzazione di interessi non quantificabili in denaro. Tale affermazione si fonda, da un lato, sull’analisi storica della norma di cui all’art. 1321 c.c. e, dall’altro, sulla sua contestualizzazione all’interno dell’attuale sistema della responsabilità civile. Sotto il primo profilo, basti ricordare che la Relazione al Re precisa che essa serve (o, per meglio dire, serviva) ad individuare i requisiti necessari per la realizzazione coattiva del rapporto obbligatorio in caso di inadempimento. La monetizzabilità della prestazione avrebbe consentito la liquidazione di un risarcimento per equivalente in mancanza della possibilità di un’esecuzione forzata in forma specifica. Accanto, infatti, alla lesione attuale di un interesse, anche non patrimoniale del creditore, va tenuto presente che per un’effettiva tutela del credito è necessaria la possibilità di convertire la prestazione in denaro. Secondo tale impostazione, il profilo patrimoniale del rapporto è centrale sia prima sia dopo l’inadempimento e, conseguentemente, su di esso si era appuntata in via esclusiva l’attenzione del legislatore. Procedendo poi, come detto, ad una contestualizzazione della norma, deve osservarsi che lo sviluppo della tutela del creditore attraverso lo strumento del risarcimento del danno consente di distinguere ancora più nettamente fra loro i differenti interessi che sono collegati ad una vicenda contrattuale. La presenza nel contratto di interessi distinti per natura, induce a concludere che più di uno possono essere gli strumenti di tutela da mobilitare contemporaneamente per una piena reintegrazione della sfera giuridica del danneggiato. L’utilità non patrimonialmente apprezzabile che il creditore intende realizzare attraverso l’adempimento del debitore può, infatti, non essere recuperabile neppure attraverso un'esecuzione forzata in forma specifica, idonea, semmai, a presidiare gli interessi di ordine patrimoniale. Tale tesi trova conforto anche in altra dottrina, la quale ritiene, analogamente, che già in base alla lettera dell’art. 1174 c.c sia possibile giustificare la rilevanza e l’ammissibilità dei danni non patrimoniali contrattuali; si è così affermato che il mancato adempimento di un obbligo comporta necessariamente la riparazione dei danni sofferti dal creditore; perciò se questi è 6 portatore di un interesse non patrimoniale, il risarcimento deve compensare la lesione di questo interesse; tuttavia perché gli interessi non patrimoniali assumano rilevanza occorre che essi abbiano influito sulla stipulazione del contratto e sulla determinazione del suo contenuto14. 3.1. Natura del danno e natura dell’interesse. Legislazione: c.c. 1223, 1226, 1227, 2056, 2059. Bibliografia: Zeno-Zencovich V. 1984 – Di Marzio M. 2006. Di fronte a tale impostazione, tuttavia, ci si è interrogati in merito alla possibilità di affermare che il danno che colpisce un interesse non patrimoniale sia un danno non patrimoniale15. Per superare tale interrogativo, si è sostenuto16 – tralasciando preliminarmente il riferimento all’interesse – che non possa intravedersi una corrispondenza necessaria tra la patrimonialità del rapporto giuridico costituito attraverso il contratto e la natura del danno. A sostegno di tale affermazione si è osservato che, in virtù dell’espresso richiamo operato dall’art. 2056 c.c. agli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., la nozione di danno, nel complesso normativo, è unica tanto nel settore contrattuale che in quello extracontrattuale. Stando così le cose non è possibile negare che l’espressione danno, inteso come perdita, si riferisca tanto al danno patrimoniale che a quello non patrimoniale: nel comparto aquiliano, infatti, non è lecito dubitare della risarcibilità del secondo, ed anzi il legislatore 14 Costanza M., Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, in RCDP, 1987, 127 ss., che, a titolo esemplificativo riporta il caso del mandatario che venga revocato senza giusta causa prima della scadenza. Il pregiudizio subito dal mandatario, che comprende anche l’ingiusta valutazione sociale di inaffidabilità circa la propria persona, induce tale dottrina a riconoscere che la mortificazione possa venire risarcita a titolo di danno non patrimoniale. Zeno-Zencovich V., Danni non patrimoniali e inadempimento, in Visintini G. (a cura di), Risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, Giuffrè, Milano, 1984, 109 ss. 16 Di Marzio M., Il profilo esistenziale nei contratti, in www.personaedanno.it, 2006 15 7 ha dovuto prevedere un’apposita norma, l’articolo 2059 c.c., per limitare la risarcibilità ai soli casi previsti dalla legge. Il successivo passaggio operato da tale dottrina é quello di negare la dipendenza della natura del danno dalla natura dell'interesse dedotto in contratto. A tal fine, si è richiamato un recente arresto giurisprudenziale che ha avuto ad oggetto lo smarrimento di urne funerarie imputabile a titolo contrattuale all’impresa esercente il servizio aeroportuale di handling17. In tale ipotesi, infatti, non è possibile dubitare della patrimonialità della prestazione, riconducibile alla figura contrattuale del deposito a favore del terzo18. Ma neppure si può dubitare che, assieme al danno patrimoniale, commisurato al corrispettivo inutilmente sborsato, il figlio abbia subito una perdita di carattere personale: e che sia una perdita non mi sembra si possa negare, in base alla elementare considerazione che nessuno si augurerebbe, per sé, un simile evento. 3.2. Altre tesi dottrinali. Cenni. Legislazione: c.c. 1174, 1218, 1223, 1225, 1321, 2059. Bibliografia: Bonilini G. 1983 – Gazzarra G. 2003. Avvertita l’esigenza di tutela degli interessi coinvolti, da altra parte si ritiene che la strada per ammettere il danno non patrimoniale sia quella di una lettura congiunta degli articoli 1218 e 1223 c.c. che, prevedendo in termini generali l’obbligo di risarcire il danno per le perdite subite dal creditore per l’inadempimento, sarebbe comprensiva di ogni sorta di danno, incluso quello non patrimoniale. In particolare, si è osservato che l’interpretazione secondo la quale il riferimento alla « perdita » subita dal creditore vada inteso come perdita economica è solo il frutto di un’argomentazione che si tramanda e che ben può dirsi indicatore di una mentalità patrimonialistica che è oggi oggetto di revisione; assodato che il legislatore non ha impedito la possibilità di riparare il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale nulla 17 18 Trib. Busto Arsizio 28.1.2005, GDir, 2005, 10, 11. Cass. 26.11.2003, n. 18074, DResp, 2004, 974. 8 esclude che il giudice possa sol che lo voglia, rendere più conforme a giustizia il trattamento da riconoscere al creditore insoddisfatto19. Nella dottrina più recente vi è anche chi suggerisce di subordinare il risarcimento del danno non patrimoniale da inadempimento al presupposto che l’illecito incida su posizioni soggettive costituzionalmente garantite o comunque ritenute meritevoli di protezione secondo una valutazione socialmente tipica e, al limite, alle ipotesi in cui il contratto è destinato a soddisfare in via principale un interesse non economico. Il bilanciamento tra l’esigenza di operare una selezione tra le conseguenze pregiudizievoli suscettibili di risarcimento e quelle che rientrano in un'alea di rischio accettabile in relazione all'attività negoziale in atto verrebbe operato dunque, anche in questa prospettiva, dagli art. 1223 ss. c.c. e, in particolare, dall’art. 1225 c.c. sulla prevedibilità del danno20. 4. Il limite della prevedibilità del danno. Legislazione: c.c. 1225, 2056, 2059. Bibliografia: Cendon P. 2000 – Bilotta F. 2001 – Di Marzio M. 2006. Ad un primo approccio, la regola dell’art. 1225 c.c. che limita il danno risarcibile al danno prevedibile al tempo del sorgere dell’obbligazione, salvo i casi in cui l'inadempimento sia doloso, può far sorgere dubbi in proposito all’effettiva risarcibilità dei danni aventi natura non patrimoniale e, in particolare, del danno esistenziale. Tale timore, tuttavia, può essere facilmente fugato ove non ci si limiti a ritenere tale categoria di danno legata alla mera soggettività della vittima. Il danno esistenziale, infatti, consiste nelle ripercussioni negative dell’illecito sulla vita quotidiana del danneggiato21. Si tratta di conseguenze oggettivamente rilevabili e che sussistono a prescindere dalla situazione personale del soggetto leso. Il punto, Bonilini G., op. cit., 1983, 232. Secondo Gazzarra C., Il danno non patrimoniale da inadempimento, in Quaderni della Rassegna in diritto civile, Jovene, Napoli, 2003, 96. 21 Cendon P., Esistere o non esistere, in RCP, 2000, 1275. 19 20 9 quindi, non è quello di dare rilevanza a stati psicologici o emotivi della vittima: occorre semplicemente stabilire fino a che punto la vita dell’interessato è cambiata rispetto a quella che veniva condotta precedentemente all’illecito22. Sia nei più eclatanti casi di malpractice medica che nelle ipotesi più particolari (come ad esempio quella già ricordata della mancata consegna del filmato nuziale), è infatti possibile affermare che entrambe le parti contrattuali fossero perfettamente a conoscenza che l’inadempimento sarebbe stato destinato a riflettersi sulla qualità della vita del creditore. Dunque, il danno esistenziale suscettibile di derivare dall’inadempimento era già in quel momento ben prevedibile. Occorre dire, inoltre, come la sussistenza della prevedibilità non sia qualcosa da riscontrare in modo astratto rispetto agli accordi che sono concretamente intercorsi tra le parti. Il motivo che ha spinto una delle parti a contrarre e che sia conosciuto dalla controparte, pur avendo un rilievo molto limitato rispetto all’invalidità negoziale, trova invece nuovo spazio sul terreno della prevedibilità del danno. La conoscenza assunta dal debitore circa la rilevanza esistenziale per il creditore dell'adempimento dell'obbligazione, fa sì che ciò che non era magari astrattamente prevedibile, ossia il danno esistenziale suscettibile di discendere dall’inadempimento, lo diventi appunto con la comunicazione dei motivi che inducono il creditore a contrarre23. Per chiarire definitivamente il punto bisognerà, allora, distinguere tra: (i) danni esistenziali che genericamente e astrattamente si possono ricondurre ad un certo illecito contrattuale, in base all’id quod plerumque accidit; (ii) danni esistenziali appartenenti alla sfera idiosincratica della vittima e conosciuti dal debitore; (iii) danni esistenziali rientranti nella sfera idiosincratica della vittima ma non conosciuti dal debitore24. Peraltro, ove si consideri sotto un altro profilo la regola contenuta nell’art. 1225 c.c. può addirittura essere considerata Bilotta F., op. cit., 2001, 1159. Spetta al creditore provare le circostanze incidenti, sotto il profilo della prevedibilità, sulla misura del danno risarcibile: Cass. 26.5.1989, n. 2555, in FI, 1990, I, 1946. 24 Cendon P., op. cit., 2000, 1324. 22 23 10 come punto di forza dell’affermazione circa la risarcibilità dei danni non patrimoniali in caso di inadempimento contrattuale. Una delle perplessità sollevate da alcuna dottrina in merito alla tesi positiva, infatti, è rappresentata dal timore che le attività economiche ne possano subire un complessivo pregiudizio: possano, cioè, divenire più dispendiose, più pericolose, meno appetibili. In tale ottica, proprio il criterio della prevedibilità di cui all’art. 1225 c.c. può apparire quantomai idoneo a fugare i dubbi in proposito; in altre parole, il contraente, sin dal momento dell’assunzione dell’obbligazione, è in grado di prevedere i rischi a cui può andare incontro in caso di inadempimento e, conseguentemente, decidere la controprestazione da richiedere e cautelarsi attraverso l’assunzione di idonee garanzie presso terzi, stipula di polizze assicurative ecc… Neppure potrebbe destare timore l’esclusione della limitazione in caso di inadempimento doloso; anzi, in tali ipotesi, il recupero di una sorta di profilo sanzionatorio non potrebbe che migliorare le relazioni contrattuali. 5. Le clausole di esonero della responsabilità. Legislazione: c.c. 1229. Uno dei rari casi in cui la giurisprudenza si è occupata dei danni da inadempimento contrattuale fornendo spunti di effettivo rilievo è rappresentato dalla sentenza n. 915/199925. La vicenda riguardava il conduttore di un appartamento nel quale si era verificata e persisteva una forte immissione di rumore proveniente da un’autoclave collocata dal locatore al piano sottostante. I giudici di merito avevano escluso la risarcibilità del danno biologico in quanto il conduttore, al momento della presa di possesso dell’immobile, aveva sottoscritto una dichiarazione liberatoria di normalità dell’immobile medesimo. 25 Cass. 3.2.1999, n. 915, cit. 11 La Suprema Corte, nel cassare la decisione sul punto, ha osservato che, se è pur vero che il conduttore non può chiedere, oltre alla risoluzione, anche il risarcimento dei danni, quando, conoscendo il vizio, vi si è volontariamente esposto, occorre però valutare che: a) tale interpretazione non tiene adeguatamente conto del significato attribuito dalla giurisprudenza ordinaria e costituzionale (elaborate, almeno in parte, successivamente ai precedenti specifici citati) al bene della salute, nei confronti di ogni condotta o fatto, i quali, pregiudicandolo, diventano illeciti da risarcire; b) per effetto di tale elaborazione giurisprudenziale, la tutela della salute rileva come « norma di ordine pubblico », la cui violazione, anche ai sensi dell’art. 1229, 2° co., c.c. espone l’obbligato (anche ex contractu) al risarcimento, nonostante « qualsiasi patto preventivo di esclusione o di limitazione della responsabilità ». Il ragionamento operato nella sentenza richiamata appare adattabile anche alle altre categorie di danni aventi natura non patrimoniale, vale a dire danno morale e danno esistenziale. Dopo la svolta del 2003, con le note sentenze n. 8827 e 8828 della Corte di cassazione e n. 233 della Corte costituzionale26, e le successive – seppur altalenanti – evoluzioni giurisprudenziali, non appare più dubbia la riconducibilità di tali categorie di danno alla lesione di principi fondamentali contenuti nella nostra Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di tutelare i diritti fondamentali dell’uomo27. Se così è allora, è altrettanto indubbia l’inoperatività di clausole di esonero di responsabilità nei confronti delle medesime. 6. Dal patrimonio alla persona. Legislazione: c.c. 1223, 1226, 1227, 2043, 2056, 2059. Bibliografia: Cian G. 2003 – Christandl G. 2006. Cass. 31.5.2003, n. 8827, in GI, 2004, 1129; Cass. 31.5.2003, n. 8828, in NGCC, 2004, I, 232; Corte cost. 11.7.2003, n. 233, in GI, 2004, 723. 27 Sulla corrispondenza di tale ultimo periodo alla nozione di ordine pubblico si veda ancora da ultimo: Cass. 26.11.2004, n. 22332, in GCM, 2004, 11. 26 12 L’evoluzione della giurisprudenza ha portato gradatamente a spostare l’attenzione verso gli interessi della persona piuttosto che verso il patrimonio. Il fenomeno, iniziato da tempo, sta interessando da ormai almeno una ventina d’anni anche gli interventi legislativi, come ad esempio le disposizioni in materia di privacy (d.lgs. 30.6.2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali) e le varie disposizioni a tutela del consumatore (oltre al recente Codice del consumo, d.lgs. 6.9.2005, n. 206, si pensi al d.p.r. 24.5.1988, n. 224, attuazione della direttiva 85/374/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi ai sensi dell’art. 15 della l. n. 183/1987; al d.lgs. 25.1.1992, n. 73, attuazione della direttiva 8/357/CEE, relativa ai prodotti che, avendo un aspetto diverso da quello che sono in realtà, compromettono la salute o la sicurezza dei consumatori; al d.lgs. 25.1.1992, n. 74, attuazione della direttiva 84/450/CEE, come modificata dalla direttiva 97/55/CEE in materia di pubblicità ingannevole e comparativa; al d.lgs. 17.3.1995, n. 115, attuazione della direttiva 97/55/CEE relativa alla sicurezza generale dei prodotti; alla l. 30.7.1998, n. 281, disciplina dei diritti dei consumatori e degli altri utenti; al d.lgs. 22.5.1999, n. 185, attuazione della direttiva 97/7/CEE relativa alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza). Volgendo lo sguardo per un attimo oltre i confini nazionali, un aspetto indubbiamente importante da considerare è rappresentato dalla recente riforma del sistema risarcitorio tedesco; l’area del risarcimento dei danni non patrimoniali, infatti, ha subito una rilevante modificazione in seguito alla seconda legge di riforma delle norme risarcitorie 28 nel 2002 29 . Con questa legge è stato abrogato il § 847 BGB ( c.d. Schmerzensgeldparagraph) per essere ricalcato quasi alla lettera in un nuovo secondo comma del § 253 BGB, con la sola aggiunta dell’autodeterminazione sessuale che Zweites Gesetz zur Änderung schadensersatzrechtlicher Vorschriften, 19.7.2002, BGBI I, p. 2674, entrata in vigore il 1.8.2002. 29 Cian G., La riforma del BGB in material di danno immateriale e di imputabilità dell’atto illecito, in RCP, 2003, 629; Christandl G., La risarcibilità del danno esistenziale, Giuffrè, Milano. 28 13 sotto la vigenza del precedente § 847 BGB era strettamente limitata alle donne. « Nel caso in cui siano stati colpiti l’integrità fisica, la salute, la libertà o l’autodeterminazione sessuale, il danneggiato può rivolgersi al giudice per chiedere un equo risarcimento in denaro anche dei danni di natura non patrimoniale » (§ 253, 2° co., BGC). La grande novità della riforma del 2002 consiste nello spostamento della disciplina dello Schmerzensgeld (vale a dire dell’equa indennità per danni di natura non patrimoniale) dalle norme sui fatti illeciti alla parte generale delle obbligazioni, dando luogo in questo modo ad un notevole ampliamento della sua sfera di operatività. Attraverso tale operazione, dunque, sono state rimosse le differenze di trattamento fra i danni non patrimoniali derivanti da fatto illecito e danni non patrimoniali derivanti da inadempimento e responsabilità oggettiva, differenze che nella relazione al disegno di legge presentato dal governo tedesco era considerata ormai non più accettabile. Anche i Principi dei contratti commerciali internazionali predisposti dall’UNIDROIT (vale a dire i i principi che enunciano regole generali in materia di contratti commerciali internazionali e che possono essere applicati quando le parti hanno convenuto tra loro che il loro contratto sia da essi disciplinato o quando le parti hanno convenuto che il loro contratto sia regolato dai « principi generali del diritto », dalla « lex mercatoria » o simili) prevedono, alla sezione 4 della versione del 2004, la risarcibilità del danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento. « Il creditore ha diritto al risarcimento integrale del danno subito in conseguenza dell’inadempimento. Il danno comprende sia ogni perdita sofferta che ogni mancato guadagno, tenuto conto dei vantaggi economici che il creditore ha ottenuto evitando spese e danni. Il danno può essere di natura non patrimoniale e comprende, per esempio, la sofferenza fisica e morale » (art. 7.4.2 Principi UNIDROIT). A fronte di una riforma così importante come quella tedesca, da un lato, e dell’intervento dell’UNIDROIT per affermare la risarcibilità dei danni non patrimoniali ove ciò sia reso possibile da 14 un’espressa, seppur generale, pattuizione tra le parti, potrebbe indurre a ritenere che nel nostro ordinamento sia necessario operare in maniera analoga a quanto avvenuto in Germania. Tuttavia, considerando quanto avvenuto nella giurisprudenza italiana a distanza di neppure un anno dalla riforma del sistema risarcitorio tedesco, è possibile giungere ad una diversa conclusione. Si pensi, infatti, alla sorte toccata nel 2003 al nostro 2059 c.c. che, analogamente al § 253, 1° co., BGB, prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale « solo nei casi determinati dalla legge ». Orbene, dopo anni di attacchi a tale nostra norma (tacciata, di volta in volta, di desuetudine, di incostituzionalità, di arcaicità ecc…), la Corte di cassazione prima e la Consulta poi, attraverso una rilettura della stessa « costituzionalmente orientata, non solo hanno salvato l’art. 2059 c.c., ma lo hanno rimesso a nuovo, donandogli nuovo inatteso vigore e consegnandogli un ruolo centrale nel sistema risarcitorio italiano, erigendolo a caposaldo della risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale, ivi compreso il danno biologico, sottratto alla disciplina dell’art. 2043 c.c.30 Insomma, Suprema Corte e Consulta ci hanno mostrato come, prima di procedere ad abrogazioni e riforme, si debba procedere a verificare se le norme che si vorrebbero modificare non sia passibili di una nuova rilettura interpretativa, prendendo come riferimento, principalmente ma non solo, proprio le disposizioni ed i principi contenuti nella Costituzione che, per la loro valenza generale, sono suscettibili di adattamento ai mutamenti sociali ed alle diverse sensibilità del tempo. Ebbene, in tale ottica, è ben possibile affermare che una rilettura « costituzionalmente orientata » sia da operarsi anche riguardo alle norme disciplinanti il risarcimento dei danni non patrimoniali da inadempimento contrattuale. Il punto normativo di partenza può essere individuato nell’art. 2056 c.c. che, nel richiamare gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c., suggerisce una visione unitaria, da parte del legislatore del ’42, del danno, inteso come perdita. Nell’ambito di tale visione unitaria, nel Cass. 31.5.2003, n. 8827, in GI, 2004, 1129; Cass. 31.5.2003, n. 8828, in NGCC, 2004, I, 232; Corte cost. 11.7.2003, n. 233, in GI, 2004, 723. 30 15 corso del tempo si è assistito a quel progressivo spostamento del centro di interesse a cui si è fatto cenno, vale a dire da una concezione strettamente patrimonialistica del danno ad una c.d. « personalistica ». In altre parole, il danno - « tutto » il danno – ha cessato gradatamente di essere considerato solo il pregiudizio, la perdita appunto, patrimoniale; dottrina e giurisprudenza si sono progressivamente liberate dall’esigenza di sempre più improbabili equilibri interpretativi per andare a cercare (in certi casi letteralmente « inventare ») diminuzioni del patrimonio. Ora la visione unitaria del danno, che per certi versi supera persino la concezione bipolare, induce a considerare i pregiudizi nel loro complesso, senza considerare la natura degli stessi quale possibile ostacolo alla loro risarcibilità. È un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme disciplinanti la responsabilità contrattuale quella che si propone, che non solo apre le porte alla piena risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale ma, in più, conferisce valore maggiore ai diritti della persona, anche in tema di determinazione del quantum debeatur. Un esempio in tal senso è dato da una sentenza del Tribunale di Trieste31. Il caso ha per vittima un correntista, piccolo imprenditore titolare di una ditta individuale, che, un bel giorno, rivoltosi alla propria banca, si vede rifiutare il rilascio di un nuovo libretto degli assegni per un paio di titoli richiamati parecchi anni addietro e dopo che, nonostante tali richiami, l’istituto aveva sempre consegnato al cliente vari carnet senza nulla obiettare. Il dato interessante di tale pronuncia è che il giudice, affermata la responsabilità della banca per inadempimento contrattuale, riconosce in favore dell’imprenditore un importo a titolo di danno esistenziale – individuato nel pregiudizio derivante dalla lesione di diritti costituzionalmente garantiti, quali quello al lavoro ed alla realizzazione personale – maggiore rispetto a quello richiesto a titolo di danno patrimoniale, proprio in un’ottica di valorizzazione – e dunque di maggiore considerazione anche da un punto di vista risarcitorio – della persona rispetto al patrimonio. 31 Trib. Trieste 13.4.2007, in www.personaedanno.it. 16 IL DANNO DA VACANZA ROVINATA 1. La natura della categoria di danno. Legislazione: c.c. 2043, 2056, 2059. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. Tra i maggiori timori da parte di dottrina e giurisprudenza di fronte alla creazione di nuove categorie di danno è rappresentato dalla possibile eccessiva frammentazione del sistema risarcitorio, con conseguente pericolo di indeterminatezza. Senza dover approfondire in questa sede tali timore, spesso infondati, e le soluzioni prospettabili ai problemi paventati, in merito al c.d. « danno da vacanza rovinata » è sufficiente chiarire quale sia l’effettiva natura di tale categoria di danno. Infatti, i timori nascono spesso da un sostanziale equivoco di fondo, vale a dire la confusione che si opera tra categoria « giuridica » e categoria « descrittiva ». Mentre alle prime appartengono – secondo la schematica ma qui efficace da un punto di vista espositivo ripartizione elaborata dalla giurisprudenza più recente – il danno emergente ed il lucro cessante (compresi tra i danni patrimoniali) ed i danni biologico, morale ed esistenziale (compresi tra i danni non patrimoniali), nelle seconde rientrano quelle, del pari elaborate dalla giurisprudenza nel corso degli anni, che hanno il mero scopo di descrivere, appunto, una determinata tipologia di situazioni o, meglio ancora, una determinata tipologia di pregiudizi, senza volontà di creare nuove categorie giuridiche ma, molto più semplicemente, di raggruppare all’interno di un’unica definizione una serie molteplice di danni derivanti da un unico fatto (inteso in senso ampio). Peraltro, dottrina e giurisprudenza negli ultimi anni hanno spostato sempre più l’attenzione, anche al solo scopo definitorio, verso gli aspetti prettamente personalistici del pregiudizio, tralasciando spesso quelli meramente patrimoniali. « Il risarcimento del danno non patrimoniale, tradizionalmente definito da vacanza rovinata, consistente nel pregiudizio rappresentato dal 17 disagio e dalla afflizione subiti dal turista/viaggiatore per non aver potuto godere pienamente della vacanza come occasione di svago e di riposo conforme alle proprie aspettative, dev’essere risarcito qualora il locatore dell’autoveicolo usato per tale vacanza sia stato inadempiente dal momento che l’auto non era funzionante. In questo modo infatti viene meno la possibilità di realizzare un progetto teso al miglioramento delle potenzialità psico-fisiche, attraverso l’allentamento delle tensioni nervose connaturate all’intensità della vita moderna, ed al miglioramento delle complessive condizioni di vita per la conseguita capacità di reinserirsi nell’abituale contesto sociale, familiare e lavorativo ed affrontare così gli aspetti negativi in maniera meno drammatica e più distesa » (Trib. Napoli 27.4.2006, in www.personaedanno.it). Analogamente, la dottrina ha inteso il danno da vacanza rovinata quale pregiudizio conseguente alla lesione dell’interesse del turista di godere pienamente del viaggio organizzato come occasione di piacere, di svago o di riposo, senza essere costretto a soffrire quel disagio psicofisico che talora si accompagna alla mancata realizzazione in tutto o in parte del programma previsto, avuto riguardo alla particolare importanza che normalmente si attribuisce alla fruizione di un periodo di vacanza adeguato alle proprie aspettative32. Aldilà delle questione legate ad una sua precisa definizione, ciò che è importante considerare è il fatto che la categoria di danno in esame non individua un « nuovo danno » all’interno del nostro sistema risarcitorio. L’opera dell’interprete nel relazionare la categoria definitoria con quelle giuridiche, dunque, è duplice: da un lato egli deve individuare all’interno della prima le seconde (non sempre per forza tutte presenti nel caso concreto); dall’altro, deve riunire le seconde, una volta individuate in concreto, nella prima, considerando i pregiudizi in esse compresi quali conseguenza dell’unico fatto illecito descritto. Le conseguenze di una tale impostazione interessano tanto il danneggiato quanto il giudice: il primo non potrà limitarsi ad invocare il risarcimento di un mero danno da vacanza rovinata, ma dovrà specificare i singoli pregiudizi da inquadrarsi nelle categorie giuridiche di danno; il secondo, a sua volta, dovrà considerare tutte Morandi F., Il danno da vacanza rovinata, in Cendon P. e Ziviz P. (a cura di), Il danno esistenziale, Giuffrè, Milano, 2000. 32 18 le componenti della categoria definitoria, anche al fine di evitare eventuali duplicazioni risarcitorie. 2. La normativa speciale di riferimento. Legislazione: Cost. 2, 36 – c.c. 2043, 2059 – l. 27.12.1977, n. 1084, ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio (CVV), firmata a Bruxelles il 23 aprile 1970 – d.lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. La materia in esame trova una prima parziale disciplina normativa nella l. 27.12.1977, n. 1084, che ha ratificato nell’ordinamento italiano la Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio (CVV) firmata a Bruxelles il 23.4.1970; tale disciplina, peraltro, torva applicazione solo per i contratti internazionali di viaggio che debbono essere, anche parzialmente, eseguiti in uno stato diverso da quello dove il contratto è stato stipulato, oppure dal quale il viaggiatore è partito, in quanto lo stato italiano ha formulato la corrispondente riserva prevista dall’art. 40 CCV. La convenzione disciplina la responsabilità dei vari soggetti coinvolti nel contratto di viaggio: l’organizzatore, l’intermediario ed il passeggero. La dottrina ha sottolineato come l’inadempimento di obblighi nascenti da un contratto di viaggio fa certamente sorgere, in capo all’organizzatore ed all’intermediario, una responsabilità contrattuale ma non è escluso che con questa possano concorrere, in capo agli stessi soggetti, forme di responsabilità aquiliana, tali da dare luogo ad un reclamo extracontrattuale (art. 23); peraltro l’intento di impedire che organizzatore ed intermediario perdano il beneficio delle norme, dettate in sede di disciplina dei contratti dei quali essi sono parti, che escludono o limitano la loro responsabilità, è raggiunto con la regola dell’art. 25, che espressamente estende all’ipotesi di azione extracontrattuale contro organizzatore ed intermediario l’applicabilità delle disposizioni che ne escludono o limitano la responsabilità33. Roppo E., Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio, in NLCC, 1978, 1793. 33 19 Altro importante riferimento normativo è rappresentato dalla Direttiva comunitaria n. 90/314 in tema di vendita di « pacchetti tutto compreso » la quale è stata recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs n. 111/1995 ed è attualmente collocata nel nuovo « Codice del consumo » (d.lgs. 6.9.2005, n. 206) nell’ambito dei servizi turistici agli artt. 82-100. La dottrina, nel tentativo di coordinate i due testi normativi, ha evidenziato che per la stessa natura del servizio offerto, denominato tour package, esso si distacca dall’ampio genere del contratto di organizzazione di viaggio (nomenclatura da cui è impossibile prescindere successivamente all’emanazione della legge di ratifica italiana della Convenzione internazionale sul contratto di viaggio siglata a Bruxelles) per significare quella specie costituita da contratti turistici in senso proprio alla luce della finalità ricreativa che li contraddistingue. Altri contratti di viaggio, infatti, hanno finalità diverse portatrici di altrettanti interessi, non solamente economici34 (Carrassi C. 1995, 904). 2.1. Il contratto di trasporto aereo e l’handling. Legislazione: l. 3.12.1962, n. 1832, ratifica ed esecuzione del Protocollo che apporta modifiche alla Convenzione del 12 ottobre 1929 per l’unificazione di alcune regole relative al trasporto aereo internazionale, firmato a l’Aja il 28 settembre 1955 – l. 10.1.2004, n.12, ratifica ed esecuzione della Convenzione per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale, con Atto finale e risoluzioni, fatta a Montreal il 28 maggio 1999. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. Un particolare contratto atipico è rappresentato dall’handling e si affianca a quello di trasporto aereo, differenziandosene sul piano della disciplina oltreché dei contenuti. Va, anzitutto, rilevato che il contratto di trasporto aereo internazionale trova la sua disciplina nella Convenzione per l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo internazionale di Montreal del 28.5.1999, la quale, essendo stata ratificata in Italia solo con l. 10.1.2004, n. 12, prevale sulla Convenzione di Varsavia del 12.10.1929, resa esecutiva in Italia con l. 19.5.1932, n. 841, in parte modificata dal Protocollo dell’Aia 28.9.1955, reso esecutivo in Italia con l. 3.12.1962, n. 1832. 34 Carrassi C., Tutela del turista nei viaggi a forfait, in CorG, 1995, 902. 20 La giurisprudenza in materia di rapporti tra contratto di trasporto aereo internazionale e contratto di handling, per quanto riguarda il danno da vacanza rovinata, si è peraltro formata in larga prevalenza con riferimento alla Convenzione di Varsavia; tuttavia, stante la sostanziale analogia tra la disciplina in questa contenuta in relazione a danneggiamento o perdita di bagagli e quella presente nella Convenzione di Montreal, i principi affermati possono essere mantenuti invariati. Infatti, l’art. 18, 1° e 2° co., della Convenzione di Varsavia dispone che il vettore risponde della perdita della merce trasportata avvenuta durante il trasporto aereo, il quale, a sua volta, comprende il periodo durante il quale la merce si trova nella custodia del vettore, in un aeroporto o a bordo di un aeromobile o in un qualsiasi luogo in caso di atterraggio fuori di un aeroporto. Norme analoghe si ritrovano nel secondo comma dell’art. 17 e nel primo comma dell’art. 18 della Convenzione di Montreal. « Il vettore è responsabile del danno derivante dalla distruzione, perdita o deterioramento dei bagagli consegnati, per il fatto stesso che l’evento che ha causato la distruzione, la perdita o il deterioramento si è prodotto a bordo dell'aeromobile oppure nel corso di qualsiasi periodo durante il quale il vettore aveva in custodia i bagagli consegnati. Tuttavia la responsabilità del vettore è esclusa se e nella misura in cui il danno derivi esclusivamente dalla natura dei bagagli o da difetto o vizio intrinseco. Nel caso di bagagli non consegnati, compresi gli oggetti personali, il vettore è responsabile qualora il danno derivi da sua colpa ovvero da colpa dei suoi dipendenti o incaricati » (art. 17, 2° co., Convenzione di Montreal). « Il vettore è responsabile del danno risultante dalla distruzione, perdita o deterioramento della merce per il fatto stesso che l’evento che ha causato il danno si è prodotto nel corso del trasporto aereo » (art. 18, 1° co., Convenzione di Montreal). L’art. 19 della Convenzione di Varsavia stabilisce, poi, che il vettore risponde del danno risultante da un ritardo nel trasporto aereo di viaggiatori, bagagli e merci; analogamente l’art. 19 della Convenzione di Montreal. « Il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto aereo di passeggeri, bagagli o merci. Tuttavia il vettore non è responsabile per i danni da ritardo se dimostri che egli stesso e i propri 21 dipendenti e incaricati hanno adottato tutte le misure necessarie e possibili, secondo la normale diligenza, per evitare il danno oppure che era loro impossibile adottarle ». (art. 19, Convenzione di Montreal). Come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, la Convenzione di Varsavia – ma, come detto, il principio vale anche per quella di Montreal – non regola, dunque, il contratto di deposito a terra, perché la fase del trasporto, come da essa definita, si svolge fin quando la merce sia nella custodia (« sous la garde ») del vettore aereo e si esaurisce nel momento in cui, con la stipulazione del contratto di deposito presso un terzo delle merci sbarcate, la custodia si trasferisce dal vettore al depositario. Il servizio di assistenza a terra (« handling ») predisposto dalla società di gestione aeroportuale, in genere, comprende una serie di prestazioni a favore dei vettori aerei e dei passeggeri, le quali possono avere il contenuto più vario, formando oggetto di distinti rapporti giuridici obbligatori, disciplinati secondo la loro peculiare natura35. Per effetto della consegna delle cose trasportate dal vettore aereo all’impresa esercente il deposito, si configura un contratto di deposito in favore del terzo, che ha per oggetto l’obbligo del depositario di custodirle e restituirle al destinatario della merce. Da quest’obbligo, in caso di avaria o di perdita della merce, verificatosi nella fase del deposito, il destinatario può svolgere direttamente l’azione risarcitoria nei confronti dell’impresa esercente36. Nel caso in esame, caso in cui il piano di volo preveda una scalo con cambio di aereo ma la consegna dei bagagli sia prevista solo a destinazione, senza necessità pertanto di ritirarli ed imbarcarli nuovamente, la responsabilità permane invece in capo al vettore (Tribunale Ragusa, 07 febbraio 2006, in www.personaedanno.it). In un contratto di trasporto con queste modalità, infatti, si può affermare che il bagaglio deve sempre rimanere sotto la custodia del vettore aereo, in quanto lo stesso è tenuto a riconsegnarlo ai passeggeri appena giunti a destinazione. In questo caso l’obbligazione di custodire il bagaglio è un accessorio del contratto di trasporto ed incombe sul vettore. L’esecuzione del contratto di 35 36 Cass. 26.11.2003, n. 18074, DResp, 2004, 974. Cass. 26.11.2003, n. 18074, cit.; Cass. 9.10.1997, n. 9810, GI, 1998, 1096. 22 trasporto non si esaurisce nell’attività di trasferimento della merce da luogo e a luogo, ma comprende altresì l’adempimento delle altre obbligazioni accessorie, necessarie al raggiungimento del fine pratico prefissosi dalle parti, con la conseguenza che sussiste, a carico del vettore - il quale si trova nella detenzione delle cose trasportate – l’obbligo di conservarle e custodirle fino alla loro consegna al destinatario e la relativa responsabilità ex recepto: in particolare in tema di trasporto aereo internazionale di merci, la custodia cui il vettore provvede, dopo che la merce è giunta allo scalo, costituisce un accessorio delle obbligazioni inerenti al contratto di trasporto aereo, che viene definitivamente adempiuto con la consegna al destinatario, sicché l’azione di quest’ultimo (e dell’assicuratore in via di surrogazione) proponibile in caso di mancata consegna è soggetta alla disciplina propria del contratto di trasporto, non di quello di deposito, anche se la perdita si verifica nella fase di quella custodia finalizzata alla consegna37. 3. I viaggi « tutto compreso ». Legislazione: d.lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo, artt. 82-100. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. La direttiva comunitaria n. 90/314 in tema di viaggio « tutto compreso » (o « all inclusive ») è stata recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 111/1995 ed è attualmente collocata nel nuovo Codice del consumo agli artt. 82-100. La direttiva ha lo scopo di ravvicinare le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli stati membri concernenti i viaggi, le vacanze e i giri turistici « tutto compreso » venduti od offerti in vendita nel territorio della Comunità. La Corte di giustizia europea è intervenuta nel 2002 per chiarire la portata della definizione legislativa di pacchetto tutto compreso e, conseguentemente, l’ambito di applicazione della direttiva, in relazione a quanto previsto dall’art. 2 punto 1. « Ai fini della presente direttiva si intende per: 1) servizio tutto compreso: la prefissata combinazione di almeno due 37 Cass. 19.6.1993, n. 6841, GCM, 1993, 1049. 23 degli elementi in appresso, venduta o offerta in vendita ad un prezzo forfettario, laddove questa prestazione superi le 24 ore o comprenda una notte: a) trasporto, b) alloggio, c) altri servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio che costituiscono una parte significativa del « tutto compreso . La fatturazione separata di vari elementi di uno stesso servizio tutto compreso non sottrae l’organizzatore o il venditore agli obblighi della presente direttiva » (art. 2, punti 1., Direttiva CEE n. 90/314). La Corte di giustizia ha precisato che l’espressione « tutto compreso » di cui all’art. 2, punto 1, della direttiva deve essere interpretata nel senso che essa include i viaggi organizzati da un’agenzia di viaggi su domanda del consumatore o di un gruppo ristretto di consumatori e conformemente alle loro richieste, mentre l’espressione « prefissata combinazione » di cui all’art. 2, punto 1, della direttiva deve essere interpretata nel senso che essa include le combinazioni di servizi turistici effettuate al momento in cui il contratto viene stipulato tra l’agenzia di viaggi e il cliente38. Si considerano ricompresi nell’ambito della normativa sui pacchetti « tutto compreso » anche quelli che le parti abbiano negoziato al di fuori delle normali sedi commerciali o attraverso le modalità dei c.d. « contratti a distanza », ferme restando le disposizioni previste negli artt. 64-67 del Codice del consumo. Il contratto di vendita di pacchetti turistici deve essere redatto in forma scritta in termini chiari e precisi. Al consumatore deve essere rilasciata una copia del contratto stipulato, sottoscritto o timbrato dall’organizzatore o venditore. « Il contratto contiene i seguenti elementi: a) destinazione, durata, data d’inizio e conclusione, qualora sia previsto un soggiorno frazionato, durata del medesimo con relative date di inizio e fine; b) nome, indirizzo, numero di telefono ed estremi dell’autorizzazione all’esercizio dell’organizzatore o venditore che sottoscrive il contratto; 38 Corte giustizia CE 30.4.2002, n. 400, RCP, 2003, 39. 24 c) prezzo del pacchetto turistico, modalità della sua revisione, diritti e tasse sui servizi di atterraggio, sbarco ed imbarco nei porti ed aeroporti e gli altri oneri posti a carico del viaggiatore; d) importo, comunque non superiore al venticinque per cento del prezzo, da versarsi all’atto della prenotazione, nonché il termine per il pagamento del saldo; il suddetto importo è versato a titolo di caparra ma gli effetti di cui all’articolo 1385 del codice civile non si producono qualora il recesso dipenda da fatto sopraggiunto non imputabile, ovvero sia giustificato dal grave inadempimento della controparte; e) estremi della copertura assicurativa e delle ulteriori polizze convenute con il viaggiatore; f) presupposti e modalità di intervento del fondo di garanzia di cui all’articolo 100; g) mezzi, caratteristiche e tipologie di trasporto, data, ora, luogo della partenza e del ritorno, tipo di posto assegnato; h) ove il pacchetto turistico includa la sistemazione in albergo, l’ubicazione, la categoria turistica, il livello, l’eventuale idoneità all’accoglienza di persone disabili, nonché le principali caratteristiche, la conformità alla regolamentazione dello Stato membro ospitante, i pasti forniti; i) itinerario, visite, escursioni o altri servizi inclusi nel pacchetto turistico, ivi compresa la presenza di accompagnatori e guide turistiche; l) termine entro cui il consumatore deve essere informato dell’annullamento del viaggio per la mancata adesione del numero minimo dei partecipanti eventualmente previsto; m) accordi specifici sulle modalità del viaggio espressamente convenuti tra l’organizzatore o il venditore e il consumatore al momento della prenotazione; n) eventuali spese poste a carico del consumatore per la cessione del contratto ad un terzo; o) termine entro il quale il consumatore deve presentare reclamo per l’inadempimento o l’inesatta esecuzione del contratto; p) termine entro il quale il consumatore deve comunicare la propria scelta in relazione alle modifiche delle condizioni contrattuali di cui all’articolo 91 » (art. 86, d.lgs. 6.9.2005, n. 206). Particolari obblighi vengono poi posti a carico del venditore e dell’organizzatore circa le informazioni da fornirsi sia nel corso delle trattative (e comunque prima della conclusione del contratto), sia prima dell’inizio del viaggio. In caso di mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni assunte con la vendita del pacchetto turistico, l’organizzatore e il venditore sono tenuti al risarcimento del danno, secondo le 25 rispettive responsabilità, se non provano che il mancato o inesatto adempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a loro non imputabile. L’organizzatore o il venditore che si avvale di altri prestatori di servizi è comunque tenuto a risarcire il danno sofferto dal consumatore, salvo il diritto di rivalersi nei loro confronti. Il danno derivante alla persona dall’inadempimento o dall’inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto turistico è risarcibile secondo le norme stabilite dalle convenzioni internazionali che disciplinano la materia, di cui sono parte l’Italia o l’Unione europea, così come recepite nell’ordinamento italiano. È nullo ogni accordo che stabilisca limiti di risarcimento per i danni alla persona. L’organizzatore ed il venditore sono esonerati, quando la mancata o inesatta esecuzione del contratto è imputabile al consumatore o è dipesa dal fatto di un terzo a carattere imprevedibile o inevitabile, ovvero da un caso fortuito o di forza maggiore. Tuttavia, l’organizzatore o il venditore devono apprestare con sollecitudine ogni rimedio utile al soccorso del consumatore al fine di consentirgli la prosecuzione del viaggio, salvo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno nel caso in cui l’inesatto adempimento del contratto sia a questo ultimo imputabile. 4. L’inadempimento dell’obbligo di informazione. Legislazione: d.lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. Un aspetto particolare legato alle ipotesi di inadempimento riguarda quello legato proprio agli obblighi di informazione appena esaminati. Peraltro non sempre l’omessa o inesatta informazione deve ritenersi imputabile sia al venditore che al tour operator. Al primo, infatti, andrà ad esempio imputata la mancata comunicazione dello spostamento dell’orario di volo. È quanto deciso dal Tribunale di Monza, in un caso in cui una coppia sposata recatasi in aeroporto 26 insieme ai due figli minori alle ore 18,30 aveva appreso solo dagli operatori di banco che il volo per la destinazione prescelta era partito 8 ore prima e che tale variazione era stata tempestivamente comunicata all’agenzia di viaggi con fax una settimana prima. « La mancata comunicazione da parte dell’agenzia di viaggi al turista di essenziali circostanze, nel caso di specie l’anticipazione dell'orario del volo, integra gli estremi dell’inadempimento contrattuale, sia ai sensi della disciplina generale dettata in materia dal Codice Civile, sia in applicazione della disciplina dettata dagli artt. 13 e 15 della Convenzione di Bruxelles in data 23.4.1970 (ratificata nel nostro ordinamento giuridico con Legge n, 1084/77). A Tale inadempimento consegue la condanna al risarcimento dei danni sofferti secondo i criteri dettati dall’art. 1223 c.c » (Trib. Monza 19.5.2003, in www.personaedanno.it). Diverso il caso in cui l’agenzia si sia limitata a vendere il pacchetto di viaggio e le errate informazioni sia contenute nel catalogo del tour operator. « Azione verso B. T. s.r.l. L’azione versa questa convenuta rientra nella seconda delle ipotesi appena esaminate. B. T. si è infatti limitata (per tutti gli attori) a vendere il pacchetto di viaggio, e -per i soli attori B. e G.- anche i biglietti aerei per i voli per e da Roma. Su tale punto si incentra la prima delle doglianze da esaminare: sostengono cioè questi ultimi attori che B.T. avrebbe tardivamente comunicato (solo il giorno prima della partenza) delle variazioni di orario, che, soprattutto per il viaggio di rientro, non consentirono un rientro immediato in Palermo, il 4 gennaio 2003, ma costrinsero ad una notte di permanenza a Roma. L’assunto degli attori, però, non solo è rimasto indimostrato (il teste attoreo, la sorella del G., si è limitata a narrare che venne contattata dal fratello per ritardare il momento dell’accompagnamento in aeroporto, per il giorno 28.12.2002), ma addirittura smentito dal teste dalla convenuta, il quale ha invece affermato che i differenti orari dei due voli per e da Roma vennero comunicati con congruo anticipato, alcuni giorni prima della partenza, anzi prima di Natale, di guisa che non sussiste il dedotto difetto di informazione. Di conseguenza, la pretesa attorea verso B. T. s.r.l. va disattesa; rimane così assorbita ogni questione inerente il rapporto di quest’ultima col proprio assicuratore, S. A. s.p.a. Azione verso T. s.p.a.. Rispetto il tour operator, invece, la domanda è fondata. 27 Premesso che detta convenuta, rimanendo contumace, non ha in alcun modo contrastato le allegazioni attoree in punto di inadempimento (con quel che ne segue in punto di onere probatorio nel diritto delle obbligazioni, ex art. 2697 c.c. e 1218 stesso codice), gli odierni attori hanno invece provato: documentalmente, depositando il catalogo viaggi per l’Egitto, che le caratteristiche di alberghi, motonavi, e trattamento avrebbe dovuto essere di ottima qualità, pur in considerazione dei diversi luoghi da visitare (con più disagi per le traversate sul Nilo), e che le particolarità di orari (sveglie all’alba o addirittura prima) erano da escludere, perché espressamente limitate al periodo estivo (così il testo a pag. 8 del catalogo attoreo); per testi, con i soggetti che hanno confermato le “levatacce” anche notturne, la scadentissima qualità dei servizi alberghieri e di ristorazione sulle navi, lo stress di continui spostamenti ad orari tutt’altro che comodi, tanto che uno dei viaggiatori si premurò di contestare ogni manchevolezza a T. immediatamente. In altri termini, è provato, e non contestano dall’altra parte, rimasta contumace, che il viaggio fu complessivamente disagevole e caratterizzato da servizi di qualità decisamente inferiore a quella pattuita, desumibile cioè dal catalogo in base al quale si concretizzò l’offerta negoziale. Discende da ciò che la domanda risarcitoria va accolta » (Trib. Palermo 5.10.2006, in www.personaedanno.it). Il venditore del pacchetto turistico e l’organizzatore del viaggio sono responsabili in solido dei danni subiti dal viaggiatore per l’inadempimento degli obblighi assunti, nell’ipotesi in cui nel luogo di villeggiatura si verifichino tumulti e sollevazioni popolari che non consentano di fruire dei servizi prenotati. In particolare, deve essere affermata la responsabilità dell’organizzatore per non aver predisposto adeguate soluzioni alternative e dell’organizzatore e del venditore per non aver previamente fornito le necessarie informazioni sulla precaria situazione politica del paese 39 . In termini generali, dunque, il venditore è comunque tenuto a fornire all’acquirente tutte le informazioni su circostanze che, secondo quanto previsto dalla normativa specifica ma anche in base all’ordinaria diligenza, è tenuto a conoscere. Un esempio in tal senso è dato da un caso relativo ad un turista disabile. 39 Trib. Rimini 28.12.2005, CorM, 2006, 3, 296 28 « Dall’esame della documentazione in atti risulta provato che il villaggio turistico, oggetto del contratto di viaggio intercorso tra le parti, era stato pubblicizzato dalla convenuta come struttura adatta ai disabili. I testimoni escussi hanno riferito che durante il soggiorno la attrice con la sua sedia a rotelle non poteva autonomamente aggirarsi nel villaggio in quanto per accedere alle varie strutture, quali il ristorante, la piscina, la spiaggia, vi erano soltanto delle scale e non delle rampe. Del pari l’attrice necessitava di aiuto all’interno della propria camera, la cui moquette presentava danni tali da rendere pericoloso l’uso della sedia a rotelle, e per l’accesso al bagno, la cui porta era troppo stretta per potervi entrare con la sedia a rotelle. Tali circostanze sono state anche documentate da fotografie prodotte da parte attrice. È di tutta evidenza che l’aver venduto un pacchetto di viaggio sprovvisto di quelle qualità promesse nel catalogo costituisce inadempimento della s.p.a. T. T., non sussistendo gli estremi di legge per una declaratoria di annullamento del contratto per dolo. Sicuramente trattasi di inadempimento grave in quanto la convenuta era ben a conoscenza della condizione fisica dell’attrice così come risultava dal contratto intercorso tra le parti. Non solo, ma la convenuta era stata anche contattata telefonicamente dall’impiegata di viaggi per avere conferma dell’idoneità della struttura per le persone disabili » (Giud. pace Milano 16.8.2003, in www.personaedanno.it). In tale caso, dunque, l’agenzia di viaggi aveva ben operato, premurandosi di verificare ulteriormente – rispetto alle mere indicazioni di catalogo – la presenza di strutture idonee ad ospitare persone disabili, stante la particolarità del caso e le prevedibili conseguenze nell’ipotesi di loro assenza. 6. La prova del danno. Legislazione: c.c. 1223, 1226, 1227, 2043, 2059, 2727, 2729 – c.p.c. 115 Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Monateri P.G. 1998 – Cendon P. 2000 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. Dal punto di vista dell’istruzione probatoria, il danno subito dal turista può, entro certi limiti e con particolare riferimento ai danni di natura non patrimoniale, essere dimostrato attraverso il ricorso alla c.d. « prova indiretta » (fatto notorio e presunzioni in particolare). Di recente, in riferimento alla prova del danno esistenziale, la Corte di cassazione ha assunto un orientamento da tempo invocato 29 in dottrina, affermando che le presunzioni non costituiscono, nella gerarchia dei mezzi di prova, uno strumento probatorio di rango « secondario » e « più debole » rispetto alla prova diretta o rappresentativa. Va al riguardo sottolineato come, alla stessa stregua di quella legale, la presunzione vale invero a facilitare sostanzialmente l’assolvimento della prova da parte di chi ne è onerato, trasferendo sulla controparte l’onere della prova contraria40. Il punto focale sul quale deve essere centrata l’attenzione, dunque, è quello di dare la prova del disagio arrecato dall’inadempimento. Se per i danni di natura patrimoniale, in linea generale, l’assolvimento dell’onere probatorio non presente peculiarità significative, in tema di danni non patrimoniali la questione è per certi versi più complessa, specie in conseguenza di un orientamento alquanto rigido in giurisprudenza, da poco superato – ma non del tutto – con le pronunce ricordate. Si tratta, in altre parole, soprattutto di provare come e in quale misura la quotidianità della vittima sia cambiata in seguito al verificarsi dell’illecito contrattuale. Con particolare riferimento al fatto notorio, è bene sottolineare che in base all’art. 115, 2° co., c. p. c., il fatto rientrante nella comune esperienza può essere posto a fondamento della decisione senza bisogno di prova, rimanendo comunque onere della parte allegare il fatto La dottrina41 ormai da tempo distinguere tra « danni generici », ossia i riflessi esistenziali negativi che appaiono come normale conseguenza di un certo tipo di lesione, per i quali sarà possibile il ricorso a presunzioni e alla massime di comune esperienza e « danni specifici », vale a dire quelli strettamente legati alla sfera idiosincratica della vittima, rispetto ai quali l’attore sarà tenuto ad una precisa Cass. 12.6.2006, n. 13546; vedi anche: Cass. Sez. U. 24.3.2006, n. 6572; Cass. 15.7.2005, n. 15022; Cass. 19.8.2003, n. 12124, tutte in www.personaedanno.it. 41 Cendon P., Esistere o non esistere, in RCP, 2000, 1324. 40 30 prova42. La distinzione, peraltro, non è ignota nei sistemi di common law, che appunto distinguono tra general damages e specific damages43. La Corte di cassazione ha delineato le caratteristiche che deve avere il fatto notorio, prova precostituita al processo44 per essere posto a base di un giudizio. Si deve trattare di: i) un fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice 45 ; ii) un fatto che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano46; iii) un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull’interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo 47 . Inoltre, il notorio si deve intendere come « fatto conosciuto da un uomo di media cultura »48 e che non necessita del ricorso a specifiche nozioni o giudizi tecnici49. Il fatto notorio, che si riferisce alle « nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza », non va confuso con una massima o regola di esperienza, che costituisce semplice criterio di valutazione del fatto accertato e non già mezzo di accertamento del fatto stesso50. Monateri P.G., La responsabilità civile, in Sacco R. (diretto da), Trattato di diritto civile, Utet, Torino, 1998, 309. 43 Allen D, Martin R. e Hartshorne J., Damages in Tort, Sweet & Maxwell, London, 2000. 44 Cass. 3.8.1990, n. 7798, RGI, 1990, 30. 45 Cass. 13.3.1992, n. 3087, RGI, 1992, 32; Cass. 2.4.1986, n. 2256, ivi, 1986, 27; Cass. 28.1.1982, n. 560, ivi, 1982, 16. 46 Cass. 5.5.2000, n. 5680, in www.personaedanno.it. 47 Cass. 9.7.1999, n. 7181, in RGI, 1999, 20. 48 Cass. 6.8.1999, n. 8481, in RGI, 1999, 21. 49 Cass. 29.1.1988, n. 829, in RGI, 1988, 36. 50 Cass. 24.6.1983, n. 4326, in RGI, 1983, 12. 42 31 Un’altra precisazione importante concerne il c.d. « danno in re ipsa ». Con tale espressione da talune parti, specie in giurisprudenza, si è voluto sostenere che, in presenza di determinati illeciti, il danneggiato non avrebbe necessità di provare l’esistenza del pregiudizio, essendo questo insito nell’illecito medesimo. Tale affermazione non trova alcun riscontro normativo nel nostro ordinamento e, a ben vedere, la gran parte delle sentenze della Corte di cassazione che menzionano il danno in re ipsa in realtà altro non fanno che applicare le regole sulla prova indiretta appena esaminate. In conclusione, se da un lato non si può sostenere che il turista sia dispensato dal provare l’esistenza di un pregiudizio derivante da una (seppur macroscopica) violazione degli obblighi contrattuali assunti da parte del venditore o del tour operator, è altrettanto vero che non gli si può neppure chiedere di dimostrare più di quanto sia suo onere in base ai principi generali in tema di prova. La forzosa rinuncia ad una vacanza da tempo attesa dopo un anno di lavoro, l’intera giornata passata nella sala d’aspetto di un aeroporto in attesa del prossimo volo a causa di un overbooking, il dover trascorre un’intera vacanza in condizioni igieniche precarie nonostante l’hotel fosse catalogato come di lusso ecc… sono tutte circostanze che, allegate e provate, non necessitano di ulteriori dimostrazioni circa le sofferenze, i patimenti e le rinunce a cui è andato incontro, suo malgrado, il malcapitato turista. Diverso, invece, il caso in cui il danneggiato chieda il risarcimento di quei pregiudizi rientranti nella sua sfera idiosincratica o assuma di aver subito un pregiudizio di intensità maggiore rispetto alla normalità dei casi: in tali ipotesi, infatti, il carico probatorio non potrà che spostarsi nuovamente su di esso, mentre al soggetto inadempiente spetterà, semmai, di fornire la sola prova contraria. 7. I danni non patrimoniali. Legislazione: c.c 1223, 1336, 1227, 2056, 2059. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. 32 Uno dei problemi principali che la dottrina e la giurisprudenza si sono trovate ad affrontare nella materia in esame ha indubbiamente riguardato la risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale. Si è visto, infatti, come da un lato le stesse dottrina e giurisprudenza abbiano progressivamente spostato la loro attenzione dal patrimonio alla persona, giungendo a dare una definizione del danno da vacanza rovinata a contenuta prettamente personalistico; dall’altro come, salvo rare eccezioni, sia difficilmente configurabile una responsabilità di tipo extracontrattuale in tale settore. Ciò aveva condotto la giurisprudenza ad escludere, in linea generale, la risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale, invocando il limite imposto dall’art. 2059 c.c. « Non è suscettibile di essere preso in considerazione il disagio incontrato dalla V., sia nel vano tentativo di ottenere il visto per Haiti durante il viaggio di andata, sia nella peregrinazione resasi necessaria per il suo ritorno in Italia, in quanto tale presunto danno null’altro è che la cosiddetta pecunia doloris valutabile solo allorché la responsabilità del danneggiante derivi da reato » (App. Milano 21.6.1988, DT, 1990, 258). Non erano peraltro mancati arresti giurisprudenziali che avevano mostrato un evidente sforzo interpretativo, nella consapevolezza delle lacune del sistema risarcitorio delineatosi sino a quel tempo. « Il fondamento giuridico del diritto ad ottenere il risarcimento del c.d. danno da vacanza rovinata – cioè del fatto che il programma di viaggio o di soggiorno previsto è risultato diverso da quello pattuito, con l’aggravio di disagi non previsti – può rinvenirsi proprio nei già citati artt. 13 e 15 della Convenzione sul contratto di viaggio, secondo tali disposizioni, infatti, rispettivamente, “l’organizzatore di viaggi risponde di qualunque pregiudizio causato al viaggiatore” e “l’organizzatore di viaggi che fa effettuare da terzi servizi di trasporto, di alloggio o di qualsiasi altro tipo relativi all’esecuzione del viaggio o del soggiorno, risponde di qualsiasi pregiudizio causatola viaggiatore”. Nell’espressione “qualunque pregiudizio” (così come in quella equivalente “qualsiasi pregiudizio”) ben può, quindi, individuarsi quel fondamento normativo che l’art. 2059 c.c. richiede per consentire il risarcimento del pregiudizio non patrimoniale » (Trib. Torino 8.11.1997, GI, 1997, I, 2, 58). 33 Una prima svolta in favore della risarcibilità dei danni non patrimoniali da vacanza rovinata si è avuta con la pronuncia della Corte di Giustizia CE, emessa su di una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione dell’art. 5 della Direttiva n. 90/314/CE. « 19 Si deve ricordare che l’art. 5, n. 2, primo comma, della direttiva impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché l’organizzatore di viaggi risarcisca “i danni arrecati al consumatore dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione del contratto”. 20 A tale riguardo va rilevato che dal secondo e terzo “considerando” della direttiva risulta che essa ha per scopo, in particolare, l’eliminazione delle divergenze accertate tra le normative e le prassi nei diversi Stati membri in materia di viaggi “tutto compreso” e atte a generare distorsioni di concorrenza tra gli operatori stabiliti nei diversi Stati membri. 21 Orbene, è pacifico che, nel settore dei viaggi “tutto compreso” l’esistenza di un obbligo di risarcire i danni morali in taluni Stati membri e la sua mancanza in altri avrebbe come conseguenza delle distorsioni di concorrenza notevoli, tenuto conto del fatto che, come osservato dalla Commissione, si rilevano frequentemente danni morali in tale settore. 22 Si deve inoltre rilevare che la direttiva, e più particolarmente il suo art. 5, mira a offrire una tutela ai consumatori e che, nell’ambito dei viaggi turistici, il risarcimento del danno per il mancato godimento della vacanza ha per gli stessi un’importanza particolare. 23 È alla luce di tali considerazioni che si deve interpretare l’art. 5 della direttiva. Se quest’articolo si limita, nel suo n. 2, primo comma, a rinviare in modo generale alla nozione di danni, si deve rilevare che, prevedendo, al suo n. 2, quarto comma, la facoltà per gli Stati membri di ammettere che, per quanto riguarda i danni diversi da quelli corporali, l’indennizzo sia limitato in virtù del contratto, a condizione che tale limitazione non sia irragionevole, la direttiva riconosce implicitamente l’esistenza di un diritto al risarcimento dei danni diversi da quelli corporali, tra cui il danno morale. 24 Si deve perciò risolvere la questione sollevata dichiarando che l’art. 5 della direttiva dev’essere interpretato nel senso che in linea di principio il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio “tutto compreso” » (Corte di Giustizia CE 12.3.2002, n. 168, RCP, 2002, 360). In epoca più recente, la giurisprudenza di merito italiana ha fatto richiamo all’art. 13 della Convenzione sui Contratti di Viaggio 34 (CCV), richiamato dall’art. 16 della l. n. 111/1995, il quale prevede espressamente al primo comma che « l’organisateur de voyages repond de tuout prejudice causé au voyageur en rasison de l’inexecution, totale ou partielle, de ses obligations d’organisation, telles qu’elles resultant du contrat ... » ed al terzo comma che oltre ai danni alla persona ed alle cose (dommage corporel, dommage materiel) ogni altro tipo di danno (tout autre dommage), per sostenere un inserimento de plano della possibilità di risarcimento dei danni non patrimoniali in caso di inadempimento derivanti da contratti di viaggio51. L’attuale Codice del consumo prevede, all’art. 93 che in caso di mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni assunte con la vendita del pacchetto turistico, l’organizzatore e il venditore sono tenuti al risarcimento del danno, secondo le rispettive responsabilità, se non provano che il mancato o inesatto adempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a loro non imputabile. Il successivo art. 94 dispone inoltre che il danno derivante alla persona dall’inadempimento o dall’inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del pacchetto turistico è risarcibile secondo le norme stabilite dalle convenzioni internazionali che disciplinano la materia, di cui sono parte l’Italia o l’Unione europea, così come recepite nell’ordinamento italiano. In alcune pronunce di merito si è ritenuto che tali previsioni consentano di individuare quei « casi determinati » dalla legge a cui fa riferimento l’art. 2059 c.c. e di fondare sulla combinazione di tali norme la risarcibilità dei danni non patrimoniali in caso di vacanza rovinata, non considerando, tuttavia, gli insormontabili ostacoli che si frappongono ad un’applicazione della norma aquiliana a fattispecie di inadempimento contrattuale52. In realtà, appare più corretto risolvere la questione in termini generali, fondando la risarcibilità dei danni non patrimoniali da inadempimento contrattuale sulla base delle osservazioni svolte nel capitolo dedicato a tale argomento. 51 52 Trib. Roma sez. dist. Ostia 2.10.2003, in www.personaedanno.it. Trib. Verbania 23.4.2002, GI, 2004, 550. 35 8. La rilevanza dell’elemento soggettivo. Legislazione: c.c. 1225, 1337, 1375, 1440, 2056. Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006. Indagare sull’elemento soggettivo che ha accompagnato l’inadempimento è indubbiamente utile, stante le molteplici conseguenze che se ne possono trarre. Una delle pratiche più diffuse fra le compagnie aeree (ma in alcuni casi anche da gestori di hotel), vale a dire il c.d. « overbooking », ad esempio, è indubbiamente caratterizzata da dolo. « Da un lato, avendo fatto ricorso alla pratica dell’ “overbooking”, e cioè avendo venduto per il volo AZ58 un numero di biglietti superiore rispetto ai posti disponibili, senza informare i sigg. P. del ricorso a tale pratica e del loro rischio di non vedersi imbarcati, ha posto in essere un comportamento illegittimo, sia in quanto costituente inadempimento contrattuale, sia in quanto in violazione dell’art. 1440 c.c. Il Giudice di Pace di Cagliari, con Sentenza del 27.10.2001, pienamente condivisa da questo Giudice, ha correttamente statuito sul punto che: “In caso di overbooking, la compagnia aerea è responsabile per il danno economico patrimoniale subito dal passeggero, nonché per quello da <<stress>>, da determinare in via equitativa”. Nel comportamento tenuto da A. è possibile configurare il c.d. dolo incidente, che comporta la responsabilità ex art. 1440 c.c. Tale disposizione costituisce l’applicazione del principio generale di buona fede contenuto nell’art. 1337 c.c.(responsabilità precontrattuale) che impone alla parte il dovere di correttezza nel corso della formazione del contratto (Cass., 29.3.1999, n. 2956). Se i sigg. P. fossero stati preventivamente ed adeguatamente informati, infatti, avrebbero potuto scegliere tratte diverse meno onerose di quella a cui sono stati costretti e con minor disagio. Nel comportamento di A. deve pertanto riscontrarsi la mancanza della buona fede richiesta dall’art. 1375 c.c. e il preordinato disegno di non voler informare la clientela dei diritti ad essa spettanti » (Giud. pace San Pietro Vernotico 13.9.2005, in www.personaedanno.it). Anche quando il dolo non sia tale da determinare il consenso, dunque, il contraente che ha agito in malafede risponde dai danni. La riconducibilità del comportamento della compagnia aerea – nel caso esaminato dalla sentenza richiamata – alla categoria della responsabilità contrattuale, peraltro, comporta la possibilità di superare più agevolmente le problematiche connesse all’individuazione dei danni risarcibili alla luce dell’orientamento 36 giurisprudenziale che configura di una responsabilità extracontrattuale a carico del ricorrente per violazione del principio di buona fede nella fase precontrattuale53. Inoltre, l’accertamento del dolo comporta l’esclusione della limitazione prevista dall’art. 1225 c.c.; dunque, chi agisca con dolo sarà tenuto a risarcire ogni danno causalmente collegato all’inadempimento, anche se non prevedibile al momento del sorgere dell’obbligazione. Quest’ultima annotazione sposta poi l’analisi del problema sulla determinazione del quantum da risarcire. A differenza di quanto avviene in ambito di responsabilità aquiliana, infatti, il legislatore ha correlato l’ammontare del risarcimento alla natura dell’elemento soggettivo. Tale affermazione trova riscontro proprio nella norma contenuta nell’art. 1225 c.c.; com’è noto, la prevedibilità del danno riguarda il pregiudizio economico (non tanto nella sua intrinseca realtà, quanto) nel suo ammontare e, ad integrare l’esistenza di tale requisito, non è sufficiente l’astratta prevedibilità, ma deve ritenersi che il concreto ammontare del risarcimento non può eccedere l’entità prevedibile nel momento in cui è sorta l’obbligazione inadempiuta, salvo appunto il caso di inadempimento doloso54. La scelta legislativa è altresì confermata dal mancato richiamo dell’art. 1225 c.c. da parte dell’art. 2056 c.c., in un’ottica di rafforzamento della funzione sanzionatoria della responsabilità aquiliana55. Peraltro, il grado della colpa, intesa in senso lato, può ritenersi incidente sul piano della determinazione dell’ammontare del danno non solo in riferimento alla sua estensione (dai soli danni prevedibili a quelli anche non prevedibili al momento del sorgere dell’obbligazione), ma altresì del quantum in senso stretto. Soccorre per meglio comprendere tale affermazione proprio l’esempio dell’overbooking: si immagini il turista rimasto in attesa del prossimo volo disponibile per ore ed ore nella sala d’aspetto dell’aeroporto; Cass. 25.7.2006, n. 16937, GCM, 2006, 7-8; Cass. 18.6.2005, n. 13164, GCM, 2005, 9; Cass. 5.8.2004, n. 15040, GC, 2005, I, 669. 54 Cass. 27.10.2003, n. 16091, DResp, 2004, 855; Cass. 17.3.2000, n. 3102, GCM, 2000, 587. 55 Cass. 30.3.2005, n. 6725, GCM, 2005, 4. 53 37 ebbene, non è certamente possibile affermare che la sua rabbia, il suo sconforto, la sua delusione – insomma i suoi patimenti interiori – possano avere la medesima intensità sia che sappia che tale situazione è stata determinata da una strategica scelta commerciale della compagnia aerea (in un’ottica di maggior guadagno) sia che invece tale attesa sia determinata, ad esempio, ad un’avaria del vettore pur imputabile alla compagnia. Senza voler in questa sede scomodare l’annosa questione della configurabilità nel nostro ordinamento dei c.d. punitive damages – tanto più in ambito pressoché esclusivamente contrattuale – può dunque ritenersi configurabile una rilevante incidenza del grado della colpa contrattuale in sede di determinazione dell’ammontare del danno. IL DANNO DA IMMISSIONI 1. Le immissioni nel codice civile. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2052, 2058, 2059. Bibliografia: Cendon P. 1998. L’interferenza del godimento di un fondo con il godimento di un altro fondo trova un ulteriore criterio legale di regolazione nel caso di immissioni, da un fondo ad un altro, di fumo, calore, rumore e, in genere, in tutti i casi di propagazione di sostanze inquinanti, di vibrazioni ecc… La normativa specifica in materia di danno da immissioni inserita nel codice civile è quella dettata dall’art. 844 c.c. « Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. 38 Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tenere conto della priorità di un determinato uso » (art. 844 c.c.). La collocazione della norma nel Capo II del codice civile riguardante la proprietà fondiaria e l’articolazione dei criteri posti dal legislatore per regolare la materia delle immissioni, trova ragione nel fatto che la stessa sia nata per disciplinare i rapporti fra i proprietari di fondi vicini e contemperare le rispettive esigenze; a dover essere presa in considerazione è poi l’epoca storica ed il contesto socio-economico in cui nacque tale disciplina, caratterizzati da una società fondata sulla proprietà rurale ed un’economia prevalentemente agricola. La dottrina ha precisato che l’art. 844 c.c. si configura come una norma che attiene ai limiti interni all’esercizio del diritto dominicale; il proprietario può immettere liberamente nel fondo del vicino, il quale è tenuto a sopportare, immissioni a condizione che non superino, secondo una valutazione necessariamente relativistica, la normale tollerabilità. Ove detto limite sia superato, l’attività dovrà essere ricondotta entro confini accettabili, ovvero potrà essere proseguita a fronte del pagamento di un indennizzo, salvo nei casi più gravi la cessazione della medesima (Cendon P. 1998, 131). La norma di per sé regola in via immediata il potere di escludere e quindi di ottenere la tutela di cessazione spettante al proprietario del fondo vicino a quello dal quale provengono le immissioni. Tale potere sussiste qualora le immissioni superino la norma tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Problemi più complessi pone il secondo comma dell’art. 844 c.c., il quale viene solitamente inteso nel senso che il giudice può negare la tutela di cessazione usando ritenga le esigenze della produzione prevalenti sulle ragioni della proprietà, anche a fronte di immissioni che superino la normale tollerabilità. I criteri previsti per la soluzione dei conflitti tra proprietari di fondi contigui, sui quali si tornerà oltre, sono chiaramente improntati su di un principio di favore per le attività produttive, considerate come fonti di prosperità generale. Tale principio, peraltro, è a sua volta mitigato dallo stesso art. 844 c.c., proprio nel 39 secondo comma ove aggiunge che, nell’applicare il criterio della normale tollerabilità, il giudice deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. La limitazione dell’ambito di applicabilità della norma in esame a quello della tutela delle situazioni soggettive dei proprietari confinanti, ed in particolare, della tutela rispetto ad usi incompatibili di detti fondi, è stata affermata anche in giurisprudenza, ove si è precisato che da tale ambito di applicabilità esulano i diritti personali, per la cui difesa sono invece invocabili le disposizioni di cui agli artt. 2052 e 2058 c.c. (Cass. 19.7.1985, n. 263, GC, 1986, I, 128). Il progresso tecnologico e l’espansione industriale hanno peraltro mutato sensibilmente i presupposti sui quali si è basato il legislatore del ’42. Da più parti si è allora invocata l’applicazione dell’art. 844 c.c. anche a tutela di interessi superiori e collettivi, come quello alla salute od alla salubrità dell’ambiente, proponendo una rilettura della norma in esso contenuta alle luce dei principi costituzionali sanciti dagli artt. 2, 9 e 32 Cost. che trascenda le problematiche strettamente dominicali. Tale proposta interpretativa, peraltro, deve fare i conti con la pronuncia della Corte costituzionale n. 247/1974, la quale ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 844 c.c. per l’asserita violazione del principio di uguaglianza nella parte in cui consente al proprietario la legittimazione ad agire nei confronti del danneggiante, mentre l’esclude, di fatto, per ogni altro soggetto danneggiato da immissioni. In particolare, la Consulta ha osservato che l’art. 844 c.c., sebbene si limiti a considerare solo l’interesse del proprietario, non pregiudica la protezione di altri interessi spettanti a soggetti o intere collettività, che in tale disposizione non trovano tutela, per non essere certo strumento adeguato alla soluzione dei gravi problemi creati dall’inquinamento. « Orbene, che i principi posti dall’art. 844 c.c. non costituiscano uno strumento adeguato per la soluzione dei gravi problemi creati dall’inquinamento e, in ispecie, da quello atmosferico, è certo esatto. Ciò tuttavia non comporta l’illegittimità costituzionale della norma impugnata poiché questa, di fronte alle turbative derivanti dalle immissioni, si limita a considerare solo l’interesse del proprietario ad 40 escludere ingerenze da parte del vicino sul fondo proprio, tutelandolo da immissioni che superino la tollerabilità come sopra intesa. E ciò senza riguardare, ma anche senza pregiudicare, la protezione di interessi diversi, eventualmente spettanti anche ad altre persone o ad intere collettività. La norma è infatti destinata a risolvere in conflitto tra proprietà di fondi vicini per le influenze negative derivanti da attività svolte nei rispettivi fondi. Si comprende quindi che il criterio della normale tollerabilità in essa accolto vada riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non possa essere utilizzato per giudicare della liceità di immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o all’integrità dell’ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto in via immediata tutto un altro ordine di norme di natura repressiva e preventiva: basti menzionare il t.u. delle leggi sanitarie di cui al r.d. 27 luglio 1934 n. 1265 e la legge 31 dicembre 1962 n. 1860, sull’impiego pacifico dell’energia nucleare, nonché, con particolare riferimento agli inquinamenti atmosferici, la legge 13 luglio 1966 n. 615. resta salva in ogni caso l’applicabilità del principio generale di cui all’art. 2043 c.c. Tali normative non sono peraltro oggetto di censura da parte del giudice a quo. È evidente comunque che eventuali carenze che in esse fossero individuabili in ordine alla tutela degli interessi singoli e della comunità non potrebbero mai riflettersi sull’art. 844 c.c., che, come si è detto, è destinato a risolvere problemi di diversa natura e dimensione » (Corte cost. 23.7.1974, n. 247, FI, 1975, I, 19). Con tale pronuncia, in sostanza, la Consulta ha affermato che il diritto alla salute e la tutela dell’ambiente non rientrano nell’ambito dell’art. 844 c.c., il quale si limita a considerare soltanto l’interesse del proprietario ad escludere ingerenze da parte del vicino sul proprio fondo, tutelandolo da immissioni che superano la normale tollerabilità. In particolare, poi, la risoluzione del problema ambientale è demandato dalla Consulta all’adozione di strumenti di carattere prevalentemente pubblicistico, che realizzino una tutela preventiva e riparatoria, compito che il legislatore ha successivamente, anche se solo in parte, assolto. La limitazione ad ambiti privatistici della norma contenuta nell’art. 844 c.c. trova peraltro riscontro nel carattere dispositivo della stessa e nella conseguente possibilità che i proprietari dei fondi regolino i loro rapporti di vicinato con norme diverse, aventi maggiore o minore rigore; in tali ipotesi, della liceità in concreto dell’immissione si dovrà giudicare non alla stregua del principio 41 generale posto dalla legge, ma tenendo contro del criterio di valutazione fissato con la disciplina convenzionale. In quest’ottica, è stato affermato che, quando l’attività posta in essere da uno dei condomini di un edificio, direttamente o tramite un detentore qualificato, è idonea a determinare il turbamento del bene della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non occorre accertare, al fine di stabilire se l’attività considerata sia illegittima, se essa costituisca o meno immissione vietata, in quanto le norme del regolamento di condominio di natura contrattuale possono imporre al godimento della proprietà esclusiva limitazioni maggiori di quelle stabilite dalle norme generali sulla proprietà fondiaria (Cass. 4.4.2001, n. 4963, FI, 2002, I, 3179). 2. I rapporti fra la disciplina codicistica e le normative speciali. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2052, 2058, 2059 – l. 13.7.1966, n. 615, provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico – d.p.c.m. 28.3.1983, limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di esposizione relativi ad inquinanti dell’aria nell’ambiente esterno – r.d. 18.6.1991, n. 773, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza – d.p.c.m. 1.3.1991, limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti abitativi e nell’ambiente esterno – l. 26.10.1995, n. 447, legge quadro sull’inquinamento acustico – d.p.c.m. 14.11.1997, determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore – d.p.r. 11.12.1997, n. 496, regolamento recante norme per la riduzione dell’inquinamento acustico prodotto dagli aeromobili civili – d.m. 16.3.1998, tecniche di rilevamento e di misurazione dell’inquinamento acustico – d.p.r. 18.11.1998, n. 459, regolamento recante norme in materia di inquinamento acustico derivante da traffico ferroviario - d.m. 20.5.1999, criteri per la progettazione dei sistemi di monitoraggio per il controllo dei livelli di inquinamento acustico in prossimità degli aeroporti nonché criteri per la classificazione degli aeroporti in relazione al livello di inquinamento acustico. Bibliografia: Catalano G. 1991 – De Giorgi M.V. 1993 – Pacifico M. 2000. L’ambito di operatività dell’art. 844 c.c. è dunque limitato alla tutela delle situazioni soggettive dei proprietari confinanti rispetto a ad utilizzazioni dei fondi fra di loro incompatibili. I valori tutelati dalla normativa codicistica sono, pertanto, quelli connessi con la tutela della proprietà privata ed in particolare quelli legati al bilanciamento dell’esercizio dei relativi diritti, alla luce di un 42 principio di solidarietà e nella considerazione di esigenze di pubblico interesse. Restano esclusi dalla tutela dell’art. 844 c.c. quei valori connessi con beni sociali di interesse pubblico, quali la salute e l’ambiente, che invece trovano protezione, specie di fronte a fenomeni quali ad esempio l’inquinamento, nella disciplina pubblicistica contenuta in norme speciali. Si pone allora il problema dei rapporti tra la disciplina codicistica e quella contenuta nella norma speciali, che la giurisprudenza risolve in via generale distinguendo i beni tutelati dalle norme del codice civile (il diritto di proprietà) e da quelle speciali (interessi pubblici dei singoli e della comunità legati alla tutela della salute e dell’ambiente), le finalità perseguite ed il rapporto che si instaura in relazione alle norme del codice civile e con riferimento alle disposizioni contenute nelle leggi speciali. Mentre, infatti, le disposizioni di cui all’art. 844 c.c. hanno come detto carattere privatistico ed operano in senso discrezionale nei rapporti fra proprietari dei fondi confinanti, le disposizioni contenute nelle diverse leggi speciali sono di natura pubblicistica e non regolano direttamente i rapporti fra privati (Cass. 29.4.2002, n. 6223, inedita) ma operano nel rapporto c.d. « verticale » fra i privati e la pubblica amministrazione (Cass. 27.1.2003, n. 1151, GC, 2003, I, 2770) e comunque fra l’esercente l’attività che dà luogo alle immissioni e la comunità in cui esso agisce, creando a suo carico precisi obblighi verso gli enti preposti alla vigilanza (Cass. 3.11.2000, n. 14353, GC, 2001, I, 1011). La diversità di natura e finalità dei due complessi normativi fa sì che le disposizioni contenute nelle leggi speciali non escludano l’applicabilità dell’art. 844 c.c. nei rapporti fra proprietari di fondi vicini che richiedono, pertanto, l’accertamento caso per caso della liceità o illiceità delle immissioni (Cass. 13.9.2000, n. 12080, GCM, 2000, 1927). Inoltre, la limitazione dell’operatività della disciplina codicistica ai rapporti tra i privati – e la conseguente applicabilità delle norme di settore alla sfera pubblicistica – comportano che queste ultime non possano essere utilizzate al fine di stabilire la normale tollerabilità e, con essa, la legittimità delle immissioni. Il relativo giudizio rimane affidato all’equo apprezzamento del giudice (Cass. 43 29.4.2002, n. 6223, inedita); è dunque l’apprezzamento in concreto del giudice, in ordine alla normale tollerabilità delle immissioni, ad essere decisivo al fine di stabilire la liceità dell’immissione medesima, sicché una valutazione di superamento di tale limite potrebbe venire quand’anche dette immissioni non superino i limiti fissati dalle norme di interesse generale (Cass. 27.1.2003, n. 1151, GC, 2003, I, 2770). A dover essere tenuta presente ai fini della formulazione del giudizio di normale tollerabilità, non è allora la disciplina di settore bensì la particolarità della situazione concreta, avuto anche riguardo alle esigenze della produzione, da contemperare con quelle della proprietà; di conseguenza, il giudice tenuto conto della situazione dei luoghi, delle esigenze e della produzione e di quelle della proprietà, può ritenere che le stesse superino il limite di normale tollerabilità nonostante il mancato superamento dei limiti minimi fissati dalla disciplina speciale (Cass. 6.6.2000, n. 7545, GCM, 2000, 1219). La giurisprudenza, peraltro, in alcuni casi ha inteso valorizzare i limiti imposti dalla disciplina di settore, assumendoli a parametri di valutazione. « I criteri stabiliti dal d.p.c.m. 1 marzo 1991 per la determinazione dei limiti massimi di esposizione al rumore, benché dettati per la tutela generale del territorio, possono essere utilizzati per stabilire l’intensità e, di riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti fra privati, purché, però, considerati come limite minimo e non massimo, posto che i suddetti parametri sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi, ai sensi dell’art. 844 c.c., con la conseguenza che, in difetto di altri dati, il loro superamento determina necessariamente la violazione della predetta norma » (Cass. 18.4.2001, n. 5607, GI, 2001, 1818). Ai fini delle valutazioni da effettuarsi ai sensi dell’art. 844 c.c., i parametri forniti dalle leggi speciali, pertanto, possono valere solamente come limiti minimi, mentre è sempre la valutazione in concreto che determina il giudizio di tollerabilità. Sulla base dei principi generali così individuati, la giurisprudenza ha di volta in volta risolto i problemi che potevano nascere dai rapporti tra la disciplina codicistica e le singole discipline speciali. 44 Per quanto riguarda la materia delle attività produttive, ad esempio, si è affermato che i regolamenti comunali che limitano le attività rumorose in tale materia, hanno carattere pubblicistico ed operano nei rapporti fra privati e pubbliche amministrazioni, non essendo richiamati dall’art. 844 c.c. che detta la disciplina delle immissioni (Cass. 12.2.2000, n. 1565, GCM, 2000, 310). Deve pertanto essere esclusa la possibilità di fare riferimento ai rigidi parametri eventualmente fissati da leggi speciali al fine di disciplinare determinate attività produttive, quando il campo di applicazione e l’oggetto delle leggi speciali siano diversi da quelli che caratterizzano le disposizioni dettate dall’art. 844 c.c., le quali invece sono volte a proteggere la proprietà immobiliare (Cass. 11.11.1997, n. 11118, GI, 1998, 1810). La distinzione di finalità e campi di applicazione è stata ribadita anche in relazione alle norme contenute nel Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. In particolare, la giurisprudenza ha stabilito che la mancata emanazione da parte del comune d una propria regolamentazione limitatrice delle attività rumorose, in base all’art. 66 del testo unico, non implica di per sé che il medesimo comune abbia ritenuto l’attività produttiva prevalente sulle esigenze di quiete dei privati e che, conseguentemente, ogni imposizione di restrizioni debba considerarsi illegittima e l’art. 844 c.c. non possa trovare applicazione. La norma del testo unico, infatti, ha finalità di interesse pubblico, mirando a tutelare la quiete pubblica, riguarda i rapporti tra l’esercente l’attività e la collettività in cui opera, creando obblighi dell’esercente nei confronti degli enti preposti alla vigilanza, ma non diritti perfetti nei confronti degli abitanti del comune; la norma codicistica, per contro, regola un rapporto fra fondi e tutela il diritto reale di proprietà (Cass. 17.5.1974, n. 1452, GI, 1974, I, 1, 1862). Parimenti hanno finalità e campi di applicazione distinti le disposizioni sull’inquinamento atmosferico. « Le disposizioni contenute nell’art. 844 c.c. da una parte, e nel d.p.c.m. 28 marzo 1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle concentrazioni e di esposizione relativi ad inquinanti dell’aria nell’ambiente esterno, dall’altra, hanno finalità e campi di applicazione distinti, essendo l’una posta a presidio del diritto di proprietà, perseguendo l’altra la tutela igienico - sanitaria delle persone o 45 comunità esposte. Ne consegue che, in caso di controversia attinente alla tutela della proprietà immobiliare dalle immissioni, il giudice di merito, cui è rimessa la relativa indagine, tenuto conto, in concreto, della condizione dei luoghi ed, eventualmente, anche delle esigenze della produzione, da contemperare con quelle della proprietà, può ritenere che le immissioni superino il limite della normale tollerabilità nonostante il mancato superamento dei limiti massimi di inquinamento atmosferico fissati dal citato d.p.c.m. » (Cass. 6.6.2000, n. 7545, GCM, 2000, 1219). Analoghe considerazioni sono valse in ordine ai rapporti con la legge c.d. « antismog ». « La l. 13 luglio 1966 n. 615, recante provvedimento contro l’inquinamento atmosferico, disciplina comportamenti i quali prescindono da qualsiasi collegamento con la proprietà fondiaria, e vengono presi in considerazione in sé e per sé, nell’interesse collettivo alla salvaguardia della salute in generale, e non per stabilire, caso per caso, i limiti di equilibrio nell’utilizzazione della proprietà fondiaria. Ne consegue che in materia di conflitti tra fondi vicini i comportamenti dannosi che non rientrano nella previsione della disciplina delle immissioni, di cui all’art. 844 c.p.c., possono trovare la loro sanzione in quella dell’illecito aquiliano, nella quale acquistano rilievo tutti gli elementi di prevedibilità concreta che impongono di risarcire il danno derivante dal proprio comportamento colposo, ma non nella disciplina della citata legge antinquinamento, che ha una diversa sfera di operatività » (Cass. 28.3.1980, n. 2062, FI, 1980, I, 2191). Allo stesso modo, in materia di immissioni sonore, il d.p.c.m. 1.3.1991, il quale fissa le modalità di rilevamento dei rumori, al parti dei regolamenti comunali limitativi delle attività rumorose, essendo rivolto alla tutela della quiete pubblica, riguarda soltanto i rapporti fra l’esercente una delle suddette attività e la collettività in cui esso opera, creando a carico del primo precisi obblighi verso gli utenti preposti alla vigilanza. Le disposizioni contenute nel sopraindicato decreto non escludono pertanto l’applicabilità dell’art. 844 c.c., che nei rapporti con i proprietari dei fondi vicini richiedere l’accertamento caso per caso della liceità o illiceità delle immissioni (Cass. 10.1.1996, n. 161, GCM, 1996, 21; conf. Cass. 13.9.2000, n. 12080, GCM, 2000, 1927). L’accertamento – di fatto – dell’esistenza di fattori di inquinamento ambientale dannosi per 46 l’integrità psicofisica, non si risolve nell’accertamento della liceità dell’attività, ossia dell’osservanza della disciplina che ne regola l’esercizio onde tutelare l’interesse pubblico ambientale, e non può estendersi a considerare parametri di tollerabilità diversi da quelli provvisoriamente vigenti e previsti in case alla destinazione delle aree, ancora da delimitare da parte del comune (Cass. 19.7.1997, n. 6662, GI, 1997, I, 1, 298). Analoghe valutazioni sono state fatte dalla giurisprudenza in relazione ad altre leggi in materia di inquinamento acustico. Si è così stabilito, da un lato che il d.p.c.m. del 1 marzo 1991, il quale, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, al pari dei regolamenti comunali limitativi dell’attività rumorosa, fissa, quale misura da non superare per le zone non industriali, una differenza rispetto al rumore ambientale pari a 3 db in periodo notturno e in 5 db in periodo diurno, persegue finalità di carattere pubblico ed opera nei rapporti fra i privati e la p.a. – e che pertanto le disposizioni in esso contenute non escludono l’applicabilità dell’art. 844 c.c. nei rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini (Cass. 3.8.2001, n. 10735, GCM, 2001, 1544) – dall’altro che i criteri in esso stabiliti, possono esser utilizzati come parametro di riferimento per stabilire l’intensità, e di riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati purché, però, considerati come un limite minimo e non massimo, dato che i suddetti parametri sono meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., con la conseguenza che, in difetto di altri dati, il loro superamento determina necessariamente la violazione della predetta norma (Cass. 18.4.2001, n. 5697, GCM, 2001, 818). In definitiva, dunque, anche le norme che disciplinano i livelli di accettabilità delle immissioni sonore, in quanto mirano ad assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete, perseguono finalità di interesse pubblico e sono, quindi, destinatee a regolare i rapporti tra i privati e la pubblica amministrazione, e non già i rapporti di natura patrimoniale tra i privati, alla cui disciplina è destinato l’art. 844 c.c. Pertanto, anche se le immissioni non superano i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il giudizio sulla loro tollerabilità ai sensi dell’art. 844 c.c. va effettuato 47 ugualmente e con riferimento alla situazione concreta (Cass. 2.6.1999, n. 5398, GCM, 1999, 1252). 3. Il carattere delle immissioni. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059. Bibliografia: Lojacono V. 1970. La disposizione di cui all’art. 844 c.c. contiene un’elencazione di un certo numero di immissioni, per cui si è posto il problema della natura tassativa o meno di tale elenco. La dottrina ha escluso il carattere tassativo ma ha rilevato che l’elenco contenuto nell’art. 844 c.c., se non esclude dall’ambito delle turbative prese in considerazione atti di immissioni non enumerati specificatamente, consente comunque di individuare categorie di turbative non riferibili alla disposizione del codice civile. Si è così ritenuto che debbano essere escluse le turbative c.d. « immateriali », che non possono rientrare nel novero delle propagazioni materiali richieste dall’art. 844 c.c. e le turbative c.d. « immediate », identificate in quelle che iniziano e compiono il loro ciclo di influenza interamente sul fondo del vicino e sono, per tale ragione, sempre illegittime e non possono essere considerate vere e proprie immissioni (Lojacono V. 1970). Anche la giurisprudenza ha escluso il carattere rigorosamente tassativo dell’elencazione contenuta nella norma, ma ha fissato le condizioni per una interpretazione estensiva della medesima e, quindi, i requisiti che, in via generale, devono essere posseduti dalle immissioni diverse da quelle espressamente prese in considerazione ai fini dell’applicabilità della disciplina codicistica. « Sebbene l’art. 844 c.c. contenga un elenco esemplificativo delle immissioni suscettibili di divieto, posto che, in esso, dopo la espressa menzione di alcune di tali immissioni, seguono le parole “e simili propagazioni”, tuttavia il carattere eccezionale dei limiti posti all’estrinsecazione del diritto di proprietà fa sì che la tassatività sussista nel “genus” se non nella “specie”. Pertanto, considerando sia le caratteristiche delle immissioni espressamente menzionate, sia la necessità che si tratti di “propagazioni”, sia, infine, la “ratio” della norma, il suo dettato è passibile di applicazione, per interpretazione estensiva, a ipotesi che presentino i requisiti: della materialità dell’immissione, e cioè necessità che essa cada sotto i sensi dell’uomo ovvero influisca 48 oggettivamente sul suo organismo (ad es.: radiazioni nocive) o su apparecchiature (ad es.: correnti elettriche ed onde elettromagnetiche); del carattere indiretto o mediato dell’immissione, nel senso che essa non consista in un “facere in alienum”, ma costituisca ripercussione di fatti compiuti direttamente o indirettamente dall’uomo, nel fondo da cui si propaga; dell’attualità di una situazione di intollerabilità, non semplice pericolo di essa, derivante da una continuità, o almeno periodicità, anche se non ad intervalli regolari, dell’immissione. Tali requisiti ricorrono nel caso di infiltrazione d’acqua nel fondo altrui, prodotta dall’assidua irrigazione del fondo proprio, coltivato “a marcita” » (Cass. 6.3.1979, n. 1404, GCM, 1979, 3). Pertanto, considerando sia le caratteristiche delle immissioni espressamente menzionate, sia la necessità che si tratti di « propagazioni », sia la ratio della norma, l’interpretazione estensiva di questa risulta possibile soltanto rispetto ad ipotesi che presentino come requisiti: la materialità dell’immissione, vale a dire che essa cada sotto i sensi dell’uomo ovvero influisca oggettivamente sul suo fisico; il carattere indiretto o mediato dell’immissione, nel senso che essa non consista in un facere in alienum, ma rappresenti ripercussioni di fatti compiuti direttamente o indirettamente dall’uomo nel fondo da cui si propaga; l’attualità di una situazione di intollerabilità e non il semplice pericolo di essa, che derivi da una continuità o almeno periodicità, anche se non ad intervalli regolari, dell’immissione. 4. I criteri di valutazione della liceità delle immissioni. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059. Bibliografia: Visintini G. 1990. L’art. 844 c.c. enuclea tre criteri di valutazione della liceità delle immissioni di cui due – la normale tollerabilità ed il contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà – sono considerati dalla giurisprudenza come obbligatori, mentre il terzo – la priorità dell’uso – invece è ritenuto facoltativo e sussidiario. « Ai fini della valutazione della legittimità o non delle immissioni di cui all’art. 844 c.c. occorre fare riferimento a tre diversi criteri, di cui due 49 obbligatori ed il terzo facoltativo e sussidiario: in primo luogo bisogna tener conto del requisito oggettivo dato dalle caratteristiche della località; in secondo luogo va tenuta presente la necessità di contemperare le esigenze della produzione con quelle della proprietà; infine il giudizio complessivo può essere integrato facendo ricorso al criterio della priorità di un determinato uso, che peraltro è facoltativo e sussidiario rispetto ai primi due e non vale ad escludere necessariamente l’illiceità dell'immissione ed il conseguente obbligo di eliminarla » (Trib. Milano 3.10.1989, AC, 1990, 1149; conf. Cass. 20.12.1985, n. 6534, GCM, 12). La dottrina ha osservato che la norma accoglie un orientamento risalente, ma gli aspetti originali della disposizione riguardano, in prima istanza, la direttiva secondo cui per valutare la normale tollerabilità occorre far riferimento alla condizione dei luoghi, e in seconda istanza, il conferimento al giudice del potere di « contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà ». li primo criterio indicato consente di elevare la soglia della normale tollerabilità (e quindi di negare tutela), tutte le volte che la zona sia a carattere industriale; e già qui si manifesta una tutela preferenziale per la proprietà industriale rispetto alla proprietà ad uso privato e anche a quella agricola. Il secondo criterio implica, senz’altro, una condizione di favore per l’imminente imprenditore e non prevede neppure, stando alla lettera, che il giudice, nel momento in cui sacrifica le esigenze della proprietà in favore di quelle produttive, accordi un risarcimento del danno derivante da immissioni industriali. Tale sistema impone al giudice, secondo tale dottrina, una linea di valutazione politica abbastanza univoca, in quanto mira – se lo si valute nel contesto letterale ed alla luce delle ideologie del tempo – a far sopportare indiscriminatamente dai vicini i costi delle immissioni da attività produttiva a patto che i vicini non siano a loro volta produttori; in caso di conflitti tra vicini produttori, l’interesse della produzione dovrebbe coincidere con l’interesse della maggior produzione (Visintini G. 1990, 323). 4.1. La normale tollerabilità. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059. Bibliografia: Salvi C. 1979 – Visintini G. 1990. 50 L’art. 844 c.c. ancora la legittimità delle immissioni provenienti da un fondo al fatto che le stesse non superino la normale tollerabilità. Tale criterio rappresenta quello fondamentale al fine di stabilire la liceità delle immissioni, in quanto l’altro criterio che la giurisprudenza considera come obbligatorio, vale a dire la necessità di contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, costituisce più che altro un elemento intrinseco relativo alla predetta liceità, uno strumento per la valutazione del giudice, al quale la disposizione è espressamente rivolta. Il concetto di normale tollerabilità, peraltro, rappresenta una formulazione astratta che lascia al giudice ampi poteri discrezionali; non esiste, infatti, nel codice civile una misura in base alla quale aritmeticamente stabilite il limite di tollerabilità delle immissioni, poiché in questa materia domina il criterio della relatività e della valutazione caso per caso, essendo affidato al giudice un compito moderatore ed equilibratore, da esercitarsi di volta in volta, in relazione alle singole situazioni particolari ed all’entità degli interessi in conflitto, e tenuto altresì conto delle esigenze della convivenza sociale e della funzione sociale della proprietà, nonché con riguardo sia alle condizioni dei luoghi ed alle attività normalmente svolte in un determinato contesto produttivo sia al sistema di vita ed alle correnti abitudini della popolazione nel presente momento storico (Cass. 11.10.1995, n. 10588, SI, 1996, 364. 20.12.1985, n. 6534, GCM, 1985, 12). « La tollerabilità è quella “consentita in un determinato momento storico ed in un luogo determinato, ed avvertita come tale dalla coscienza sociale” e la valutazione deve avvenire in concreto tenendo contro di natura, entità e causa delle immissioni, delle condizioni e delle caratteristiche di luoghi (ex art. 844, 1° co., c.c.); intesa comunemente nel senso (non geografico ma) sociale, relativo cioè al “carattere derivante dalle attività che normalmente vi si svolgono e dal sistema e dalle abitudini di vita della popolazione locale” » (Cass. 27.7.1983, n. 5137, MGI, 1983, 1341). Il limite della tollerabilità delle immissioni ha pertanto carattere relativo, dovendo essere fissato con riguardo al caso concreto, tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi, delle attività normalmente svolte, del sistema di vita e della abitudini della popolazione; con particolare riguardo alle immissioni sonore, 51 inoltre, deve farsi riferimento anche alla c.d. « rumorosità di fondo della zona », vale a dire a quel complesso di suoni, di origine varia e spesso non identificabili, continui e caratteristici della zona medesima, sui quali si innestano, di volta in volta, rumori più intensi. Tutti detti elementi debbono essere valutati in modo obiettivo, in relazione alla reattività dell’uomo medio e, quindi, prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone interessate alle immissioni. Secondo l’interpretazione tradizionale, il giudizio di tollerabilità delle immissioni deve essere riferito esclusivamente al contenuto del diritto di proprietà e non può, quindi essere impiegato per giudicare delle immissioni che rechino pregiudizio ad altri interessi, diversi da quello del godimento fondiario; in altre parole, il giudizio in questione si risolve nella determinazione dell’incidenza della lesione apportata dalle immissioni rispetto al godimento fondiario tipico di una zona determinata (Salvi C. 1979, 311). Il carattere relativo ed oggettivo del giudizio di tollerabilità delle immissioni porta la giurisprudenza più tradizionale ad escludere qualsiasi rilevanza alle qualità personali dei soggetti danneggiati ed a prendere in considerazione l’idoneità delle immissioni a ripercuotersi sul fisico e sulla psiche dei soggetti colpiti esclusivamente sotto il profilo della reattività dell’uomo medio secondo la comune sensibilità, prescindendo, quindi, da valutazioni relative alle singole persone interessate. I proposito la dottrina ha rilevato che nella valutazione della normale tollerabilità i giudici integrano la direttiva legislativa con il ricorso al criterio dell’uso normale. In molte decisioni, si sono ritenute tollerabili le immissioni provenienti da una sfruttamento normale della proprietà. In questo modo, la giurisprudenza continua ad applicare il criterio che era stato elaborato dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza anteriormente al codice del 1942. quanto al criterio legislativamente previsto della normalità del danno causato, esso è correlato alla situazione del luogo. Alcune sentenze interpretano la facoltà di contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà nel senso che la tollerabilità delle immissioni nelle località a prevalente carattere industriale deve essere maggiore di quanto si richiede in altri luoghi. Inoltre, sempre nell’applicazione del primo comma 52 dell’art. 844 c.c., è frequente l’affermazione che la tollerabilità normale vada determinata con riguardo alla comune sensibilità (Visintini G. 1990, 336). Come già accennato, in tema di immissioni sonore, la giurisprudenza ha poi elaborato un altro criterio di valutazione di tollerabilità, come risulta ben argomentato da una sentenza del Tribunale di Milano. « Ai fini della determinazione del limite di tollerabilità delle immissioni sonore e per valutare la sussistenza del presupposto oggettivo della illiceità dell’immissione, deve applicarsi il criterio comparativo, consistente nel confrontare il livello medio dei rumori di fondo costituiti dalla somma degli effetti acustici prodotti dalle sorgenti sonore esistenti e interessanti una determinata zona, con quello del rumore rilevato sul luogo che subisce le immissioni, e nel ritenere superato il limite della normale tollerabilità per quelle immissioni che abbiano una intensità superiore di oltre tre decibel al livello sonoro di fondo. Si è rilevato in dottrina, infatti, che il decibel è l’unità di misura del livello sonoro, e che a relativa scala è su basi logaritmiche per cui un aumento di tre decibel corrisponde ad un raddoppio dell’intensità della sorgente sonora, che viene normalmente percepito dall’organismo umano come fastidioso, perché di molto superiore ai valori del rumore continuo e costante già esistente in zona. Il riferimento a criteri e valori assoluti utile per la verifica e il collaudo di singole opere o attività non è, invece, adeguato a rappresentare il grado di disturbo che singole immissioni possono produrre, perché non permette di valutare la maggiore intensità sonora causata da una determinata fonte, verificando in quale misura una certa attività svolta nel fondo vicino causi autonomamente immissioni che superino la normale tollerabilità » (Trib. Milano 10.12.1992, NGCC, 1993, 789). La valutazione dei luoghi assume rilievo per la giurisprudenza anche in relazione alle immissioni di fumo o pulviscolo. « Il criterio posto dall’art. 844 c.c. costituisce un elemento di cui il giudice deve tener conto, ma sempre per decidere se la immissione supera o meno la normale tollerabilità. In altri termini, il giudice deve emettere un giudizio prelibare in ordine logico e giuridico, valutare cioè se la immissione supera o no il confine della sopportabilità; e nell’emettere una simile valutazione deve tener conto della situazione dei luoghi, ma non per superare il limite della tollerabilità, bensì per valutarlo » (Trib. Napoli 22.2.1983, DG, 1983, 354). 53 La distinzione tra le diverse funzioni dei criteri individuati dalla norma di cui all’art. 844 c.c., così come l’aggiunta del criterio comparativo, costituiscono ormai principi consolidati in giurisprudenza. 4.2. Le esigenze della produzione. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059. Bibliografia: Salvi C. 1979 – Visintini G. 1990. Si è visto che il secondo comma dell’art. 844 c.c. prevede un secondo criterio obbligatorio di valutazione della liceità dell’immissione, rappresentato dal contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. La giurisprudenza ha precisato che la disposizione contenuta nel secondo comma dell’art. 844 c.c., che rende possibile, in caso di conflitto tra esigenze della produzione e ragioni della proprietà, l’esplicasi del potere moderatore e regolatore del giudice anche aldilà della normale tollerabilità, è manifestamente dettato con riguardo esclusivo alle esigenze della produzione ed è, come tale, destinato ad operare in concreto, in favore dell’attività produttiva e non del diritto di proprietà. Il criterio in esame, secondo la giurisprudenza, non è posto esclusivamente in funzione del giudizio di tollerabilità, quale criterio misuratore di quest’ultima – per cui una volta stabilità l’intollerabilità non vi sarebbe più margine per l’esercizio del potere moderatore e regolatore del giudice – dovendosi invece ritenere, in relazione sia alla latitudine della potestà, conferita all’autorità giudiziaria sia, soprattutto, alla ratio della disposizione, volta al fine di comporre interessi in conflitto nel quadro di una proficua esistenza sociale e con riguardo alle esigenze della produzione, che alla predetta direttiva di contemperamento sia assegnato un campo di applicazione più vasto e che essa, quindi, possa e debba esplicarsi anche aldilà del limite di rottura della normale tollerabilità. Nell’analizzare il criterio in esame, la giurisprudenza ha inoltre precisato i limiti di operatività dell’art. 844 c.c. rispetto all’art. 2043 c.c. 54 « L’art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso delle proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Al di fuori di tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di godimento e non sono quindi applicabili i criteri dettati dall’art. 844 c.c. ma, venendo in considerazione, in tali ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema generale dell’azione di risarcimento dei danni ex art. 2043 c.c. che può essere proposta anche cumulativamente con l’azione ex art. 844 c.c. » (Cass. 6.12.2000, n. 15509, GCM, 2000, 2558). La distinzione operata dalla giurisprudenza assume peculiare rilievo nelle ipotesi in cui le immissioni riguardino fondi situati in zone a carattere prevalentemente industriale. « In tema di immissioni in alienum, il criterio del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, posto dall’art. 844, comma 2, c.c., non implica che nelle zone a prevalente vocazione industriale debbano necessariamente considerarsi lecite e tollerabili, per il solo fatto della destinazione urbanistica data dalla competente p.a. all’area interessata dal fenomeno, le immissioni di qualsiasi natura ed entità determinate dall’attività produttiva, ma implica solo che, nella riconosciuta preminenza dell’interesse collettivo, in termini di prodotto e di occupazione, alla prosecuzione dell’attività immissiva, possa essere effettuata una valutazione comparativa degli interessi dedotti in giudizio ai fini della determinazione del contenuto della sanzione da applicare, ciò che si realizza con l’attribuire al giudice, una volta che abbia riconosciuto l’esigenza del mantenimento dell’attività produttiva, il potere di astenersi dall’adozione di misure inibitorie, e di far luogo, invece, a statuizioni che, pur con il sacrificio della piena tutela della proprietà individuale, consentano la prosecuzione dell’attività immissiva dietro pagamento di un congruo indennizzo, sempre che detta attività rimanga nei limiti della normale tollerabilità, configurandosi come dannosa, ma lecita. Ove, invece, tali limiti siano superati, si è in presenza di un’attività illegittima, traducentesi in fatti illeciti generatori di danno risarcibile ex art. 2043 c.c. » (Cass. 29.11.1999, n. 13334, GCM, 1999, 2394). In linea generale è dunque possibile affermare che in materia di immissioni, le due azioni di cui agli art. 844 e 2043 c.c. hanno 55 diverso ambito operativo, in quanto la prima norma impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso della proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Ove risultino superati tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di godimento e non sono quindi applicabili i criteri da tale norma dettati ma, venendo in considerazione in detta ipotesi unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c., che può essere proposta anche cumulativamente con l’azione ex art. 844 c.c. (Cass. 7.8.2002, n. 11915, GCM, 2003, I, 2498; Cass. 1.2.1995, n. 1156, GI, 1995, I, 1, 1836). A tal proposito, è utile ricordare che le sezioni unite hanno affermato che qualora il servizio di discarico dei rifiuti solidi urbani, affidato dal comune in concessione ad imprenditore privato e da questi espletato in conformità delle modalità fissate dal concedente, comporti per il fondo vicino immissioni di fumo ed esalazioni, e tali immissioni superino la normale tollerabilità, in modo da precludere ogni possibilità di contemperamento delle esigenze di quel servizio con le ragioni del proprietario del fondo, deve ritenersi consentito a quest’ultimo di esperire azione risarcitoria per fatto illecito davanti al giudice ordinario, nei confronti di entrambi i soggetti cui il fatto stesso è imputabile, e, quindi, non solo nei confronti del comune concedente, vertendosi in tema di sindacato del suddetto giudice che non investe attività discrezionali dell’amministrazione, ma comportamenti di essa sottoposti al principio generale del neminem laedere (Cass. 10.12.1984, n. 6476, GCM, 1984, 12). 4.3. La priorità dell’uso. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059. Bibliografia: Salvi C. 1979 – Visintini G. 1990. 56 L’ultima parte del secondo comma dell’art. 844 c.c. prevede la facoltà, e non l’obbligo, per il giudice di tener conto ella priorità di un determinato uso nell’applicazione della norma. Si è già osservato come la giurisprudenza assegni a tale criterio una valenza secondaria e facoltativa rispetto ai precedenti due, rappresentati dalla tollerabilità delle immissioni e dal contemperamento delle esigenze della produzione con le ragione della proprietà. « Ai fini della valutazione della liceità o meno delle immissioni, il criterio della priorità dell’uso ha natura secondaria e facoltativa, dovendo il limite della tollerabilità accertarsi tenendo conto, anzitutto, della situazione dei luoghi e della necessità di contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle della produzione. (Nella specie, il giudice del merito aveva ritenuto che, in una zona residenziale ma con prevalenti interessi industriali, il limite di tollerabilità dei rumori prodotti da uno stabilimento e, indipendentemente dalla data della sua installazione, inevitabilmente più elevato che in una zona soltanto residenziale. La S.C. ha confermato tale decisione enunciando l’anzidetto principio) » (Cass. 23.5.1981, n. 3401, GCM, 1981, 5). Il carattere sussidiario e facoltativo del criterio in esame comporta che il giudice di merito, nella valutazione della normale tollerabilità delle immissioni, non sia tenuto a farvi ricorso quando, in base agli opportuni accertamenti di fatto e secondo il suo apprezzamento – incensurabile se adeguatamente motivato – ritenga superata la soglia di tollerabilità (Cass. 6.3.1979, n. 1404, GCM, 1979, 3). La giurisprudenza ha altresì precisato che in ogni caso, la priorità di uso va considerata nella sua obiettività, cioè con riferimento ai fondi (o all’organizzazione e produzione industriale) nei loro reciproci rapporti, e non già in relazione al momento dell’acquisto della proprietà (o della titolarità d’impresa) da parte dei soggetti tra i quali è sorta controversia (App. Catania 14.1.1992, NGCC, 1992, I, 888). 5. La tipologia delle immissioni. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059. Bibliografia: Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993. 57 I criteri individuati dall’art. 844 c.c. e l’interpretazione che ne hanno dato dottrina e giurisprudenza, consente di distinguere tre tipologie di immissioni: quelle che non superno il limite di normale tollerabilità, quelle che superano detto limite ma che soo ritenute lecite dal giudice nell’ambito del suo potere dispositivo in considerazione delle esigenze della produzione e del criterio della priorità dell’uso, quelle infine che non solo superano il limite in questione ma neppure possono essere considerate lecite. La prima tipologia non presente problematiche particolari: l’immissione che si mantiene antro i limiti della normale tollerabilità, infatti, non può che configurarsi quale legittimo esercizio del diritto dominicale e, conseguentemente, l’attività dalla quale essa deriva non potrà né essere limitata né inibita dal proprietario del fondo contiguo. Anche nel caso in cui le immissioni rientrino nella seconda tipologia l’attività dalla quale derivano non potranno essere limitate o inibite ma, contrariamente all’ipotesi precedente, al proprietario del fondo contiguo è concesso il diritto ad ottenere la corresponsione di un indennizzo e, eventualmente, l’imposizione di specifiche cautele atte a contenere i fenomeni diffusi. Vedremo oltre come la giurisprudenza inquadri tale fattispecie nella categoria degli atti dannosi ma leciti, mentre la dottrina sia maggiormente orientata nell’attribuire valenza sostanzialmente risarcitoria all’indennizzo. Nel caso invece in cui le immissioni superino la normale tollerabilità e l’interesse della produzione non giustifichi la prosecuzione dell’attività diffusiva, il vicino danneggiato potrà agire per ottenere il risarcimento per equivalente ed in forma specifica, previsti rispettivamente dagli artt. 2043 e 2058 c.c., al fine di ottenere, accanto all’inibizione delle immissioni, anche il ristoro dei danni subiti. L’azione risarcitoria, peraltro è esperibile anche nei confronti della pubblica amministrazione, come hanno stabilito le sezioni unite della Corte di cassazione. « Come queste Sezioni Unite sia pure implicitamente hanno già avuto occasione di ritenere, l’azione del proprietario tendente ad essere indennizzato ex art. 844 c.c. per il deprezzamento subito dall’immobile di sua proprietà in conseguenza alle immissioni eccedenti la normale 58 tollerabilità, provenienti dallo svolgimento di un pubblico servizio, gestito in regime di concessine, può essere validamente esperita – ricorrendone le condizioni – anche nei confronti della p.a. concedente davanti al giudice ordinario, trattandosi di comanda che si ricollega a una posizione di diritto soggettivo, non degradata o affievolita da atti di natura ablatoria e che non implica alcuna interferenza sull’attività discrezionale dell’amministrazione nella gestione del pubblico servizio, ma il semplice riscontro che la relativa attività – in applicazione del generale principio del neminem laedere e dell’obbligo di indennizzare le limitazioni e i sacrifici particolari comunque imposti alla proprietà per ragioni di pubblico interesse – non abbia trasmodato in un gratuito sacrificio del diritto di proprietà non consentito dall’ordinamento » (Cass. 10.12.1984, n. 6476, GC, 1985, I, 1398). Nella medesima pronuncia, la Corte di cassazione ha altresì affrontato la problematica connessa ai criteri di bilanciamento tra godimento della proprietà ed esigenze della produzione. « Va in primo luogo rilevato che l’art. 844, 2° co., c.c. che in materia di immissioni prevede i contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, si applica in ogni caso in cui vi sia conflitto tra la tutela del diritto di proprietà e le esigenze della produzione, quale che sia il campo in cui questa si esplichi,industriale, agricolo o di altra natura, e anche se essa concerna, invece di beni, servizi sia pure indirettamente connessi con quelle esigenze, in quanto essenziali – quali sono appunto quelli pubblici – per un’efficiente organizzazione della collettività nel cui interesse quelle esigenze devono essere salvaguardate. La immissioni intollerabili possono costituire danno risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. anche da parte della p.a. siccome attività violatrice del principio del neminem laedere senza che il giudice incorre in sindacato, a lui vietato, del comportamento della p.a., di attività o atti discrezionali o meno. È demandata poi al giudice di merito con ben noti limiti del sindacato di legittimità la valutazione della intollerabilità delle immissioni, anche al fine di stabilire se esse eccedano il limite entro cui l’Autorità giudiziaria può e deve procedere al contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, a norma dell’art. 84, 2° co., c.c. – oltre il quale non è consentita l’imposizione di sacrifici all’altrui diritto di proprietà secondo la previsione del citato art. 844 c.c., trattandosi di attività illegittima che rientra nello schema dell’azione generale risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c., in considerazione della illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi » (Cass. 10.12.1984, n. 6476, GC, 1985, I, 1398). 59 L’applicabilità del principio generale del neminem laedere legittima ad esperire l’azione aquiliana tutti coloro che abbiano subito un danno da immissioni non tollerabili ed illecite, senza che assuma rilievo la maggiore o minore vicinanza con il fondo da cui le medesime si propagano ed a prescindere dalla qualifica di titolari di diritti reali che possa loro essere attribuita. Tali soggetti, peraltro, anche in assenza di applicabilità dell’azione inibitoria ex art. 844 c.c., attraverso il ricorso all’azione aquiliana possono ottenere la condanna ad un facere (che può essere rappresentata, ad esempio, nell’adozione cautele idonee a eliminare le fonti di immissione), in virtù del disposto di cui all’art. 2058 c.c., il quale, rispetto alla tutela risarcitoria per equivalente, presenta il vantaggio di meglio attagliarsi agli interessi in gioco (Trib. Verona 13.101.1989, FI, 1990, I, 3292). 6. La tutela giurisdizionale contro le immissioni. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059. Bibliografia: Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993. Le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l’azione diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della definitività (Cass. 2.6.2000, n. 7420, GCM, 2000, 1206). Le due azioni, peraltro, hanno ambiti di applicazione diversi. « In materia di immissioni, le due azioni di cui agli art. 844 e 2043 c.c. hanno diverso ambito operativo, atteso che la prima norma impone, nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso della proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Ove risultino superati tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di godimento e non sono quindi applicabili i criteri da tale norma dettati ma, venendo in considerazione in detta ipotesi unicamente l’illiceità del 60 fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c., che può essere proposta anche cumulativamente con l’azione ex art. 844 c.c. » (Cass. 7.8.2002, n. 11915, GC, 2003, I, 2498). La domanda di indennizzo per il diminuito valore del fondo a causa delle immissioni eccedenti la normale tollerabilità è del tutto diversa da quella di risarcimento dei danni derivanti dalle stesse immissioni, poiché, mentre la prima, fondata sull’art. 844 c.c., ha natura reale e mira al conseguimento di un indennizzo da attività lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo a causa delle immissioni, la seconda, fondata sull’art. 2043 c.c., ha natura personale, essendo volta a risarcire il proprietario del fondo vicino dei danni arrecatigli dalle immissioni, sotto tale profilo considerato come fatto illecito. Ne consegue che la statuizione, adottata dal giudice di primo grado, di rigetto della domanda risarcitoria e di accoglimento di quella indennitaria, ed appellata dal condannato, in difetto di appello incidentale in ordine al rigetto della prima, deve ritenersi passata in giudicato su tale punto, sul quale, pertanto, il giudice di appello non può più pronunciarsi (Cass. 6.6.2000, n. 7545, GCM, 2000, 1219). 6.1. Le azioni reali. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059. Bibliografia: Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993. L’azione inibitoria prevista dall’art. 844 c.c. ha, dunque, natura reale, rientra nello schema della negatoria servitus e deve essere proposta contro tutti i proprietari di tale fondo, qualora l’attore miri ad ottenere un divieto definitivo delle immissioni, operante cioè nei confronti dei proprietari attuali o futuri del fondo medesimo e dei loro aventi causa, in modo da ottenere l’accertamento dell’infondatezza della pretesa, anche solo eventuale e teorica, relativa al diritto di produrre siffatte immissioni. È del pari, reale, l’azione proposta contro il proprietario del fondo onde farne accertare la responsabilità per non aver indotto il detentore del bene ad osservare i limiti di tollerabilità concretamente accertati, ovvero per evitare che 61 l’esecuzione concreta della sentenza ottenuta contro il detentore possa essere, poi, ostacolata dal proprietario dell’immobile, ovvero infine, per ottenere i compimento di modifiche strutturali del bene indispensabili al fine di eliminare le immissioni. La suddetta azione ha, invece, carattere personale rientrante nello schema dell’azione di risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c., nel caso in cui l’attore miri soltanto ad ottenere il divieto del comportamento illecito dell’autore materiale delle suddette immissioni – sia esso detentore ovvero comproprietario del fondo – il quale si trovi nella giuridica possibilità di eliminare queste ultime senza bisogno dell’intervento del proprietario o degli altri comproprietari del fondo medesimo (Cass. 16.6.1987, n. 5287, GI, 1989, I, 1, 380). Dalla natura reale dell’azione inibitoria consegue pertanto che legittimato attivo alla proposizione della stessa non può che essere il proprietario o comunque colui che sia titolare di un diritto reale di godimento sul bene. « Se il contenuto del diritto di proprietà è il godimento (e la disposizione) “in modo pieno” (ed esclusivo) - entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico - di una determinata cosa (art. 832 c.c.) il proprietario, il quale agisca per ottenere la cessazione delle propagazioni, derivanti dal fondo del vicino, che superino la normale tollerabilità, fa valere il suo diritto di godere “in modo pieno” del proprio fondo e quindi all’azione da lui spiegata ex art. 844 non può non riconoscersi natura reale (resa peraltro evidente dalla lettera della norma, in cui si parla esplicitamente di “proprietario” e ragioni della “proprietà”). Ma proprio perché dette propagazioni colpiscono precipuamente e direttamente il godimento del fondo, la norma è da intendere estensivamente, fino a legittimare all’azione (oltre – com’è ovvio - il superficiario e l’enfiteuta) il titolare di un diritto reale di godimento (di usufrutto, di uso o di abitazione; quanto al primo, l’azione “negatoria servitutis” accordata dall’art. 1012-2 c.c. è stata intesa comprendere anche l’azione ex art. 844 da Cass. n. 1404-79). Quindi - in sostanza – l’art. 844 è posto a tutela del diritto (reale) di godimento di un fondo, sia questo compreso nel fascio di facoltà di cui è costituito il dominio ovvero costituisce specifico oggetto di un “jus in re aliena” » (Cass. 11.11.1992, n. 12133, FI, 1994, I, 205). 62 In alcune casi, peraltro, la giurisprudenza, pur mantenendo fermi i principi sopra espressi, ha inteso escludere la legittimazione attiva all’azione del conduttore. « Ove la cessazione delle immissioni possa determinarsi solo mediante l’adozione di accorgimenti comportanti la modificazione sostanziale della conformazione dell’immobile da cui le immissioni si propagano, venendo ad incidere sull’oggetto e perciò sull’essenza stessa del diritto reale immobiliare del vicino, il titolare di un diritto personale di godimento non ha sufficiente legittimazione a chiedere modifiche operanti nei confronti del proprietario attuale e di quelle futuri, conseguendo un’inibitoria che faccia stato anche nei confronti di soggetti diversi dagli attuali contendenti » (Cass. 22.12.1995,n . 13069, FI, 1996, I, 533). L’individuazione della natura dell’azione (reale o personale) incide anche sulla legittimazione passiva alla domanda; infatti, legittimato passivo rispetto all’azione intentata ai sensi dell’art. 844 c.c. è l’autore dell’immissione, quando la domanda è diretta unicamente a respingere il fatto di quest’ultimo, vale a dire a far cessare l’attività di lui o, subordinatamente, a far ridurre le immissioni nei limiti della tollerabilità. « È stato ripetutamente insegnato che l’azione che il proprietario sperimenta nel caso di missini moleste che provengono dal fondo del vicino ha contenuto negatorio e si atteggia normalmente come azione di natura reale, e soltanto in relazione a particolari fattispecie si è rinvenuto il carattere meramente personale della medesima, così, ad esempio, quando il danneggiato avanza pretese solo risarcitorie. Ciò trova spiegazione sotto il profilo che la tutela prevista dall’art. 844 c.c., sempre che le molestie superino la normale tollerabilità, rientra nel paradigma dell’art. 949 c.c., cioè fra quelle azioni negatorie a difesa della proprietà, le quali non hanno, secondo quanto traspare dalla lettere della norma ed è opinione della prevalente dottrina, il ristretto significato di azioni tendenti solo ad evitare l’esercizio di vere e proprie servitù sul proprio fondo, ma quello più ampio di azioni tendenti ad impedire qualsiasi turbativa o molestia che altri commetta, vantando o meno un corrispondente, ma inesistente, diritto, in pregiudizio del fondo dell’attore, e, quindi, comprendono anche la particolare azione che mira ad evitare le immissioni moleste di cui parla il citato art. 844 c.c. Alla luce di tali principi, si è radicata la tesi che l’azione per impedire le immissioni può essere proposta, tranne nel caso che tenda soltanto al risarcimento dei danni, sia nei confronti dell’autore materiale delle 63 immissioni illecite, sia nei confronti del proprietario dell’immobile, dal quale esse provengono. Ovviamente, la domanda deve essere necessariamente proposta nei confronti del proprietario (e facoltativamente anche nei confronti dell’autore materiale delle immissioni che proprietario non sia e nei cui confronti tuttavia il proprietario può sempre rivalersi), allorché l’attore intenda che la pronuncia diretta a disporre l’eliminazione delle immissioni consegua tutti gli effetti reali di cui è capace, come quando, ad esempio, voglia che la pronuncia possa essere opposta in futuro agli eventuali successori a titolo particolare del proprietario attuale » (Cass. 13.1.1975, n. 111, FI, 1975, I, 2221). La legittimazione passiva all’azione inibitoria (così come quelle all’azione aquiliana) si estende anche al proprietario questi versi in situazione di colpa rispetto alle immissioni provocate dal conduttore. « In ordine alla domanda con la quale il proprietario di un fondo agisca per ottenere, ai sensi degli artt. 844 e 2043 c.c., la cessazione di intollerabili immissioni ed il risarcimento dei danni conseguenti, la Corte regolatrice ha riconosciuto la legittimazione passiva del proprietario del fondo da cui provengono le immissioni stesse, ancorché queste ultime derivino solo dalle particolari modalità di uso del fondo da parte del conduttore medesimo. Anche in tale ipotesi, infatti, è configurabile una responsabilità del proprietario ove si deduca e risulti che a eccedenza delle immissioni rispetto ai limiti legali, sia imputabile a colpa e fatto del proprietario stesso, i quale ha concesso in locazione l’immobile con la consapevolezza della sua destinazione ad attività di per sé molesta ai vicini e senza essersi adoperato per impedire al conduttore di provocare le intollerabili immissioni » (Cass. 9.5.1983, n. 3190, GI, 1983, I, 1, 1951). La giurisprudenza, peraltro, si è anche dovuta occupare dell’ipotesi inversa, ovvero dell’esperibilità dell’azione anche nei confronti del conduttore, oltreché del proprietario. « Quanto alla legittimazione passiva - che il ricorrente afferma competere alla sola proprietaria, anche perché le opere da eseguire nell’immobile locato, comportandone, a suo dire, una rilevante trasformazione, non potrebbero essere poste a carico di esso locatario osserva questa Corte, nel solco di un condiviso indirizzo giurisprudenziale, che l’azione tendente a far valere il divieto di immissioni eccedenti la normale tollerabilità, ex art. 844 c.c., ha 64 carattere reale e rientra nel paradigma delle azioni negatorie predisposte a tutela della proprietà, le quali mirano a far dichiarare e sanzionare non soltanto l’inesistenza di vere e proprie servitù vantate sul fondo dell’attore, ma anche a far accettare, in senso più ampio, l’inesistenza di qualsiasi diritto ed, inoltre, l’illegittimità di turbative e molestie in danno del fondo stesso, al fine di conseguire la cessazione di queste ultime; e pertanto, in caso di turbative e molestie consistenti in immissioni intollerabili, può ritenersi, in concrete circostanze, che l’azione volta a farle cessare possa essere esperita nei confronti sia del proprietario dell’immobile che dell’autore materiale delle stesse, che ben può essere il locatario dell’immobile dal quale provengono le immissioni, allorquando solo allo stesso debba essere imposto un facere od un non facere, suscettibile, in caso di diniego, di esecuzione forzata. Consegue che alla legittimazione passiva del proprietario dell’immobile, dal quale provengono le immissioni, può affiancarsi quella del locatario dello stesso immobile, che sia stato con il suo comportamento omissivo o commissivo causa delle medesime » (Cass. 9.5.1997, n. 4086, GCM, 1997, 706). In merito al criterio del contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, la Corte di cassazione ha chiarito che l’applicazione di tale criterio non implica che nelle zone a prevalente carattere industriale le immissioni, prodotte nell’esercizio di attività di tale natura, debbano per ciò solo considerarsi lecite e tollerabili, potendo semmai il giudice non disporre misure inibitorie e stabilire il pagamento di un congruo indennizzo. La norma contenuta nell’art. 844 c.c., infatti, in quanto tesa al contemperamento delle (eventualmente) contrapposte ragioni della produzione e della proprietà, non appare logicamente passibile di una interpretazione e di applicazioni comportanti il riconoscimento della liceità di immissioni che arrivino a menomare la stessa integrità materiale dell’oggetto dei diritti dominicali e determinino, quindi, il completo sacrificio di tali diritti (Cass. 1.2.1993, n. 1226, NGCC, 1994, I, 280). 6.2. L’azione risarcitoria. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059. Bibliografia: Salvi C. 1979 – Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993 – De Cesaris A. L. 1999 – Simonetti H. 2001. 65 La natura esclusivamente reale dell’art. 844 c.c. è stata in qualche modo messa in discussione da una parte della dottrina e della giurisprudenza che si è espressa in modo favorevole ad un’applicazione diretta della norma in esso contenuta a prescindere dalla titolarità in capo all’attore di un diritto di godimento fondiario. In particolare, il problema si è originariamente posto in relazione alla tutela del diritto alla salute, previsto nell’art. 32 Cost. e riconosciuto come un vero e proprio diritto soggettivo perfetto, da far valere non solo nei confronti della pubblica amministrazione ma anche dei soggetti privati. Sul punto, peraltro, già nell’ormai lontano 1974 era intervenuta la Corte costituzionale, riaffermando la legittimità dell’interpretazione dominante della norma di cui all’art. 844 c.c. « L’art. 844 c.c. ha lo scopo di risolvere il conflitto di interessi tra i proprietari di fondi vicini, per le influenze negative derivanti dalle immissioni di fumo e calore, esalazioni, rumori e scuotimenti, e non di dare adeguata soluzione al grave problema dell’inquinamento che è affrontato da apposite norme di diritto pubblico; pertanto è infondata la censura di illegittimità costituzionale del citato articolo sollevata con riferimento agli artt. 2, 3, 9, 2° co., 32, 1° co., Cost., sotto il riflesso che la tutela non sarebbe estesa ad ogni altra persona danneggiata dalla contaminazione ambientale prodotta dalle immissioni e sarebbe comunque inadeguata a tutelare l’interesse pubblico della salute umana. Resta salva in ogni caso l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. » (Corte cost. 23.7.1974, n. 247, FI, 1975, I, 18). Forte di tale conferma da parte della Consulta, la giurisprudenza ha mostrato nel corso degli anni di voler mantenere fermo l’orientamento intrapreso. « Poiché l’art. 844 c.c. disciplina i rapporti inerenti al diritto di proprietà dei beni immobili, dal suo ambito esulano i diritti personali, tra i quali è da annoverare quello alla salute considerato dall’art. 32 cost., con la conseguenza che per la tutela di quest’ultimo, in caso di denunziata lesione dipendente da atto o fatto illecito ancorché concernente immissioni provenienti dal fondo del vicino, venendo in considerazione ed essendo applicabili, mediante le opportune statuizioni riparatorie, ripristinatorie ed inibitorie, le norme dettate in via generale dagli art. 2053 e 2058 c.c. la relativa domanda, in quanto autonoma e distinta da quella fondata sul citato art. 844 c.c., deve essere proposta in modo espresso, senza potersi ritenere compresa in quella 66 di natura reale intentata per l’inibizione delle immissioni a norma dell’art. 844 c.c. » (Cass. 11.9.1989, n. 3921, GCM, 1989, 8-9). Non è peraltro mancato chi in dottrina ha osservato che la struttura dell’art. 844 c.c. potrebbe consentire un’interpretazione adeguatrice che, senza porne in discussione i tratti costitutivi ineliminabili, consenta però la correzione di correnti canoni di applicazione, in quanto on rispondenti ai criteri di qualificazione delle situazioni reali desumibili in via generale dalla Costituzione. « Tali criteri di qualificazione – costituiscono il contenuto della funzione sociale come principio generale – possono essere definiti, per i profili che qui interessano, con sufficiente precisione, sulla base dei risultati dell’ampio dibattito sul modello costituzionale italiano, in generale, e sulla disciplina dei rapporti economici, in particolare. In primo luogo, e a differenza della concezione produttivistica che è alla base dell’art. 844, l’interesse generale in ordine alle situazioni a contenuto economico non si esaurisce nell’interesse all’utilizzazione produttiva dei beni. Le esigenze della produzione non possono pertanto costituire l’unico criterio meta-individuale di valutazione della liceità delle immissioni industriali. In secondo luogo, la funzione sociale implica un giudizio di potenziale conflittualità tra l’utilizzazione privata dei beni e l’interesse (o l’utilità, o i fini) sociale. Comunque si voglia ricostruire il significato di questo attributo, pare certo che esso implichi quanto meno un rinvio agli interessi costituzionalmente protetti, e tali da poter essere pregiudicati da un libero esercizio dei diritti reali e dell’attività d’impresa: il lavoro, il paesaggio, i diritti civili, la salute, l’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 41. Il qualificativo “sociale” acquista in tal modo un contenuto normativo sufficientemente certo – almeno quanto di più tradizionali clausole generali civilistiche, come la buona fede o il buon costume, l’operatività delle quali non è messa in dubbio da alcuno. È d’altra parte evidente che l’interpretazione dominate dell’art. 844 prescinde pressoché totalmente dalla considerazione dell’incidenza, ai sensi dell’art. 42, degli interessi prima ricordati sulle forme di protezione della proprietà privata » (Salvi C. 1979, 384). Anche in giurisprudenza si sono segnalate voci parzialmente dissonanti dall’orientamento prevalente e favorevoli ad un’applicazione analogica della norma di cui all’art. 844 c.c., tale da consentire al giudice di utilizzare i criteri in essa prescritti per 67 sanzionare le immissioni intollerabili danneggianti la salute delle persone ancorché prive di titolarità sul fondo confinate. « Il bene della salute ha carattere primario ed assoluto, e nell’ambito della tutela dei diritti assoluti assicurata dagli art. 2043 e 2058 c.c., deve essere protetto contro qualsiasi attività che possa menomarlo, ma l’assolutezza e l’incomprimibilità del diritto non escludono la necessità di accertare quali siano le condizioni obiettive nel cui contesto il diritto viene esercitato, e se sia razionale il sacrificio totale di ogni altra esigenza in potenziale conflitto con esso, tenuto anche conto che la ricerca dell’effettiva esistenza della menomazione (ossia del confine tra un’attività che reca un semplice fastidio psico-fisico ed un’attività che determina una vera e propria menomazione di quel bene, nel senso di dar luogo ad oggettivi fenomeni patologici fisici o psichici) non può essere compiuta con criteri puramente astratti, che prescindano dal concreto ambiente in cui la persona vive ed opera. Pertanto, sia al fine di accertare la concreta sussistenza della lesione, sia al fine di stabilire le concrete modalità della tutela, non può ritenersi ingiustificato il ricorso all’applicazione analogica delle disposizioni dell’art. 844 c.c. in tema di immissioni moleste, laddove fanno riferimento al criterio della tollerabilità della molestia ed alla possibilità di estendere l’intervento del giudice al di là della barriera dell’inibizione assoluta, in modo da ricomprendere la determinazione dei mezzi necessari per ricondurre l’attività aggressiva nei limiti del diritto. (Nella specie, l’occupazione di un appartamento di un edificio in condominio aveva chiesto l’inibizione dell’esercizio della centrale termica condominiale, ubicata in un locale sottostante all’appartamento, poiché la rumorosità dell’impianto recava nocumento alla sua salute; la Suprema Corte, alla stregua del principio di cui in massima, ha ritenuto che, una volta accertata la lesione del diritto, non fosse a priori vietato al giudice, ai fini della tutela dello stesso, di ordinare, anziché l’inibizione dell’uso dell’impianto nel luogo in cui si trovava, l’esecuzione di opere atte ad eliminare i rumori o a ricondurli nei limiti della tollerabilità) » (Cass. 6.4.1983, n. 2396, RGCT, 1983, 713). Tale contrasto è stato peraltro alimentato dalle restrizioni nell’interpretazione degli artt. 2043 e 2059 c.c.: dal primo, infatti, venivano esclusi i danni di natura non prettamente economica (quali quelli generalmente derivanti dalla lesione del diritto alla salute), dal secondo venivano a loro volta esclusi i danni che, pur avendo natura non patrimoniale, non rientrassero nell’ambito di tutela risarcitoria dei casi espressamente previsti dalla legge (e dunque sostanzialmente nelle ipotesi di reato). 68 In tale costruzione della struttura della responsabilità civile si è inserita la nota sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale, che – aderendo ad un orientamento giurisprudenziale venuto a delinearsi nel corso del tempo – ha considerato definitivamente superata l’interpretazione restrittiva dell’art. 2043 c.c. « L’art. 2043 c.c., correlato ad articoli che garantiscono beni patrimoniali, non può che esser letto come tendente a disporre il solo risarcimento dei danni patrimoniali (in senso stretto): è per questi motivi che, essendo il diritto privato orientato per il passato, almeno prevalentemente, alla tutela di beni patrimoniali, lo stesso articolo è stato dal legislatore volto alla tutela di soli beni patrimoniali e dalla dottrina letto nel senso voluto dal legislatore del 1942. La vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali, svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli dalla Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che, pertanto, va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli stessi valori subiscono a causa dell’illecito. L’art. 2043 c.c., correlato all’art. 32 Cost., va, necessariamente esteso fino a comprendere il risarcimento, non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma (esclusi, per le ragioni già indicate, i danni morali subiettivi) tutti i danni che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana. Ed è questo il profondo significato innovativo della richiesta di autonomo risarcimento, in ogni caso, del danno biologico: tale richiesta contiene un implicito, ma ineludibile, invito ad una particolare attenzione alla norma primaria, la cui violazione fonda il risarcimento ex art. 2043 c.c., al contenuto dell’iniuria, di cui allo stesso articolo, ed alla comprensione (non più limitata, quindi, alla garanzia di soli beni patrimoniali) del risarcimento della lesione di beni e valori personali » (Corte cost. 14.7.1986, n. 184, FI, 1986, I, 2053). In epoca successiva, altra dottrina ha invece affermato che il problema non riguarderebbe la costituzionalità dell’art. 844 c.c., il quale, se esprime una logica produttivistica e si uniforma ai modelli borghesi di tutela dell’individuo in quanto proprietario, non esclude tuttavia di poter essere applicato per tutelare anche gli interessi della collettività e dei singoli non proprietari pregiudicati dalle immissioni. Nello stesso tempo, secondo tale dottrina, sarebbe anche vero che le norme di responsabilità civile possono assicurare soltanto una tutela risarcitoria e non preventiva e che l’impresa, la quale provoca immissione e risponde dei danni che ne 69 conseguono, può facilmente assorbire i costi di risarcimento senza modificare le tecniche di produzione e senza adottare misure di prevenzione e controllo dei fattori inquinanti. « È altrettanto chiaro (come la stessa pronuncia delal Corte costituzionale ha posto in luce) che la lotta alla degradazione non può condursi sulla base di strumenti del diritto privato, che riflettono, come è ovvio, una logica che prevede solo la tutela di interessi individuali, e non di interessi collettivi. Non è però escluso che le regole del diritto privato (e, in particolare, gli artt. 844 e 2043 c.c.) possano essere impiegate per integrare la disciplina penale e amministrativa che più direttamente riguarda il problema dell’inquinamento » (Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1994, 123). Le sezioni unite della Corte di cassazione sono ritornate sul problema relativo al rapporto tra tutela del diritto di proprietà e tutela del diritto alla salute e quindi tra l’azione ex art. 844 c.c. e quella relativa alla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. con la sentenza n. 10186/1998. In tale sentenza, viene sottolineata l’esigenza di concedere una tutela più ampia ai pregiudizi connessi con la proprietà – che sia in grado di garantire anche il rispetto di altri valori costituzionalmente tutelati – e viene evidenziato come l’immissione rumorosa oltre a costituire una lesione della proprietà con riferimento al bene, deve ritenersi rilevante anche sotto l’aspetto soggettivo connesso alla alterazione delle modalità d’uso del bene, che incide sulle condizioni personali del proprietario, causando però sempre una diminuzione del suo diritto dominicale. Questo è dunque il limite dell’azione inibitoria, che deve ritenersi diretta comunque alla tutela del solo diritto dominicale. La Suprema Corte conferma l’orientamento ormai consolidato in giurisprudenza sulla distinzione tra azione ex art. 844 c.c. e quella di responsabilità aquiliana, affermando che per l’ottenimento della tutela del diritto alla salute, leso in conseguenza di immissioni nocive, all’azione inibitoria ex art. 844 c.c. va cumulata necessariamente anche l’azione ex art. 2043 c.c. Dunque, pur riconoscendo alla immissione nociva la potenzialità di ledere oltre il diritto di proprietà anche il diritto alla salute, secondo le sezioni unite per la protezione di quest’ultimo non è sufficiente la sola azione inibitoria, in quanto essa, se permette di tutelare la proprietà anche sotto il profilo del godimento pieno e pacifico della stessa, 70 non consente tuttavia la tutela del diritto alla salute, diritto soggettivo diverso e distinto dal diritto di proprietà per la tutela del quale è necessaria una domanda distinta e autonoma. La Corte di Cassazione peraltro riafferma l’ammissibilità della coesistenza in un medesimo atto delle due distinte azioni. « L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l’eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale, a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare. L’azione inibitoria ex art. 844 c.c. può essere esperita dal soggetto leso per consentire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità aquiliana prevista dall’art. 2043 c.c. nonché con la domanda di risarcimento del danno in forma specifica ex art. 2058 c.c. » (Cass. 15.10.1998, n. 10186, GCM, 1998, 2086). Attualmente i termini della questione risultano nuovamente mutati. Nell’ottica del (nuovo) sistema bipolare delineatosi successivamente al 2003, infatti, la tutela del diritto alla salute risulta essere traslata nell’art. 2059 c.c., nell’interpretazione « costituzionalmente orientata » fornita dalla sentenza n. 233/2003 della Consulta, insieme al danno morale soggettivo ed al danno esistenziale; all’interno dell’art. 2043 c.c., invece, rimangono i pregiudizi di natura strettamente patrimoniale. Il complessivo quadro della tutela da immissioni (illecite) appare dunque essere il seguente: tutela inibitoria ex art. 844 c.c. (con le limitazioni alla legittimazione attiva e passiva viste nel paragrafo precedente), tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. per quanto riguarda i danni patrimoniali ed ex art. 2059 c.c. per quanto riguarda invece i danni di natura non patrimoniale, secondo la più recente interpretazione che di quest’ultimo è stata data dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e della Corte costituzionale. 7. L’indennizzo. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059. Bibliografia: Salvi C. 1979 – Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993. 71 Si è in precedenza visto che qualora una immissione eccedente la normale tollerabilità e cagionante un pregiudizio al fondo vicino sia ritenuta dal giudice giustificata dalle esigenze produttive e dalle necessità di una determinata zona – e quindi non suscettibile di essere vietata – il proprietario del fondo vicino, che agisca per la cessazione dell’immissioni con azione reale ex art. 844 c.c., va compensato per il predetto pregiudizio con indennizzo da atto lecito, identificabile con la minor produttività del suo fondo. In tale indennizzo, peraltro, non possono essere compresi gli eventuali danni che abbia subito la persona del proprietario, il quale potrà agire con azione personale, invocando l’immissione come fatto illecito, a prescindere ed indipendentemente dalla sua eventuale illiceità nel senso indicato, nel rapporto di vicinato fra i fondi. Parte della dottrina, tuttavia, ha criticato l’inserimento delle immissioni giudicate non tollerabili ma lecite ex art. 844 c.c. nella categoria degli atti dannosi ma leciti. « A tale proposito, va notato che l’art. 844 c.c. non prevede alcun indennizzo per il caso di immissioni intollerabili, ma ugualmente consentite: è l’interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria che ha individuato la formula indennitaria come conseguenza di atti danno, ma reputati leciti. In realtà, la natura del c.d. indennizzo è pur sempre quella di reintegrare il patrimonio del proprietario leso dalle immissioni intollerabili, nei suoi valori economici e di godimento, e, quindi, ha natura risarcitoria. Non ha senso, allora, individuare una figura di indennizzo da atto dannoso lecito: le immissioni eccedenti la normale tollerabilità restano illecite e fonte di obbligazione risarcitoria del danno, quando danno vi sia stato. Il criterio del contemperamento delle ragioni della proprietà con le esigenze della produzione rileva non ai fini della qualificazione dell’attività, bensì ai fini dell’individuazione della sanzione che il giudice dovrà applicare: inibizione dell’attività fonte delle immissioni, ovvero – quando siano ritenute prevalenti le ragioni dell’industria – indennizzo del danno lamentata dal privato (anche se ciò, poi, può risolversi in una specie di corrispettivo per una autorizzazione ad inquinare) » (Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993, 135). La giurisprudenza rimane in ogni caso salda sulle proprie posizione e le sezioni unite della Corte di cassazione hanno non molto tempo fa affermato che le previsione di un indennizzo in sostituzione completa delle immissioni è conseguenza logica della 72 creazione della servitù coattiva a favore del proprietario immettente sul fondo immesso, data l’impossibilità della eliminazione della causa (Cass. 19.7.1995, n. 8300, GI, 1996, I, 1, 328). In merito alla quantificazione dell’indennizzo, in mancanza di una espressa indicazione di criteri adottabili, la giurisprudenza ha fatto sovente riferimento al minor reddito del fondo soggetto ad immissioni. Tuttavia, se è vero che la giurisprudenza ha precisato che in mancanza di una norma di legge che fissi i criteri di determinazione dell’indennizzo dovuto al proprietario del fondo assoggettato ad immissioni industriali lecite, ma eccedenti i limiti della normale tollerabilità, l’adozione, da parte del giudice del merito, di uno piuttosto che di altro criterio di liquidazione dell’indennizzo anzidetto è denunciabile in sede di legittimità solo sotto il profilo della completezza e coerenza della motivazione datane (Cass. 15.1.1986, n. 184, GC, 1986, I, 2209), è altrettanto vero che il criterio della minore produttività del fondo è spesso stato oggetto di censure da parte della stessa Corte di cassazione. « In tema di “immissio in alienum”, il giudice, qualora ritenga prevalenti le esigenze della produzione, sebbene le immissioni superino il limite della normale tollerabilità, concede al proprietario danneggiato o molestato un indennizzo nella cui quantificazione assume rilievo determinante la considerazione delle caratteristiche locali. Pertanto, la misura dell’indennizzo, mentre non può essere limitata al minor reddito derivante dal confronto fra quello che lo stesso avrebbe avuto se le immissioni fossero state contenute nel limite massimo della tollerabilità, poiché tale rigido criterio è estraneo alla natura della norma contenuta nell’art. 844 cit. e limita i poteri del giudice oltre ogni generale ragionevole direttiva, dall’altro lato, nel caso di un fondo sito in una zona industriale, non può essere determinata considerando il pregiudizio derivante dalla differenza tra il reddito ottenuto dal fondo in assenza di immissioni e quello attuale, poiché, in tal modo, si identifica la situazione delle normali condizioni abitative in una zona industriale con quella (non rispondente alla realtà) di una totale assenza di immissioni » (Cass. 18.8.1981, n. 4937, GCM, 1981, 8). La giurisprudenza ha inoltre affermato l’irrilevanza, ai fini della determinazione dell’indennizzo, della circostanza che il fondo danneggiato sia divenuto, nel corso del giudizio, suscettibile di una 73 utilizzazione economica diversa e, in ipotesi, più vantaggiosa di quella originaria, in quanto tale indennizzo deve essere determinato, quando il bene è goduto direttamente dallo stesso proprietario, in modo da ricomprendersi la riparazione del danno derivante dalla minore o impossibile utilizzazione che del bene può essere fatta ed avendo riguardo alla naturale destinazione originaria di questo, alle possibili modalità di godimento del proprietario, nonché alla maggiore o minore prevedibile durata delle immissioni (Cass. 16.6.1987, n. 5287, RGEnel, 1988, 745). 8. I danni risarcibili. Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059. Bibliografia: Salvi C. 1979 – Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993 – Cendon P. 1998 – Ziviz P. 1999. Quando venga superato il limite della liceità delle immissioni, segnato dall’art. 844 c.c., colui che è responsabile delle medesime versa in una situazione di colpa, ancorché faccia uso normale della cosa fonte delle immissioni, e qualora da ciò derivi danno ad altri, questo deve essere qualificato come ingiusto, in quanto ricorrono tutti gli elementi della fattispecie prevista dall’art. 2043 c.c. Come si è visto, il progressivo evolversi della giurisprudenza ha portato dapprima a tutelare il diritto alla salute – bene indubbiamente compromesso in caso di immissioni che superino il limite di tollerabilità – attraverso l’applicazione dell’art. 2043 c.c. correlato all’art. 32 Cost. La posizione assunta in proposito aveva ricevuto il pieno avvallo della Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986 che aveva confermato l’interpretazione estensiva dell’art. 2043 c.c., la cui tutela in esso prevista non doveva essere limitata solo ai casi di pregiudizi patrimoniali ma doveva ricomprendere anche il risarcimento di tutti i danni che « almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana ». Il criterio secondo il quale il risarcimento del danno provocato da immissioni illecite dovesse essere ricondotto al principio generale del neminem laedere era stato prontamente recepito dalla giurisprudenza di merito, con particolare attenzione per il danno biologico. 74 « Il protrarsi nel tempo di immissioni di rumore eccedenti la normale tollerabilità determina l’insorgenza del c.d. “danno biologico”, autonomamente risarcibile ex art. 2043 c.c., che si sostanzia nella menomazione dell’integrità psico-fisica della persona » (App. Milano 9.5.1996, FI, 1986, I, 2876). La dottrina più attenta, per altro, aveva osservato che l’ampliamento dei margini di tutela aquiliana cui era andata incontro la salvaguardia della persona non poteva arrestarsi al settore della salute; il riconoscimento, da parte dei giudici, di una zona risarcitoria alternativa alle categorie tradizionali non doveva esaurirsi nella creazione del danno biologico ed infatti, accanto a questo, le corti di merito stavano individuando di volta in volta nuove figure di danno (Ziviz P. 1999, 132). E del resto era ben vero che la giurisprudenza avesse da tempo riconosciuto l’esistenza di pregiudizi derivanti da immissioni illecite che non incidevano direttamente solo sulla sfera psicofisica dell’individuo ma, ad esempio, anche sul sereno svolgimento della sua vita familiare o domestica (Trib. Milano 18.2.1988, RCP, 1988, 454; Trib. Vigevano 15.6.1979, GI, 1980, I, 2, 218). L’affermazione operata dalla Consulta, nella già citata sentenza n. 184/1986, del principio del diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione del diritto alla « serenità domestica » forniva un primo importante riscontro a tale indirizzo interpretativo che, due anni dopo, veniva nuovamente confermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione. « L’immissione di rumore nell’abitazione priva il proprietario ( il titolare) della possibilità di godere nel modo più pieno e pacifico della propria casa e incide sulle libertà di svolgere la vita domestica, secondo le convenienti condizioni di quiete. La tutela di questo interesse non si esaurisce con la tutela del profilo obiettivo della proprietà, in quanto godimento delle cose implica, in fatto, il rapporto fra la persona e la cosa » (Cass. 15.10.1988, n. 10186, FI, 1999, I, 922). Tuttavia, le difficoltà – di ordine più storico-psicologico che giuridico – ad introdurre all’interno del sistema della responsabilità civile nuove figure di danno avevano portato una parte della giurisprudenza ad ampliare il concetto di « danno alla salute », sino a ricomprendervi lesioni alle sfera emotiva o psichica in senso lato. 75 « L’integrità della persona ed il bene primario della salute nella cui lesione si sostanzia il suddetto danno biologico, non può essere valutata solo in termini fisici, materialmente constatabili, ma comprende anche la sfera emotiva e psichica, le cui sofferenze sono meno obiettivamente misurabili ma non per questo meno reali; non può negarsi la sussistenza di una menomazione dell’integrità psichica derivante dalla spina irritativi costituita dalle continue aggressioni sonore superanti il limite della tollerabilità, in quanto l’efficacia patogenetica del rumore disturbante è dato acquisito alla scienza medica attuale, né occorre in concreto verificarla » (App. Milano 29.11.1991, NGCC, 1992, I, 844). In realtà, come acutamente osservato da alcuna dottrina, nell’esame delle sentenze analoghe a quelle della corte milanese capitava spesso di imbattersi in tipologie di pregiudizi che nulla avevano a che a fare, a monte, con una lesione alla salute e che invece mostravano di tradursi, quanto al tenore delle ripercussioni, in momenti sfavorevoli né patrimoniali né morali in senso stretto (Cendon P. 1998, 140). Si veniva allora formando, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, una nuova tipologia di danno, il danno esistenziale, diverso sia dal danno biologico inteso come lesione all’integrità psicofisica suscettibile di accertamento medico-legale, sia dal danno morale soggettivo rappresentato dai patimenti e dalle sofferenze interiori dell’individuo. Tale nuova figura, invece, comprendeva la compromissioni alla personalità dell’individuo che si concretano in un’alterazione sostanziale dei suoi rapporti con l’ambiente esterno familiare e sociale e trovava la propria radice normativa non nell’art. 32 Cost. bensì nell’art. 2 Cost. L’affermazione della piena autonomia della categoria del danno esistenziale e della sua equiparazione – sia da un punto di vista di « importanza » che da un punto di vista di regime probatorio – alle altre categoria di danni di natura non patrimoniale è ormai pienamente affermata in giurisprudenza (si veda da ultimo la pronuncia delle sezioni unite Cass. 24.3.2006, n. 6572, in www.personaedanno.it). Peraltro, non erano mancati già in passato chiari richiami a tale categoria nella giurisprudenza di merito in tema di immissioni rumorose. 76 « Un’alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di vita che si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato, alterando le normali attività quotidiane e provocando uno stato di malessere psichico diffusi che, pur non sfociando in una vera e propria malattia, provoca, tuttavia, ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle normali occupazioni, depressione ecc. Trattasi invero di “danno esistenziale”, consistente nell’alterazione delle normali attività dell’individuo, qual il riposo, il relax, l’attività lavorativa domiciliare e non, che si traducono nella lesine della “serenità personale” cui ciascun soggetto ha diritto sia nell’ambito lavorativo, sia, a maggior ragione, nell’ambito familiare. A causa della lesione della sfera psichica del soggetto si alterano, in misura più o meno rilevante, i rapporti familiari, sociali, culturali, affettivi e nei casi più gravi può anche insorgere una vera e propria malattia psichica; solamente in tal caso, il danno va qualificato come biologico in senso stretto. Perché possa ravvisarsi il “danno esistenziale” occorre che sussistano le seguenti condizioni: 1) ingiustizia del danno secondo gli usuali parametri dell’art. 2043 c.c.; 2) nesso di causalità tra comportamento lesivo e danno che deve tradursi i un giudizio di proporzionalità o adeguatezza tra il fatto illecito e le conseguenze dannose; 3) consecutività temporale tra comportamento lesivo e danno. Titolare del diritto è chiunque sia pregiudicato, nell’esplicazione delle normali attività domestiche o lavorative dal comportamento illecito altrui. (Trib. Milano 21.10.1999, RCP, 1999, 1335). Il nuovo sistema della responsabilità civile, non lascia dunque spazio a dubbi circa la possibilità di ottenere tutela risarcitoria in ipotesi di compromissioni alla sfera esistenziale causate da immissioni illecite. « La sottoposizione a rumori e vibrazioni intollerabili, che influisce sull’umore e sul riposo delle persone, produce l’alterazione negativa dell’approccio del singolo verso gli altri, per cui va risarcito il danno causato dalle immissioni acustiche che non consentono all’individuo di godere serenamente della propria abitazione e di beneficiare delle attività che garantiscono non solo il pieno sviluppo della persona, ma soprattutto il normale svolgersi della sfera esistenziale, quali il riposo, la quiete, l’intrattenimento dei rapporti familiari e delle relazioni amicali, le attività distensive e ricreative » (Trib. Monza 2.11.2004, GC, 2004, I, 234). 77 Indubbiamente, il complesso sistema delineatosi successivamente al 2003 garantisce una maggiore tutela anche in materia di immissioni intollerabili: risultano infatti essere superati non solo i problemi legati al risarcimento del danno alla salute (o per meglio dire al danno biologico in senso stretto) ma soprattutto vengono cancellate tutte le perplessità legate ad un’estensione di tale concetto – dovuta, da un lato, all’esigenza di tutelare pregiudizi non strettamente correlati alla compromissione della sfera psicofisica dell’individuo, dall’altro, dalle difficoltà di inquadrare tali pregiudizi in una nuova categoria di danno risarcibile – in quanto l’elaborazione della figura del danno esistenziale consente di accordare tutela risarcitoria proprio a quelle lesioni che nulla hanno a che vedere con attentati alla salute od alle sfera interiore della persona che incido su altre attività realizzatrici della stessa aventi rilievo costituzionale.