IL DANNO ESISTENZIALE
DA INADEMPIMENTO CONTRATTUALE
1. Premessa.
Legislazione: c.c. 1218, 1223, 1226, 2087.
Ad una prima sommaria analisi del repertorio giurisprudenziale
in tema di inadempimento contrattuale, parrebbe quasi necessario
contenere l’esposizione delle problematiche sottese all’argomento
in esame a poche considerazioni.
Infatti, partendo dai casi più frequenti nella aule giudiziarie
(malpractice medica 1 , rapporti di lavoro 2 , rapporti di locazione 3 ,
contratti di trasporto ecc…) passando attraverso le « nuove frontiere »
della responsabilità civile contrattuale (vacanza rovinata,
interruzione dell’energia elettrica4, ritardata attivazione della linea
telefonica5 ecc…) sino ad arrivare a situazioni del tutto peculiari
(errato taglio di capelli6, mancata realizzazione del filmato nuziale7,
rottura del tacco delle scarpe della sposa8 ecc…) e limitandosi ad
una rapida lettura delle massime delle varie pronunce, parrebbe che
la risarcibilità dei danni aventi natura non patrimoniale sia
questione tanto assodata quanto scontata.
Conferma la natura contrattuale del c.d. « contatto sociale »: Cass. 19.4.2006, n.
9085, GCM, 2006, 4.
2 Le SS.UU. rinvengono nella formulazione dell’art. 2087 c.c, il quale assicura la
tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, il fondamento
della risarcibilità di « tutti i danni non patrimoniali »: Cass. Sez. U. 24.3.2006, n.
6572.
3 Offre interessanti spunti di riflessione: Cass. 3.2.1999, n. 915, GC, 1999, I,
2358.
4 Giud. pace Napoli 13.7.2005, DeG, 2005, 38, 76; Giud. pace Casoria 12.7.2005,
www.personaedanno.it, Giud. pace Capaccio 20.10.2004, GM, 2005, 11, 2306.
5 Giud. pace Verona 16.3.2000, GI, 2001, 1159.
6 Giud. pace Catania 29.4.1999, inedita.
7 Pret. Salerno 17.2.1997, GC, 1998, I, 2037.
8 Giud. pace Palermo 17.5.2004, n. 4859, GDir, 2005, 10, 19.
1
2
Eppure, se si entra più nel dettaglio e si confrontano le
motivazioni di tali pronunce con le obiezioni della dottrina che, pur
essendosi occupata in maniera sporadica della questione, nelle
poche occasioni in cui ha ritenuto di approfondire la materia ha
manifestato non poche perplessità circa l’effettiva possibilità di
ammettere il risarcimento dei danni aventi natura non patrimoniale
nei casi di inadempimento contrattuale, ci si accorge dell’esistenza,
in alcune occasioni, di una certa superficialità e, in altre, di una
prudente attenzione nel non indagare oltre il necessario.
Stante la brevità che deve contraddistinguere questa relazione,
ci si limiterà in questa sede ad evidenziare alcuni degli aspetti che
possono offrire maggiori spunti di riflessione – senza alcuna
pretesa di esaustività – premettendo sin d’ora di ritenere di aderire
alla tesi favorevole, non tanto perché in tal senso è l’opinione
costante della giurisprudenza (che come detto ha scarsamente
approfondito la tematica), quanto piuttosto perché le obiezioni
sollevate dalla dottrina contraria appaiono superabili con
argomentazioni convincenti.
2. L’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. alle ipotesi di
inadempimento contrattuale.
Legislazione: c.c. 1223, 1225, 122, 1227, 2056, 2059.
Bibliografia: Bonilini G. 1983 – Busnelli F.D. 1996 – Pizzoferrato A. 2000 – Tursi A.
2003.
Un primo punto di partenza, comunemente assodato, riguarda
l’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. alle ipotesi di inadempimento
contrattuale.
A tale conclusione si giunge, senza particolare impegno
ermeneutico, attraverso un’elementare osservazione della tecnica
utilizzata dal legislatore: ove, infatti, si è voluto ritenere operanti
talune regole, inserite in un determinato comparto, ad altro e
diverso settore, si è provveduto a predisporre una norma che
effettuasse un apposito richiamo. Così, in tema di responsabilità
civile, le regole dettate in riferimento alle ipotesi di responsabilità
contrattuale (art. 1223 c.c. sull’identificazione del danno risarcibile;
art. 1226 c.c. sulla liquidazione equitativa; art. 1227 c.c. sul
3
concorso del fatto colposo del creditore) sono applicabili in ambito
extracontrattuale in ragione dell’espresso richiamo dell’articolo
2056 c.c., mentre, di contro, proprio dall’assenza di un espresso
richiamo, altre regole sono da ritenersi inapplicabili (art. 1225 c.c.
sulla prevedibilità del danno).
Viceversa non vi è alcuna norma dettata in ambito contrattuale
degli artt. 1218 e seguenti c.c. che richiami l’articolo 2059 c.c..
Tali osservazioni sono peraltro già state svolte da tempo della
dottrina, la quale ha affermato che « il legislatore fa estensione dei canoni
risarcitorii del campo contrattuale a quello extracontrattuale - e non viceversa sicché, conseguentemente, appare impensabile che, supposta una volontà
legislativa indirizzata ad escludere una dimensione giuridica del danno non
patrimoniale contrattuale, ponga la relativa norma nel titolo dedicato agli illeciti
aquiliani »9.
Non deve ingannare, a tal proposito, il richiamo effettuato – in
un caso di demansionamento – dalla Corte di cassazione alla «
lettura costituzionalmente orientata » dell’art. 2059 c.c. e la conseguente
affermazione dell’applicabilità anche in tema di inadempimento
contrattuale dei principi elaborati in ambito extracontrattuale.
Infatti, la Suprema Corte è ben chiara nel precisare che tale
applicazione attiene solo all’ultima fase del processo risarcitorio –
vale a dire quello di liquidazione del danno – e riguarda
esclusivamente l’individuazione delle tre autonome categorie di
danno non patrimoniale e la loro risarcibilità indipendentemente
dall’esistenza di un illecito a rilevanza penale10.
Tuttavia, l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 2059 c.c. alle
ipotesi di inadempimento contrattuale non può condurre, di per sé
sola, all’automatica esclusione della risarcibilità dei danni aventi
natura non patrimoniale nelle ipotesi medesime, costringendo
semmai l’interprete, molto più semplicemente, a doverne ricercare
altrove il fondamento normativo.
Prima di effettuare tale operazione, peraltro, merita evidenziare
come alcuna dottrina abbia sostenuto che l’inapplicabilità dell’art.
2059 c.c. in ambito contrattuale, oltre a non precludere la
Bonilini G., Il danno non patrimoniale, Giuffrè, Milano, 2003, 229 ss.; confermano
tale opinione: Busnelli F.D., Interessi della persona, in RTDPC, 1996, I, 9 ss.;
Pizzoferrato A., Molestie sessuali sul lavoro, Cedam, Padova, 2000, 255.
10 Cass. 26.5.2004, n. 10157, GCM, 2004, 5.
9
4
risarcibilità dei danni non patrimoniali, possa addirittura portare a
vantaggi in tal senso.
Secondo tale tesi, infatti, l’accoglimento dell’opinione
prevalente
semplificherebbe
drasticamente
il
quadro
argomentativo consueto in materia di risarcibilità dei danni alla
persona nel rapporto di lavoro, giacché si configurerebbero come
risarcibili, in caso di responsabilità contrattuale, tutti i danni non
patrimoniali, con l’ulteriore conseguenza che diventerebbe
superfluo l’ancoraggio costituzionale dei diritti da tutelare in via
risarcitoria11.
3. Il fondamento normativo della risarcibilità dei danni non
patrimoniali.
Legislazione: c.c. 1174, 1321, 2059.
Bibliografia: Rescigno P. 1982 – Costanza M. 1987 – Bilotta F. 2001.
La affermazione circa l’inapplicabilità dell’art. 2059 c.c. alle
ipotesi di inadempimento contrattuale impone all’interprete la
ricerca del fondamento normativo della risarcibilità dei danni non
patrimoniali.
La tesi più accreditata 12 , rintraccia tale fondamento nell’art.
1174 c.c. il quale, com’è noto, sottolinea che l’interesse che il
creditore deduce in obbligazione può essere anche di natura non
patrimoniale. Secondo tale impostazione la mancata o non corretta
esecuzione della prestazione contrattuale può riverberarsi su
momenti della vita del creditore non suscettibili di valutazione
economica.
Il disposto contenuto nell’art. 1321 c.c., in base al quale
l’obbligazione deve avere per volontà di legge carattere
patrimoniale13, non impedirebbe che il creditore possa preordinare
Tursi A., Il danno non patrimoniale alla persona nel rapporto di lavoro: profili sistematici,
in RIDL, 2003, 3, 283.
12 Bilotta F., Inadempimento contrattuale e danno esistenziale, in GI, 2001, 6, 1159.
13 Una tale previsione ha lo scopo, secondo un’illustre dottrina, di limitare la
possibilità per il creditore di restringere la libertà del debitore a proprio
vantaggio per mezzo del rapporto obbligatorio: Rescigno P., Manuale di diritto
privato, Jovene, Napoli, 1982, 611.
11
5
il contratto alla realizzazione di interessi non quantificabili in
denaro. Tale affermazione si fonda, da un lato, sull’analisi storica
della norma di cui all’art. 1321 c.c. e, dall’altro, sulla sua
contestualizzazione all’interno dell’attuale sistema della
responsabilità civile.
Sotto il primo profilo, basti ricordare che la Relazione al Re
precisa che essa serve (o, per meglio dire, serviva) ad individuare i
requisiti necessari per la realizzazione coattiva del rapporto
obbligatorio in caso di inadempimento. La monetizzabilità della
prestazione avrebbe consentito la liquidazione di un risarcimento
per equivalente in mancanza della possibilità di un’esecuzione
forzata in forma specifica. Accanto, infatti, alla lesione attuale di un
interesse, anche non patrimoniale del creditore, va tenuto presente
che per un’effettiva tutela del credito è necessaria la possibilità di
convertire la prestazione in denaro.
Secondo tale impostazione, il profilo patrimoniale del rapporto
è centrale sia prima sia dopo l’inadempimento e,
conseguentemente, su di esso si era appuntata in via esclusiva
l’attenzione del legislatore.
Procedendo poi, come detto, ad una contestualizzazione della
norma, deve osservarsi che lo sviluppo della tutela del creditore
attraverso lo strumento del risarcimento del danno consente di
distinguere ancora più nettamente fra loro i differenti interessi che
sono collegati ad una vicenda contrattuale. La presenza nel
contratto di interessi distinti per natura, induce a concludere che
più di uno possono essere gli strumenti di tutela da mobilitare
contemporaneamente per una piena reintegrazione della sfera
giuridica del danneggiato. L’utilità non patrimonialmente
apprezzabile che il creditore intende realizzare attraverso
l’adempimento del debitore può, infatti, non essere recuperabile
neppure attraverso un'esecuzione forzata in forma specifica,
idonea, semmai, a presidiare gli interessi di ordine patrimoniale.
Tale tesi trova conforto anche in altra dottrina, la quale ritiene,
analogamente, che già in base alla lettera dell’art. 1174 c.c sia
possibile giustificare la rilevanza e l’ammissibilità dei danni non
patrimoniali contrattuali; si è così affermato che il mancato
adempimento di un obbligo comporta necessariamente la
riparazione dei danni sofferti dal creditore; perciò se questi è
6
portatore di un interesse non patrimoniale, il risarcimento deve
compensare la lesione di questo interesse; tuttavia perché gli
interessi non patrimoniali assumano rilevanza occorre che essi
abbiano influito sulla stipulazione del contratto e sulla
determinazione del suo contenuto14.
3.1. Natura del danno e natura dell’interesse.
Legislazione: c.c. 1223, 1226, 1227, 2056, 2059.
Bibliografia: Zeno-Zencovich V. 1984 – Di Marzio M. 2006.
Di fronte a tale impostazione, tuttavia, ci si è interrogati in
merito alla possibilità di affermare che il danno che colpisce un
interesse non patrimoniale sia un danno non patrimoniale15.
Per superare tale interrogativo, si è sostenuto16 – tralasciando
preliminarmente il riferimento all’interesse – che non possa
intravedersi una corrispondenza necessaria tra la patrimonialità del
rapporto giuridico costituito attraverso il contratto e la natura del
danno.
A sostegno di tale affermazione si è osservato che, in virtù
dell’espresso richiamo operato dall’art. 2056 c.c. agli artt. 1223,
1226 e 1227 c.c., la nozione di danno, nel complesso normativo, è
unica tanto nel settore contrattuale che in quello extracontrattuale.
Stando così le cose non è possibile negare che l’espressione
danno, inteso come perdita, si riferisca tanto al danno patrimoniale
che a quello non patrimoniale: nel comparto aquiliano, infatti, non
è lecito dubitare della risarcibilità del secondo, ed anzi il legislatore
14
Costanza M., Danno non patrimoniale e responsabilità contrattuale, in
RCDP, 1987, 127 ss., che, a titolo esemplificativo riporta il caso del
mandatario che venga revocato senza giusta causa prima della scadenza. Il
pregiudizio subito dal mandatario, che comprende anche l’ingiusta
valutazione sociale di inaffidabilità circa la propria persona, induce tale
dottrina a riconoscere che la mortificazione possa venire risarcita a titolo di
danno non patrimoniale.
Zeno-Zencovich V., Danni non patrimoniali e inadempimento, in Visintini G. (a
cura di), Risarcimento del danno contrattuale ed extracontrattuale, Giuffrè, Milano, 1984,
109 ss.
16 Di Marzio M., Il profilo esistenziale nei contratti, in www.personaedanno.it, 2006
15
7
ha dovuto prevedere un’apposita norma, l’articolo 2059 c.c., per
limitare la risarcibilità ai soli casi previsti dalla legge.
Il successivo passaggio operato da tale dottrina é quello di
negare la dipendenza della natura del danno dalla natura
dell'interesse dedotto in contratto.
A tal fine, si è richiamato un recente arresto giurisprudenziale
che ha avuto ad oggetto lo smarrimento di urne funerarie
imputabile a titolo contrattuale all’impresa esercente il servizio
aeroportuale di handling17.
In tale ipotesi, infatti, non è possibile dubitare della
patrimonialità della prestazione, riconducibile alla figura
contrattuale del deposito a favore del terzo18. Ma neppure si può
dubitare che, assieme al danno patrimoniale, commisurato al
corrispettivo inutilmente sborsato, il figlio abbia subito una perdita
di carattere personale: e che sia una perdita non mi sembra si possa
negare, in base alla elementare considerazione che nessuno si
augurerebbe, per sé, un simile evento.
3.2. Altre tesi dottrinali. Cenni.
Legislazione: c.c. 1174, 1218, 1223, 1225, 1321, 2059.
Bibliografia: Bonilini G. 1983 – Gazzarra G. 2003.
Avvertita l’esigenza di tutela degli interessi coinvolti, da altra
parte si ritiene che la strada per ammettere il danno non
patrimoniale sia quella di una lettura congiunta degli articoli 1218 e
1223 c.c. che, prevedendo in termini generali l’obbligo di risarcire il
danno per le perdite subite dal creditore per l’inadempimento,
sarebbe comprensiva di ogni sorta di danno, incluso quello non
patrimoniale. In particolare, si è osservato che l’interpretazione
secondo la quale il riferimento alla « perdita » subita dal creditore
vada inteso come perdita economica è solo il frutto di
un’argomentazione che si tramanda e che ben può dirsi indicatore
di una mentalità patrimonialistica che è oggi oggetto di revisione;
assodato che il legislatore non ha impedito la possibilità di riparare
il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale nulla
17
18
Trib. Busto Arsizio 28.1.2005, GDir, 2005, 10, 11.
Cass. 26.11.2003, n. 18074, DResp, 2004, 974.
8
esclude che il giudice possa sol che lo voglia, rendere più conforme
a giustizia il trattamento da riconoscere al creditore insoddisfatto19.
Nella dottrina più recente vi è anche chi suggerisce di
subordinare il risarcimento del danno non patrimoniale da
inadempimento al presupposto che l’illecito incida su posizioni
soggettive costituzionalmente garantite o comunque ritenute
meritevoli di protezione secondo una valutazione socialmente
tipica e, al limite, alle ipotesi in cui il contratto è destinato a
soddisfare in via principale un interesse non economico. Il
bilanciamento tra l’esigenza di operare una selezione tra le
conseguenze pregiudizievoli suscettibili di risarcimento e quelle
che rientrano in un'alea di rischio accettabile in relazione all'attività
negoziale in atto verrebbe operato dunque, anche in questa
prospettiva, dagli art. 1223 ss. c.c. e, in particolare, dall’art. 1225 c.c.
sulla prevedibilità del danno20.
4. Il limite della prevedibilità del danno.
Legislazione: c.c. 1225, 2056, 2059.
Bibliografia: Cendon P. 2000 – Bilotta F. 2001 – Di Marzio M. 2006.
Ad un primo approccio, la regola dell’art. 1225 c.c. che limita il
danno risarcibile al danno prevedibile al tempo del sorgere
dell’obbligazione, salvo i casi in cui l'inadempimento sia doloso,
può far sorgere dubbi in proposito all’effettiva risarcibilità dei
danni aventi natura non patrimoniale e, in particolare, del danno
esistenziale.
Tale timore, tuttavia, può essere facilmente fugato ove non ci si
limiti a ritenere tale categoria di danno legata alla mera soggettività
della vittima.
Il danno esistenziale, infatti, consiste nelle ripercussioni
negative dell’illecito sulla vita quotidiana del danneggiato21. Si tratta
di conseguenze oggettivamente rilevabili e che sussistono a
prescindere dalla situazione personale del soggetto leso. Il punto,
Bonilini G., op. cit., 1983, 232.
Secondo Gazzarra C., Il danno non patrimoniale da inadempimento, in
Quaderni della Rassegna in diritto civile, Jovene, Napoli, 2003, 96.
21 Cendon P., Esistere o non esistere, in RCP, 2000, 1275.
19
20
9
quindi, non è quello di dare rilevanza a stati psicologici o emotivi
della vittima: occorre semplicemente stabilire fino a che punto la
vita dell’interessato è cambiata rispetto a quella che veniva
condotta precedentemente all’illecito22.
Sia nei più eclatanti casi di malpractice medica che nelle ipotesi più
particolari (come ad esempio quella già ricordata della mancata
consegna del filmato nuziale), è infatti possibile affermare che
entrambe le parti contrattuali fossero perfettamente a conoscenza
che l’inadempimento sarebbe stato destinato a riflettersi sulla
qualità della vita del creditore. Dunque, il danno esistenziale
suscettibile di derivare dall’inadempimento era già in quel
momento ben prevedibile.
Occorre dire, inoltre, come la sussistenza della prevedibilità non
sia qualcosa da riscontrare in modo astratto rispetto agli accordi
che sono concretamente intercorsi tra le parti. Il motivo che ha
spinto una delle parti a contrarre e che sia conosciuto dalla
controparte, pur avendo un rilievo molto limitato rispetto
all’invalidità negoziale, trova invece nuovo spazio sul terreno della
prevedibilità del danno. La conoscenza assunta dal debitore circa la
rilevanza esistenziale per il creditore dell'adempimento
dell'obbligazione, fa sì che ciò che non era magari astrattamente
prevedibile, ossia il danno esistenziale suscettibile di discendere
dall’inadempimento, lo diventi appunto con la comunicazione dei
motivi che inducono il creditore a contrarre23.
Per chiarire definitivamente il punto bisognerà, allora,
distinguere tra: (i) danni esistenziali che genericamente e
astrattamente si possono ricondurre ad un certo illecito
contrattuale, in base all’id quod plerumque accidit; (ii) danni esistenziali
appartenenti alla sfera idiosincratica della vittima e conosciuti dal
debitore; (iii) danni esistenziali rientranti nella sfera idiosincratica
della vittima ma non conosciuti dal debitore24.
Peraltro, ove si consideri sotto un altro profilo la regola
contenuta nell’art. 1225 c.c. può addirittura essere considerata
Bilotta F., op. cit., 2001, 1159.
Spetta al creditore provare le circostanze incidenti, sotto il profilo della
prevedibilità, sulla misura del danno risarcibile: Cass. 26.5.1989, n. 2555, in FI,
1990, I, 1946.
24 Cendon P., op. cit., 2000, 1324.
22
23
10
come punto di forza dell’affermazione circa la risarcibilità dei danni
non patrimoniali in caso di inadempimento contrattuale.
Una delle perplessità sollevate da alcuna dottrina in merito alla
tesi positiva, infatti, è rappresentata dal timore che le attività
economiche ne possano subire un complessivo pregiudizio:
possano, cioè, divenire più dispendiose, più pericolose, meno
appetibili.
In tale ottica, proprio il criterio della prevedibilità di cui all’art.
1225 c.c. può apparire quantomai idoneo a fugare i dubbi in
proposito; in altre parole, il contraente, sin dal momento
dell’assunzione dell’obbligazione, è in grado di prevedere i rischi a
cui può andare incontro in caso di inadempimento e,
conseguentemente, decidere la controprestazione da richiedere e
cautelarsi attraverso l’assunzione di idonee garanzie presso terzi,
stipula di polizze assicurative ecc…
Neppure potrebbe destare timore l’esclusione della limitazione
in caso di inadempimento doloso; anzi, in tali ipotesi, il recupero di
una sorta di profilo sanzionatorio non potrebbe che migliorare le
relazioni contrattuali.
5. Le clausole di esonero della responsabilità.
Legislazione: c.c. 1229.
Uno dei rari casi in cui la giurisprudenza si è occupata dei danni
da inadempimento contrattuale fornendo spunti di effettivo rilievo
è rappresentato dalla sentenza n. 915/199925.
La vicenda riguardava il conduttore di un appartamento nel
quale si era verificata e persisteva una forte immissione di rumore
proveniente da un’autoclave collocata dal locatore al piano
sottostante.
I giudici di merito avevano escluso la risarcibilità del danno
biologico in quanto il conduttore, al momento della presa di
possesso dell’immobile, aveva sottoscritto una dichiarazione
liberatoria di normalità dell’immobile medesimo.
25
Cass. 3.2.1999, n. 915, cit.
11
La Suprema Corte, nel cassare la decisione sul punto, ha
osservato che, se è pur vero che il conduttore non può chiedere,
oltre alla risoluzione, anche il risarcimento dei danni, quando,
conoscendo il vizio, vi si è volontariamente esposto, occorre però
valutare che: a) tale interpretazione non tiene adeguatamente conto
del significato attribuito dalla giurisprudenza ordinaria e
costituzionale (elaborate, almeno in parte, successivamente ai
precedenti specifici citati) al bene della salute, nei confronti di ogni
condotta o fatto, i quali, pregiudicandolo, diventano illeciti da
risarcire; b) per effetto di tale elaborazione giurisprudenziale, la
tutela della salute rileva come « norma di ordine pubblico », la cui
violazione, anche ai sensi dell’art. 1229, 2° co., c.c. espone
l’obbligato (anche ex contractu) al risarcimento, nonostante « qualsiasi
patto preventivo di esclusione o di limitazione della responsabilità ».
Il ragionamento operato nella sentenza richiamata appare
adattabile anche alle altre categorie di danni aventi natura non
patrimoniale, vale a dire danno morale e danno esistenziale.
Dopo la svolta del 2003, con le note sentenze n. 8827 e 8828
della Corte di cassazione e n. 233 della Corte costituzionale26, e le
successive – seppur altalenanti – evoluzioni giurisprudenziali, non
appare più dubbia la riconducibilità di tali categorie di danno alla
lesione di principi fondamentali contenuti nella nostra
Costituzione, o in quelle altre regole che, pur non trovando in essa
collocazione, rispondono all’esigenza di carattere universale di
tutelare i diritti fondamentali dell’uomo27.
Se così è allora, è altrettanto indubbia l’inoperatività di clausole
di esonero di responsabilità nei confronti delle medesime.
6. Dal patrimonio alla persona.
Legislazione: c.c. 1223, 1226, 1227, 2043, 2056, 2059.
Bibliografia: Cian G. 2003 – Christandl G. 2006.
Cass. 31.5.2003, n. 8827, in GI, 2004, 1129; Cass. 31.5.2003, n. 8828, in
NGCC, 2004, I, 232; Corte cost. 11.7.2003, n. 233, in GI, 2004, 723.
27 Sulla corrispondenza di tale ultimo periodo alla nozione di ordine pubblico si
veda ancora da ultimo: Cass. 26.11.2004, n. 22332, in GCM, 2004, 11.
26
12
L’evoluzione della giurisprudenza ha portato gradatamente a
spostare l’attenzione verso gli interessi della persona piuttosto che
verso il patrimonio. Il fenomeno, iniziato da tempo, sta
interessando da ormai almeno una ventina d’anni anche gli
interventi legislativi, come ad esempio le disposizioni in materia di
privacy (d.lgs. 30.6.2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei
dati personali) e le varie disposizioni a tutela del consumatore (oltre
al recente Codice del consumo, d.lgs. 6.9.2005, n. 206, si pensi al
d.p.r. 24.5.1988, n. 224, attuazione della direttiva 85/374/CEE,
relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari e amministrative degli Stati membri in materia di
responsabilità per danno da prodotti difettosi ai sensi dell’art. 15
della l. n. 183/1987; al d.lgs. 25.1.1992, n. 73, attuazione della
direttiva 8/357/CEE, relativa ai prodotti che, avendo un aspetto
diverso da quello che sono in realtà, compromettono la salute o la
sicurezza dei consumatori; al d.lgs. 25.1.1992, n. 74, attuazione
della direttiva 84/450/CEE, come modificata dalla direttiva
97/55/CEE in materia di pubblicità ingannevole e comparativa; al
d.lgs. 17.3.1995, n. 115, attuazione della direttiva 97/55/CEE
relativa alla sicurezza generale dei prodotti; alla l. 30.7.1998, n. 281,
disciplina dei diritti dei consumatori e degli altri utenti; al d.lgs.
22.5.1999, n. 185, attuazione della direttiva 97/7/CEE relativa alla
protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza).
Volgendo lo sguardo per un attimo oltre i confini nazionali, un
aspetto indubbiamente importante da considerare è rappresentato
dalla recente riforma del sistema risarcitorio tedesco; l’area del
risarcimento dei danni non patrimoniali, infatti, ha subito una
rilevante modificazione in seguito alla seconda legge di riforma
delle norme risarcitorie 28 nel 2002 29 . Con questa legge è stato
abrogato il § 847 BGB ( c.d. Schmerzensgeldparagraph) per essere
ricalcato quasi alla lettera in un nuovo secondo comma del § 253
BGB, con la sola aggiunta dell’autodeterminazione sessuale che
Zweites Gesetz zur Änderung schadensersatzrechtlicher Vorschriften, 19.7.2002, BGBI
I, p. 2674, entrata in vigore il 1.8.2002.
29 Cian G., La riforma del BGB in material di danno immateriale e di imputabilità dell’atto
illecito, in RCP, 2003, 629; Christandl G., La risarcibilità del danno esistenziale,
Giuffrè, Milano.
28
13
sotto la vigenza del precedente § 847 BGB era strettamente limitata
alle donne.
« Nel caso in cui siano stati colpiti l’integrità fisica, la salute, la libertà o
l’autodeterminazione sessuale, il danneggiato può rivolgersi al giudice
per chiedere un equo risarcimento in denaro anche dei danni di natura
non patrimoniale »
(§ 253, 2° co., BGC).
La grande novità della riforma del 2002 consiste nello
spostamento della disciplina dello Schmerzensgeld (vale a dire
dell’equa indennità per danni di natura non patrimoniale) dalle
norme sui fatti illeciti alla parte generale delle obbligazioni, dando
luogo in questo modo ad un notevole ampliamento della sua sfera
di operatività. Attraverso tale operazione, dunque, sono state
rimosse le differenze di trattamento fra i danni non patrimoniali
derivanti da fatto illecito e danni non patrimoniali derivanti da
inadempimento e responsabilità oggettiva, differenze che nella
relazione al disegno di legge presentato dal governo tedesco era
considerata ormai non più accettabile.
Anche i Principi dei contratti commerciali internazionali
predisposti dall’UNIDROIT (vale a dire i i principi che enunciano
regole generali in materia di contratti commerciali internazionali e
che possono essere applicati quando le parti hanno convenuto tra
loro che il loro contratto sia da essi disciplinato o quando le parti
hanno convenuto che il loro contratto sia regolato dai « principi
generali del diritto », dalla « lex mercatoria » o simili) prevedono, alla
sezione 4 della versione del 2004, la risarcibilità del danno non
patrimoniale conseguente all’inadempimento.
« Il creditore ha diritto al risarcimento integrale del danno subito in
conseguenza dell’inadempimento. Il danno comprende sia ogni perdita
sofferta che ogni mancato guadagno, tenuto conto dei vantaggi
economici che il creditore ha ottenuto evitando spese e danni.
Il danno può essere di natura non patrimoniale e comprende, per
esempio, la sofferenza fisica e morale »
(art. 7.4.2 Principi UNIDROIT).
A fronte di una riforma così importante come quella tedesca, da
un lato, e dell’intervento dell’UNIDROIT per affermare la
risarcibilità dei danni non patrimoniali ove ciò sia reso possibile da
14
un’espressa, seppur generale, pattuizione tra le parti, potrebbe
indurre a ritenere che nel nostro ordinamento sia necessario
operare in maniera analoga a quanto avvenuto in Germania.
Tuttavia, considerando quanto avvenuto nella giurisprudenza
italiana a distanza di neppure un anno dalla riforma del sistema
risarcitorio tedesco, è possibile giungere ad una diversa
conclusione.
Si pensi, infatti, alla sorte toccata nel 2003 al nostro 2059 c.c.
che, analogamente al § 253, 1° co., BGB, prevede la risarcibilità del
danno non patrimoniale « solo nei casi determinati dalla legge ». Orbene,
dopo anni di attacchi a tale nostra norma (tacciata, di volta in volta,
di desuetudine, di incostituzionalità, di arcaicità ecc…), la Corte di
cassazione prima e la Consulta poi, attraverso una rilettura della
stessa « costituzionalmente orientata, non solo hanno salvato l’art. 2059
c.c., ma lo hanno rimesso a nuovo, donandogli nuovo inatteso
vigore e consegnandogli un ruolo centrale nel sistema risarcitorio
italiano, erigendolo a caposaldo della risarcibilità dei danni di
natura non patrimoniale, ivi compreso il danno biologico, sottratto
alla disciplina dell’art. 2043 c.c.30
Insomma, Suprema Corte e Consulta ci hanno mostrato come,
prima di procedere ad abrogazioni e riforme, si debba procedere a
verificare se le norme che si vorrebbero modificare non sia passibili
di una nuova rilettura interpretativa, prendendo come riferimento,
principalmente ma non solo, proprio le disposizioni ed i principi
contenuti nella Costituzione che, per la loro valenza generale, sono
suscettibili di adattamento ai mutamenti sociali ed alle diverse
sensibilità del tempo.
Ebbene, in tale ottica, è ben possibile affermare che una
rilettura « costituzionalmente orientata » sia da operarsi anche riguardo
alle norme disciplinanti il risarcimento dei danni non patrimoniali
da inadempimento contrattuale.
Il punto normativo di partenza può essere individuato nell’art.
2056 c.c. che, nel richiamare gli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.,
suggerisce una visione unitaria, da parte del legislatore del ’42, del
danno, inteso come perdita. Nell’ambito di tale visione unitaria, nel
Cass. 31.5.2003, n. 8827, in GI, 2004, 1129; Cass. 31.5.2003, n. 8828, in
NGCC, 2004, I, 232; Corte cost. 11.7.2003, n. 233, in GI, 2004, 723.
30
15
corso del tempo si è assistito a quel progressivo spostamento del
centro di interesse a cui si è fatto cenno, vale a dire da una
concezione strettamente patrimonialistica del danno ad una c.d. «
personalistica ».
In altre parole, il danno - « tutto » il danno – ha cessato
gradatamente di essere considerato solo il pregiudizio, la perdita
appunto, patrimoniale; dottrina e giurisprudenza si sono
progressivamente liberate dall’esigenza di sempre più improbabili
equilibri interpretativi per andare a cercare (in certi casi
letteralmente « inventare ») diminuzioni del patrimonio. Ora la
visione unitaria del danno, che per certi versi supera persino la
concezione bipolare, induce a considerare i pregiudizi nel loro
complesso, senza considerare la natura degli stessi quale possibile
ostacolo alla loro risarcibilità.
È un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme
disciplinanti la responsabilità contrattuale quella che si propone,
che non solo apre le porte alla piena risarcibilità dei danni di natura
non patrimoniale ma, in più, conferisce valore maggiore ai diritti
della persona, anche in tema di determinazione del quantum debeatur.
Un esempio in tal senso è dato da una sentenza del Tribunale di
Trieste31. Il caso ha per vittima un correntista, piccolo imprenditore
titolare di una ditta individuale, che, un bel giorno, rivoltosi alla
propria banca, si vede rifiutare il rilascio di un nuovo libretto degli
assegni per un paio di titoli richiamati parecchi anni addietro e
dopo che, nonostante tali richiami, l’istituto aveva sempre
consegnato al cliente vari carnet senza nulla obiettare.
Il dato interessante di tale pronuncia è che il giudice, affermata
la responsabilità della banca per inadempimento contrattuale,
riconosce in favore dell’imprenditore un importo a titolo di danno
esistenziale – individuato nel pregiudizio derivante dalla lesione di
diritti costituzionalmente garantiti, quali quello al lavoro ed alla
realizzazione personale – maggiore rispetto a quello richiesto a
titolo di danno patrimoniale, proprio in un’ottica di valorizzazione
– e dunque di maggiore considerazione anche da un punto di vista
risarcitorio – della persona rispetto al patrimonio.
31
Trib. Trieste 13.4.2007, in www.personaedanno.it.
16
IL DANNO DA VACANZA ROVINATA
1. La natura della categoria di danno.
Legislazione: c.c. 2043, 2056, 2059.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
Tra i maggiori timori da parte di dottrina e giurisprudenza di
fronte alla creazione di nuove categorie di danno è rappresentato
dalla possibile eccessiva frammentazione del sistema risarcitorio,
con conseguente pericolo di indeterminatezza.
Senza dover approfondire in questa sede tali timore, spesso
infondati, e le soluzioni prospettabili ai problemi paventati, in
merito al c.d. « danno da vacanza rovinata » è sufficiente chiarire quale
sia l’effettiva natura di tale categoria di danno.
Infatti, i timori nascono spesso da un sostanziale equivoco di
fondo, vale a dire la confusione che si opera tra categoria « giuridica
» e categoria « descrittiva ». Mentre alle prime appartengono –
secondo la schematica ma qui efficace da un punto di vista
espositivo ripartizione elaborata dalla giurisprudenza più recente –
il danno emergente ed il lucro cessante (compresi tra i danni
patrimoniali) ed i danni biologico, morale ed esistenziale (compresi
tra i danni non patrimoniali), nelle seconde rientrano quelle, del
pari elaborate dalla giurisprudenza nel corso degli anni, che hanno
il mero scopo di descrivere, appunto, una determinata tipologia di
situazioni o, meglio ancora, una determinata tipologia di pregiudizi,
senza volontà di creare nuove categorie giuridiche ma, molto più
semplicemente, di raggruppare all’interno di un’unica definizione
una serie molteplice di danni derivanti da un unico fatto (inteso in
senso ampio).
Peraltro, dottrina e giurisprudenza negli ultimi anni hanno
spostato sempre più l’attenzione, anche al solo scopo definitorio,
verso gli aspetti prettamente personalistici del pregiudizio,
tralasciando spesso quelli meramente patrimoniali.
« Il risarcimento del danno non patrimoniale, tradizionalmente definito
da vacanza rovinata, consistente nel pregiudizio rappresentato dal
17
disagio e dalla afflizione subiti dal turista/viaggiatore per non aver
potuto godere pienamente della vacanza come occasione di svago e di
riposo conforme alle proprie aspettative, dev’essere risarcito qualora il
locatore dell’autoveicolo usato per tale vacanza sia stato inadempiente
dal momento che l’auto non era funzionante. In questo modo infatti
viene meno la possibilità di realizzare un progetto teso al
miglioramento
delle
potenzialità
psico-fisiche,
attraverso
l’allentamento delle tensioni nervose connaturate all’intensità della vita
moderna, ed al miglioramento delle complessive condizioni di vita per
la conseguita capacità di reinserirsi nell’abituale contesto sociale,
familiare e lavorativo ed affrontare così gli aspetti negativi in maniera
meno drammatica e più distesa »
(Trib. Napoli 27.4.2006, in www.personaedanno.it).
Analogamente, la dottrina ha inteso il danno da vacanza
rovinata quale pregiudizio conseguente alla lesione dell’interesse
del turista di godere pienamente del viaggio organizzato come
occasione di piacere, di svago o di riposo, senza essere costretto a
soffrire quel disagio psicofisico che talora si accompagna alla
mancata realizzazione in tutto o in parte del programma previsto,
avuto riguardo alla particolare importanza che normalmente si
attribuisce alla fruizione di un periodo di vacanza adeguato alle
proprie aspettative32.
Aldilà delle questione legate ad una sua precisa definizione, ciò
che è importante considerare è il fatto che la categoria di danno in
esame non individua un « nuovo danno » all’interno del nostro
sistema risarcitorio. L’opera dell’interprete nel relazionare la
categoria definitoria con quelle giuridiche, dunque, è duplice: da un
lato egli deve individuare all’interno della prima le seconde (non
sempre per forza tutte presenti nel caso concreto); dall’altro, deve
riunire le seconde, una volta individuate in concreto, nella prima,
considerando i pregiudizi in esse compresi quali conseguenza
dell’unico fatto illecito descritto.
Le conseguenze di una tale impostazione interessano tanto il
danneggiato quanto il giudice: il primo non potrà limitarsi ad
invocare il risarcimento di un mero danno da vacanza rovinata, ma
dovrà specificare i singoli pregiudizi da inquadrarsi nelle categorie
giuridiche di danno; il secondo, a sua volta, dovrà considerare tutte
Morandi F., Il danno da vacanza rovinata, in Cendon P. e Ziviz P. (a cura di), Il
danno esistenziale, Giuffrè, Milano, 2000.
32
18
le componenti della categoria definitoria, anche al fine di evitare
eventuali duplicazioni risarcitorie.
2. La normativa speciale di riferimento.
Legislazione: Cost. 2, 36 – c.c. 2043, 2059 – l. 27.12.1977, n. 1084, ratifica ed esecuzione
della convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio (CVV), firmata a
Bruxelles il 23 aprile 1970 – d.lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
La materia in esame trova una prima parziale disciplina
normativa nella l. 27.12.1977, n. 1084, che ha ratificato
nell’ordinamento italiano la Convenzione internazionale relativa al
contratto di viaggio (CVV) firmata a Bruxelles il 23.4.1970; tale
disciplina, peraltro, torva applicazione solo per i contratti
internazionali di viaggio che debbono essere, anche parzialmente,
eseguiti in uno stato diverso da quello dove il contratto è stato
stipulato, oppure dal quale il viaggiatore è partito, in quanto lo stato
italiano ha formulato la corrispondente riserva prevista dall’art. 40
CCV. La convenzione disciplina la responsabilità dei vari soggetti
coinvolti nel contratto di viaggio: l’organizzatore, l’intermediario
ed il passeggero.
La dottrina ha sottolineato come l’inadempimento di obblighi
nascenti da un contratto di viaggio fa certamente sorgere, in capo
all’organizzatore ed all’intermediario, una responsabilità
contrattuale ma non è escluso che con questa possano concorrere,
in capo agli stessi soggetti, forme di responsabilità aquiliana, tali da
dare luogo ad un reclamo extracontrattuale (art. 23); peraltro
l’intento di impedire che organizzatore ed intermediario perdano il
beneficio delle norme, dettate in sede di disciplina dei contratti dei
quali essi sono parti, che escludono o limitano la loro
responsabilità, è raggiunto con la regola dell’art. 25, che
espressamente estende all’ipotesi di azione extracontrattuale
contro organizzatore ed intermediario l’applicabilità delle
disposizioni che ne escludono o limitano la responsabilità33.
Roppo E., Convenzione internazionale relativa al contratto di viaggio, in NLCC, 1978,
1793.
33
19
Altro importante riferimento normativo è rappresentato dalla
Direttiva comunitaria n. 90/314 in tema di vendita di « pacchetti tutto
compreso » la quale è stata recepita nel nostro ordinamento con il
d.lgs n. 111/1995 ed è attualmente collocata nel nuovo « Codice del
consumo » (d.lgs. 6.9.2005, n. 206) nell’ambito dei servizi turistici agli
artt. 82-100. La dottrina, nel tentativo di coordinate i due testi
normativi, ha evidenziato che per la stessa natura del servizio
offerto, denominato tour package, esso si distacca dall’ampio genere
del contratto di organizzazione di viaggio (nomenclatura da cui è
impossibile prescindere successivamente all’emanazione della
legge di ratifica italiana della Convenzione internazionale sul
contratto di viaggio siglata a Bruxelles) per significare quella specie
costituita da contratti turistici in senso proprio alla luce della
finalità ricreativa che li contraddistingue. Altri contratti di viaggio,
infatti, hanno finalità diverse portatrici di altrettanti interessi, non
solamente economici34 (Carrassi C. 1995, 904).
2.1. Il contratto di trasporto aereo e l’handling.
Legislazione: l. 3.12.1962, n. 1832, ratifica ed esecuzione del Protocollo che apporta
modifiche alla Convenzione del 12 ottobre 1929 per l’unificazione di alcune regole
relative al trasporto aereo internazionale, firmato a l’Aja il 28 settembre 1955 – l.
10.1.2004, n.12, ratifica ed esecuzione della Convenzione per l’unificazione di alcune
norme relative al trasporto aereo internazionale, con Atto finale e risoluzioni, fatta a
Montreal il 28 maggio 1999.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
Un particolare contratto atipico è rappresentato dall’handling e si
affianca a quello di trasporto aereo, differenziandosene sul piano
della disciplina oltreché dei contenuti.
Va, anzitutto, rilevato che il contratto di trasporto aereo
internazionale trova la sua disciplina nella Convenzione per
l’unificazione di alcune norme relative al trasporto aereo
internazionale di Montreal del 28.5.1999, la quale, essendo stata
ratificata in Italia solo con l. 10.1.2004, n. 12, prevale sulla
Convenzione di Varsavia del 12.10.1929, resa esecutiva in Italia
con l. 19.5.1932, n. 841, in parte modificata dal Protocollo dell’Aia
28.9.1955, reso esecutivo in Italia con l. 3.12.1962, n. 1832.
34
Carrassi C., Tutela del turista nei viaggi a forfait, in CorG, 1995, 902.
20
La giurisprudenza in materia di rapporti tra contratto di
trasporto aereo internazionale e contratto di handling, per quanto
riguarda il danno da vacanza rovinata, si è peraltro formata in larga
prevalenza con riferimento alla Convenzione di Varsavia; tuttavia,
stante la sostanziale analogia tra la disciplina in questa contenuta in
relazione a danneggiamento o perdita di bagagli e quella presente
nella Convenzione di Montreal, i principi affermati possono essere
mantenuti invariati.
Infatti, l’art. 18, 1° e 2° co., della Convenzione di Varsavia
dispone che il vettore risponde della perdita della merce trasportata
avvenuta durante il trasporto aereo, il quale, a sua volta,
comprende il periodo durante il quale la merce si trova nella
custodia del vettore, in un aeroporto o a bordo di un aeromobile o
in un qualsiasi luogo in caso di atterraggio fuori di un aeroporto.
Norme analoghe si ritrovano nel secondo comma dell’art. 17 e
nel primo comma dell’art. 18 della Convenzione di Montreal.
« Il vettore è responsabile del danno derivante dalla distruzione, perdita
o deterioramento dei bagagli consegnati, per il fatto stesso che l’evento
che ha causato la distruzione, la perdita o il deterioramento si è
prodotto a bordo dell'aeromobile oppure nel corso di qualsiasi periodo
durante il quale il vettore aveva in custodia i bagagli consegnati.
Tuttavia la responsabilità del vettore è esclusa se e nella misura in cui il
danno derivi esclusivamente dalla natura dei bagagli o da difetto o vizio
intrinseco. Nel caso di bagagli non consegnati, compresi gli oggetti
personali, il vettore è responsabile qualora il danno derivi da sua colpa
ovvero da colpa dei suoi dipendenti o incaricati »
(art. 17, 2° co., Convenzione di Montreal).
« Il vettore è responsabile del danno risultante dalla distruzione, perdita
o deterioramento della merce per il fatto stesso che l’evento che ha
causato il danno si è prodotto nel corso del trasporto aereo »
(art. 18, 1° co., Convenzione di Montreal).
L’art. 19 della Convenzione di Varsavia stabilisce, poi, che il
vettore risponde del danno risultante da un ritardo nel trasporto
aereo di viaggiatori, bagagli e merci; analogamente l’art. 19 della
Convenzione di Montreal.
« Il vettore è responsabile del danno derivante da ritardo nel trasporto
aereo di passeggeri, bagagli o merci. Tuttavia il vettore non è
responsabile per i danni da ritardo se dimostri che egli stesso e i propri
21
dipendenti e incaricati hanno adottato tutte le misure necessarie e
possibili, secondo la normale diligenza, per evitare il danno oppure che
era loro impossibile adottarle ».
(art. 19, Convenzione di Montreal).
Come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, la
Convenzione di Varsavia – ma, come detto, il principio vale anche
per quella di Montreal – non regola, dunque, il contratto di
deposito a terra, perché la fase del trasporto, come da essa definita,
si svolge fin quando la merce sia nella custodia (« sous la garde ») del
vettore aereo e si esaurisce nel momento in cui, con la stipulazione
del contratto di deposito presso un terzo delle merci sbarcate, la
custodia si trasferisce dal vettore al depositario. Il servizio di
assistenza a terra (« handling ») predisposto dalla società di gestione
aeroportuale, in genere, comprende una serie di prestazioni a
favore dei vettori aerei e dei passeggeri, le quali possono avere il
contenuto più vario, formando oggetto di distinti rapporti giuridici
obbligatori, disciplinati secondo la loro peculiare natura35.
Per effetto della consegna delle cose trasportate dal vettore
aereo all’impresa esercente il deposito, si configura un contratto di
deposito in favore del terzo, che ha per oggetto l’obbligo del
depositario di custodirle e restituirle al destinatario della merce. Da
quest’obbligo, in caso di avaria o di perdita della merce, verificatosi
nella fase del deposito, il destinatario può svolgere direttamente
l’azione risarcitoria nei confronti dell’impresa esercente36.
Nel caso in esame, caso in cui il piano di volo preveda una scalo
con cambio di aereo ma la consegna dei bagagli sia prevista solo a
destinazione, senza necessità pertanto di ritirarli ed imbarcarli
nuovamente, la responsabilità permane invece in capo al vettore
(Tribunale Ragusa, 07 febbraio 2006, in www.personaedanno.it).
In un contratto di trasporto con queste modalità, infatti, si può
affermare che il bagaglio deve sempre rimanere sotto la custodia
del vettore aereo, in quanto lo stesso è tenuto a riconsegnarlo ai
passeggeri appena giunti a destinazione. In questo caso
l’obbligazione di custodire il bagaglio è un accessorio del contratto
di trasporto ed incombe sul vettore. L’esecuzione del contratto di
35
36
Cass. 26.11.2003, n. 18074, DResp, 2004, 974.
Cass. 26.11.2003, n. 18074, cit.; Cass. 9.10.1997, n. 9810, GI, 1998, 1096.
22
trasporto non si esaurisce nell’attività di trasferimento della merce
da luogo e a luogo, ma comprende altresì l’adempimento delle altre
obbligazioni accessorie, necessarie al raggiungimento del fine
pratico prefissosi dalle parti, con la conseguenza che sussiste, a
carico del vettore - il quale si trova nella detenzione delle cose
trasportate – l’obbligo di conservarle e custodirle fino alla loro
consegna al destinatario e la relativa responsabilità ex recepto: in
particolare in tema di trasporto aereo internazionale di merci, la
custodia cui il vettore provvede, dopo che la merce è giunta allo
scalo, costituisce un accessorio delle obbligazioni inerenti al
contratto di trasporto aereo, che viene definitivamente adempiuto
con la consegna al destinatario, sicché l’azione di quest’ultimo (e
dell’assicuratore in via di surrogazione) proponibile in caso di
mancata consegna è soggetta alla disciplina propria del contratto di
trasporto, non di quello di deposito, anche se la perdita si verifica
nella fase di quella custodia finalizzata alla consegna37.
3. I viaggi « tutto compreso ».
Legislazione: d.lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo, artt. 82-100.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
La direttiva comunitaria n. 90/314 in tema di viaggio « tutto
compreso » (o « all inclusive ») è stata recepita nel nostro ordinamento
con il d.lgs. n. 111/1995 ed è attualmente collocata nel nuovo
Codice del consumo agli artt. 82-100.
La direttiva ha lo scopo di ravvicinare le disposizioni legislative,
regolamentari ed amministrative degli stati membri concernenti i
viaggi, le vacanze e i giri turistici « tutto compreso » venduti od offerti
in vendita nel territorio della Comunità.
La Corte di giustizia europea è intervenuta nel 2002 per chiarire
la portata della definizione legislativa di pacchetto tutto compreso
e, conseguentemente, l’ambito di applicazione della direttiva, in
relazione a quanto previsto dall’art. 2 punto 1.
« Ai fini della presente direttiva si intende per:
1) servizio tutto compreso: la prefissata combinazione di almeno due
37
Cass. 19.6.1993, n. 6841, GCM, 1993, 1049.
23
degli elementi in appresso, venduta o offerta in vendita ad un prezzo
forfettario, laddove questa prestazione superi le 24 ore o comprenda
una notte:
a) trasporto,
b) alloggio,
c) altri servizi turistici non accessori al trasporto o all’alloggio che
costituiscono una parte significativa del « tutto compreso .
La fatturazione separata di vari elementi di uno stesso servizio tutto
compreso non sottrae l’organizzatore o il venditore agli obblighi della
presente direttiva »
(art. 2, punti 1., Direttiva CEE n. 90/314).
La Corte di giustizia ha precisato che l’espressione « tutto compreso
» di cui all’art. 2, punto 1, della direttiva deve essere interpretata nel
senso che essa include i viaggi organizzati da un’agenzia di viaggi su
domanda del consumatore o di un gruppo ristretto di consumatori
e conformemente alle loro richieste, mentre l’espressione «
prefissata combinazione » di cui all’art. 2, punto 1, della direttiva
deve essere interpretata nel senso che essa include le combinazioni
di servizi turistici effettuate al momento in cui il contratto viene
stipulato tra l’agenzia di viaggi e il cliente38.
Si considerano ricompresi nell’ambito della normativa sui
pacchetti « tutto compreso » anche quelli che le parti abbiano
negoziato al di fuori delle normali sedi commerciali o attraverso le
modalità dei c.d. « contratti a distanza », ferme restando le
disposizioni previste negli artt. 64-67 del Codice del consumo.
Il contratto di vendita di pacchetti turistici deve essere redatto in
forma scritta in termini chiari e precisi. Al consumatore deve essere
rilasciata una copia del contratto stipulato, sottoscritto o timbrato
dall’organizzatore o venditore.
« Il contratto contiene i seguenti elementi:
a) destinazione, durata, data d’inizio e conclusione, qualora sia previsto
un soggiorno frazionato, durata del medesimo con relative date di
inizio e fine;
b) nome, indirizzo, numero di telefono ed estremi dell’autorizzazione
all’esercizio dell’organizzatore o venditore che sottoscrive il contratto;
38
Corte giustizia CE 30.4.2002, n. 400, RCP, 2003, 39.
24
c) prezzo del pacchetto turistico, modalità della sua revisione, diritti e
tasse sui servizi di atterraggio, sbarco ed imbarco nei porti ed aeroporti
e gli altri oneri posti a carico del viaggiatore;
d) importo, comunque non superiore al venticinque per cento del
prezzo, da versarsi all’atto della prenotazione, nonché il termine per il
pagamento del saldo; il suddetto importo è versato a titolo di caparra
ma gli effetti di cui all’articolo 1385 del codice civile non si producono
qualora il recesso dipenda da fatto sopraggiunto non imputabile,
ovvero sia giustificato dal grave inadempimento della controparte;
e) estremi della copertura assicurativa e delle ulteriori polizze
convenute con il viaggiatore;
f) presupposti e modalità di intervento del fondo di garanzia di cui
all’articolo 100;
g) mezzi, caratteristiche e tipologie di trasporto, data, ora, luogo della
partenza e del ritorno, tipo di posto assegnato;
h) ove il pacchetto turistico includa la sistemazione in albergo,
l’ubicazione, la categoria turistica, il livello, l’eventuale idoneità
all’accoglienza di persone disabili, nonché le principali caratteristiche,
la conformità alla regolamentazione dello Stato membro ospitante, i
pasti forniti;
i) itinerario, visite, escursioni o altri servizi inclusi nel pacchetto
turistico, ivi compresa la presenza di accompagnatori e guide turistiche;
l) termine entro cui il consumatore deve essere informato
dell’annullamento del viaggio per la mancata adesione del numero
minimo dei partecipanti eventualmente previsto;
m) accordi specifici sulle modalità del viaggio espressamente convenuti
tra l’organizzatore o il venditore e il consumatore al momento della
prenotazione;
n) eventuali spese poste a carico del consumatore per la cessione del
contratto ad un terzo;
o) termine entro il quale il consumatore deve presentare reclamo per
l’inadempimento o l’inesatta esecuzione del contratto;
p) termine entro il quale il consumatore deve comunicare la propria
scelta in relazione alle modifiche delle condizioni contrattuali di cui
all’articolo 91 »
(art. 86, d.lgs. 6.9.2005, n. 206).
Particolari obblighi vengono poi posti a carico del venditore e
dell’organizzatore circa le informazioni da fornirsi sia nel corso
delle trattative (e comunque prima della conclusione del contratto),
sia prima dell’inizio del viaggio.
In caso di mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni
assunte con la vendita del pacchetto turistico, l’organizzatore e il
venditore sono tenuti al risarcimento del danno, secondo le
25
rispettive responsabilità, se non provano che il mancato o inesatto
adempimento è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a loro non imputabile.
L’organizzatore o il venditore che si avvale di altri prestatori di
servizi è comunque tenuto a risarcire il danno sofferto dal
consumatore, salvo il diritto di rivalersi nei loro confronti.
Il danno derivante alla persona dall’inadempimento o
dall’inesatta esecuzione delle prestazioni che formano oggetto del
pacchetto turistico è risarcibile secondo le norme stabilite dalle
convenzioni internazionali che disciplinano la materia, di cui sono
parte l’Italia o l’Unione europea, così come recepite
nell’ordinamento italiano.
È nullo ogni accordo che stabilisca limiti di risarcimento per i
danni alla persona.
L’organizzatore ed il venditore sono esonerati, quando la
mancata o inesatta esecuzione del contratto è imputabile al
consumatore o è dipesa dal fatto di un terzo a carattere
imprevedibile o inevitabile, ovvero da un caso fortuito o di forza
maggiore. Tuttavia, l’organizzatore o il venditore devono
apprestare con sollecitudine ogni rimedio utile al soccorso del
consumatore al fine di consentirgli la prosecuzione del viaggio,
salvo in ogni caso il diritto al risarcimento del danno nel caso in cui
l’inesatto adempimento del contratto sia a questo ultimo
imputabile.
4. L’inadempimento dell’obbligo di informazione.
Legislazione: d.lgs. 6.9.2005, n. 206, codice del consumo.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
Un aspetto particolare legato alle ipotesi di inadempimento
riguarda quello legato proprio agli obblighi di informazione appena
esaminati.
Peraltro non sempre l’omessa o inesatta informazione deve
ritenersi imputabile sia al venditore che al tour operator. Al primo,
infatti, andrà ad esempio imputata la mancata comunicazione dello
spostamento dell’orario di volo. È quanto deciso dal Tribunale di
Monza, in un caso in cui una coppia sposata recatasi in aeroporto
26
insieme ai due figli minori alle ore 18,30 aveva appreso solo dagli
operatori di banco che il volo per la destinazione prescelta era
partito 8 ore prima e che tale variazione era stata tempestivamente
comunicata all’agenzia di viaggi con fax una settimana prima.
« La mancata comunicazione da parte dell’agenzia di viaggi al turista di
essenziali circostanze, nel caso di specie l’anticipazione dell'orario del
volo, integra gli estremi dell’inadempimento contrattuale, sia ai sensi
della disciplina generale dettata in materia dal Codice Civile, sia in
applicazione della disciplina dettata dagli artt. 13 e 15 della
Convenzione di Bruxelles in data 23.4.1970 (ratificata nel nostro
ordinamento giuridico con Legge n, 1084/77). A Tale inadempimento
consegue la condanna al risarcimento dei danni sofferti secondo i
criteri dettati dall’art. 1223 c.c »
(Trib. Monza 19.5.2003, in www.personaedanno.it).
Diverso il caso in cui l’agenzia si sia limitata a vendere il
pacchetto di viaggio e le errate informazioni sia contenute nel
catalogo del tour operator.
« Azione verso B. T. s.r.l.
L’azione versa questa convenuta rientra nella seconda delle ipotesi
appena esaminate. B. T. si è infatti limitata (per tutti gli attori) a vendere
il pacchetto di viaggio, e -per i soli attori B. e G.- anche i biglietti aerei
per i voli per e da Roma. Su tale punto si incentra la prima delle
doglianze da esaminare: sostengono cioè questi ultimi attori che B.T.
avrebbe tardivamente comunicato (solo il giorno prima della partenza)
delle variazioni di orario, che, soprattutto per il viaggio di rientro, non
consentirono un rientro immediato in Palermo, il 4 gennaio 2003, ma
costrinsero ad una notte di permanenza a Roma.
L’assunto degli attori, però, non solo è rimasto indimostrato (il teste
attoreo, la sorella del G., si è limitata a narrare che venne contattata dal
fratello per ritardare il momento dell’accompagnamento in aeroporto,
per il giorno 28.12.2002), ma addirittura smentito dal teste dalla
convenuta, il quale ha invece affermato che i differenti orari dei due
voli per e da Roma vennero comunicati con congruo anticipato, alcuni
giorni prima della partenza, anzi prima di Natale, di guisa che non
sussiste il dedotto difetto di informazione.
Di conseguenza, la pretesa attorea verso B. T. s.r.l. va disattesa; rimane
così assorbita ogni questione inerente il rapporto di quest’ultima col
proprio assicuratore, S. A. s.p.a.
Azione verso T. s.p.a..
Rispetto il tour operator, invece, la domanda è fondata.
27
Premesso che detta convenuta, rimanendo contumace, non ha in alcun
modo contrastato le allegazioni attoree in punto di inadempimento
(con quel che ne segue in punto di onere probatorio nel diritto delle
obbligazioni, ex art. 2697 c.c. e 1218 stesso codice), gli odierni attori
hanno invece provato:
documentalmente, depositando il catalogo viaggi per l’Egitto, che le
caratteristiche di alberghi, motonavi, e trattamento avrebbe dovuto
essere di ottima qualità, pur in considerazione dei diversi luoghi da
visitare (con più disagi per le traversate sul Nilo), e che le particolarità
di orari (sveglie all’alba o addirittura prima) erano da escludere, perché
espressamente limitate al periodo estivo (così il testo a pag. 8 del
catalogo attoreo);
per testi, con i soggetti che hanno confermato le “levatacce” anche
notturne, la scadentissima qualità dei servizi alberghieri e di
ristorazione sulle navi, lo stress di continui spostamenti ad orari
tutt’altro che comodi, tanto che uno dei viaggiatori si premurò di
contestare ogni manchevolezza a T. immediatamente.
In altri termini, è provato, e non contestano dall’altra parte, rimasta
contumace, che il viaggio fu complessivamente disagevole e
caratterizzato da servizi di qualità decisamente inferiore a quella
pattuita, desumibile cioè dal catalogo in base al quale si concretizzò
l’offerta negoziale.
Discende da ciò che la domanda risarcitoria va accolta »
(Trib. Palermo 5.10.2006, in www.personaedanno.it).
Il venditore del pacchetto turistico e l’organizzatore del viaggio
sono responsabili in solido dei danni subiti dal viaggiatore per
l’inadempimento degli obblighi assunti, nell’ipotesi in cui nel luogo
di villeggiatura si verifichino tumulti e sollevazioni popolari che
non consentano di fruire dei servizi prenotati. In particolare, deve
essere affermata la responsabilità dell’organizzatore per non aver
predisposto adeguate soluzioni alternative e dell’organizzatore e
del venditore per non aver previamente fornito le necessarie
informazioni sulla precaria situazione politica del paese 39 . In
termini generali, dunque, il venditore è comunque tenuto a fornire
all’acquirente tutte le informazioni su circostanze che, secondo
quanto previsto dalla normativa specifica ma anche in base
all’ordinaria diligenza, è tenuto a conoscere.
Un esempio in tal senso è dato da un caso relativo ad un turista
disabile.
39
Trib. Rimini 28.12.2005, CorM, 2006, 3, 296
28
« Dall’esame della documentazione in atti risulta provato che il villaggio
turistico, oggetto del contratto di viaggio intercorso tra le parti, era
stato pubblicizzato dalla convenuta come struttura adatta ai disabili.
I testimoni escussi hanno riferito che durante il soggiorno la attrice con
la sua sedia a rotelle non poteva autonomamente aggirarsi nel villaggio
in quanto per accedere alle varie strutture, quali il ristorante, la piscina,
la spiaggia, vi erano soltanto delle scale e non delle rampe.
Del pari l’attrice necessitava di aiuto all’interno della propria camera, la
cui moquette presentava danni tali da rendere pericoloso l’uso della
sedia a rotelle, e per l’accesso al bagno, la cui porta era troppo stretta
per potervi entrare con la sedia a rotelle.
Tali circostanze sono state anche documentate da fotografie prodotte
da parte attrice.
È di tutta evidenza che l’aver venduto un pacchetto di viaggio
sprovvisto di quelle qualità promesse nel catalogo costituisce
inadempimento della s.p.a. T. T., non sussistendo gli estremi di legge
per una declaratoria di annullamento del contratto per dolo.
Sicuramente trattasi di inadempimento grave in quanto la convenuta
era ben a conoscenza della condizione fisica dell’attrice così come
risultava dal contratto intercorso tra le parti. Non solo, ma la
convenuta era stata anche contattata telefonicamente dall’impiegata di
viaggi per avere conferma dell’idoneità della struttura per le persone
disabili »
(Giud. pace Milano 16.8.2003, in www.personaedanno.it).
In tale caso, dunque, l’agenzia di viaggi aveva ben operato,
premurandosi di verificare ulteriormente – rispetto alle mere
indicazioni di catalogo – la presenza di strutture idonee ad ospitare
persone disabili, stante la particolarità del caso e le prevedibili
conseguenze nell’ipotesi di loro assenza.
6. La prova del danno.
Legislazione: c.c. 1223, 1226, 1227, 2043, 2059, 2727, 2729 – c.p.c. 115
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Monateri P.G. 1998 – Cendon P. 2000
– Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
Dal punto di vista dell’istruzione probatoria, il danno subito dal
turista può, entro certi limiti e con particolare riferimento ai danni
di natura non patrimoniale, essere dimostrato attraverso il ricorso
alla c.d. « prova indiretta » (fatto notorio e presunzioni in particolare).
Di recente, in riferimento alla prova del danno esistenziale, la
Corte di cassazione ha assunto un orientamento da tempo invocato
29
in dottrina, affermando che le presunzioni non costituiscono, nella
gerarchia dei mezzi di prova, uno strumento probatorio di rango «
secondario » e « più debole » rispetto alla prova diretta o
rappresentativa. Va al riguardo sottolineato come, alla stessa
stregua di quella legale, la presunzione vale invero a facilitare
sostanzialmente l’assolvimento della prova da parte di chi ne è
onerato, trasferendo sulla controparte l’onere della prova
contraria40.
Il punto focale sul quale deve essere centrata l’attenzione,
dunque, è quello di dare la prova del disagio arrecato
dall’inadempimento. Se per i danni di natura patrimoniale, in linea
generale, l’assolvimento dell’onere probatorio non presente
peculiarità significative, in tema di danni non patrimoniali la
questione è per certi versi più complessa, specie in conseguenza di
un orientamento alquanto rigido in giurisprudenza, da poco
superato – ma non del tutto – con le pronunce ricordate. Si tratta,
in altre parole, soprattutto di provare come e in quale misura la
quotidianità della vittima sia cambiata in seguito al verificarsi
dell’illecito contrattuale.
Con particolare riferimento al fatto notorio, è bene sottolineare
che in base all’art. 115, 2° co., c. p. c., il fatto rientrante nella
comune esperienza può essere posto a fondamento della decisione
senza bisogno di prova, rimanendo comunque onere della parte
allegare il fatto
La dottrina41 ormai da tempo distinguere tra « danni generici »,
ossia i riflessi esistenziali negativi che appaiono come normale
conseguenza di un certo tipo di lesione, per i quali sarà possibile il
ricorso a presunzioni e alla massime di comune esperienza e « danni
specifici », vale a dire quelli strettamente legati alla sfera idiosincratica
della vittima, rispetto ai quali l’attore sarà tenuto ad una precisa
Cass. 12.6.2006, n. 13546; vedi anche: Cass. Sez. U. 24.3.2006, n. 6572; Cass.
15.7.2005, n. 15022; Cass. 19.8.2003, n. 12124, tutte in www.personaedanno.it.
41 Cendon P., Esistere o non esistere, in RCP, 2000, 1324.
40
30
prova42. La distinzione, peraltro, non è ignota nei sistemi di common
law, che appunto distinguono tra general damages e specific damages43.
La Corte di cassazione ha delineato le caratteristiche che deve
avere il fatto notorio, prova precostituita al processo44 per essere
posto a base di un giudizio. Si deve trattare di: i) un fatto acquisito
con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed
incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera
conoscenza del singolo giudice 45 ; ii) un fatto che si imponga
all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che
questa possa compiere per suo conto la valutazione critica
necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che
constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze
giuridiche che ne derivano46; iii) un fatto di comune conoscenza,
anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché
appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o
perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la
collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua
incidenza sull’interesse pubblico che spinge ciascuno dei
componenti della collettività stessa a conoscerlo 47 . Inoltre, il
notorio si deve intendere come « fatto conosciuto da un uomo di media
cultura »48 e che non necessita del ricorso a specifiche nozioni o
giudizi tecnici49. Il fatto notorio, che si riferisce alle « nozioni di fatto
che rientrano nella comune esperienza », non va confuso con una
massima o regola di esperienza, che costituisce semplice criterio di
valutazione del fatto accertato e non già mezzo di accertamento del
fatto stesso50.
Monateri P.G., La responsabilità civile, in Sacco R. (diretto da), Trattato di diritto
civile, Utet, Torino, 1998, 309.
43 Allen D, Martin R. e Hartshorne J., Damages in Tort, Sweet & Maxwell,
London, 2000.
44 Cass. 3.8.1990, n. 7798, RGI, 1990, 30.
45 Cass. 13.3.1992, n. 3087, RGI, 1992, 32; Cass. 2.4.1986, n. 2256, ivi, 1986, 27;
Cass. 28.1.1982, n. 560, ivi, 1982, 16.
46 Cass. 5.5.2000, n. 5680, in www.personaedanno.it.
47 Cass. 9.7.1999, n. 7181, in RGI, 1999, 20.
48 Cass. 6.8.1999, n. 8481, in RGI, 1999, 21.
49 Cass. 29.1.1988, n. 829, in RGI, 1988, 36.
50 Cass. 24.6.1983, n. 4326, in RGI, 1983, 12.
42
31
Un’altra precisazione importante concerne il c.d. « danno in re ipsa
». Con tale espressione da talune parti, specie in giurisprudenza, si è
voluto sostenere che, in presenza di determinati illeciti, il
danneggiato non avrebbe necessità di provare l’esistenza del
pregiudizio, essendo questo insito nell’illecito medesimo. Tale
affermazione non trova alcun riscontro normativo nel nostro
ordinamento e, a ben vedere, la gran parte delle sentenze della
Corte di cassazione che menzionano il danno in re ipsa in realtà altro
non fanno che applicare le regole sulla prova indiretta appena
esaminate.
In conclusione, se da un lato non si può sostenere che il turista
sia dispensato dal provare l’esistenza di un pregiudizio derivante da
una (seppur macroscopica) violazione degli obblighi contrattuali
assunti da parte del venditore o del tour operator, è altrettanto vero
che non gli si può neppure chiedere di dimostrare più di quanto sia
suo onere in base ai principi generali in tema di prova. La forzosa
rinuncia ad una vacanza da tempo attesa dopo un anno di lavoro,
l’intera giornata passata nella sala d’aspetto di un aeroporto in
attesa del prossimo volo a causa di un overbooking, il dover trascorre
un’intera vacanza in condizioni igieniche precarie nonostante
l’hotel fosse catalogato come di lusso ecc… sono tutte circostanze
che, allegate e provate, non necessitano di ulteriori dimostrazioni
circa le sofferenze, i patimenti e le rinunce a cui è andato incontro,
suo malgrado, il malcapitato turista.
Diverso, invece, il caso in cui il danneggiato chieda il
risarcimento di quei pregiudizi rientranti nella sua sfera
idiosincratica o assuma di aver subito un pregiudizio di intensità
maggiore rispetto alla normalità dei casi: in tali ipotesi, infatti, il
carico probatorio non potrà che spostarsi nuovamente su di esso,
mentre al soggetto inadempiente spetterà, semmai, di fornire la
sola prova contraria.
7. I danni non patrimoniali.
Legislazione: c.c 1223, 1336, 1227, 2056, 2059.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
32
Uno dei problemi principali che la dottrina e la giurisprudenza si
sono trovate ad affrontare nella materia in esame ha
indubbiamente riguardato la risarcibilità dei danni di natura non
patrimoniale. Si è visto, infatti, come da un lato le stesse dottrina e
giurisprudenza abbiano progressivamente spostato la loro
attenzione dal patrimonio alla persona, giungendo a dare una
definizione del danno da vacanza rovinata a contenuta prettamente
personalistico; dall’altro come, salvo rare eccezioni, sia
difficilmente configurabile una responsabilità di tipo
extracontrattuale in tale settore.
Ciò aveva condotto la giurisprudenza ad escludere, in linea
generale, la risarcibilità dei danni di natura non patrimoniale,
invocando il limite imposto dall’art. 2059 c.c.
« Non è suscettibile di essere preso in considerazione il disagio
incontrato dalla V., sia nel vano tentativo di ottenere il visto per Haiti
durante il viaggio di andata, sia nella peregrinazione resasi necessaria
per il suo ritorno in Italia, in quanto tale presunto danno null’altro è che
la cosiddetta pecunia doloris valutabile solo allorché la responsabilità del
danneggiante derivi da reato »
(App. Milano 21.6.1988, DT, 1990, 258).
Non erano peraltro mancati arresti giurisprudenziali che
avevano mostrato un evidente sforzo interpretativo, nella
consapevolezza delle lacune del sistema risarcitorio delineatosi
sino a quel tempo.
« Il fondamento giuridico del diritto ad ottenere il risarcimento del c.d.
danno da vacanza rovinata – cioè del fatto che il programma di viaggio
o di soggiorno previsto è risultato diverso da quello pattuito, con
l’aggravio di disagi non previsti – può rinvenirsi proprio nei già citati
artt. 13 e 15 della Convenzione sul contratto di viaggio, secondo tali
disposizioni, infatti, rispettivamente, “l’organizzatore di viaggi risponde di
qualunque pregiudizio causato al viaggiatore” e “l’organizzatore di viaggi che fa
effettuare da terzi servizi di trasporto, di alloggio o di qualsiasi altro tipo relativi
all’esecuzione del viaggio o del soggiorno, risponde di qualsiasi pregiudizio causatola
viaggiatore”. Nell’espressione “qualunque pregiudizio” (così come in quella
equivalente “qualsiasi pregiudizio”) ben può, quindi, individuarsi quel
fondamento normativo che l’art. 2059 c.c. richiede per consentire il
risarcimento del pregiudizio non patrimoniale »
(Trib. Torino 8.11.1997, GI, 1997, I, 2, 58).
33
Una prima svolta in favore della risarcibilità dei danni non
patrimoniali da vacanza rovinata si è avuta con la pronuncia della
Corte di Giustizia CE, emessa su di una questione pregiudiziale
vertente sull’interpretazione dell’art. 5 della Direttiva n.
90/314/CE.
« 19 Si deve ricordare che l’art. 5, n. 2, primo comma, della direttiva
impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie affinché
l’organizzatore di viaggi risarcisca “i danni arrecati al consumatore
dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione del contratto”.
20 A tale riguardo va rilevato che dal secondo e terzo “considerando”
della direttiva risulta che essa ha per scopo, in particolare,
l’eliminazione delle divergenze accertate tra le normative e le prassi nei
diversi Stati membri in materia di viaggi “tutto compreso” e atte a generare
distorsioni di concorrenza tra gli operatori stabiliti nei diversi Stati
membri.
21 Orbene, è pacifico che, nel settore dei viaggi “tutto compreso”
l’esistenza di un obbligo di risarcire i danni morali in taluni Stati
membri e la sua mancanza in altri avrebbe come conseguenza delle
distorsioni di concorrenza notevoli, tenuto conto del fatto che, come
osservato dalla Commissione, si rilevano frequentemente danni morali
in tale settore.
22 Si deve inoltre rilevare che la direttiva, e più particolarmente il suo
art. 5, mira a offrire una tutela ai consumatori e che, nell’ambito dei
viaggi turistici, il risarcimento del danno per il mancato godimento
della vacanza ha per gli stessi un’importanza particolare.
23 È alla luce di tali considerazioni che si deve interpretare l’art. 5 della
direttiva. Se quest’articolo si limita, nel suo n. 2, primo comma, a
rinviare in modo generale alla nozione di danni, si deve rilevare che,
prevedendo, al suo n. 2, quarto comma, la facoltà per gli Stati membri
di ammettere che, per quanto riguarda i danni diversi da quelli
corporali, l’indennizzo sia limitato in virtù del contratto, a condizione
che tale limitazione non sia irragionevole, la direttiva riconosce
implicitamente l’esistenza di un diritto al risarcimento dei danni diversi
da quelli corporali, tra cui il danno morale.
24 Si deve perciò risolvere la questione sollevata dichiarando che l’art. 5
della direttiva dev’essere interpretato nel senso che in linea di principio
il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante
dall’inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite
in occasione di un viaggio “tutto compreso” »
(Corte di Giustizia CE 12.3.2002, n. 168, RCP, 2002, 360).
In epoca più recente, la giurisprudenza di merito italiana ha
fatto richiamo all’art. 13 della Convenzione sui Contratti di Viaggio
34
(CCV), richiamato dall’art. 16 della l. n. 111/1995, il quale prevede
espressamente al primo comma che « l’organisateur de voyages repond de
tuout prejudice causé au voyageur en rasison de l’inexecution, totale ou partielle,
de ses obligations d’organisation, telles qu’elles resultant du contrat ... » ed al
terzo comma che oltre ai danni alla persona ed alle cose (dommage
corporel, dommage materiel) ogni altro tipo di danno (tout autre dommage),
per sostenere un inserimento de plano della possibilità di
risarcimento dei danni non patrimoniali in caso di inadempimento
derivanti da contratti di viaggio51.
L’attuale Codice del consumo prevede, all’art. 93 che in caso di
mancato o inesatto adempimento delle obbligazioni assunte con la
vendita del pacchetto turistico, l’organizzatore e il venditore sono
tenuti al risarcimento del danno, secondo le rispettive
responsabilità, se non provano che il mancato o inesatto
adempimento è stato determinato da impossibilità della
prestazione derivante da causa a loro non imputabile. Il successivo
art. 94 dispone inoltre che il danno derivante alla persona
dall’inadempimento o dall’inesatta esecuzione delle prestazioni che
formano oggetto del pacchetto turistico è risarcibile secondo le
norme stabilite dalle convenzioni internazionali che disciplinano la
materia, di cui sono parte l’Italia o l’Unione europea, così come
recepite nell’ordinamento italiano.
In alcune pronunce di merito si è ritenuto che tali previsioni
consentano di individuare quei « casi determinati » dalla legge a cui fa
riferimento l’art. 2059 c.c. e di fondare sulla combinazione di tali
norme la risarcibilità dei danni non patrimoniali in caso di vacanza
rovinata, non considerando, tuttavia, gli insormontabili ostacoli
che si frappongono ad un’applicazione della norma aquiliana a
fattispecie di inadempimento contrattuale52.
In realtà, appare più corretto risolvere la questione in termini
generali, fondando la risarcibilità dei danni non patrimoniali da
inadempimento contrattuale sulla base delle osservazioni svolte nel
capitolo dedicato a tale argomento.
51
52
Trib. Roma sez. dist. Ostia 2.10.2003, in www.personaedanno.it.
Trib. Verbania 23.4.2002, GI, 2004, 550.
35
8. La rilevanza dell’elemento soggettivo.
Legislazione: c.c. 1225, 1337, 1375, 1440, 2056.
Bibliografia: Roppo E. 1978 – Carassi C. 1995 – Morandi F. 2000 – Sella M. 2006.
Indagare sull’elemento soggettivo che ha accompagnato
l’inadempimento è indubbiamente utile, stante le molteplici
conseguenze che se ne possono trarre.
Una delle pratiche più diffuse fra le compagnie aeree (ma in
alcuni casi anche da gestori di hotel), vale a dire il c.d. « overbooking »,
ad esempio, è indubbiamente caratterizzata da dolo.
« Da un lato, avendo fatto ricorso alla pratica dell’ “overbooking”, e cioè
avendo venduto per il volo AZ58 un numero di biglietti superiore
rispetto ai posti disponibili, senza informare i sigg. P. del ricorso a tale
pratica e del loro rischio di non vedersi imbarcati, ha posto in essere un
comportamento illegittimo, sia in quanto costituente inadempimento
contrattuale, sia in quanto in violazione dell’art. 1440 c.c. Il Giudice di
Pace di Cagliari, con Sentenza del 27.10.2001, pienamente condivisa da
questo Giudice, ha correttamente statuito sul punto che: “In caso di
overbooking, la compagnia aerea è responsabile per il danno economico patrimoniale
subito dal passeggero, nonché per quello da <<stress>>, da determinare in via
equitativa”. Nel comportamento tenuto da A. è possibile configurare il
c.d. dolo incidente, che comporta la responsabilità ex art. 1440 c.c. Tale
disposizione costituisce l’applicazione del principio generale di buona
fede contenuto nell’art. 1337 c.c.(responsabilità precontrattuale) che
impone alla parte il dovere di correttezza nel corso della formazione del
contratto (Cass., 29.3.1999, n. 2956). Se i sigg. P. fossero stati
preventivamente ed adeguatamente informati, infatti, avrebbero
potuto scegliere tratte diverse meno onerose di quella a cui sono stati
costretti e con minor disagio. Nel comportamento di A. deve pertanto
riscontrarsi la mancanza della buona fede richiesta dall’art. 1375 c.c. e il
preordinato disegno di non voler informare la clientela dei diritti ad
essa spettanti »
(Giud. pace San Pietro Vernotico 13.9.2005, in www.personaedanno.it).
Anche quando il dolo non sia tale da determinare il consenso,
dunque, il contraente che ha agito in malafede risponde dai danni.
La riconducibilità del comportamento della compagnia aerea –
nel caso esaminato dalla sentenza richiamata – alla categoria della
responsabilità contrattuale, peraltro, comporta la possibilità di
superare più agevolmente le problematiche connesse
all’individuazione dei danni risarcibili alla luce dell’orientamento
36
giurisprudenziale che configura di una responsabilità
extracontrattuale a carico del ricorrente per violazione del
principio di buona fede nella fase precontrattuale53.
Inoltre, l’accertamento del dolo comporta l’esclusione della
limitazione prevista dall’art. 1225 c.c.; dunque, chi agisca con dolo
sarà tenuto a risarcire ogni danno causalmente collegato
all’inadempimento, anche se non prevedibile al momento del
sorgere dell’obbligazione.
Quest’ultima annotazione sposta poi l’analisi del problema sulla
determinazione del quantum da risarcire. A differenza di quanto
avviene in ambito di responsabilità aquiliana, infatti, il legislatore
ha correlato l’ammontare del risarcimento alla natura dell’elemento
soggettivo.
Tale affermazione trova riscontro proprio nella norma
contenuta nell’art. 1225 c.c.; com’è noto, la prevedibilità del danno
riguarda il pregiudizio economico (non tanto nella sua intrinseca
realtà, quanto) nel suo ammontare e, ad integrare l’esistenza di tale
requisito, non è sufficiente l’astratta prevedibilità, ma deve ritenersi
che il concreto ammontare del risarcimento non può eccedere
l’entità prevedibile nel momento in cui è sorta l’obbligazione
inadempiuta, salvo appunto il caso di inadempimento doloso54.
La scelta legislativa è altresì confermata dal mancato richiamo
dell’art. 1225 c.c. da parte dell’art. 2056 c.c., in un’ottica di
rafforzamento della funzione sanzionatoria della responsabilità
aquiliana55.
Peraltro, il grado della colpa, intesa in senso lato, può ritenersi
incidente sul piano della determinazione dell’ammontare del danno
non solo in riferimento alla sua estensione (dai soli danni
prevedibili a quelli anche non prevedibili al momento del sorgere
dell’obbligazione), ma altresì del quantum in senso stretto. Soccorre
per meglio comprendere tale affermazione proprio l’esempio
dell’overbooking: si immagini il turista rimasto in attesa del prossimo
volo disponibile per ore ed ore nella sala d’aspetto dell’aeroporto;
Cass. 25.7.2006, n. 16937, GCM, 2006, 7-8; Cass. 18.6.2005, n. 13164, GCM,
2005, 9; Cass. 5.8.2004, n. 15040, GC, 2005, I, 669.
54 Cass. 27.10.2003, n. 16091, DResp, 2004, 855; Cass. 17.3.2000, n. 3102, GCM,
2000, 587.
55 Cass. 30.3.2005, n. 6725, GCM, 2005, 4.
53
37
ebbene, non è certamente possibile affermare che la sua rabbia, il
suo sconforto, la sua delusione – insomma i suoi patimenti interiori
– possano avere la medesima intensità sia che sappia che tale
situazione è stata determinata da una strategica scelta commerciale
della compagnia aerea (in un’ottica di maggior guadagno) sia che
invece tale attesa sia determinata, ad esempio, ad un’avaria del
vettore pur imputabile alla compagnia.
Senza voler in questa sede scomodare l’annosa questione della
configurabilità nel nostro ordinamento dei c.d. punitive damages –
tanto più in ambito pressoché esclusivamente contrattuale – può
dunque ritenersi configurabile una rilevante incidenza del grado
della colpa contrattuale in sede di determinazione dell’ammontare
del danno.
IL DANNO DA IMMISSIONI
1. Le immissioni nel codice civile.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2052, 2058, 2059.
Bibliografia: Cendon P. 1998.
L’interferenza del godimento di un fondo con il godimento di
un altro fondo trova un ulteriore criterio legale di regolazione nel
caso di immissioni, da un fondo ad un altro, di fumo, calore,
rumore e, in genere, in tutti i casi di propagazione di sostanze
inquinanti, di vibrazioni ecc…
La normativa specifica in materia di danno da immissioni
inserita nel codice civile è quella dettata dall’art. 844 c.c.
« Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o
di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni
derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità,
avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
38
Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tenere
conto della priorità di un determinato uso »
(art. 844 c.c.).
La collocazione della norma nel Capo II del codice civile
riguardante la proprietà fondiaria e l’articolazione dei criteri posti
dal legislatore per regolare la materia delle immissioni, trova
ragione nel fatto che la stessa sia nata per disciplinare i rapporti fra
i proprietari di fondi vicini e contemperare le rispettive esigenze; a
dover essere presa in considerazione è poi l’epoca storica ed il
contesto socio-economico in cui nacque tale disciplina,
caratterizzati da una società fondata sulla proprietà rurale ed
un’economia prevalentemente agricola.
La dottrina ha precisato che l’art. 844 c.c. si configura come una
norma che attiene ai limiti interni all’esercizio del diritto
dominicale; il proprietario può immettere liberamente nel fondo
del vicino, il quale è tenuto a sopportare, immissioni a condizione
che non superino, secondo una valutazione necessariamente
relativistica, la normale tollerabilità. Ove detto limite sia superato,
l’attività dovrà essere ricondotta entro confini accettabili, ovvero
potrà essere proseguita a fronte del pagamento di un indennizzo,
salvo nei casi più gravi la cessazione della medesima (Cendon P.
1998, 131).
La norma di per sé regola in via immediata il potere di escludere
e quindi di ottenere la tutela di cessazione spettante al proprietario
del fondo vicino a quello dal quale provengono le immissioni. Tale
potere sussiste qualora le immissioni superino la norma
tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Problemi più complessi pone il secondo comma dell’art. 844 c.c., il
quale viene solitamente inteso nel senso che il giudice può negare la
tutela di cessazione usando ritenga le esigenze della produzione
prevalenti sulle ragioni della proprietà, anche a fronte di immissioni
che superino la normale tollerabilità.
I criteri previsti per la soluzione dei conflitti tra proprietari di
fondi contigui, sui quali si tornerà oltre, sono chiaramente
improntati su di un principio di favore per le attività produttive,
considerate come fonti di prosperità generale. Tale principio,
peraltro, è a sua volta mitigato dallo stesso art. 844 c.c., proprio nel
39
secondo comma ove aggiunge che, nell’applicare il criterio della
normale tollerabilità, il giudice deve contemperare le esigenze della
produzione con le ragioni della proprietà.
La limitazione dell’ambito di applicabilità della norma in esame
a quello della tutela delle situazioni soggettive dei proprietari
confinanti, ed in particolare, della tutela rispetto ad usi
incompatibili di detti fondi, è stata affermata anche in
giurisprudenza, ove si è precisato che da tale ambito di applicabilità
esulano i diritti personali, per la cui difesa sono invece invocabili le
disposizioni di cui agli artt. 2052 e 2058 c.c. (Cass. 19.7.1985, n.
263, GC, 1986, I, 128).
Il progresso tecnologico e l’espansione industriale hanno
peraltro mutato sensibilmente i presupposti sui quali si è basato il
legislatore del ’42. Da più parti si è allora invocata l’applicazione
dell’art. 844 c.c. anche a tutela di interessi superiori e collettivi,
come quello alla salute od alla salubrità dell’ambiente, proponendo
una rilettura della norma in esso contenuta alle luce dei principi
costituzionali sanciti dagli artt. 2, 9 e 32 Cost. che trascenda le
problematiche strettamente dominicali.
Tale proposta interpretativa, peraltro, deve fare i conti con la
pronuncia della Corte costituzionale n. 247/1974, la quale ha
ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
844 c.c. per l’asserita violazione del principio di uguaglianza nella
parte in cui consente al proprietario la legittimazione ad agire nei
confronti del danneggiante, mentre l’esclude, di fatto, per ogni
altro soggetto danneggiato da immissioni.
In particolare, la Consulta ha osservato che l’art. 844 c.c.,
sebbene si limiti a considerare solo l’interesse del proprietario, non
pregiudica la protezione di altri interessi spettanti a soggetti o intere
collettività, che in tale disposizione non trovano tutela, per non
essere certo strumento adeguato alla soluzione dei gravi problemi
creati dall’inquinamento.
« Orbene, che i principi posti dall’art. 844 c.c. non costituiscano uno
strumento adeguato per la soluzione dei gravi problemi creati
dall’inquinamento e, in ispecie, da quello atmosferico, è certo esatto.
Ciò tuttavia non comporta l’illegittimità costituzionale della norma
impugnata poiché questa, di fronte alle turbative derivanti dalle
immissioni, si limita a considerare solo l’interesse del proprietario ad
40
escludere ingerenze da parte del vicino sul fondo proprio, tutelandolo
da immissioni che superino la tollerabilità come sopra intesa. E ciò
senza riguardare, ma anche senza pregiudicare, la protezione di
interessi diversi, eventualmente spettanti anche ad altre persone o ad
intere collettività.
La norma è infatti destinata a risolvere in conflitto tra proprietà di
fondi vicini per le influenze negative derivanti da attività svolte nei
rispettivi fondi. Si comprende quindi che il criterio della normale
tollerabilità in essa accolto vada riferito esclusivamente al contenuto
del diritto di proprietà e non possa essere utilizzato per giudicare della
liceità di immissioni che rechino pregiudizio anche alla salute umana o
all’integrità dell’ambiente naturale, alla cui tutela è rivolto in via
immediata tutto un altro ordine di norme di natura repressiva e
preventiva: basti menzionare il t.u. delle leggi sanitarie di cui al r.d. 27
luglio 1934 n. 1265 e la legge 31 dicembre 1962 n. 1860, sull’impiego
pacifico dell’energia nucleare, nonché, con particolare riferimento agli
inquinamenti atmosferici, la legge 13 luglio 1966 n. 615. resta salva in
ogni caso l’applicabilità del principio generale di cui all’art. 2043 c.c.
Tali normative non sono peraltro oggetto di censura da parte del
giudice a quo. È evidente comunque che eventuali carenze che in esse
fossero individuabili in ordine alla tutela degli interessi singoli e della
comunità non potrebbero mai riflettersi sull’art. 844 c.c., che, come si è
detto, è destinato a risolvere problemi di diversa natura e dimensione »
(Corte cost. 23.7.1974, n. 247, FI, 1975, I, 19).
Con tale pronuncia, in sostanza, la Consulta ha affermato che il
diritto alla salute e la tutela dell’ambiente non rientrano nell’ambito
dell’art. 844 c.c., il quale si limita a considerare soltanto l’interesse
del proprietario ad escludere ingerenze da parte del vicino sul
proprio fondo, tutelandolo da immissioni che superano la normale
tollerabilità. In particolare, poi, la risoluzione del problema
ambientale è demandato dalla Consulta all’adozione di strumenti di
carattere prevalentemente pubblicistico, che realizzino una tutela
preventiva e riparatoria, compito che il legislatore ha
successivamente, anche se solo in parte, assolto.
La limitazione ad ambiti privatistici della norma contenuta
nell’art. 844 c.c. trova peraltro riscontro nel carattere dispositivo
della stessa e nella conseguente possibilità che i proprietari dei
fondi regolino i loro rapporti di vicinato con norme diverse, aventi
maggiore o minore rigore; in tali ipotesi, della liceità in concreto
dell’immissione si dovrà giudicare non alla stregua del principio
41
generale posto dalla legge, ma tenendo contro del criterio di
valutazione fissato con la disciplina convenzionale.
In quest’ottica, è stato affermato che, quando l’attività posta in
essere da uno dei condomini di un edificio, direttamente o tramite
un detentore qualificato, è idonea a determinare il turbamento del
bene della tranquillità degli altri partecipi, tutelato espressamente
da disposizioni contrattuali del regolamento condominiale, non
occorre accertare, al fine di stabilire se l’attività considerata sia
illegittima, se essa costituisca o meno immissione vietata, in quanto
le norme del regolamento di condominio di natura contrattuale
possono imporre al godimento della proprietà esclusiva limitazioni
maggiori di quelle stabilite dalle norme generali sulla proprietà
fondiaria (Cass. 4.4.2001, n. 4963, FI, 2002, I, 3179).
2. I rapporti fra la disciplina codicistica e le normative
speciali.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2052, 2058, 2059 – l. 13.7.1966, n. 615,
provvedimenti contro l’inquinamento atmosferico – d.p.c.m. 28.3.1983, limiti massimi
di accettabilità delle concentrazioni e di esposizione relativi ad inquinanti dell’aria
nell’ambiente esterno – r.d. 18.6.1991, n. 773, testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza – d.p.c.m. 1.3.1991, limiti massimi di esposizione al rumore negli ambienti
abitativi e nell’ambiente esterno – l. 26.10.1995, n. 447, legge quadro sull’inquinamento
acustico – d.p.c.m. 14.11.1997, determinazione dei valori limite delle sorgenti sonore –
d.p.r. 11.12.1997, n. 496, regolamento recante norme per la riduzione
dell’inquinamento acustico prodotto dagli aeromobili civili – d.m. 16.3.1998, tecniche
di rilevamento e di misurazione dell’inquinamento acustico – d.p.r. 18.11.1998, n. 459,
regolamento recante norme in materia di inquinamento acustico derivante da traffico
ferroviario - d.m. 20.5.1999, criteri per la progettazione dei sistemi di monitoraggio per
il controllo dei livelli di inquinamento acustico in prossimità degli aeroporti nonché
criteri per la classificazione degli aeroporti in relazione al livello di inquinamento
acustico.
Bibliografia: Catalano G. 1991 – De Giorgi M.V. 1993 – Pacifico M. 2000.
L’ambito di operatività dell’art. 844 c.c. è dunque limitato alla
tutela delle situazioni soggettive dei proprietari confinanti rispetto
a ad utilizzazioni dei fondi fra di loro incompatibili. I valori tutelati
dalla normativa codicistica sono, pertanto, quelli connessi con la
tutela della proprietà privata ed in particolare quelli legati al
bilanciamento dell’esercizio dei relativi diritti, alla luce di un
42
principio di solidarietà e nella considerazione di esigenze di
pubblico interesse.
Restano esclusi dalla tutela dell’art. 844 c.c. quei valori connessi
con beni sociali di interesse pubblico, quali la salute e l’ambiente,
che invece trovano protezione, specie di fronte a fenomeni quali ad
esempio l’inquinamento, nella disciplina pubblicistica contenuta in
norme speciali.
Si pone allora il problema dei rapporti tra la disciplina
codicistica e quella contenuta nella norma speciali, che la
giurisprudenza risolve in via generale distinguendo i beni tutelati
dalle norme del codice civile (il diritto di proprietà) e da quelle
speciali (interessi pubblici dei singoli e della comunità legati alla
tutela della salute e dell’ambiente), le finalità perseguite ed il
rapporto che si instaura in relazione alle norme del codice civile e
con riferimento alle disposizioni contenute nelle leggi speciali.
Mentre, infatti, le disposizioni di cui all’art. 844 c.c. hanno come
detto carattere privatistico ed operano in senso discrezionale nei
rapporti fra proprietari dei fondi confinanti, le disposizioni
contenute nelle diverse leggi speciali sono di natura pubblicistica e
non regolano direttamente i rapporti fra privati (Cass. 29.4.2002, n.
6223, inedita) ma operano nel rapporto c.d. « verticale » fra i privati e
la pubblica amministrazione (Cass. 27.1.2003, n. 1151, GC, 2003, I,
2770) e comunque fra l’esercente l’attività che dà luogo alle
immissioni e la comunità in cui esso agisce, creando a suo carico
precisi obblighi verso gli enti preposti alla vigilanza (Cass.
3.11.2000, n. 14353, GC, 2001, I, 1011).
La diversità di natura e finalità dei due complessi normativi fa sì
che le disposizioni contenute nelle leggi speciali non escludano
l’applicabilità dell’art. 844 c.c. nei rapporti fra proprietari di fondi
vicini che richiedono, pertanto, l’accertamento caso per caso della
liceità o illiceità delle immissioni (Cass. 13.9.2000, n. 12080, GCM,
2000, 1927).
Inoltre, la limitazione dell’operatività della disciplina codicistica
ai rapporti tra i privati – e la conseguente applicabilità delle norme
di settore alla sfera pubblicistica – comportano che queste ultime
non possano essere utilizzate al fine di stabilire la normale
tollerabilità e, con essa, la legittimità delle immissioni. Il relativo
giudizio rimane affidato all’equo apprezzamento del giudice (Cass.
43
29.4.2002, n. 6223, inedita); è dunque l’apprezzamento in concreto
del giudice, in ordine alla normale tollerabilità delle immissioni, ad
essere decisivo al fine di stabilire la liceità dell’immissione
medesima, sicché una valutazione di superamento di tale limite
potrebbe venire quand’anche dette immissioni non superino i
limiti fissati dalle norme di interesse generale (Cass. 27.1.2003, n.
1151, GC, 2003, I, 2770).
A dover essere tenuta presente ai fini della formulazione del
giudizio di normale tollerabilità, non è allora la disciplina di settore
bensì la particolarità della situazione concreta, avuto anche
riguardo alle esigenze della produzione, da contemperare con
quelle della proprietà; di conseguenza, il giudice tenuto conto della
situazione dei luoghi, delle esigenze e della produzione e di quelle
della proprietà, può ritenere che le stesse superino il limite di
normale tollerabilità nonostante il mancato superamento dei limiti
minimi fissati dalla disciplina speciale (Cass. 6.6.2000, n. 7545,
GCM, 2000, 1219).
La giurisprudenza, peraltro, in alcuni casi ha inteso valorizzare i
limiti imposti dalla disciplina di settore, assumendoli a parametri di
valutazione.
« I criteri stabiliti dal d.p.c.m. 1 marzo 1991 per la determinazione dei
limiti massimi di esposizione al rumore, benché dettati per la tutela
generale del territorio, possono essere utilizzati per stabilire l’intensità
e, di riflesso, la soglia di tollerabilità delle immissioni rumorose nei
rapporti fra privati, purché, però, considerati come limite minimo e
non massimo, posto che i suddetti parametri sono meno rigorosi di
quelli applicabili nei singoli casi, ai sensi dell’art. 844 c.c., con la
conseguenza che, in difetto di altri dati, il loro superamento determina
necessariamente la violazione della predetta norma »
(Cass. 18.4.2001, n. 5607, GI, 2001, 1818).
Ai fini delle valutazioni da effettuarsi ai sensi dell’art. 844 c.c., i
parametri forniti dalle leggi speciali, pertanto, possono valere
solamente come limiti minimi, mentre è sempre la valutazione in
concreto che determina il giudizio di tollerabilità.
Sulla base dei principi generali così individuati, la giurisprudenza
ha di volta in volta risolto i problemi che potevano nascere dai
rapporti tra la disciplina codicistica e le singole discipline speciali.
44
Per quanto riguarda la materia delle attività produttive, ad
esempio, si è affermato che i regolamenti comunali che limitano le
attività rumorose in tale materia, hanno carattere pubblicistico ed
operano nei rapporti fra privati e pubbliche amministrazioni, non
essendo richiamati dall’art. 844 c.c. che detta la disciplina delle
immissioni (Cass. 12.2.2000, n. 1565, GCM, 2000, 310). Deve
pertanto essere esclusa la possibilità di fare riferimento ai rigidi
parametri eventualmente fissati da leggi speciali al fine di
disciplinare determinate attività produttive, quando il campo di
applicazione e l’oggetto delle leggi speciali siano diversi da quelli
che caratterizzano le disposizioni dettate dall’art. 844 c.c., le quali
invece sono volte a proteggere la proprietà immobiliare (Cass.
11.11.1997, n. 11118, GI, 1998, 1810).
La distinzione di finalità e campi di applicazione è stata ribadita
anche in relazione alle norme contenute nel Testo unico delle leggi
di pubblica sicurezza. In particolare, la giurisprudenza ha stabilito
che la mancata emanazione da parte del comune d una propria
regolamentazione limitatrice delle attività rumorose, in base all’art.
66 del testo unico, non implica di per sé che il medesimo comune
abbia ritenuto l’attività produttiva prevalente sulle esigenze di
quiete dei privati e che, conseguentemente, ogni imposizione di
restrizioni debba considerarsi illegittima e l’art. 844 c.c. non possa
trovare applicazione. La norma del testo unico, infatti, ha finalità di
interesse pubblico, mirando a tutelare la quiete pubblica, riguarda i
rapporti tra l’esercente l’attività e la collettività in cui opera,
creando obblighi dell’esercente nei confronti degli enti preposti alla
vigilanza, ma non diritti perfetti nei confronti degli abitanti del
comune; la norma codicistica, per contro, regola un rapporto fra
fondi e tutela il diritto reale di proprietà (Cass. 17.5.1974, n. 1452,
GI, 1974, I, 1, 1862).
Parimenti hanno finalità e campi di applicazione distinti le
disposizioni sull’inquinamento atmosferico.
« Le disposizioni contenute nell’art. 844 c.c. da una parte, e nel d.p.c.m.
28 marzo 1983, che fissa i limiti massimi di accettabilità delle
concentrazioni e di esposizione relativi ad inquinanti dell’aria
nell’ambiente esterno, dall’altra, hanno finalità e campi di applicazione
distinti, essendo l’una posta a presidio del diritto di proprietà,
perseguendo l’altra la tutela igienico - sanitaria delle persone o
45
comunità esposte. Ne consegue che, in caso di controversia attinente
alla tutela della proprietà immobiliare dalle immissioni, il giudice di
merito, cui è rimessa la relativa indagine, tenuto conto, in concreto,
della condizione dei luoghi ed, eventualmente, anche delle esigenze
della produzione, da contemperare con quelle della proprietà, può
ritenere che le immissioni superino il limite della normale tollerabilità
nonostante il mancato superamento dei limiti massimi di inquinamento
atmosferico fissati dal citato d.p.c.m. »
(Cass. 6.6.2000, n. 7545, GCM, 2000, 1219).
Analoghe considerazioni sono valse in ordine ai rapporti con la
legge c.d. « antismog ».
« La l. 13 luglio 1966 n. 615, recante provvedimento contro
l’inquinamento atmosferico, disciplina comportamenti i quali
prescindono da qualsiasi collegamento con la proprietà fondiaria, e
vengono presi in considerazione in sé e per sé, nell’interesse collettivo
alla salvaguardia della salute in generale, e non per stabilire, caso per
caso, i limiti di equilibrio nell’utilizzazione della proprietà fondiaria.
Ne consegue che in materia di conflitti tra fondi vicini i comportamenti
dannosi che non rientrano nella previsione della disciplina delle
immissioni, di cui all’art. 844 c.p.c., possono trovare la loro sanzione in
quella dell’illecito aquiliano, nella quale acquistano rilievo tutti gli
elementi di prevedibilità concreta che impongono di risarcire il danno
derivante dal proprio comportamento colposo, ma non nella disciplina
della citata legge antinquinamento, che ha una diversa sfera di
operatività »
(Cass. 28.3.1980, n. 2062, FI, 1980, I, 2191).
Allo stesso modo, in materia di immissioni sonore, il d.p.c.m.
1.3.1991, il quale fissa le modalità di rilevamento dei rumori, al parti
dei regolamenti comunali limitativi delle attività rumorose, essendo
rivolto alla tutela della quiete pubblica, riguarda soltanto i rapporti
fra l’esercente una delle suddette attività e la collettività in cui esso
opera, creando a carico del primo precisi obblighi verso gli utenti
preposti alla vigilanza. Le disposizioni contenute nel sopraindicato
decreto non escludono pertanto l’applicabilità dell’art. 844 c.c., che
nei rapporti con i proprietari dei fondi vicini richiedere
l’accertamento caso per caso della liceità o illiceità delle immissioni
(Cass. 10.1.1996, n. 161, GCM, 1996, 21; conf. Cass. 13.9.2000, n.
12080, GCM, 2000, 1927). L’accertamento – di fatto –
dell’esistenza di fattori di inquinamento ambientale dannosi per
46
l’integrità psicofisica, non si risolve nell’accertamento della liceità
dell’attività, ossia dell’osservanza della disciplina che ne regola
l’esercizio onde tutelare l’interesse pubblico ambientale, e non può
estendersi a considerare parametri di tollerabilità diversi da quelli
provvisoriamente vigenti e previsti in case alla destinazione delle
aree, ancora da delimitare da parte del comune (Cass. 19.7.1997, n.
6662, GI, 1997, I, 1, 298).
Analoghe valutazioni sono state fatte dalla giurisprudenza in
relazione ad altre leggi in materia di inquinamento acustico.
Si è così stabilito, da un lato che il d.p.c.m. del 1 marzo 1991, il
quale, nel determinare le modalità di rilevamento dei rumori ed i
limiti di tollerabilità in materia di immissioni rumorose, al pari dei
regolamenti comunali limitativi dell’attività rumorosa, fissa, quale
misura da non superare per le zone non industriali, una differenza
rispetto al rumore ambientale pari a 3 db in periodo notturno e in 5
db in periodo diurno, persegue finalità di carattere pubblico ed
opera nei rapporti fra i privati e la p.a. – e che pertanto le
disposizioni in esso contenute non escludono l’applicabilità
dell’art. 844 c.c. nei rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini
(Cass. 3.8.2001, n. 10735, GCM, 2001, 1544) – dall’altro che i criteri
in esso stabiliti, possono esser utilizzati come parametro di
riferimento per stabilire l’intensità, e di riflesso, la soglia di
tollerabilità delle immissioni rumorose nei rapporti tra privati
purché, però, considerati come un limite minimo e non massimo,
dato che i suddetti parametri sono meno rigorosi di quelli
applicabili nei singoli casi ai sensi dell’art. 844 c.c., con la
conseguenza che, in difetto di altri dati, il loro superamento
determina necessariamente la violazione della predetta norma
(Cass. 18.4.2001, n. 5697, GCM, 2001, 818).
In definitiva, dunque, anche le norme che disciplinano i livelli di
accettabilità delle immissioni sonore, in quanto mirano ad
assicurare alla collettività il rispetto di livelli minimi di quiete,
perseguono finalità di interesse pubblico e sono, quindi, destinatee
a regolare i rapporti tra i privati e la pubblica amministrazione, e
non già i rapporti di natura patrimoniale tra i privati, alla cui
disciplina è destinato l’art. 844 c.c. Pertanto, anche se le immissioni
non superano i limiti fissati dalle norme di interesse generale, il
giudizio sulla loro tollerabilità ai sensi dell’art. 844 c.c. va effettuato
47
ugualmente e con riferimento alla situazione concreta (Cass.
2.6.1999, n. 5398, GCM, 1999, 1252).
3. Il carattere delle immissioni.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059.
Bibliografia: Lojacono V. 1970.
La disposizione di cui all’art. 844 c.c. contiene un’elencazione di
un certo numero di immissioni, per cui si è posto il problema della
natura tassativa o meno di tale elenco.
La dottrina ha escluso il carattere tassativo ma ha rilevato che
l’elenco contenuto nell’art. 844 c.c., se non esclude dall’ambito
delle turbative prese in considerazione atti di immissioni non
enumerati specificatamente, consente comunque di individuare
categorie di turbative non riferibili alla disposizione del codice
civile. Si è così ritenuto che debbano essere escluse le turbative c.d.
« immateriali », che non possono rientrare nel novero delle
propagazioni materiali richieste dall’art. 844 c.c. e le turbative c.d. «
immediate », identificate in quelle che iniziano e compiono il loro
ciclo di influenza interamente sul fondo del vicino e sono, per tale
ragione, sempre illegittime e non possono essere considerate vere e
proprie immissioni (Lojacono V. 1970).
Anche la giurisprudenza ha escluso il carattere rigorosamente
tassativo dell’elencazione contenuta nella norma, ma ha fissato le
condizioni per una interpretazione estensiva della medesima e,
quindi, i requisiti che, in via generale, devono essere posseduti dalle
immissioni diverse da quelle espressamente prese in
considerazione ai fini dell’applicabilità della disciplina codicistica.
« Sebbene l’art. 844 c.c. contenga un elenco esemplificativo delle
immissioni suscettibili di divieto, posto che, in esso, dopo la espressa
menzione di alcune di tali immissioni, seguono le parole “e simili
propagazioni”, tuttavia il carattere eccezionale dei limiti posti
all’estrinsecazione del diritto di proprietà fa sì che la tassatività sussista
nel “genus” se non nella “specie”. Pertanto, considerando sia le
caratteristiche delle immissioni espressamente menzionate, sia la
necessità che si tratti di “propagazioni”, sia, infine, la “ratio” della norma,
il suo dettato è passibile di applicazione, per interpretazione estensiva,
a ipotesi che presentino i requisiti: della materialità dell’immissione, e
cioè necessità che essa cada sotto i sensi dell’uomo ovvero influisca
48
oggettivamente sul suo organismo (ad es.: radiazioni nocive) o su
apparecchiature (ad es.: correnti elettriche ed onde elettromagnetiche);
del carattere indiretto o mediato dell’immissione, nel senso che essa
non consista in un “facere in alienum”, ma costituisca ripercussione di
fatti compiuti direttamente o indirettamente dall’uomo, nel fondo da
cui si propaga; dell’attualità di una situazione di intollerabilità, non
semplice pericolo di essa, derivante da una continuità, o almeno
periodicità, anche se non ad intervalli regolari, dell’immissione. Tali
requisiti ricorrono nel caso di infiltrazione d’acqua nel fondo altrui,
prodotta dall’assidua irrigazione del fondo proprio, coltivato “a
marcita” »
(Cass. 6.3.1979, n. 1404, GCM, 1979, 3).
Pertanto, considerando sia le caratteristiche delle immissioni
espressamente menzionate, sia la necessità che si tratti di «
propagazioni », sia la ratio della norma, l’interpretazione estensiva di
questa risulta possibile soltanto rispetto ad ipotesi che presentino
come requisiti: la materialità dell’immissione, vale a dire che essa
cada sotto i sensi dell’uomo ovvero influisca oggettivamente sul
suo fisico; il carattere indiretto o mediato dell’immissione, nel
senso che essa non consista in un facere in alienum, ma rappresenti
ripercussioni di fatti compiuti direttamente o indirettamente
dall’uomo nel fondo da cui si propaga; l’attualità di una situazione
di intollerabilità e non il semplice pericolo di essa, che derivi da una
continuità o almeno periodicità, anche se non ad intervalli regolari,
dell’immissione.
4. I criteri di valutazione della liceità delle immissioni.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059.
Bibliografia: Visintini G. 1990.
L’art. 844 c.c. enuclea tre criteri di valutazione della liceità delle
immissioni di cui due – la normale tollerabilità ed il
contemperamento delle esigenze della produzione con le ragioni
della proprietà – sono considerati dalla giurisprudenza come
obbligatori, mentre il terzo – la priorità dell’uso – invece è ritenuto
facoltativo e sussidiario.
« Ai fini della valutazione della legittimità o non delle immissioni di cui
all’art. 844 c.c. occorre fare riferimento a tre diversi criteri, di cui due
49
obbligatori ed il terzo facoltativo e sussidiario: in primo luogo bisogna
tener conto del requisito oggettivo dato dalle caratteristiche della
località; in secondo luogo va tenuta presente la necessità di
contemperare le esigenze della produzione con quelle della proprietà;
infine il giudizio complessivo può essere integrato facendo ricorso al
criterio della priorità di un determinato uso, che peraltro è facoltativo e
sussidiario rispetto ai primi due e non vale ad escludere
necessariamente l’illiceità dell'immissione ed il conseguente obbligo di
eliminarla »
(Trib. Milano 3.10.1989, AC, 1990, 1149; conf. Cass. 20.12.1985, n.
6534, GCM, 12).
La dottrina ha osservato che la norma accoglie un orientamento
risalente, ma gli aspetti originali della disposizione riguardano, in
prima istanza, la direttiva secondo cui per valutare la normale
tollerabilità occorre far riferimento alla condizione dei luoghi, e in
seconda istanza, il conferimento al giudice del potere di «
contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà ». li
primo criterio indicato consente di elevare la soglia della normale
tollerabilità (e quindi di negare tutela), tutte le volte che la zona sia
a carattere industriale; e già qui si manifesta una tutela preferenziale
per la proprietà industriale rispetto alla proprietà ad uso privato e
anche a quella agricola. Il secondo criterio implica, senz’altro, una
condizione di favore per l’imminente imprenditore e non prevede
neppure, stando alla lettera, che il giudice, nel momento in cui
sacrifica le esigenze della proprietà in favore di quelle produttive,
accordi un risarcimento del danno derivante da immissioni
industriali. Tale sistema impone al giudice, secondo tale dottrina,
una linea di valutazione politica abbastanza univoca, in quanto
mira – se lo si valute nel contesto letterale ed alla luce delle
ideologie del tempo – a far sopportare indiscriminatamente dai
vicini i costi delle immissioni da attività produttiva a patto che i
vicini non siano a loro volta produttori; in caso di conflitti tra vicini
produttori, l’interesse della produzione dovrebbe coincidere con
l’interesse della maggior produzione (Visintini G. 1990, 323).
4.1. La normale tollerabilità.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059.
Bibliografia: Salvi C. 1979 – Visintini G. 1990.
50
L’art. 844 c.c. ancora la legittimità delle immissioni provenienti
da un fondo al fatto che le stesse non superino la normale
tollerabilità. Tale criterio rappresenta quello fondamentale al fine di
stabilire la liceità delle immissioni, in quanto l’altro criterio che la
giurisprudenza considera come obbligatorio, vale a dire la necessità
di contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della
proprietà, costituisce più che altro un elemento intrinseco relativo
alla predetta liceità, uno strumento per la valutazione del giudice, al
quale la disposizione è espressamente rivolta.
Il concetto di normale tollerabilità, peraltro, rappresenta una
formulazione astratta che lascia al giudice ampi poteri discrezionali;
non esiste, infatti, nel codice civile una misura in base alla quale
aritmeticamente stabilite il limite di tollerabilità delle immissioni,
poiché in questa materia domina il criterio della relatività e della
valutazione caso per caso, essendo affidato al giudice un compito
moderatore ed equilibratore, da esercitarsi di volta in volta, in
relazione alle singole situazioni particolari ed all’entità degli
interessi in conflitto, e tenuto altresì conto delle esigenze della
convivenza sociale e della funzione sociale della proprietà, nonché
con riguardo sia alle condizioni dei luoghi ed alle attività
normalmente svolte in un determinato contesto produttivo sia al
sistema di vita ed alle correnti abitudini della popolazione nel
presente momento storico (Cass. 11.10.1995, n. 10588, SI, 1996,
364. 20.12.1985, n. 6534, GCM, 1985, 12).
« La tollerabilità è quella “consentita in un determinato momento storico ed in un
luogo determinato, ed avvertita come tale dalla coscienza sociale” e la valutazione
deve avvenire in concreto tenendo contro di natura, entità e causa delle
immissioni, delle condizioni e delle caratteristiche di luoghi (ex art. 844,
1° co., c.c.); intesa comunemente nel senso (non geografico ma)
sociale, relativo cioè al “carattere derivante dalle attività che normalmente vi si
svolgono e dal sistema e dalle abitudini di vita della popolazione locale” »
(Cass. 27.7.1983, n. 5137, MGI, 1983, 1341).
Il limite della tollerabilità delle immissioni ha pertanto carattere
relativo, dovendo essere fissato con riguardo al caso concreto,
tenendo conto delle condizioni naturali e sociali dei luoghi, delle
attività normalmente svolte, del sistema di vita e della abitudini
della popolazione; con particolare riguardo alle immissioni sonore,
51
inoltre, deve farsi riferimento anche alla c.d. « rumorosità di fondo della
zona », vale a dire a quel complesso di suoni, di origine varia e
spesso non identificabili, continui e caratteristici della zona
medesima, sui quali si innestano, di volta in volta, rumori più
intensi. Tutti detti elementi debbono essere valutati in modo
obiettivo, in relazione alla reattività dell’uomo medio e, quindi,
prescindendo da considerazioni attinenti alle singole persone
interessate alle immissioni.
Secondo l’interpretazione tradizionale, il giudizio di tollerabilità
delle immissioni deve essere riferito esclusivamente al contenuto
del diritto di proprietà e non può, quindi essere impiegato per
giudicare delle immissioni che rechino pregiudizio ad altri interessi,
diversi da quello del godimento fondiario; in altre parole, il giudizio
in questione si risolve nella determinazione dell’incidenza della
lesione apportata dalle immissioni rispetto al godimento fondiario
tipico di una zona determinata (Salvi C. 1979, 311).
Il carattere relativo ed oggettivo del giudizio di tollerabilità delle
immissioni porta la giurisprudenza più tradizionale ad escludere
qualsiasi rilevanza alle qualità personali dei soggetti danneggiati ed
a prendere in considerazione l’idoneità delle immissioni a
ripercuotersi sul fisico e sulla psiche dei soggetti colpiti
esclusivamente sotto il profilo della reattività dell’uomo medio
secondo la comune sensibilità, prescindendo, quindi, da
valutazioni relative alle singole persone interessate.
I proposito la dottrina ha rilevato che nella valutazione della
normale tollerabilità i giudici integrano la direttiva legislativa con il
ricorso al criterio dell’uso normale. In molte decisioni, si sono
ritenute tollerabili le immissioni provenienti da una sfruttamento
normale della proprietà. In questo modo, la giurisprudenza
continua ad applicare il criterio che era stato elaborato dalla
dottrina e dalla stessa giurisprudenza anteriormente al codice del
1942. quanto al criterio legislativamente previsto della normalità
del danno causato, esso è correlato alla situazione del luogo.
Alcune sentenze interpretano la facoltà di contemperare le
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà nel senso
che la tollerabilità delle immissioni nelle località a prevalente
carattere industriale deve essere maggiore di quanto si richiede in
altri luoghi. Inoltre, sempre nell’applicazione del primo comma
52
dell’art. 844 c.c., è frequente l’affermazione che la tollerabilità
normale vada determinata con riguardo alla comune sensibilità
(Visintini G. 1990, 336).
Come già accennato, in tema di immissioni sonore, la
giurisprudenza ha poi elaborato un altro criterio di valutazione di
tollerabilità, come risulta ben argomentato da una sentenza del
Tribunale di Milano.
« Ai fini della determinazione del limite di tollerabilità delle immissioni
sonore e per valutare la sussistenza del presupposto oggettivo della
illiceità dell’immissione, deve applicarsi il criterio comparativo,
consistente nel confrontare il livello medio dei rumori di fondo
costituiti dalla somma degli effetti acustici prodotti dalle sorgenti
sonore esistenti e interessanti una determinata zona, con quello del
rumore rilevato sul luogo che subisce le immissioni, e nel ritenere
superato il limite della normale tollerabilità per quelle immissioni che
abbiano una intensità superiore di oltre tre decibel al livello sonoro di
fondo.
Si è rilevato in dottrina, infatti, che il decibel è l’unità di misura del livello
sonoro, e che a relativa scala è su basi logaritmiche per cui un aumento
di tre decibel corrisponde ad un raddoppio dell’intensità della sorgente
sonora, che viene normalmente percepito dall’organismo umano come
fastidioso, perché di molto superiore ai valori del rumore continuo e
costante già esistente in zona. Il riferimento a criteri e valori assoluti
utile per la verifica e il collaudo di singole opere o attività non è, invece,
adeguato a rappresentare il grado di disturbo che singole immissioni
possono produrre, perché non permette di valutare la maggiore
intensità sonora causata da una determinata fonte, verificando in quale
misura una certa attività svolta nel fondo vicino causi autonomamente
immissioni che superino la normale tollerabilità »
(Trib. Milano 10.12.1992, NGCC, 1993, 789).
La valutazione dei luoghi assume rilievo per la giurisprudenza
anche in relazione alle immissioni di fumo o pulviscolo.
« Il criterio posto dall’art. 844 c.c. costituisce un elemento di cui il
giudice deve tener conto, ma sempre per decidere se la immissione
supera o meno la normale tollerabilità. In altri termini, il giudice deve
emettere un giudizio prelibare in ordine logico e giuridico, valutare cioè
se la immissione supera o no il confine della sopportabilità; e
nell’emettere una simile valutazione deve tener conto della situazione
dei luoghi, ma non per superare il limite della tollerabilità, bensì per
valutarlo »
(Trib. Napoli 22.2.1983, DG, 1983, 354).
53
La distinzione tra le diverse funzioni dei criteri individuati dalla
norma di cui all’art. 844 c.c., così come l’aggiunta del criterio
comparativo, costituiscono ormai principi consolidati in
giurisprudenza.
4.2. Le esigenze della produzione.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059.
Bibliografia: Salvi C. 1979 – Visintini G. 1990.
Si è visto che il secondo comma dell’art. 844 c.c. prevede un
secondo criterio obbligatorio di valutazione della liceità
dell’immissione, rappresentato dal contemperamento delle
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà.
La giurisprudenza ha precisato che la disposizione contenuta
nel secondo comma dell’art. 844 c.c., che rende possibile, in caso di
conflitto tra esigenze della produzione e ragioni della proprietà,
l’esplicasi del potere moderatore e regolatore del giudice anche
aldilà della normale tollerabilità, è manifestamente dettato con
riguardo esclusivo alle esigenze della produzione ed è, come tale,
destinato ad operare in concreto, in favore dell’attività produttiva e
non del diritto di proprietà.
Il criterio in esame, secondo la giurisprudenza, non è posto
esclusivamente in funzione del giudizio di tollerabilità, quale
criterio misuratore di quest’ultima – per cui una volta stabilità
l’intollerabilità non vi sarebbe più margine per l’esercizio del potere
moderatore e regolatore del giudice – dovendosi invece ritenere, in
relazione sia alla latitudine della potestà, conferita all’autorità
giudiziaria sia, soprattutto, alla ratio della disposizione, volta al fine
di comporre interessi in conflitto nel quadro di una proficua
esistenza sociale e con riguardo alle esigenze della produzione, che
alla predetta direttiva di contemperamento sia assegnato un campo
di applicazione più vasto e che essa, quindi, possa e debba
esplicarsi anche aldilà del limite di rottura della normale
tollerabilità.
Nell’analizzare il criterio in esame, la giurisprudenza ha inoltre
precisato i limiti di operatività dell’art. 844 c.c. rispetto all’art. 2043
c.c.
54
« L’art. 844 c.c. impone, nei limiti della normale tollerabilità e
dell’eventuale contemperamento delle esigenze della produzione con le
ragioni della proprietà, l’obbligo di sopportazione delle propagazioni
inevitabili determinate dall’uso delle proprietà attuato nel contesto
delle norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Al di
fuori di tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima, di fronte alla
quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio all’altrui
diritto di proprietà o di godimento e non sono quindi applicabili i
criteri dettati dall’art. 844 c.c. ma, venendo in considerazione, in tali
ipotesi, unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a
terzi, si rientra nello schema generale dell’azione di risarcimento dei
danni ex art. 2043 c.c. che può essere proposta anche cumulativamente
con l’azione ex art. 844 c.c. »
(Cass. 6.12.2000, n. 15509, GCM, 2000, 2558).
La distinzione operata dalla giurisprudenza assume peculiare
rilievo nelle ipotesi in cui le immissioni riguardino fondi situati in
zone a carattere prevalentemente industriale.
« In tema di immissioni in alienum, il criterio del contemperamento delle
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, posto dall’art.
844, comma 2, c.c., non implica che nelle zone a prevalente vocazione
industriale debbano necessariamente considerarsi lecite e tollerabili,
per il solo fatto della destinazione urbanistica data dalla competente
p.a. all’area interessata dal fenomeno, le immissioni di qualsiasi natura
ed entità determinate dall’attività produttiva, ma implica solo che, nella
riconosciuta preminenza dell’interesse collettivo, in termini di prodotto
e di occupazione, alla prosecuzione dell’attività immissiva, possa essere
effettuata una valutazione comparativa degli interessi dedotti in
giudizio ai fini della determinazione del contenuto della sanzione da
applicare, ciò che si realizza con l’attribuire al giudice, una volta che
abbia riconosciuto l’esigenza del mantenimento dell’attività produttiva,
il potere di astenersi dall’adozione di misure inibitorie, e di far luogo,
invece, a statuizioni che, pur con il sacrificio della piena tutela della
proprietà individuale, consentano la prosecuzione dell’attività
immissiva dietro pagamento di un congruo indennizzo, sempre che
detta attività rimanga nei limiti della normale tollerabilità,
configurandosi come dannosa, ma lecita. Ove, invece, tali limiti siano
superati, si è in presenza di un’attività illegittima, traducentesi in fatti
illeciti generatori di danno risarcibile ex art. 2043 c.c. »
(Cass. 29.11.1999, n. 13334, GCM, 1999, 2394).
In linea generale è dunque possibile affermare che in materia di
immissioni, le due azioni di cui agli art. 844 e 2043 c.c. hanno
55
diverso ambito operativo, in quanto la prima norma impone, nei
limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento
delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà,
l’obbligo di sopportazione delle propagazioni inevitabili
determinate dall’uso della proprietà attuato nel contesto delle
norme generali e speciali che ne disciplinano l’esercizio. Ove
risultino superati tali limiti, si è in presenza di un’attività illegittima,
di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un
sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di godimento e non sono
quindi applicabili i criteri da tale norma dettati ma, venendo in
considerazione in detta ipotesi unicamente l’illiceità del fatto
generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema
dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c.,
che può essere proposta anche cumulativamente con l’azione ex
art. 844 c.c. (Cass. 7.8.2002, n. 11915, GCM, 2003, I, 2498; Cass.
1.2.1995, n. 1156, GI, 1995, I, 1, 1836).
A tal proposito, è utile ricordare che le sezioni unite hanno
affermato che qualora il servizio di discarico dei rifiuti solidi
urbani, affidato dal comune in concessione ad imprenditore
privato e da questi espletato in conformità delle modalità fissate dal
concedente, comporti per il fondo vicino immissioni di fumo ed
esalazioni, e tali immissioni superino la normale tollerabilità, in
modo da precludere ogni possibilità di contemperamento delle
esigenze di quel servizio con le ragioni del proprietario del fondo,
deve ritenersi consentito a quest’ultimo di esperire azione
risarcitoria per fatto illecito davanti al giudice ordinario, nei
confronti di entrambi i soggetti cui il fatto stesso è imputabile, e,
quindi, non solo nei confronti del comune concedente, vertendosi
in tema di sindacato del suddetto giudice che non investe attività
discrezionali dell’amministrazione, ma comportamenti di essa
sottoposti al principio generale del neminem laedere (Cass.
10.12.1984, n. 6476, GCM, 1984, 12).
4.3. La priorità dell’uso.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2059.
Bibliografia: Salvi C. 1979 – Visintini G. 1990.
56
L’ultima parte del secondo comma dell’art. 844 c.c. prevede la
facoltà, e non l’obbligo, per il giudice di tener conto ella priorità di
un determinato uso nell’applicazione della norma. Si è già
osservato come la giurisprudenza assegni a tale criterio una valenza
secondaria e facoltativa rispetto ai precedenti due, rappresentati
dalla tollerabilità delle immissioni e dal contemperamento delle
esigenze della produzione con le ragione della proprietà.
« Ai fini della valutazione della liceità o meno delle immissioni, il
criterio della priorità dell’uso ha natura secondaria e facoltativa,
dovendo il limite della tollerabilità accertarsi tenendo conto, anzitutto,
della situazione dei luoghi e della necessità di contemperamento delle
esigenze della proprietà con quelle della produzione. (Nella specie, il
giudice del merito aveva ritenuto che, in una zona residenziale ma con
prevalenti interessi industriali, il limite di tollerabilità dei rumori
prodotti da uno stabilimento e, indipendentemente dalla data della sua
installazione, inevitabilmente più elevato che in una zona soltanto
residenziale. La S.C. ha confermato tale decisione enunciando
l’anzidetto principio) »
(Cass. 23.5.1981, n. 3401, GCM, 1981, 5).
Il carattere sussidiario e facoltativo del criterio in esame
comporta che il giudice di merito, nella valutazione della normale
tollerabilità delle immissioni, non sia tenuto a farvi ricorso quando,
in base agli opportuni accertamenti di fatto e secondo il suo
apprezzamento – incensurabile se adeguatamente motivato –
ritenga superata la soglia di tollerabilità (Cass. 6.3.1979, n. 1404,
GCM, 1979, 3).
La giurisprudenza ha altresì precisato che in ogni caso, la
priorità di uso va considerata nella sua obiettività, cioè con
riferimento ai fondi (o all’organizzazione e produzione industriale)
nei loro reciproci rapporti, e non già in relazione al momento
dell’acquisto della proprietà (o della titolarità d’impresa) da parte
dei soggetti tra i quali è sorta controversia (App. Catania 14.1.1992,
NGCC, 1992, I, 888).
5. La tipologia delle immissioni.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059.
Bibliografia: Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993.
57
I criteri individuati dall’art. 844 c.c. e l’interpretazione che ne
hanno dato dottrina e giurisprudenza, consente di distinguere tre
tipologie di immissioni: quelle che non superno il limite di normale
tollerabilità, quelle che superano detto limite ma che soo ritenute
lecite dal giudice nell’ambito del suo potere dispositivo in
considerazione delle esigenze della produzione e del criterio della
priorità dell’uso, quelle infine che non solo superano il limite in
questione ma neppure possono essere considerate lecite.
La prima tipologia non presente problematiche particolari:
l’immissione che si mantiene antro i limiti della normale
tollerabilità, infatti, non può che configurarsi quale legittimo
esercizio del diritto dominicale e, conseguentemente, l’attività dalla
quale essa deriva non potrà né essere limitata né inibita dal
proprietario del fondo contiguo.
Anche nel caso in cui le immissioni rientrino nella seconda
tipologia l’attività dalla quale derivano non potranno essere limitate
o inibite ma, contrariamente all’ipotesi precedente, al proprietario
del fondo contiguo è concesso il diritto ad ottenere la
corresponsione di un indennizzo e, eventualmente, l’imposizione
di specifiche cautele atte a contenere i fenomeni diffusi. Vedremo
oltre come la giurisprudenza inquadri tale fattispecie nella categoria
degli atti dannosi ma leciti, mentre la dottrina sia maggiormente
orientata nell’attribuire valenza sostanzialmente risarcitoria
all’indennizzo.
Nel caso invece in cui le immissioni superino la normale
tollerabilità e l’interesse della produzione non giustifichi la
prosecuzione dell’attività diffusiva, il vicino danneggiato potrà
agire per ottenere il risarcimento per equivalente ed in forma
specifica, previsti rispettivamente dagli artt. 2043 e 2058 c.c., al fine
di ottenere, accanto all’inibizione delle immissioni, anche il ristoro
dei danni subiti.
L’azione risarcitoria, peraltro è esperibile anche nei confronti
della pubblica amministrazione, come hanno stabilito le sezioni
unite della Corte di cassazione.
« Come queste Sezioni Unite sia pure implicitamente hanno già avuto
occasione di ritenere, l’azione del proprietario tendente ad essere
indennizzato ex art. 844 c.c. per il deprezzamento subito dall’immobile
di sua proprietà in conseguenza alle immissioni eccedenti la normale
58
tollerabilità, provenienti dallo svolgimento di un pubblico servizio,
gestito in regime di concessine, può essere validamente esperita –
ricorrendone le condizioni – anche nei confronti della p.a. concedente
davanti al giudice ordinario, trattandosi di comanda che si ricollega a
una posizione di diritto soggettivo, non degradata o affievolita da atti di
natura ablatoria e che non implica alcuna interferenza sull’attività
discrezionale dell’amministrazione nella gestione del pubblico servizio,
ma il semplice riscontro che la relativa attività – in applicazione del
generale principio del neminem laedere e dell’obbligo di indennizzare le
limitazioni e i sacrifici particolari comunque imposti alla proprietà per
ragioni di pubblico interesse – non abbia trasmodato in un gratuito
sacrificio del diritto di proprietà non consentito dall’ordinamento »
(Cass. 10.12.1984, n. 6476, GC, 1985, I, 1398).
Nella medesima pronuncia, la Corte di cassazione ha altresì
affrontato la problematica connessa ai criteri di bilanciamento tra
godimento della proprietà ed esigenze della produzione.
« Va in primo luogo rilevato che l’art. 844, 2° co., c.c. che in materia di
immissioni prevede i contemperamento delle esigenze della
produzione con le ragioni della proprietà, si applica in ogni caso in cui
vi sia conflitto tra la tutela del diritto di proprietà e le esigenze della
produzione, quale che sia il campo in cui questa si esplichi,industriale,
agricolo o di altra natura, e anche se essa concerna, invece di beni,
servizi sia pure indirettamente connessi con quelle esigenze, in quanto
essenziali – quali sono appunto quelli pubblici – per un’efficiente
organizzazione della collettività nel cui interesse quelle esigenze
devono essere salvaguardate.
La immissioni intollerabili possono costituire danno risarcibile ai sensi
dell’art. 2043 c.c. anche da parte della p.a. siccome attività violatrice del
principio del neminem laedere senza che il giudice incorre in sindacato, a
lui vietato, del comportamento della p.a., di attività o atti discrezionali o
meno. È demandata poi al giudice di merito con ben noti limiti del
sindacato di legittimità la valutazione della intollerabilità delle
immissioni, anche al fine di stabilire se esse eccedano il limite entro cui
l’Autorità giudiziaria può e deve procedere al contemperamento delle
esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, a norma
dell’art. 84, 2° co., c.c. – oltre il quale non è consentita l’imposizione di
sacrifici all’altrui diritto di proprietà secondo la previsione del citato art.
844 c.c., trattandosi di attività illegittima che rientra nello schema
dell’azione generale risarcitoria di cui all’art. 2043 c.c., in
considerazione della illiceità del fatto generatore del danno arrecato a
terzi »
(Cass. 10.12.1984, n. 6476, GC, 1985, I, 1398).
59
L’applicabilità del principio generale del neminem laedere legittima
ad esperire l’azione aquiliana tutti coloro che abbiano subito un
danno da immissioni non tollerabili ed illecite, senza che assuma
rilievo la maggiore o minore vicinanza con il fondo da cui le
medesime si propagano ed a prescindere dalla qualifica di titolari di
diritti reali che possa loro essere attribuita. Tali soggetti, peraltro,
anche in assenza di applicabilità dell’azione inibitoria ex art. 844
c.c., attraverso il ricorso all’azione aquiliana possono ottenere la
condanna ad un facere (che può essere rappresentata, ad esempio,
nell’adozione cautele idonee a eliminare le fonti di immissione), in
virtù del disposto di cui all’art. 2058 c.c., il quale, rispetto alla tutela
risarcitoria per equivalente, presenta il vantaggio di meglio
attagliarsi agli interessi in gioco (Trib. Verona 13.101.1989, FI,
1990, I, 3292).
6. La tutela giurisdizionale contro le immissioni.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059.
Bibliografia: Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993.
Le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite
della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito
perseguibile, in via cumulativa, con l’azione diretta a farle cessare
(avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad
ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di
natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio
medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della
definitività (Cass. 2.6.2000, n. 7420, GCM, 2000, 1206).
Le due azioni, peraltro, hanno ambiti di applicazione diversi.
« In materia di immissioni, le due azioni di cui agli art. 844 e 2043 c.c.
hanno diverso ambito operativo, atteso che la prima norma impone,
nei limiti della normale tollerabilità e dell’eventuale contemperamento
delle esigenze della produzione con le ragioni della proprietà, l’obbligo
di sopportazione delle propagazioni inevitabili determinate dall’uso
della proprietà attuato nel contesto delle norme generali e speciali che
ne disciplinano l’esercizio. Ove risultino superati tali limiti, si è in
presenza di un’attività illegittima, di fronte alla quale non ha ragion
d’essere l’imposizione di un sacrificio all’altrui diritto di proprietà o di
godimento e non sono quindi applicabili i criteri da tale norma dettati
ma, venendo in considerazione in detta ipotesi unicamente l’illiceità del
60
fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema
dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’art. 2043 c.c., che
può essere proposta anche cumulativamente con l’azione ex art. 844
c.c. »
(Cass. 7.8.2002, n. 11915, GC, 2003, I, 2498).
La domanda di indennizzo per il diminuito valore del fondo a
causa delle immissioni eccedenti la normale tollerabilità è del tutto
diversa da quella di risarcimento dei danni derivanti dalle stesse
immissioni, poiché, mentre la prima, fondata sull’art. 844 c.c., ha
natura reale e mira al conseguimento di un indennizzo da attività
lecita, che compensi il pregiudizio subito dal fondo a causa delle
immissioni, la seconda, fondata sull’art. 2043 c.c., ha natura
personale, essendo volta a risarcire il proprietario del fondo vicino
dei danni arrecatigli dalle immissioni, sotto tale profilo considerato
come fatto illecito. Ne consegue che la statuizione, adottata dal
giudice di primo grado, di rigetto della domanda risarcitoria e di
accoglimento di quella indennitaria, ed appellata dal condannato, in
difetto di appello incidentale in ordine al rigetto della prima, deve
ritenersi passata in giudicato su tale punto, sul quale, pertanto, il
giudice di appello non può più pronunciarsi (Cass. 6.6.2000, n.
7545, GCM, 2000, 1219).
6.1. Le azioni reali.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059.
Bibliografia: Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993.
L’azione inibitoria prevista dall’art. 844 c.c. ha, dunque, natura
reale, rientra nello schema della negatoria servitus e deve essere
proposta contro tutti i proprietari di tale fondo, qualora l’attore
miri ad ottenere un divieto definitivo delle immissioni, operante
cioè nei confronti dei proprietari attuali o futuri del fondo
medesimo e dei loro aventi causa, in modo da ottenere
l’accertamento dell’infondatezza della pretesa, anche solo
eventuale e teorica, relativa al diritto di produrre siffatte
immissioni. È del pari, reale, l’azione proposta contro il
proprietario del fondo onde farne accertare la responsabilità per
non aver indotto il detentore del bene ad osservare i limiti di
tollerabilità concretamente accertati, ovvero per evitare che
61
l’esecuzione concreta della sentenza ottenuta contro il detentore
possa essere, poi, ostacolata dal proprietario dell’immobile, ovvero
infine, per ottenere i compimento di modifiche strutturali del bene
indispensabili al fine di eliminare le immissioni. La suddetta azione
ha, invece, carattere personale rientrante nello schema dell’azione
di risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 c.c., nel caso in
cui l’attore miri soltanto ad ottenere il divieto del comportamento
illecito dell’autore materiale delle suddette immissioni – sia esso
detentore ovvero comproprietario del fondo – il quale si trovi nella
giuridica possibilità di eliminare queste ultime senza bisogno
dell’intervento del proprietario o degli altri comproprietari del
fondo medesimo (Cass. 16.6.1987, n. 5287, GI, 1989, I, 1, 380).
Dalla natura reale dell’azione inibitoria consegue pertanto che
legittimato attivo alla proposizione della stessa non può che essere
il proprietario o comunque colui che sia titolare di un diritto reale
di godimento sul bene.
« Se il contenuto del diritto di proprietà è il godimento (e la
disposizione) “in modo pieno” (ed esclusivo) - entro i limiti e con
l’osservanza degli obblighi stabiliti dall'ordinamento giuridico - di una
determinata cosa (art. 832 c.c.) il proprietario, il quale agisca per
ottenere la cessazione delle propagazioni, derivanti dal fondo del
vicino, che superino la normale tollerabilità, fa valere il suo diritto di
godere “in modo pieno” del proprio fondo e quindi all’azione da lui
spiegata ex art. 844 non può non riconoscersi natura reale (resa peraltro
evidente dalla lettera della norma, in cui si parla esplicitamente di
“proprietario” e ragioni della “proprietà”).
Ma proprio perché dette propagazioni colpiscono precipuamente e
direttamente il godimento del fondo, la norma è da intendere
estensivamente, fino a legittimare all’azione (oltre – com’è ovvio - il
superficiario e l’enfiteuta) il titolare di un diritto reale di godimento (di
usufrutto, di uso o di abitazione; quanto al primo, l’azione “negatoria
servitutis” accordata dall’art. 1012-2 c.c. è stata intesa comprendere
anche l’azione ex art. 844 da Cass. n. 1404-79).
Quindi - in sostanza – l’art. 844 è posto a tutela del diritto (reale) di
godimento di un fondo, sia questo compreso nel fascio di facoltà di cui
è costituito il dominio ovvero costituisce specifico oggetto di un “jus in
re aliena” »
(Cass. 11.11.1992, n. 12133, FI, 1994, I, 205).
62
In alcune casi, peraltro, la giurisprudenza, pur mantenendo
fermi i principi sopra espressi, ha inteso escludere la legittimazione
attiva all’azione del conduttore.
« Ove la cessazione delle immissioni possa determinarsi solo mediante
l’adozione di accorgimenti comportanti la modificazione sostanziale
della conformazione dell’immobile da cui le immissioni si propagano,
venendo ad incidere sull’oggetto e perciò sull’essenza stessa del diritto
reale immobiliare del vicino, il titolare di un diritto personale di
godimento non ha sufficiente legittimazione a chiedere modifiche
operanti nei confronti del proprietario attuale e di quelle futuri,
conseguendo un’inibitoria che faccia stato anche nei confronti di
soggetti diversi dagli attuali contendenti »
(Cass. 22.12.1995,n . 13069, FI, 1996, I, 533).
L’individuazione della natura dell’azione (reale o personale)
incide anche sulla legittimazione passiva alla domanda; infatti,
legittimato passivo rispetto all’azione intentata ai sensi dell’art. 844
c.c. è l’autore dell’immissione, quando la domanda è diretta
unicamente a respingere il fatto di quest’ultimo, vale a dire a far
cessare l’attività di lui o, subordinatamente, a far ridurre le
immissioni nei limiti della tollerabilità.
« È stato ripetutamente insegnato che l’azione che il proprietario
sperimenta nel caso di missini moleste che provengono dal fondo del
vicino ha contenuto negatorio e si atteggia normalmente come azione
di natura reale, e soltanto in relazione a particolari fattispecie si è
rinvenuto il carattere meramente personale della medesima, così, ad
esempio, quando il danneggiato avanza pretese solo risarcitorie.
Ciò trova spiegazione sotto il profilo che la tutela prevista dall’art. 844
c.c., sempre che le molestie superino la normale tollerabilità, rientra nel
paradigma dell’art. 949 c.c., cioè fra quelle azioni negatorie a difesa
della proprietà, le quali non hanno, secondo quanto traspare dalla
lettere della norma ed è opinione della prevalente dottrina, il ristretto
significato di azioni tendenti solo ad evitare l’esercizio di vere e proprie
servitù sul proprio fondo, ma quello più ampio di azioni tendenti ad
impedire qualsiasi turbativa o molestia che altri commetta, vantando o
meno un corrispondente, ma inesistente, diritto, in pregiudizio del
fondo dell’attore, e, quindi, comprendono anche la particolare azione
che mira ad evitare le immissioni moleste di cui parla il citato art. 844
c.c.
Alla luce di tali principi, si è radicata la tesi che l’azione per impedire le
immissioni può essere proposta, tranne nel caso che tenda soltanto al
risarcimento dei danni, sia nei confronti dell’autore materiale delle
63
immissioni illecite, sia nei confronti del proprietario dell’immobile, dal
quale esse provengono.
Ovviamente, la domanda deve essere necessariamente proposta nei
confronti del proprietario (e facoltativamente anche nei confronti
dell’autore materiale delle immissioni che proprietario non sia e nei cui
confronti tuttavia il proprietario può sempre rivalersi), allorché l’attore
intenda che la pronuncia diretta a disporre l’eliminazione delle
immissioni consegua tutti gli effetti reali di cui è capace, come quando,
ad esempio, voglia che la pronuncia possa essere opposta in futuro agli
eventuali successori a titolo particolare del proprietario attuale »
(Cass. 13.1.1975, n. 111, FI, 1975, I, 2221).
La legittimazione passiva all’azione inibitoria (così come quelle
all’azione aquiliana) si estende anche al proprietario questi versi in
situazione di colpa rispetto alle immissioni provocate dal
conduttore.
« In ordine alla domanda con la quale il proprietario di un fondo agisca
per ottenere, ai sensi degli artt. 844 e 2043 c.c., la cessazione di
intollerabili immissioni ed il risarcimento dei danni conseguenti, la
Corte regolatrice ha riconosciuto la legittimazione passiva del
proprietario del fondo da cui provengono le immissioni stesse,
ancorché queste ultime derivino solo dalle particolari modalità di uso
del fondo da parte del conduttore medesimo.
Anche in tale ipotesi, infatti, è configurabile una responsabilità del
proprietario ove si deduca e risulti che a eccedenza delle immissioni
rispetto ai limiti legali, sia imputabile a colpa e fatto del proprietario
stesso, i quale ha concesso in locazione l’immobile con la
consapevolezza della sua destinazione ad attività di per sé molesta ai
vicini e senza essersi adoperato per impedire al conduttore di
provocare le intollerabili immissioni »
(Cass. 9.5.1983, n. 3190, GI, 1983, I, 1, 1951).
La giurisprudenza, peraltro, si è anche dovuta occupare
dell’ipotesi inversa, ovvero dell’esperibilità dell’azione anche nei
confronti del conduttore, oltreché del proprietario.
« Quanto alla legittimazione passiva - che il ricorrente afferma
competere alla sola proprietaria, anche perché le opere da eseguire
nell’immobile locato, comportandone, a suo dire, una rilevante
trasformazione, non potrebbero essere poste a carico di esso locatario osserva questa Corte, nel solco di un condiviso indirizzo
giurisprudenziale, che l’azione tendente a far valere il divieto di
immissioni eccedenti la normale tollerabilità, ex art. 844 c.c., ha
64
carattere reale e rientra nel paradigma delle azioni negatorie predisposte
a tutela della proprietà, le quali mirano a far dichiarare e sanzionare non
soltanto l’inesistenza di vere e proprie servitù vantate sul fondo
dell’attore, ma anche a far accettare, in senso più ampio, l’inesistenza di
qualsiasi diritto ed, inoltre, l’illegittimità di turbative e molestie in
danno del fondo stesso, al fine di conseguire la cessazione di queste
ultime; e pertanto, in caso di turbative e molestie consistenti in
immissioni intollerabili, può ritenersi, in concrete circostanze, che
l’azione volta a farle cessare possa essere esperita nei confronti sia del
proprietario dell’immobile che dell’autore materiale delle stesse, che
ben può essere il locatario dell’immobile dal quale provengono le
immissioni, allorquando solo allo stesso debba essere imposto un facere
od un non facere, suscettibile, in caso di diniego, di esecuzione forzata.
Consegue che alla legittimazione passiva del proprietario
dell’immobile, dal quale provengono le immissioni, può affiancarsi
quella del locatario dello stesso immobile, che sia stato con il suo
comportamento omissivo o commissivo causa delle medesime »
(Cass. 9.5.1997, n. 4086, GCM, 1997, 706).
In merito al criterio del contemperamento delle esigenze della
produzione con le ragioni della proprietà, la Corte di cassazione ha
chiarito che l’applicazione di tale criterio non implica che nelle
zone a prevalente carattere industriale le immissioni, prodotte
nell’esercizio di attività di tale natura, debbano per ciò solo
considerarsi lecite e tollerabili, potendo semmai il giudice non
disporre misure inibitorie e stabilire il pagamento di un congruo
indennizzo. La norma contenuta nell’art. 844 c.c., infatti, in quanto
tesa al contemperamento delle (eventualmente) contrapposte
ragioni della produzione e della proprietà, non appare logicamente
passibile di una interpretazione e di applicazioni comportanti il
riconoscimento della liceità di immissioni che arrivino a menomare
la stessa integrità materiale dell’oggetto dei diritti dominicali e
determinino, quindi, il completo sacrificio di tali diritti (Cass.
1.2.1993, n. 1226, NGCC, 1994, I, 280).
6.2. L’azione risarcitoria.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059.
Bibliografia: Salvi C. 1979 – Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993 – De Cesaris A. L.
1999 – Simonetti H. 2001.
65
La natura esclusivamente reale dell’art. 844 c.c. è stata in
qualche modo messa in discussione da una parte della dottrina e
della giurisprudenza che si è espressa in modo favorevole ad
un’applicazione diretta della norma in esso contenuta a prescindere
dalla titolarità in capo all’attore di un diritto di godimento
fondiario. In particolare, il problema si è originariamente posto in
relazione alla tutela del diritto alla salute, previsto nell’art. 32 Cost.
e riconosciuto come un vero e proprio diritto soggettivo perfetto,
da far valere non solo nei confronti della pubblica amministrazione
ma anche dei soggetti privati.
Sul punto, peraltro, già nell’ormai lontano 1974 era intervenuta
la
Corte
costituzionale,
riaffermando
la
legittimità
dell’interpretazione dominante della norma di cui all’art. 844 c.c.
« L’art. 844 c.c. ha lo scopo di risolvere il conflitto di interessi tra i
proprietari di fondi vicini, per le influenze negative derivanti dalle
immissioni di fumo e calore, esalazioni, rumori e scuotimenti, e non di
dare adeguata soluzione al grave problema dell’inquinamento che è
affrontato da apposite norme di diritto pubblico; pertanto è infondata
la censura di illegittimità costituzionale del citato articolo sollevata con
riferimento agli artt. 2, 3, 9, 2° co., 32, 1° co., Cost., sotto il riflesso che
la tutela non sarebbe estesa ad ogni altra persona danneggiata dalla
contaminazione ambientale prodotta dalle immissioni e sarebbe
comunque inadeguata a tutelare l’interesse pubblico della salute umana.
Resta salva in ogni caso l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. »
(Corte cost. 23.7.1974, n. 247, FI, 1975, I, 18).
Forte di tale conferma da parte della Consulta, la giurisprudenza
ha mostrato nel corso degli anni di voler mantenere fermo
l’orientamento intrapreso.
« Poiché l’art. 844 c.c. disciplina i rapporti inerenti al diritto di proprietà
dei beni immobili, dal suo ambito esulano i diritti personali, tra i quali è
da annoverare quello alla salute considerato dall’art. 32 cost., con la
conseguenza che per la tutela di quest’ultimo, in caso di denunziata
lesione dipendente da atto o fatto illecito ancorché concernente
immissioni provenienti dal fondo del vicino, venendo in
considerazione ed essendo applicabili, mediante le opportune
statuizioni riparatorie, ripristinatorie ed inibitorie, le norme dettate in
via generale dagli art. 2053 e 2058 c.c. la relativa domanda, in quanto
autonoma e distinta da quella fondata sul citato art. 844 c.c., deve essere
proposta in modo espresso, senza potersi ritenere compresa in quella
66
di natura reale intentata per l’inibizione delle immissioni a norma
dell’art. 844 c.c. »
(Cass. 11.9.1989, n. 3921, GCM, 1989, 8-9).
Non è peraltro mancato chi in dottrina ha osservato che la
struttura dell’art. 844 c.c. potrebbe consentire un’interpretazione
adeguatrice che, senza porne in discussione i tratti costitutivi
ineliminabili, consenta però la correzione di correnti canoni di
applicazione, in quanto on rispondenti ai criteri di qualificazione
delle situazioni reali desumibili in via generale dalla Costituzione.
« Tali criteri di qualificazione – costituiscono il contenuto della
funzione sociale come principio generale – possono essere definiti, per
i profili che qui interessano, con sufficiente precisione, sulla base dei
risultati dell’ampio dibattito sul modello costituzionale italiano, in
generale, e sulla disciplina dei rapporti economici, in particolare.
In primo luogo, e a differenza della concezione produttivistica che è
alla base dell’art. 844, l’interesse generale in ordine alle situazioni a
contenuto economico non si esaurisce nell’interesse all’utilizzazione
produttiva dei beni. Le esigenze della produzione non possono
pertanto costituire l’unico criterio meta-individuale di valutazione della
liceità delle immissioni industriali. In secondo luogo, la funzione
sociale implica un giudizio di potenziale conflittualità tra l’utilizzazione
privata dei beni e l’interesse (o l’utilità, o i fini) sociale. Comunque si
voglia ricostruire il significato di questo attributo, pare certo che esso
implichi quanto meno un rinvio agli interessi costituzionalmente
protetti, e tali da poter essere pregiudicati da un libero esercizio dei
diritti reali e dell’attività d’impresa: il lavoro, il paesaggio, i diritti civili,
la salute, l’esistenza libera e dignitosa di cui all’art. 41. Il qualificativo
“sociale” acquista in tal modo un contenuto normativo sufficientemente
certo – almeno quanto di più tradizionali clausole generali civilistiche,
come la buona fede o il buon costume, l’operatività delle quali non è
messa in dubbio da alcuno. È d’altra parte evidente che
l’interpretazione dominate dell’art. 844 prescinde pressoché totalmente
dalla considerazione dell’incidenza, ai sensi dell’art. 42, degli interessi
prima ricordati sulle forme di protezione della proprietà privata »
(Salvi C. 1979, 384).
Anche in giurisprudenza si sono segnalate voci parzialmente
dissonanti dall’orientamento prevalente e favorevoli ad
un’applicazione analogica della norma di cui all’art. 844 c.c., tale da
consentire al giudice di utilizzare i criteri in essa prescritti per
67
sanzionare le immissioni intollerabili danneggianti la salute delle
persone ancorché prive di titolarità sul fondo confinate.
« Il bene della salute ha carattere primario ed assoluto, e nell’ambito
della tutela dei diritti assoluti assicurata dagli art. 2043 e 2058 c.c., deve
essere protetto contro qualsiasi attività che possa menomarlo, ma
l’assolutezza e l’incomprimibilità del diritto non escludono la necessità
di accertare quali siano le condizioni obiettive nel cui contesto il diritto
viene esercitato, e se sia razionale il sacrificio totale di ogni altra
esigenza in potenziale conflitto con esso, tenuto anche conto che la
ricerca dell’effettiva esistenza della menomazione (ossia del confine tra
un’attività che reca un semplice fastidio psico-fisico ed un’attività che
determina una vera e propria menomazione di quel bene, nel senso di
dar luogo ad oggettivi fenomeni patologici fisici o psichici) non può
essere compiuta con criteri puramente astratti, che prescindano dal
concreto ambiente in cui la persona vive ed opera. Pertanto, sia al fine
di accertare la concreta sussistenza della lesione, sia al fine di stabilire le
concrete modalità della tutela, non può ritenersi ingiustificato il ricorso
all’applicazione analogica delle disposizioni dell’art. 844 c.c. in tema di
immissioni moleste, laddove fanno riferimento al criterio della
tollerabilità della molestia ed alla possibilità di estendere l’intervento
del giudice al di là della barriera dell’inibizione assoluta, in modo da
ricomprendere la determinazione dei mezzi necessari per ricondurre
l’attività aggressiva nei limiti del diritto. (Nella specie, l’occupazione di
un appartamento di un edificio in condominio aveva chiesto
l’inibizione dell’esercizio della centrale termica condominiale, ubicata
in un locale sottostante all’appartamento, poiché la rumorosità
dell’impianto recava nocumento alla sua salute; la Suprema Corte, alla
stregua del principio di cui in massima, ha ritenuto che, una volta
accertata la lesione del diritto, non fosse a priori vietato al giudice, ai
fini della tutela dello stesso, di ordinare, anziché l’inibizione dell’uso
dell’impianto nel luogo in cui si trovava, l’esecuzione di opere atte ad
eliminare i rumori o a ricondurli nei limiti della tollerabilità) »
(Cass. 6.4.1983, n. 2396, RGCT, 1983, 713).
Tale contrasto è stato peraltro alimentato dalle restrizioni
nell’interpretazione degli artt. 2043 e 2059 c.c.: dal primo, infatti,
venivano esclusi i danni di natura non prettamente economica
(quali quelli generalmente derivanti dalla lesione del diritto alla
salute), dal secondo venivano a loro volta esclusi i danni che, pur
avendo natura non patrimoniale, non rientrassero nell’ambito di
tutela risarcitoria dei casi espressamente previsti dalla legge (e
dunque sostanzialmente nelle ipotesi di reato).
68
In tale costruzione della struttura della responsabilità civile si è
inserita la nota sentenza n. 184/1986 della Corte costituzionale,
che – aderendo ad un orientamento giurisprudenziale venuto a
delinearsi nel corso del tempo – ha considerato definitivamente
superata l’interpretazione restrittiva dell’art. 2043 c.c.
« L’art. 2043 c.c., correlato ad articoli che garantiscono beni
patrimoniali, non può che esser letto come tendente a disporre il solo
risarcimento dei danni patrimoniali (in senso stretto): è per questi
motivi che, essendo il diritto privato orientato per il passato, almeno
prevalentemente, alla tutela di beni patrimoniali, lo stesso articolo è
stato dal legislatore volto alla tutela di soli beni patrimoniali e dalla
dottrina letto nel senso voluto dal legislatore del 1942.
La vigente Costituzione, garantendo principalmente valori personali,
svela che l’art. 2043 c.c. va posto soprattutto in correlazione agli articoli
dalla Carta fondamentale (che tutelano i predetti valori) e che, pertanto,
va letto in modo idealmente idoneo a compensare il sacrificio che gli
stessi valori subiscono a causa dell’illecito. L’art. 2043 c.c., correlato
all’art. 32 Cost., va, necessariamente esteso fino a comprendere il
risarcimento, non solo dei danni in senso stretto patrimoniali ma
(esclusi, per le ragioni già indicate, i danni morali subiettivi) tutti i danni
che, almeno potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della
persona umana. Ed è questo il profondo significato innovativo della
richiesta di autonomo risarcimento, in ogni caso, del danno biologico:
tale richiesta contiene un implicito, ma ineludibile, invito ad una
particolare attenzione alla norma primaria, la cui violazione fonda il
risarcimento ex art. 2043 c.c., al contenuto dell’iniuria, di cui allo stesso
articolo, ed alla comprensione (non più limitata, quindi, alla garanzia di
soli beni patrimoniali) del risarcimento della lesione di beni e valori
personali »
(Corte cost. 14.7.1986, n. 184, FI, 1986, I, 2053).
In epoca successiva, altra dottrina ha invece affermato che il
problema non riguarderebbe la costituzionalità dell’art. 844 c.c., il
quale, se esprime una logica produttivistica e si uniforma ai modelli
borghesi di tutela dell’individuo in quanto proprietario, non
esclude tuttavia di poter essere applicato per tutelare anche gli
interessi della collettività e dei singoli non proprietari pregiudicati
dalle immissioni. Nello stesso tempo, secondo tale dottrina,
sarebbe anche vero che le norme di responsabilità civile possono
assicurare soltanto una tutela risarcitoria e non preventiva e che
l’impresa, la quale provoca immissione e risponde dei danni che ne
69
conseguono, può facilmente assorbire i costi di risarcimento senza
modificare le tecniche di produzione e senza adottare misure di
prevenzione e controllo dei fattori inquinanti.
« È altrettanto chiaro (come la stessa pronuncia delal Corte
costituzionale ha posto in luce) che la lotta alla degradazione non può
condursi sulla base di strumenti del diritto privato, che riflettono, come
è ovvio, una logica che prevede solo la tutela di interessi individuali, e
non di interessi collettivi. Non è però escluso che le regole del diritto
privato (e, in particolare, gli artt. 844 e 2043 c.c.) possano essere
impiegate per integrare la disciplina penale e amministrativa che più
direttamente riguarda il problema dell’inquinamento »
(Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1994, 123).
Le sezioni unite della Corte di cassazione sono ritornate sul
problema relativo al rapporto tra tutela del diritto di proprietà e
tutela del diritto alla salute e quindi tra l’azione ex art. 844 c.c. e
quella relativa alla responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. con la
sentenza n. 10186/1998. In tale sentenza, viene sottolineata
l’esigenza di concedere una tutela più ampia ai pregiudizi connessi
con la proprietà – che sia in grado di garantire anche il rispetto di
altri valori costituzionalmente tutelati – e viene evidenziato come
l’immissione rumorosa oltre a costituire una lesione della proprietà
con riferimento al bene, deve ritenersi rilevante anche sotto
l’aspetto soggettivo connesso alla alterazione delle modalità d’uso
del bene, che incide sulle condizioni personali del proprietario,
causando però sempre una diminuzione del suo diritto dominicale.
Questo è dunque il limite dell’azione inibitoria, che deve ritenersi
diretta comunque alla tutela del solo diritto dominicale.
La Suprema Corte conferma l’orientamento ormai consolidato
in giurisprudenza sulla distinzione tra azione ex art. 844 c.c. e quella
di responsabilità aquiliana, affermando che per l’ottenimento della
tutela del diritto alla salute, leso in conseguenza di immissioni
nocive, all’azione inibitoria ex art. 844 c.c. va cumulata
necessariamente anche l’azione ex art. 2043 c.c. Dunque, pur
riconoscendo alla immissione nociva la potenzialità di ledere oltre
il diritto di proprietà anche il diritto alla salute, secondo le sezioni
unite per la protezione di quest’ultimo non è sufficiente la sola
azione inibitoria, in quanto essa, se permette di tutelare la proprietà
anche sotto il profilo del godimento pieno e pacifico della stessa,
70
non consente tuttavia la tutela del diritto alla salute, diritto
soggettivo diverso e distinto dal diritto di proprietà per la tutela del
quale è necessaria una domanda distinta e autonoma.
La Corte di Cassazione peraltro riafferma l’ammissibilità della
coesistenza in un medesimo atto delle due distinte azioni.
« L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per
conseguire l’eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni
negatorie, di natura reale, a tutela della proprietà. Essa è volta a far
accertare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il
compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per
farle cessare. L’azione inibitoria ex art. 844 c.c. può essere esperita dal
soggetto leso per consentire la cessazione delle esalazioni nocive alla
salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità aquiliana
prevista dall’art. 2043 c.c. nonché con la domanda di risarcimento del
danno in forma specifica ex art. 2058 c.c. »
(Cass. 15.10.1998, n. 10186, GCM, 1998, 2086).
Attualmente i termini della questione risultano nuovamente
mutati. Nell’ottica del (nuovo) sistema bipolare delineatosi
successivamente al 2003, infatti, la tutela del diritto alla salute
risulta essere traslata nell’art. 2059 c.c., nell’interpretazione «
costituzionalmente orientata » fornita dalla sentenza n. 233/2003 della
Consulta, insieme al danno morale soggettivo ed al danno
esistenziale; all’interno dell’art. 2043 c.c., invece, rimangono i
pregiudizi di natura strettamente patrimoniale.
Il complessivo quadro della tutela da immissioni (illecite) appare
dunque essere il seguente: tutela inibitoria ex art. 844 c.c. (con le
limitazioni alla legittimazione attiva e passiva viste nel paragrafo
precedente), tutela risarcitoria ex art. 2043 c.c. per quanto riguarda i
danni patrimoniali ed ex art. 2059 c.c. per quanto riguarda invece i
danni di natura non patrimoniale, secondo la più recente
interpretazione che di quest’ultimo è stata data dalla giurisprudenza
della Corte di cassazione e della Corte costituzionale.
7. L’indennizzo.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059.
Bibliografia: Salvi C. 1979 – Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993.
71
Si è in precedenza visto che qualora una immissione eccedente
la normale tollerabilità e cagionante un pregiudizio al fondo vicino
sia ritenuta dal giudice giustificata dalle esigenze produttive e dalle
necessità di una determinata zona – e quindi non suscettibile di
essere vietata – il proprietario del fondo vicino, che agisca per la
cessazione dell’immissioni con azione reale ex art. 844 c.c., va
compensato per il predetto pregiudizio con indennizzo da atto
lecito, identificabile con la minor produttività del suo fondo. In tale
indennizzo, peraltro, non possono essere compresi gli eventuali
danni che abbia subito la persona del proprietario, il quale potrà
agire con azione personale, invocando l’immissione come fatto
illecito, a prescindere ed indipendentemente dalla sua eventuale
illiceità nel senso indicato, nel rapporto di vicinato fra i fondi.
Parte della dottrina, tuttavia, ha criticato l’inserimento delle
immissioni giudicate non tollerabili ma lecite ex art. 844 c.c. nella
categoria degli atti dannosi ma leciti.
« A tale proposito, va notato che l’art. 844 c.c. non prevede alcun
indennizzo per il caso di immissioni intollerabili, ma ugualmente
consentite: è l’interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria che ha
individuato la formula indennitaria come conseguenza di atti danno,
ma reputati leciti. In realtà, la natura del c.d. indennizzo è pur sempre
quella di reintegrare il patrimonio del proprietario leso dalle immissioni
intollerabili, nei suoi valori economici e di godimento, e, quindi, ha
natura risarcitoria. Non ha senso, allora, individuare una figura di
indennizzo da atto dannoso lecito: le immissioni eccedenti la normale
tollerabilità restano illecite e fonte di obbligazione risarcitoria del
danno, quando danno vi sia stato. Il criterio del contemperamento
delle ragioni della proprietà con le esigenze della produzione rileva non
ai fini della qualificazione dell’attività, bensì ai fini dell’individuazione
della sanzione che il giudice dovrà applicare: inibizione dell’attività
fonte delle immissioni, ovvero – quando siano ritenute prevalenti le
ragioni dell’industria – indennizzo del danno lamentata dal privato
(anche se ciò, poi, può risolversi in una specie di corrispettivo per una
autorizzazione ad inquinare) »
(Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993, 135).
La giurisprudenza rimane in ogni caso salda sulle proprie
posizione e le sezioni unite della Corte di cassazione hanno non
molto tempo fa affermato che le previsione di un indennizzo in
sostituzione completa delle immissioni è conseguenza logica della
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creazione della servitù coattiva a favore del proprietario
immettente sul fondo immesso, data l’impossibilità della
eliminazione della causa (Cass. 19.7.1995, n. 8300, GI, 1996, I, 1,
328).
In merito alla quantificazione dell’indennizzo, in mancanza di
una espressa indicazione di criteri adottabili, la giurisprudenza ha
fatto sovente riferimento al minor reddito del fondo soggetto ad
immissioni. Tuttavia, se è vero che la giurisprudenza ha precisato
che in mancanza di una norma di legge che fissi i criteri di
determinazione dell’indennizzo dovuto al proprietario del fondo
assoggettato ad immissioni industriali lecite, ma eccedenti i limiti
della normale tollerabilità, l’adozione, da parte del giudice del
merito, di uno piuttosto che di altro criterio di liquidazione
dell’indennizzo anzidetto è denunciabile in sede di legittimità solo
sotto il profilo della completezza e coerenza della motivazione
datane (Cass. 15.1.1986, n. 184, GC, 1986, I, 2209), è altrettanto
vero che il criterio della minore produttività del fondo è spesso
stato oggetto di censure da parte della stessa Corte di cassazione.
« In tema di “immissio in alienum”, il giudice, qualora ritenga prevalenti le
esigenze della produzione, sebbene le immissioni superino il limite
della normale tollerabilità, concede al proprietario danneggiato o
molestato un indennizzo nella cui quantificazione assume rilievo
determinante la considerazione delle caratteristiche locali. Pertanto, la
misura dell’indennizzo, mentre non può essere limitata al minor
reddito derivante dal confronto fra quello che lo stesso avrebbe avuto
se le immissioni fossero state contenute nel limite massimo della
tollerabilità, poiché tale rigido criterio è estraneo alla natura della
norma contenuta nell’art. 844 cit. e limita i poteri del giudice oltre ogni
generale ragionevole direttiva, dall’altro lato, nel caso di un fondo sito
in una zona industriale, non può essere determinata considerando il
pregiudizio derivante dalla differenza tra il reddito ottenuto dal fondo
in assenza di immissioni e quello attuale, poiché, in tal modo, si
identifica la situazione delle normali condizioni abitative in una zona
industriale con quella (non rispondente alla realtà) di una totale assenza
di immissioni »
(Cass. 18.8.1981, n. 4937, GCM, 1981, 8).
La giurisprudenza ha inoltre affermato l’irrilevanza, ai fini della
determinazione dell’indennizzo, della circostanza che il fondo
danneggiato sia divenuto, nel corso del giudizio, suscettibile di una
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utilizzazione economica diversa e, in ipotesi, più vantaggiosa di
quella originaria, in quanto tale indennizzo deve essere
determinato, quando il bene è goduto direttamente dallo stesso
proprietario, in modo da ricomprendersi la riparazione del danno
derivante dalla minore o impossibile utilizzazione che del bene può
essere fatta ed avendo riguardo alla naturale destinazione originaria
di questo, alle possibili modalità di godimento del proprietario,
nonché alla maggiore o minore prevedibile durata delle immissioni
(Cass. 16.6.1987, n. 5287, RGEnel, 1988, 745).
8. I danni risarcibili.
Legislazione: cost. 2, 9, 32, 42 – c.c. 844, 2043, 2058, 2059.
Bibliografia: Salvi C. 1979 – Alpa G., Bessone M. e Carbone V. 1993 – Cendon P. 1998
– Ziviz P. 1999.
Quando venga superato il limite della liceità delle immissioni,
segnato dall’art. 844 c.c., colui che è responsabile delle medesime
versa in una situazione di colpa, ancorché faccia uso normale della
cosa fonte delle immissioni, e qualora da ciò derivi danno ad altri,
questo deve essere qualificato come ingiusto, in quanto ricorrono
tutti gli elementi della fattispecie prevista dall’art. 2043 c.c.
Come si è visto, il progressivo evolversi della giurisprudenza ha
portato dapprima a tutelare il diritto alla salute – bene
indubbiamente compromesso in caso di immissioni che superino il
limite di tollerabilità – attraverso l’applicazione dell’art. 2043 c.c.
correlato all’art. 32 Cost. La posizione assunta in proposito aveva
ricevuto il pieno avvallo della Corte costituzionale con la sentenza
n. 184/1986 che aveva confermato l’interpretazione estensiva
dell’art. 2043 c.c., la cui tutela in esso prevista non doveva essere
limitata solo ai casi di pregiudizi patrimoniali ma doveva
ricomprendere anche il risarcimento di tutti i danni che « almeno
potenzialmente, ostacolano le attività realizzatrici della persona umana ».
Il criterio secondo il quale il risarcimento del danno provocato
da immissioni illecite dovesse essere ricondotto al principio
generale del neminem laedere era stato prontamente recepito dalla
giurisprudenza di merito, con particolare attenzione per il danno
biologico.
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« Il protrarsi nel tempo di immissioni di rumore eccedenti la normale
tollerabilità determina l’insorgenza del c.d. “danno biologico”,
autonomamente risarcibile ex art. 2043 c.c., che si sostanzia nella
menomazione dell’integrità psico-fisica della persona »
(App. Milano 9.5.1996, FI, 1986, I, 2876).
La dottrina più attenta, per altro, aveva osservato che
l’ampliamento dei margini di tutela aquiliana cui era andata
incontro la salvaguardia della persona non poteva arrestarsi al
settore della salute; il riconoscimento, da parte dei giudici, di una
zona risarcitoria alternativa alle categorie tradizionali non doveva
esaurirsi nella creazione del danno biologico ed infatti, accanto a
questo, le corti di merito stavano individuando di volta in volta
nuove figure di danno (Ziviz P. 1999, 132).
E del resto era ben vero che la giurisprudenza avesse da tempo
riconosciuto l’esistenza di pregiudizi derivanti da immissioni
illecite che non incidevano direttamente solo sulla sfera psicofisica
dell’individuo ma, ad esempio, anche sul sereno svolgimento della
sua vita familiare o domestica (Trib. Milano 18.2.1988, RCP, 1988,
454; Trib. Vigevano 15.6.1979, GI, 1980, I, 2, 218). L’affermazione
operata dalla Consulta, nella già citata sentenza n. 184/1986, del
principio del diritto al risarcimento del danno conseguente alla
lesione del diritto alla « serenità domestica » forniva un primo
importante riscontro a tale indirizzo interpretativo che, due anni
dopo, veniva nuovamente confermato dalle sezioni unite della
Corte di cassazione.
« L’immissione di rumore nell’abitazione priva il proprietario ( il
titolare) della possibilità di godere nel modo più pieno e pacifico della
propria casa e incide sulle libertà di svolgere la vita domestica, secondo
le convenienti condizioni di quiete. La tutela di questo interesse non si
esaurisce con la tutela del profilo obiettivo della proprietà, in quanto
godimento delle cose implica, in fatto, il rapporto fra la persona e la
cosa »
(Cass. 15.10.1988, n. 10186, FI, 1999, I, 922).
Tuttavia, le difficoltà – di ordine più storico-psicologico che
giuridico – ad introdurre all’interno del sistema della responsabilità
civile nuove figure di danno avevano portato una parte della
giurisprudenza ad ampliare il concetto di « danno alla salute », sino a
ricomprendervi lesioni alle sfera emotiva o psichica in senso lato.
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« L’integrità della persona ed il bene primario della salute nella cui
lesione si sostanzia il suddetto danno biologico, non può essere
valutata solo in termini fisici, materialmente constatabili, ma
comprende anche la sfera emotiva e psichica, le cui sofferenze sono
meno obiettivamente misurabili ma non per questo meno reali; non
può negarsi la sussistenza di una menomazione dell’integrità psichica
derivante dalla spina irritativi costituita dalle continue aggressioni
sonore superanti il limite della tollerabilità, in quanto l’efficacia
patogenetica del rumore disturbante è dato acquisito alla scienza
medica attuale, né occorre in concreto verificarla »
(App. Milano 29.11.1991, NGCC, 1992, I, 844).
In realtà, come acutamente osservato da alcuna dottrina,
nell’esame delle sentenze analoghe a quelle della corte milanese
capitava spesso di imbattersi in tipologie di pregiudizi che nulla
avevano a che a fare, a monte, con una lesione alla salute e che
invece mostravano di tradursi, quanto al tenore delle ripercussioni,
in momenti sfavorevoli né patrimoniali né morali in senso stretto
(Cendon P. 1998, 140).
Si veniva allora formando, tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, una nuova tipologia di danno, il danno esistenziale,
diverso sia dal danno biologico inteso come lesione all’integrità
psicofisica suscettibile di accertamento medico-legale, sia dal
danno morale soggettivo rappresentato dai patimenti e dalle
sofferenze interiori dell’individuo. Tale nuova figura, invece,
comprendeva la compromissioni alla personalità dell’individuo che
si concretano in un’alterazione sostanziale dei suoi rapporti con
l’ambiente esterno familiare e sociale e trovava la propria radice
normativa non nell’art. 32 Cost. bensì nell’art. 2 Cost.
L’affermazione della piena autonomia della categoria del danno
esistenziale e della sua equiparazione – sia da un punto di vista di «
importanza » che da un punto di vista di regime probatorio – alle
altre categoria di danni di natura non patrimoniale è ormai
pienamente affermata in giurisprudenza (si veda da ultimo la
pronuncia delle sezioni unite Cass. 24.3.2006, n. 6572, in
www.personaedanno.it).
Peraltro, non erano mancati già in passato chiari richiami a tale
categoria nella giurisprudenza di merito in tema di immissioni
rumorose.
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« Un’alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di vita che
si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato,
alterando le normali attività quotidiane e provocando uno stato di
malessere psichico diffusi che, pur non sfociando in una vera e propria
malattia, provoca, tuttavia, ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle
normali occupazioni, depressione ecc.
Trattasi invero di “danno esistenziale”, consistente nell’alterazione delle
normali attività dell’individuo, qual il riposo, il relax, l’attività lavorativa
domiciliare e non, che si traducono nella lesine della “serenità personale”
cui ciascun soggetto ha diritto sia nell’ambito lavorativo, sia, a maggior
ragione, nell’ambito familiare.
A causa della lesione della sfera psichica del soggetto si alterano, in
misura più o meno rilevante, i rapporti familiari, sociali, culturali,
affettivi e nei casi più gravi può anche insorgere una vera e propria
malattia psichica; solamente in tal caso, il danno va qualificato come
biologico in senso stretto.
Perché possa ravvisarsi il “danno esistenziale” occorre che sussistano le
seguenti condizioni:
1) ingiustizia del danno secondo gli usuali parametri dell’art. 2043 c.c.;
2) nesso di causalità tra comportamento lesivo e danno che deve
tradursi i un giudizio di proporzionalità o adeguatezza tra il fatto illecito
e le conseguenze dannose;
3) consecutività temporale tra comportamento lesivo e danno.
Titolare del diritto è chiunque sia pregiudicato, nell’esplicazione delle
normali attività domestiche o lavorative dal comportamento illecito
altrui.
(Trib. Milano 21.10.1999, RCP, 1999, 1335).
Il nuovo sistema della responsabilità civile, non lascia dunque
spazio a dubbi circa la possibilità di ottenere tutela risarcitoria in
ipotesi di compromissioni alla sfera esistenziale causate da
immissioni illecite.
« La sottoposizione a rumori e vibrazioni intollerabili, che influisce
sull’umore e sul riposo delle persone, produce l’alterazione negativa
dell’approccio del singolo verso gli altri, per cui va risarcito il danno
causato dalle immissioni acustiche che non consentono all’individuo di
godere serenamente della propria abitazione e di beneficiare delle
attività che garantiscono non solo il pieno sviluppo della persona, ma
soprattutto il normale svolgersi della sfera esistenziale, quali il riposo, la
quiete, l’intrattenimento dei rapporti familiari e delle relazioni amicali,
le attività distensive e ricreative »
(Trib. Monza 2.11.2004, GC, 2004, I, 234).
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Indubbiamente,
il
complesso
sistema
delineatosi
successivamente al 2003 garantisce una maggiore tutela anche in
materia di immissioni intollerabili: risultano infatti essere superati
non solo i problemi legati al risarcimento del danno alla salute (o
per meglio dire al danno biologico in senso stretto) ma soprattutto
vengono cancellate tutte le perplessità legate ad un’estensione di
tale concetto – dovuta, da un lato, all’esigenza di tutelare pregiudizi
non strettamente correlati alla compromissione della sfera
psicofisica dell’individuo, dall’altro, dalle difficoltà di inquadrare
tali pregiudizi in una nuova categoria di danno risarcibile – in
quanto l’elaborazione della figura del danno esistenziale consente
di accordare tutela risarcitoria proprio a quelle lesioni che nulla
hanno a che vedere con attentati alla salute od alle sfera interiore
della persona che incido su altre attività realizzatrici della stessa
aventi rilievo costituzionale.