Salvatore Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault Dalla Introduzione Foucault epistemologo e genealogista Verità, soggettività, cura di sé, relazione con gli altri. Da tempo, questi temi sono oggetto della mia ricerca filosofica e lungo questa via ho presto incontrato Foucault. È scattata da allora una sintonia, una sorta di corrispondenza tra quel che cercavo e verso cui mi dirigevo e quel che trovavo nei suoi scritti. Nel parlare di Foucault parlo, dunque, anche di me. Foucault ha pensato in modo originale e non tanto, o non solo, per gli argomenti di cui trattava – mai astratti, ma radicati sempre nelle istanze del presente – ma soprattutto perché ha cambiato le modalità consuete dell’interrogare, del rispondere: in breve, ha impresso una diversa curvatura ai modi abituali di fare teoria, ha prodotto – per dirla nel suo linguaggio – un vero e proprio effetto di campo. Per questo ritengo più che mai opportuno riprendere, oggi, le fila del suo pensiero, per segnalare l’ampiezza degli effetti e mostrare quanto sia ancora fecondo per noi. Di Foucault cercherò qui di delineare, sia pure a grandi linee, le direzioni di ricerca, di analizzarne i temi peculiari – potere, soggettività, verità –; infine prenderò in considerazione le torsioni teoriche più significative del suo percorso evolutivo. La ricerca di Foucault ha preso avvio dalla questione della soggettività o meglio, se si vuole, dalla constatazione della sua crisi. Chi è – o cos’è – il soggetto? È il trascendentale? O si può parlare di una rappresentazione senza soggetto? Oppure il soggetto della rappresentazione è l’uomo? Ma l’uomo non è esso stesso oggetto di rappresentazione? Infatti, cos’altro sono le scienze umane se non i saperi che prendono a oggetto l’uomo? L’uomo dunque non coincide con l’unità della coscienza ma si frammenta nei diversi saperi, “ha composto la propria figura negli interstizi del linguaggio frantumato”, è un’invenzione recente e prossima alla fine. Questo dice Foucault. Morte dell’uomo, quindi? In ciò, certamente, il suo grande esordio. Foucault, come molti francesi di buona scuola, agli inizi ha frequentato la fenomenologia, ha preso in considerazione la psicologia fenomenologica di Binswanger; si è poi formato nel dibattito intorno all’espressione e al significato, ha indagato i nessi tra linguaggio e rappresentazione. Il suo retroterra teorico è fatto da nomi come quelli di Nietzsche, Dumézil, dalla combinazione Marx-Freud, da Heidegger. E tuttavia è il suo gusto di erudito che gli permetterà di trovare la sua vena originale e di pervenire alla piena maturità teorica. Lavorando in territorio aperto, percorrendo lo sterminato territorio dei dati materiali – le positività – Foucault si rende conto che non abbiamo a che fare con eventi immutabili, ma con entità aleatorie non riducibili ad alcuna funzione assoluta e meno che mai a ciò che la tradizione filosofica ha chiamato il trascendentale. Le positività sono storiche e perciò eventuali: ciò non toglie, però, che siano comunque strutturate e questo le rende comprensibili ed esplicabili. Da Dumézil, Foucault ha appreso la possibilità di porre i significati in catena, di rilevare corrispondenze, di costruire serie individuandone le “funzioni strutturanti” – le invarianti – e le rispettive leggi di trasformazione. Per altro verso, non bisogna dimenticare che alle spalle di Foucault c’è lo strutturalismo e nella Francia di quegli anni – e non solo in Francia – era inevitabile il confronto con Lévi-Strauss. Allora un Foucault strutturalista? Nient’affatto. Le ascendenze sono evidenti, ma l’esito è diverso, anzi in larga parte è a esse eterogeneo. Nella conclusione a L’archeologia del sapere Foucault si premura di smentire quelli che lo trattano da strutturalista e ne esibisce le ragioni. Vi è, poi, un altro versante da cui egli dipende e che riprende: conosce Bachelard, sa bene cosa significa rottura epistemologica, soglia, soprattutto discontinuità; conosce gli storici della scienza improntati a questa scuola come, per esempio, Canguilhem. Gli è familiare, infine, la storiografia francese degli “Annales” e perciò ha sotto gli occhi un fare storia diverso dai modi tradizionali: si tratta, infatti, di una storia che prende in considerazione i lunghi periodi, la produzione materiale più che i grandi eventi, ha attenzione per i dati minimi, i processi anonimi tramite cui si vengono a mano a mano strutturando le istituzioni. È muovendo da queste premesse disciplinari e teoriche che Foucault elabora la sua epistemologia. Gli eventi, nel loro infinito germinare e morire, sono riconoscibili perché è possibile ricostruire i modi e i tempi della loro formazione, identificare gli strati che li costituiscono, individuarne strutture. Un qualsiasi plesso di fenomeni si articola a diversi livelli, interseca strutture altre e ne rimane implicato: serie discrete, dunque, ma insieme unità di senso; interferenze, influenze, reciproche deformazioni, adattamenti. Una qualsiasi struttura è costituita dall’insieme delle sue procedure: è quel che fa e fa quel che è, non è mai un dato inerte, ma, al contrario, è un’unità di senso e insieme un centro di forza. Meglio una composizione di forze e – qui la lezione di Nietzsche – un luogo di scontro, di selezione tra energie vitali. Ma quel che nella storia si impone non prende piede attraverso atti di forza semplici e singolari, bensì è l’esito di strategie differenziate, di interdizioni e insieme di saperi. Tutto ciò, nel tempo, dà luogo a processi di istituzionalizzazione che si assestano, infine, in istituzioni così potenti che sembra non abbiano mai avuto nascita. In questo progressivo strutturarsi, i saperi non sono eterogenei al potere ma, al contrario, l’esercizio del potere genera saperi e il sapere si struttura e si consolida in potere. Tanto basta per comprendere perché in Foucault la teoria si trasformi in un accertamento del da dove e del come, si dispieghi effettivamente come genealogia, si formuli, formalmente, come epistemologia storica. I celebri titoli foucaultiani confermano tutto questo: “Storia della follia”, “Archeologia del sapere”, “Nascita della clinica”. Sono queste le ragioni per cui, in Foucault, l’analitica del potere è divenuta un terreno di ricerca privilegiato. Nell’affrontare la “questione del potere” Foucault non è un analista dei sistemi politici, e non fa storia delle dottrine e neppure una sociologia del potere, ma a diverso titolo è tutte queste cose insieme e anche altro: ritiene infatti che le teorie correnti di filosofia politica siano ancora implicate in larga parte nel problema della sovranità. Al contrario, “ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge e dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa al re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica”. Lo Stato infatti “è sovrastrutturale in rapporto a tutt’una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc., e tutti questi rapporti sono in una relazione di condizionante-condizionato nei confronti di una specie di metapotere che è strutturato per l’essenziale intorno ad un certo numero di grandi funzioni d’interdizione”. Il potere si distribuisce in una rete di relazioni e per darne conto è necessario dipanare queste reti, analizzare i poteri diffusi, i diversi centri di forza. Per farlo bisogna procedere a una microfisica del potere. Foucault è, dunque, epistemologo per quell’aspetto che analizza lo strutturarsi formale dei saperi, il loro costituirsi come discipline; è genealogista perché indaga sull’insieme di procedure che hanno permesso a un certo sapere piuttosto che a un altro di impiantarsi e prevalere e di mutarsi in potere. E viceversa. In questa sua analisi Foucault sta sempre sulla soglia, indugia in quell’intervallo inafferrabile, in cui poteva prendere avvio qualcosa d’altro rispetto a ciò che poi ha avuto corso, in quello spazio di silenzio in cui qualcosa è stato messo a tacere nel momento in cui cercava di accedere al linguaggio, qualcos’altro invece ha avuta accesso alla parola. Per catturare questi spazi e dar voce a questi silenzi, Foucault chiede ausilio alla metafora, diviene gongorista suo malgrado, letteralizza più che mai la sua scrittura. Ciò gli capita soprattutto in contesti teorici o astratti (come Le parole e le cose e L’archeologia del sapere); in quelli storiografici trova ausilio nell’erudizione. È noto poi che nei suoi scritti ha fatto spesso professione di antifilosofia: infatti non si definiva filosofo, ma non accettava neppure d’essere definito storico, né altro. Non amava, in generale, essere etichettato, non voleva essere costretto in un “genere letterario”, voleva essere libero da un qualsiasi statuto disciplinare che predefinendo le aspettative avrebbe impedito a molti di cogliere l’originalità del suo modo di fare teoria. Per questo di fronte a una precisa richiesta di disciplinarietà – “sei storico, filosofo o cos’altro?” – risponde: “il mio discorso non determina il luogo da cui parlo, ma addirittura evita il terreno su cui potrebbe appoggiarsi”. Non c’è un luogo specifico da cui Foucault parla e in certo senso parla da un non luogo. Per accertare, infatti, come nascono i discorsi non ci si può identificare con nessuno di essi, ma si è obbligati a tenere una posizione deangolata, a guardarli quasi di sbieco per identificare il terreno da dove essi emergono, considerare le condizioni che permettono loro di prendere avvio. Si può allora dire che Foucault abiti una terra di nessuno? Impossibile. Al contrario, egli si muove alla frontiera, corre al margine di ogni confine perché il suo è un “discorso su dei discorsi che non intende trovare in essi una legge nascosta, un’origine sepolta che non dovrebbe far altro che liberare; non intende nemmeno stabilire per se stesso la teoria generale di cui i discorsi sarebbero i modelli concreti. Si tratta di sviluppare una dispersione che non si può mai ricondurre ad un sistema unico di differenze, che non si riferisce a degli assi di riferimento assoluto; si tratta di operare un decentramento che non lascia privilegi a nessun centro”. L’antifilosofia di Foucault è un gesto filosofico che per tradizione appartiene alla filosofia: da Bacone e Cartesio – tanto per fare qualche esempio – al “filosofare con il martello” di Nietzsche. Chi, infatti, non pratica abitualmente la filosofia di raro è interessato a definirsi non filosofo, caso mai capita che ne sia attratto. Foucault si dichiara dunque antifilosofo perché vuol evitare un’etichettatura che sente convenzionale e restrittiva, ma laddove non corre questo rischio rivendica per sé la filosofia come attività, la pratica effettiva del filosofare. “Ma che cos’è dunque la filosofia oggi – voglio dire l’attività filosofica – se non lavoro critico del pensiero in se stesso? Se non consiste, invece di legittimare ciò che si sa già, nel cominciare a sapere come e fino a qual punto sarebbe possibile pensare in modo diverso?” Ma cos’è mai stata la filosofia se non sospetto dell’ovvio? L’esercizio della filosofia consiste, infatti, “nel sapere in quale misura il lavoro di pensare la propria storia può liberare il pensiero da ciò che esso pensa silenziosamente e di permettergli di pensare in modo diverso”.