Intervento di don Valentino Sartori, STSZ 18 gennaio 2011 1. Credo non ci siano pagine del vangelo in cui si possa separare con il bisturi la rivelazione che Gesù fa di sé e della propria relazione con il Padre dall’identità profonda del discepolo. Questo emerge con singolare forza nel brano ascoltato stamattina: all’autopresentazione di Gesù come vera vite corrisponde la presentazione dei discepoli come tralci. Al termine della riflessione tenterò di cogliere una possibile e feconda ricaduta ecumenica di questo rapporto efficacemente reso dalla metafora biblica/evangelica della vite. 2. Il brano ascoltato trae luce dalla cornice del discorso pronunciato da Gesù dopo la Cena (cc. 13-17), in cui viene offerta ai discepoli una sorta di intenso e toccante testamento spirituale e in cui viene evocata la situazione della comunità dei discepoli, posta di fronte all’“assenza” di Gesù, tornato al Padre. 3. Non può sfuggire la presenza nel brano di due parti: nella prima, si sviluppa in tutta la sua efficacia la metafora della vite e si esplicitano le relazioni di Gesù con il Padre (il contadino) e con i discepoli (tralci); nella seconda parte, viene offerta un’applicazione della metafora ai discepoli, con una particolare sottolineatura dell’amicizia fra Gesù e i discepoli e dei discepoli tra loro. 4. Il vangelo di oggi inizia con un’espressione indubbiamente forte (Io sono la vera vite...) e che deve tale forza ad un duplice riferimento. Intanto, la formula solenne “Io sono” rimanda all’autorivelazione divina di Es 3: con questo “io sono” i ripetuti “io sono” del Vangelo di Giovanni (pane della vita, porta delle pecore, buon pastore...) si collocano in un rapporto di ideale continuità. L’immagine della vite, poi, è nota soprattutto dalla letteratura profetica ed è ripetutamente ripresa dai vangeli: sa esprimere l’intimità dei rapporti fra Dio e il suo popolo; ora, però, è Gesù la vera vite: mentre l’infedeltà del popolo metteva sempre in forse il lato umano dell’alleanza, adesso la fedeltà di Gesù è garanzia di vita per i tralci (certo, bisognosi di purificazione e potatura). 5. La vitalità dei tralci è dovuta a tre motivi fondamentali, profondamente uniti tra loro, e che sanno evocare – se non proprio esprimere con completezza – l’ampio respiro trinitario della vita cristiana: lo stretto legame con la vite, la purificazione proveniente dalla parola di Cristo e l’opera di potatura del Padre. È davvero interessante la prospettiva che viene aperta dal vangelo: il portare frutto del discepolo è connesso con un’innegabile esigenza di purificazione, ma non è collegata alla qualità delle sue prestazioni. È anzi la spontaneità del portare frutto che dipende dalla qualità di una relazione (il reciproco rimanere) e dalla qualità della cura (la potatura del Padre). Dentro questa relazione e in piena docilità alla cura del Padre può prendere corpo il frutto della conversione. 6. Il vangelo non specifica in che cosa consista il portare frutto, ma la vicinanza espressa fra il portare frutto e il diventare discepoli (cf. v. 8) suggerisce una risposta: i due avvenimenti coincidono e in questo risplende la gloria del Padre. Colgo in tutto questo un altro sguardo significativo e promettente sulla vita cristiana. Già si è detto che essa fluisce dalla qualità di una relazione e dalla disponibilità rispetto alla cura del Padre. Ancora una volta, il portare frutto non dipende dalla perfezione di un’opera, ma dalla fattiva disponibilità a recepire il dono di una Parola che allaccia e alimenta una relazione (diventare discepoli). E ancora: mentre presenta un tipo di uomo che non ha in sé i motivi del proprio frutto, il vangelo presenta anche un Dio che non vuole avere in sé, ma nell’uomo fruttifero i motivi della propria glorificazione. In sintesi: l’uomo sbilanciato su Dio; Dio, al solo titolo della sua generosità e a motivo della sua grazia, sbilanciato sull’uomo, nella mediazione del suo Figlio. 7. Non mi soffermo molto sulla seconda parte del brano, se non per rilevare e commentare rapidamente il senso di un “come” che vi si affaccia. Il come non esprime un paragone, ma un radicamento: il radicamento dell’amore. E se questo è vero, la successione dei “come” non esprime una concatenazione sul piano dell’esemplarità, ma una logica del fluire dell’amore dal Padre ai discepoli nella mediazione di Cristo. Questo amore ha una radice eterna nella relazione che lega il Padre al Figlio (tu mi hai amato prima della creazione del mondo, Gv 17,24) e si esprime nel dono che il Padre fa del Figlio per amore del mondo (Gv 3,16). I discepoli possono così attingere ad un amore che non trova motivazioni nelle simpatie o nelle affinità elettive, ma nell’essere stati amati per primi. 8. Vengo rapidamente ad una semplice conclusione di tipo ecumenico. Mi è sempre stata cara, dell’ecumenismo, un’immagine: quella della ruota. In breve: i cristiani, come i raggi di una ruota, si avvicinano tra loro nella misura in cui si avvicinano al centro, Cristo Signore. Non credo che questa immagine, pur con i limiti di ogni immagine, sia logorata dall’uso. Anzi. Credo, invece, che mostri una nuova e promettente pertinenza a partire dal vangelo che insieme abbiamo ascoltato. Si è detto che il portare frutto buono e abbondante non è dovuto ad un genio personale o principalmente al rigore delle nostre prestazioni morali: il frutto buono è la conseguenza della qualità di un rapporto e della disponibilità ad accogliere la cura del “contadino”. Credo sia bello, fra discepoli di Cristo di confessioni diverse, riconoscerci a vicenda la bontà dei nostri frutti, riconoscere in essi la bontà del nostro discepolato e riconoscere in essi non solo l’effetto della finezza dei dialoghi che ci avvicinano, ma principalmente la forza del centro che ci attrae. V. Sartori