IN MEMORIA DEI GIUSTI
Molte furono le persone che si adoperarono, a rischio di porre a
repentaglio la propria stessa vita, per aiutare chi era perseguitato.
Sophie Scholl e
La Rosa Bianca
http://www.gariwo.net/
I ragazzi ebrei di Villa Emma a Nonantola: 1942-1943
A Villa Emma, a Nonantola,in Emilia Romagna, è stata inaugurata nell’ottobre del 2001 una mostra,
frutto della rigorosa ricerca storica condotta da Klaus Voigt; la mostra consente di ricostruire la
lunga fuga di 73 ragazzi ebrei, profughi tedeschi, austriaci, polacchi e croati e dei loro
accompagnatori attraverso l’Europa segnata da guerra e persecuzioni, fino a Nonantola, mentre
l’Italia era già occupata dai nazisti, e da lì in Svizzera.
Quando la Villa non fu più un rifugio sicuro, i ragazzi vennero nascosti nelle case dei nonantolesi, che
si offrirono di aiutarli nonostante rischiassero la vita.
Scrive Indig, il maestro che li accompagnò: “I ragazzi e le ragazze più grandi erano stati sistemati da
vari contadini. Erano sparsi per tutta Nonantola, dormivano sulla paglia, nei fienili, nelle camere, come
capitava. Alcuni nomi di abitanti di Nonantola mi sono rimasti nella memoria: Fanni, Judith, Boris… da
Erio; Helene, Victor, Ruth… da Ernesto; Flora e Leo… da Pietro”.
Grazie all’aiuto dei nonantolani, tra i quali
spiccano le figure di Don Arrigo Beccari e
Giuseppe Moreali, i mesi trascorsero
all’insegna di una normalità ristabilita,
fatta di studio, lavoro e svaghi.
Le immagini, che documentano i vari
spostamenti del gruppo - Lesno Brdo
(Slovenia), Nonantola, Bex (Svizzera),
viaggio e arrivo in Palestina - rispecchiano
i tanti momenti dell’esperienza vissuta dai
ragazzi e della possibilità che ebbero di
essere salvati, grazie alla solidarietà di tante
persone che non rimasero a “guardare”
senza reagire.
I RAGAZZI DI VILLA EMMA
In base alle testimonianze raccolte, alcuni ragazzi hanno scritto questa intervista
immaginaria, ma molto verosimile.
Nove Settembre 1942.
Ci troviamo a Nonantola (Modena), dove un gruppo di 73 ragazzi
ebrei e 18 accompagnatori è stato nascosto per sottrarli alle
persecuzioni dei nazisti. A quanto pare i ragazzi sono giunti a Villa
Emma il 17 luglio di quest’anno. La loro fuga è cominciata ormai da
molto tempo. A raccontarci i fatti è un ragazzo “di Villa Emma” il
quale, però, preferisce rimanere anonimo.
“Tutto è cominciato nell’ ottobre del 1940, quando siamo fuggiti da
Berlino (ma anche da altre città tedesche, visto che non eravamo
tutti della stessa città) per raggiungere la Palestina attraversando
la Jugoslavia e la Turchia, assistiti dalla Delasem, l’organizzazione
ebrea per l’assistenza agli emigranti. In seguito ci siamo fermati a
Zagabria, dove siamo stati ospiti di famiglie ebree.” “ Qui non ci
saranno mai le cose brutte che avvengono in Germania e in Austria”
affermava una famiglia del posto, come ci dice il nostro testimone,”
ma il 10 aprile 1941, visto che erano in arrivo i nazisti, siamo stati
costretti a spostarci verso il Nord. Per più di un anno ci siamo
fermati nel castello di Lesno Brdo, in Slovenia meridionale, annessa
all’Italia.
Si mangiava polenta condita con i cardi trovati nei campi, e si organizzò una scuola con tre classi,
perché non si potevano perdere degli anni preziosi. L’unico problema era che il castello era al centro
degli scontri tra partigiani di Tito e soldati italiani, così dovemmo partire di nuovo e abbiamo deciso di
fermarci qui a Villa Emma.”
“E’ l’unica autorizzazione all’ingresso di ebrei in Italia” dice il professore Klaus Voigt “rilasciata dal
ministero durante la guerra.”
“Quando siamo arrivati a Villa Emma” dice un altro ragazzo “mancava
tutto perché era abbandonata da vent’anni. Così Don Arrigo Beccari, il
nostro parroco e insegnante di lettere, ha portato le brandine del
seminario e il medico Giuseppe Moreali ci ha curato. Anche qui si
organizza una scuola. Una stanza viene adibita a sinagoga con i rotoli
della Torah. In seguito arrivano gli aiuti dalle comunità israelitiche. La
vita sembrava cominciare ad essere più normale: ci sentivamo più
tranquilli tra
persone che ci volevano aiutare. Abbiamo cominciato a fare il bagno nel
Panaro, quando il sole picchiava sulla pianura. Noi ragazzi abbiamo
Il mezzadro Ernesto Leonardi
cominciato a lavorare nei campi con il mezzadro Ernesto Leonardi e in
con due ragazzi ebrei davanti a Villa cambio avevamo le patate per l’inverno e imparavamo il mestiere con la
Emma
speranza di arrivare ai kibbuz, cioè delle aziende agricole in Israele
dove vivono famiglie che gestiscono insieme le terre.”
Questi ragazzi sembrano essersi ambientati a Villa Emma, ma un nuovo pericolo incombe su di loro: i
tedeschi sono in marcia verso questa zona, così è tempo di rifare i bagagli. Molti bambini piangono perché
hanno ricevuto una cartolina dai loro genitori in cui c’era scritto “Sono partito” e questo tutti sanno cosa
vuol dire, cioè che erano stati deportati. In un notte Villa Emma si svuota e trenta ragazzi e ragazze si
rifugiano nel seminario, mentre gli altri nelle case dei compaesani, dove vengono accolti calorosamente.
Questa mattina sono arrivati i tedeschi, ma non hanno fatto
rastrellamenti, forse anche loro lo sanno, ma hanno paura di una rivolta
del paese. I ragazzi sono salvi, ma non si sa per quanto ancora.
Speriamo che vada tutto bene, nell’attesa auguriamo a loro “Buona
fortuna!”.
Un gruppo di "ragazzi" tornato
a Nonantola nel 2001
IL GIARDINO DEI GIUSTI
Molte sono le persone che si sono
opposte alle leggi razziali e che hanno
cercato di proteggere, nascondere e
salvare la vita dei propri simili. Per
ricordarli, Moshe Bejski, salvato
da Oskar Schindler, ebbe l’idea di
piantare un albero e di dedicarlo ad
ogni “uomo giusto”. Lo spazio venne
scelto nella città di Gerusalemme,
presso il Mausoleo di Yad Vashem, il
luogo della memoria della Shoah. Lo
stato d’Israele nel 1953 promulgò
un’apposita legge , “per
commemorare (…) i giusti tra le
nazioni, che hanno rischiato la loro
vita per aiutare degli ebrei.“ Inoltre
nominò una commissione, la quale
nella sua attività ha nominato circa
ventimila giusti, di cui 295 italiani.
Per commemorare i Giusti tra le
Nazioni inizialmente venivano piantati
degli alberi di carrubo.
Attualmente, per mancanza di spazio,
gli alberi sono stati sostituiti da
iscrizioni su muri appositamente eretti
nel giardino.
Oggi rientrano nel novero dei “giusti”
oltre 24 mila persone.
In seguito a questa iniziativa,
sono nati nel mondo altri
giardini per commemorare le
persone che hanno voluto
difendere la giustizia e la
dignità umana; in Italia, ne è
stato aperto uno a Milano nel
2003, dove i giusti vengono
ricordati scrivendo il loro
nome e le loro opere su un
cippo in pietra.
IL RITRATTISTA DI AUSCHWITZ
L'uomo che mise in salvo le foto dell'orrore
Wilhelm Brasse era un uomo esemplare. Nacque il 3 dicembre 1917 a
Żywiec da madre polacca e padre austriaco. Da ragazzo lavorava in un
negozio di fotografia di proprietà di una zia a Katowice. Quando i nazisti
invasero la Polonia, lui si rifiutò di aderire al regime. Fu prima
imprigionato per tre mesi, poi, poiché si rifiutava di giurare fedeltà a
Hitler e osò perfino cercare di espatriare, fu deportato ad Auschwitz.
Qui ebbe un trattamento di favore rispetto agli altri prigionieri perché le
SS lo avevano assegnato a fare le foto segnaletiche agli internati e
forse perché era “ariano”.
All’ingresso del campo venivano fotografate le persone che sarebbero
state adibite al lavoro forzato, non quelle che andavano subito a morire.
Brasse dovette fotografare anche i minorenni, compresi quelli sottoposti
agli esperimenti "scientifici" di Mengele.
Brasse cercò sempre di offrire un tozzo di pane della sua razione alle
persone che doveva fotografare, spesso prima che fossero inviate
nelle camere a gas.
Brasse è morto l’anno scorso a 94 anni. Dopo la guerra ha tentato di
tornare alla fotografia, ma non è più riuscito, perché gli tornavano alla
mente le immagini degli uomini e soprattutto delle donne che è stato
costretto a fotografare. Al termine del conflitto, con i nazisti in fuga,
rischiò la vita per mettere in salvo oltre 40.000 immagini scattate, in
modo tale che servissero da prova contro i criminali autori della Shoah.
E’ vissuto facendo il salumiere, stando accanto alla famiglia che gli ha
dato due figli e cinque nipoti e accettando di testimoniare l’orrore di cui
era stato testimone nel corso di interviste, portando gli studenti a
visitare il lager e parlando nelle scuole.
E’ sopravvissuto ai nazisti per trasmetterci un messaggio di umanità:
cercare di fare tutto quanto in nostro potere per fare sì che l’umanità
non sprofondi più nel baratro dello sterminio, prevenire i genocidi,
lottare contro le nostre stesse pulsioni violente e i nostri stessi
pregiudizi.
GINO BARTALI
1914 – 2000: Il campione che salvò gli ebrei
Gino Bartali, nato a Firenze nel 1914, è stato un famoso campione di ciclismo,
vincitore di tre Giri d’Italia (nel 1936, 1937 e 1946) e due Tour de France (nel
1938 e 1948).
Dopo l'occupazione tedesca in Italia nel settembre 1943, Bartali - che era un
corriere della Resistenza - giocò un ruolo molto importante nel salvataggio degli
ebrei da parte della Delegazione per l’assistenza agli immigrati (DELASEM).
Bartali, che per allenarsi era noto coprire grandi distanze, trasportava documenti
falsi nel manubrio e nella sella della sua bicicletta, e poi li consegnava alle
famiglie dei perseguitati tra Firenze e Assisi. Quando veniva fermato e perquisito,
chiedeva espressamente che la bicicletta non venisse toccata, giustificandosi
dicendo che le diverse parti del mezzo erano state attentamente calibrate per
ottenere la massima velocità.
Sono diverse le testimonianze dell’opera di salvataggio di Bartali. Prima tra tutte
quella diGiulia Donati, una donna fiorentina che dal 1974 vive in Israele, a cui
Gino consegnò personalmente i documenti falsificati che salvarono tutta la sua
famiglia.
Un altro testimone, Renzo Ventura, ha dichiarato che, durante l’occupazione nazista, sua madre Marcella Frankenthal
Ventura aveva ricevuto documenti falsi dalle mani di Bartali, portati loro dal ciclista per conto della rete DELASEM.
Ricercato dalla polizia fascista, Bartali sfollò a Città di Castello, dove rimase cinque mesi, nascosto da parenti e amici.
Con la sua azione, Bartali ha contribuito al salvataggio di 800 persone fra il settembre 1943 e il giugno 1944. Già
medaglia d’oro al merito civile nel 2005, Gino Bartali è stato riconosciuto come Giusto tra le Nazioni da Yad Vashem il
23 settembre 2013.
GIORGIO PERLASCA
Quella di Giorgio Perlasca è la straordinaria vicenda di un uomo
che, pressoché da solo, nell’inverno del 1944-1945 a Budapest
riuscì a salvare dallo sterminio nazista migliaia di ungheresi di
religione ebraica inventandosi un ruolo, quello di Console
spagnolo, lui che non era né diplomatico né spagnolo.
Tornato in Italia dopo la guerra la sua storia non la racconta a
nessuno, nemmeno in famiglia, semplicemente perché riteneva
d’aver fatto il proprio dovere, nulla di più e nulla di meno.
Se non fosse stato per alcune donne ebree ungheresi da lui salvate
in quel terribile inverno di Budapest la sua storia sarebbe andata
dispersa. Queste donne, a fine degli anni ’80 misero sul giornale
della Comunità ebraica di Budapest un avviso di ricerca di un
diplomatico spagnolo, Jorge Perlasca, che aveva salvato loro e tanti
altri correligionari durante quei mesi terribili della persecuzione
nazista a Budapest e alla fine della ricerca ritrovarono un italiano di
nome Giorgio Perlasca.
Il destino decise che la storia di Giorgio Perlasca venisse conosciuta
e ora il suo nome si trova a Gerusalemme, tra i Giusti fra le Nazioni,
e un albero a suo ricordo è piantato sulle colline che circondano il
Museo dello Yad Vashem.
La storia di Giorgio Perlasca dimostra come per ogni individuo è
sempre possibile fare delle scelte alternative anche nelle situazioni
peggiori, in cui l’assassinio è legge di stato e il genocidio parte di un
progetto politico.
A chi gli chiedeva perché lo aveva fatto, rispondeva
semplicemente: “. . . ma lei, avendo la possibilità di fare qualcosa,
cosa avrebbe fatto vedendo uomini, donne e bambini massacrati
senza un motivo se non l’odio e la violenza?
RENATO VILLA
Ecco il racconto della figlia, Ilaria Villa:
“Un giorno, ascoltando una partitura, mi sono rivista a cinque anni, con una scatola
in mano. Dentro c’erano i timbri di mio padre: il monogramma con le sue iniziali, un
timbro delle SS e uno della Wehrmacht. Dovevo saperne di più.
Tra i documenti di papà ho trovato un elenco dei commilitoni della Libia del 1941e
un altro con gli indirizzi degli ufficiali dell’esercito britannico, ma nient’altro che
parlasse del suo passato. Poi ho avuto un altro flash, mi sono ricordata di un
quadernino con dei numeri e vari colori. Mamma non sapeva che fine avesse fatto,
e io ho aspettato di essere da sola in casa per cominciare a cercarlo.
Ho quindi trovato una vecchia Enciclopedia Bompiani e una griglia colorata con
dei numeri.. Quella che mi ricordavo. Ho fatto in tempo a ricopiare quello che
c’era scritto, e poi la carta si è sbriciolata. Tramite un conoscente che si occupa
di crittografia sono riuscita a capire cosa fosse: era la classica griglia che si appoggia
su un libro per far comparire determinate parole. Per avere un testo di riferimento
papà ha usato l’Enciclopedia Bompiani del 1938. Così è spuntato un elenco di nomi,
i nomi di quelli che mio padre ha “trasformato” in ariani falsificando i loro documenti, e che quindi ha salvato tra
l’ottobre 1943 e il dicembre 1944. Non so chi fossero o da dove provenissero quelle persone - nell’elenco si legge
anche un nome polacco - ma spero che ce l’abbiano fatta tutti.
Nel 1943 mio padre si era unito ai combattimenti di Porta San Paolo contro i nazisti, e aveva poi scelto di dedicarsi
alla falsificazione di timbri, documenti e certificati.
Un passo falso - o una delazione - attirò nuovamente l'attenzione dei nazifascisti su di lui nel dicembre 1944:
secondo alcune testimonianze per papà era pronto un ordine d'arresto, ma fortunatamente la cosa non ebbe
seguito”.
Lui non ha agito per ottenere un riconoscimento, ma per seguire la voce della coscienza. Non pensava di essere un
eroe facendo ciò che secondo lui era giusto fare.
LA CITTA’ DI ASSISI
“Noi Ebrei rifugiati in Assisi non ci dimenticheremo mai di ciò che è
stato fatto per la nostra salvezza. Perché in una persecuzione che
annientò sei milioni di Ebrei, ad Assisi nessuno di noi è stato
toccato”.
Così Il Prof. Emilio Viterbi, docente all’Università di Padova,
raccontò la sua esperienza di rifugiato ebreo in Assisi. Assieme a lui
molti furono, a partire dall’autunno 1943, gli ebrei che cercarono
rifugio ad Assisi, tentando di confondersi con le centinaia di sfollati
che arrivarono nella città di San Francesco.
Nacque così in città una vera e propria organizzazione clandestina
di soccorso agli ebrei, coordinata dal Vescovo Monsignor Giuseppe
Placido Nicolini e dal giovane Sacerdote Don Aldo Brunacci, nella
quale erano attivi anche Padre Rufino Niccacci,Michele Todde ed il
tipografo assisano Luigi Brizi insieme a suo figlio Trento.
I nascondigli preferiti, in quanto più sicuri, furono i monasteri
femminili di clausura.
Il salvataggio degli ebrei ad Assisi è raccontato in un libro, “La
società delle mandorle”. Il titolo fa riferimento alla “società delle
mandorle” di Assisi del 1300, che era gestita da un ebreo e da un
cattolico.