RU486 LA “KILL- PILL” PUNTO DI NON RITORNO
di Francesca Caracò
“Regalo” estivo: l’AIFA, Agenzia Italiana per il Farmaco, il 30 luglio 2009 ha approvato l’uso in Italia della RU486, denominata
Kill-Pill, la pillola abortiva che uccide, difatti, nel mondo finora ha provocato ben 29 decessi, fra le donne che l’hanno assunta per
interrompere la loro gravidanza. Questo articolo vuole indurre il lettore a varie riflessioni, anche sulla base del diritto .
Exelgyn, è il laboratorio farmaceutico francese che utilizza il mifepristone, steroide
sintetico, utilizzato come farmaco per l’aborto chimico, per produrre il Mifegyne o RU486, sigla
usata per questa pillola durante le prime sperimentazioni. Se si va a cercare in internet il sito della
Exelgyn si legge nella presentazione che è il “laboratorio pioniere del trattamento medico
dell’interruzione volontaria della gravidanza sia in Francia che a livello internazionale. Il
trattamento medico offre un’alternativa all’intervento chirurgico. Attualmente l’Exelgyn ha
registrato e commercializzato i suoi prodotti in più di 20 Paesi, dove l’interruzione volontaria
della gravidanza è legale e dove c'è una qualità della struttura medica e la possibilità di un
controllo rigoroso della distribuzione”.
Qual’è questa alternativa all’intervento chirurgico che offre il laboratorio? La stessa casa
farmaceutica francese dichiara che “La RU486, chiamata Mifegyne, è un medicinale che blocca
l’azione del progesterone, ormone necessario al mantenimento della gravidanza, pertanto questo
prodotto favorisce l’interruzione della gravidanza, infatti il farmaco agisce per dilatare l’orefizio
esteriore dell’utero o collo, ed è consigliato come metodo d’interruzione medicinale della
gravidanza intra-uterina evolutiva.
Si raccomanda di assumerlo entro il 63° giorno dall’ultima mestruazione e in associazione con un
altro medicinale, la prostaglandina, sostanza che aumenta le contrazioni dell’utero, che viene
somministrata 36/48 ore dopo l’assunzione del Mifegyne in ospedale.
Questo medicinale è raccomandato, inoltre, per la prepazione del collo dell’utero per
l’interruzione della gravidanza nel primo trimestre, mediante aspirazione, nella preparazione
all’azione della prostaglandina, qualora l’interruzione della gravidanza, per ragioni mediche vada
al di là del I trimestre, per indurre il travaglio nella gravidanza interrotta, morte del feto dentro
l’utero, e nel caso in cui la somministrazione di prostaglandina o ocytocina sia impossibile”.
Quindi la donna che assume questo medicinale, assiste impotente, anche se cambia idea
successivamente, alla morte in diretta di suo figlio in un punto di non ritorno.
Da quanto si evince dalle istruzioni, non è vero che l’aborto, in questo caso, è facilitato, è
indolore e rapido, come molti vorrebbero far credere. Innanzi tutto dura come minimo oltre 15
giorni, la donna che assume il Mifegyne, affronta i primi due giorni con grandi dolori, perché il
collo dell’utero si dilata mentre il farmaco attacca l’utero nel suo interno, distruggendo sia il feto
che la stessa parete dell’organo riproduttivo: ci sono stati, infatti, casi di rottura dell’utero qualora
la donna sia stata sottoposta a parto cesareo e questo è stato ammesso direttamente dalla stessa casa
farmaceutica. Nelle istruzioni è scritto che ci sono effetti indesiderati, o effetti teratogeni, quali:
vomito, diarrea, eruzioni cutanee, orticaria, febbre, setticemia fatale, morte della donna, dovuta
all’infezione del batterio “Clostridium bordelli endometriis”. Oltre a ciò, la donna deve assumere
più volte, fino all’espulsione del feto morto, la prostaglandina, quindi non solo due giorni dopo
l’assunzione del Mifegyne, ma anche successivamente, con dolori comunque forti come quelli del
parto naturale. Non solo! Se i medicinali non sono stati sufficienti ad espellere il feto, alla terza
settimana, dopo il controllo, la donna può comunque essere sottoposta ad intervento chirurgico!
Riecheggia il motto di San Tommaso d’Aquino: “Un male chiama sempre un altro male”.
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Il quotidiano “Avvenire” in un articolo di Enrico Negretti, il 23 giugno 2009, denunciava
che “uno studio della stessa azienda produttrice dell’RU486, la Exelgyn, rivela rischi poco
indagati, e non solo per l’interruzione della gravidanza. Tra gli eventi avversi anche una gamba
amputata a livello del ginocchio per un’infezione”. Negretti scrive, inoltre, che “fra il 1988 e il 28
febbraio 2009 ci sono stati nel mondo 29 decessi a causa di questo aborto chimico. Tutto è iniziato,
come si ricorda nell’articolo, da un’indagine di un padre californiano di una ragazza diciottenne
deceduta a seguito dell’assunzione del farmaco. L’Exelgin ha scritto un dossier sui pericoli del
medicinale e lo ha inviato al nostro Ministero della Salute, che a sua volta lo ha inviato all’AIFA”,
Agenzia Italiana per il Farmaco, ente di diritto pubblico. L’AIFA, che già nel 2007 aveva ricevuto,
su istanza dell’Exelgyn, la richiesta di autorizzazione per la distribuzione in Italia di tale farmaco,
ha dato l’autorizzazione il 30 luglio 2009. Inutili, finora, gli sforzi del Sottosegretario al Welfare
Eugenia Roccella, che, in questi anni, ha più volte denunciato la pericolosità del farmaco che non
aiuta la donna che vuole sottoporsi all’interruzione volontaria della gravidanza, perché sono
numerosi i casi di eventi avversi: 29 decessi sono tanti, troppi!
Ma come si è arrivati a tutto questo?
L’AIFA, Agenzia Italiana del Farmaco, come già detto sopra, e’ un ente di diritto pubblico
dotato di personalità giuridica, istituito per legge, ed opera a tutela del diritto alla salute, garantito
dall’art. 32 della Costituzione. Il 30 luglio 2009, il Consiglio di Amministrazione dell’Agenzia, ha
emanato, ex lege, l’autorizzazione alla distribuzione in Italia della RU486, come si legge dal loro
stesso comunicato stampa: “Il Consiglio di Amministrazione dell’AIFA ha deliberato
l’autorizzazione in commercio del farmaco mifepristone (Mifegyne).
La decisione assunta conclude anche in Italia quell’iter registrativo di Mutuo Riconoscimento
seguito dagli altri Paesi europei in cui il farmaco è già in commercio, interrompendone l’uso offlabel.
Il Consiglio di Amministrazione ha ritenuto di dover precisare a garanzia e a tutela della salute
della donna, che l’utilizzo del farmaco è subordinato al rigoroso rispetto della legge per
l’interruzione volontaria della gravidanza (L. 194/78). In particolare deve essere garantito il
ricovero in una struttura sanitaria, così come previsto dall’art .8 della Legge 194, dal momento
dell’assunzione del farmaco sino alla certezza dell’avvenuta interruzione della gravidanza,
escludendo la possibilità che si verifichino successivi effetti teratogeni. La stessa legge n. 194
prevede inoltre una stretta sorveglianza da parte del personale sanitario cui è demandata la
corretta informazione sul trattamento, sui farmaci da associare, sulle metodiche alternative
disponibili e sui possibili rischi, nonché l’attento monitoraggio del percorso abortivo onde ridurre
al minimo le reazioni avverse (emorragie, infezioni ed eventi fatali).
Ulteriori valutazioni sulla sicurezza del farmaco hanno indotto il CdA a limitare l’utilizzo del
farmaco entro la settima settimana di gestazione anziché la nona come invece avviene in gran parte
d’Europa. Tra la settima e la nona settimana, infatti, si registra il maggior numero di eventi avversi
e il maggior ricorso all’integrazione con la metodica chirurgica.
Il Consiglio di Amministrazione si è avvalso anche dei pareri forniti dal Consiglio Superiore di
Sanità e ha raccomandato ai medici la scrupolosa osservanza della legge.
La decisione assunta dal CdA rispecchia il compito di tutela della salute del cittadino che deve
essere posto al di sopra e al di là delle convinzioni personali di ognuno pur essendo tutte meritevoli
di rispetto.”
Il comunicato stampa AIFA genericamente afferma che il farmaco è utilizzato in gran parte
d’Europa, ma effettivamente le Nazioni che distribuiscono la RU486 e che fanno parte della
Comunità Europea sono soltanto 15 su 28 membri. La Direttiva 2001/83/CE, recante il “Codice
comunitario relativo ai medicinali per uso umano” stabilisce: “ (7)I concetti di nocività e di effetto
terapeutico possono essere esaminati solo in relazione reciproca e hanno un significato relativo,
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da valutare in base al grado di sviluppo della scienza e tenendo conto della destinazione del
medicinale; i documenti e le informazioni da presentare a corredo della domanda di autorizzazione
all’immissione in commercio devono dimostrare che il beneficio connesso all’efficacia del
medicinale prevale sui rischi potenziali”; ancora: “(14), un’autorizzazione all’immissione in
commercio di un medicinale rilasciata da uno Stato membro deve essere riconosciuta dalle autorità
competenti degli altri stati membri, salvo vi siano fondati motivi di ritenere che l’autorizzazione di
detto medicinale presenti un rischio per la sanità pubblica. In caso di disaccordo tra Stati membri
in merito alla qualità, alla sicurezza od efficacia di un medicinale, si dovrà effettuare una
valutazione scientifica del problema a livello comunitario per arrivare ad una decisione univoca
sull’oggetto del disaccordo, vincolante per gli Stati membri interessati; che tale decisione deve
essere presa secondo una procedura rapida che garantisca una stretta collaborazione tra la
Commissione e gli Stati membri”.
La sostanza di un problema giuridico, sia nazionale che internazionale, é primaria rispetto
alla forma. La tutela della salute del cittadino, sia italiano che europeo è la conditio sine qua non per
l’assorbimento giuridico dell’atto. L’iter registrativo di Mutuo Riconoscimento seguito dagli altri
Paesi europei in cui il farmaco è già in commercio, interrompendone l’uso off-label, non può
bastare considerando sia la direttiva CEE suddetta, che il principio di tutela della salute, sia nella
nostra normativa che in quella europea. Si parla di 29 decessi e di un’amputazione di una gamba.
Inoltre la pillola può essere assunta dopo sette settimane dal rapporto non protetto e l’efficacia e’
del 95% se e’ assunta entro i primi 49 giorni di gravidanza…….. cosa succede nell’altro 5%?
L’atto, ovvero l’autorizzazione AIFA, quindi, non rischia di essere nullo ex tunc per
illegittimità?
Inoltre, quale aggravio di spesa, per gli effetti collaterali, ci sarà a carico del Servizio
Sanitario Nazionale? Non è violato in questo caso il principio giuridico, sia italiano che
internazionale, della tutela della salute? Il rapporto tra benefici e costi per la sanità pubblica a
favore del cittadino, non vede un superamento dei costi rispetto ai benefici? E se questo fosse, non
sono violati anche il principio di buon andamento e correttezza della Pubblica Amministrazione
nonché quello di economicità?
D’altronde, non può bastare, l’assorbimento sic et sempliciter nel corpus iuris italiano, con
l’autorizzazione dell’AIFA, di un farmaco che, per essere buoni, lascia seri dubbi per la tutela della
salute del cittadino, anche se è distribuito in parte dell’Europa, cioè il Mutuo Riconoscimento.
Inoltre risulta un’anomalia strictu sensu tra il testo di legge istitutiva dell’AIFA e il fine della RU
486, in quanto al comma 2 dell’art.48 sancisce: “Fermo restando che il farmaco rappresenta uno
strumento di tutela della salute…”. Che tutela della salute può apportare un farmaco che provoca
ben 29 decessi? La gravidanza è una malattia? La donna che vuole abortire è considerata malata?
Sempre rifacendosi alla legge istitutiva dell’AIFA, sempre nell’art.48 comma 5 lettera d), si legge:
“all’Agenzia è affidato il compito di prevedere, nel caso di immissione di nuovi farmaci
comportanti, a parere della struttura tecnico scientifica individuata dai decreti di cui al comma 13,
vantaggio terapeutico aggiuntivo, in sedi di revisione ordinaria del prontuario, una specifica
valutazione di costo-efficacia”. La stessa AIFA ha disposto che la donna che vuole abortire sia
ricoverata in ospedale, questo per impedire l’aborto casalingo. L’RU486 non è fatta quindi per un
aborto fai da te, come da pubblicità mediatica, ma continuerà l’iter già psicologicamente doloroso
della donna, comunque sola con se stessa, in ospedale, fra i dolori fisici e morali, sottoposta ad un
bombardamento farmacologico intensivo ed oppressivo. Questi monitoraggi ospedalieri da un lato e
i danni probabili dall’altro si rifletteranno in ogni caso sui costi a carico del Servizio Sanitario
Nazionale.
Quindi, oltre ai danni morali e al mancato rispetto del principio della tutela della salute, abbiamo
dimostrato che sembra violato anche il principio di economicità.
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Questo al di là delle considerazioni meramente cattoliche, ma di diritto naturale, sul
principio della vita! Caritas in Veritate!
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