La paura negli sport da combattimento Dott.ssa Camilla C. Scalco Psicologia della popolazione sportiva • La distribuzione di alcuni fattori caratteriologici tende a condensarsi in alcune attività sportive anziché in altre. • La pratica costante ed intensa di una disciplina porta al rafforzamento di alcune abilità psicologiche e di alcuni aspetti della personalità. • L’interiorizzazione di modelli di comportamento di un dato ambiente sportivo induce delle modificazioni periferiche dell’Io dell’atleta, contribuendo a stereotipare modi di agire, atteggiamenti, valori ecc… Il pugile È l’atleta il cui profilo comportamentale è maggiormente separato da quello psicologico ed in cui la particolare attività sportiva può essere meglio spiegata sul piano delle motivazioni sociali. Il pugilato rappresenta un momento capace di risolvere, in taluni soggetti, l’ insoddisfazione legata a condizioni socio-economiche e culturali negative, che pur aumentando sensi di insicurezza e inferiorità, stimolano rivalse aggressive. Esso favorisce la realizzazione di una mobilità sociale e di una rivalsa attraverso qualche suo membro più fortunato, che diventa il realizzatore dei sogni d’affermazione del gruppo attraverso il meccanismo dell’identificazione. Alcuni autori individuano nel giovane che si avvicina al pugilato: - Desiderio di affermarsi; - Sentimenti di vendetta e rivalsa nei confronti del proprio ambiente; - Influenza del gruppo di pari; - Desiderio di diventare un campione ammirato e idealizzato; - Prospettive di realizzazione economica. Chi arriva sul ring è un individuo selezionato dalle dure leggi della palestra, una personalità sportivamente ( E NON PATOLOGICAMENTE) aggressiva, fatta di coraggio e non di astiosità. Sul piano comportamentale dunque il pugile viene “educato” dallo sport, che gli assicura un maggiore livello di adattamento e maturazione. Sul piano intrapsichico egli mostra, un insieme abbastanza definito di tratti caratteriologici. Alcuni autori sostengono che il pugile abbia uno spiccato senso della sua superiorità fisica ed un notevole bisogno di autovalorizzarsi. Ciò si rivela come meccanismo reattivo rispetto al senso (più o meno consciamente avvertito) di una profonda insufficienza vitale. Egli si presenta come timoroso, inibito, profondamente insicuro. In effetti il pugile non è come sembra: la violenza è solo una sovrastruttura compensatoria di una personalità diametralmente opposta: mediante l’ipervalutazione fisica egli rassicura un’Io minacciato ed insicuro. L’aggressività si esprime catarticamente attraverso una dinamica circolare extrapunitiva-intrapunitiva che, rispetto ai lottatori , appare sbilanciata in senso intrapunitivo. Dunque, mentre da un lato esiste nel pugile una condizione di tipo masochistico che gli fa tollerare l’aggressione altrui e quindi il rischio del danno fisico, dall’altro il superIo gli consente di esprimere attacchi sadici verso l’avversario senza provare sentimenti di colpevolezza. Il comportamento del pugile ed il suo entourage - Verso i compagni: è caratterizzato da solidarietà, abnegazione, partecipazione emotiva alle vittorie ed alle sconfitte. È socievole, sceglie come amico un pugile appartenente ad una diversa categoria di peso, sente la palestra come una seconda casa; - Verso l’Allenatore: profondo rispetto, dipendenza, idealizzazione. Il trainer è sentito come maestro nel senso più ampio: da luii vengono sia l’insegnamento dell’arte pugilistica, sia le sanzioni morali che ne generano l’assunzione come figura paterna; - Verso l’arbitro: ne riconosce l’autorità normativa sul ring; - Verso il pubblico: va dalla dipendenza emotiva all’astiosità o indifferenza. Diversamente da altri sport, nel pugilato l’atleta tende ad escludersi dalla relazione con il pubblico, anche a causa dei rischi connessi ad una eventuale distrazione durante il combattimento. Il lottatore Il lottatore esprime nelle sue doti di tenacia, pazienza, resistenza al dolore, l’esistenza di un nucleo psicologico fatto di insicurezza, inadeguatezza sociale, aggressività reattiva ed insufficienza vitale. L’esigenza di una pratica agonistica che richiede perseveranza, autocontrollo e dominio dell’aggressività, implica un elevatissimo livello delle abilità psicomotorie (reazioni pronte e veloci) e di schemi motori automatizzati ma suscettibili di adattamenti situazionali dettati dall’intelligenza. L’aggressività del lottatore ha due aspetti: uno diretto verso l’esigenza di vincere, piegare l’avversario, e l’altro espresso come bisogno intrapunitivo, cioè come forma di automortificazione che spiega la capacità soffrire e accettare le frustrazioni. Le ricerche in ambito psicologico hanno messo in evidenza, per quanto riguarda i lottatori una debolezza di interessi extrasportivi, scarsa autosufficienza, disforia, ed inibizione. I processi di attribuzione di causalità Gli esseri umani si comportano continuamente come degli scienziati. Si basano sul senso comune formulando ipotesi circa gli accadimenti della vita quotidiana per spiegarsi i fatti secondo una logica causaeffetto. L’impossibilità di spiegarsi tali eventi quotidiani genera disagio. ES. Pinuccio viene respinto all’esame di economia aziendale. Egli ha una vasta gamma di possibili spiegazioni per giustificare l’accaduto a se stesso. Potrebbe credere di avere studiato in modo poco approfondito, oppure potrebbe non aver compreso il programma di esame, addirittura potrebbe pensare di essere stato bocciato a causa di un oroscopo sfortunato! Gli psicologi sociali riconducono le possibili spiegazioni a 4 categorie principali: - Cause interne (riferite alle abilità ed alle disposizione del soggetto, es. scarsa preparazione); - Cause esterne (non dipendono dal soggetto, es. difficoltà del compito, circostanze avverse); - Cause controllabili (fattori sui quali il soggetto può influire modificando il proprio comportamento, es. il proprio livello di preparazione); - Cause instabili (fattori sui quali il soggetto non può avere controllo, es. una situazione astrale sfavorevole). A seconda di come il soggetto si spiega il proprio successo/insuccesso, egli si sentirà più o meno in grado di controllare la propria situazione personale, si sentirà più o meno fiducioso nelle proprie possibilità di autodeterminare il proprio destino. Pinuccio potrà cosi credere di : - Poter superare l’esame la volta successiva, studiando di più (cause interne modificabili); - Non poter superare l’esame a causa delle sue doti intellettive insufficienti (cause interne, non modificabili); - Poter superare l’esame soltanto se il prossimo compito sarà più facile, se l’oroscopo sarà positivo, se il professore sarà di buon umore, ecc… (cause esterne, non controllabili); Il tipo di attribuzione di causalità influenza il senso di autoefficacia del soggetto, ed il senso di autoefficacia personale determina il tipo di attribuzione di causalità. In questo senso ci possiamo spiegare l’atteggiamento di atleti diversi di fronte allo stesso risultato agonistico. Oltretutto è immediato come questi fattori non dipendano dal risultato in sé: per esempio un’atleta potrebbe attribuire il proprio successo alla fortuna o alla scarsa forma degli avversari e continuare così ad avere un basso livello di autoefficacia personale. L’aspetto sul quale focalizzare l’intervento è dunque lo stile di attribuzione di causalità dell’atleta. A parità di condizionamento fisico e tecnico, sarà vincente l’atleta più fiducioso nella propria possibilità di controllare la performance personale. Esempio: Pinco e Pallo Stesso risultato agonistico Spiegazioni diametralmente opposte Diverso livello di impegno Diverso livello di controllo dell’ansia pre-agonistica Diversa attribuzione di valore all’attività sportiva Diversa percezione del proprio valore di atleta Diversa percezione del proprio valore di persona Diverso livello di autoefficacia Diverso risultato alla performance successiva La pratica sportiva non agonistica contribuisce a migliorare il senso di autoefficacia personale negli adolescenti e nei giovani adulti. Nella pratica sportiva agonistica, un buon livello di autoefficacia è un fattore decisivo nella gestione della preparazione atletica e della competizione poiché è associato a: - Una valutazione più realistica del proprio livello di preparazione; - Una gestione migliore dell’ansia da competizione; - Una maggiore protezione rispetto a sentimenti di inadeguatezza ed inferiorità in caso di sconfitta. Il livello di autoefficacia di un atleta dipende da disposizioni di personalità ma anche dal feed-back dell’allenatore e dell’entourage sportivo. La formazione psicologica dell’allenatore Deve far conseguire un livello di maturità e di equilibrio psichico che garantisca all’atleta il controllo delle proprie dinamiche affettive. L’allenatore è per gli atleti più giovani un sostituto della figura paterna, perciò deve sentire la responsabilità del compito, sfruttare lo spontaneo ascendente, evitare di deludere. Per lo sportivo gia avviato, l’allenatore è l’amico-guida, il tiranno ed il maestro insieme. L’allenatore è sempre legato all’atleta da un rapporto affettivo ambivalente e delicato, dal cui squilibrio può dipendere un rendimento sportivo notevolmente inferiore alle effettive possibilità psicofisiche dell’atleta. La maggior parte degli allenatori considera l’atleta come un soggetto da guidare e a cui richiedere disciplina ed impegno. Spesso nel fare ciò: - proietta nell’atleta il proprio “ideale dell’Io”, deformandone così la percezione e la valutazione critica; - gli attribuisce le proprie ansie, insicurezze ed ostilità. L’atteggiamento dell’allenatore nei confronti degli atleti oscilla da in atteggiamento materno ad un paterno. Il coraggio Gli sport da combattimento necessitano di un notevole coraggio, capace di dominare non soltanto la paura ma anche le spontanee reazioni autoconservative. La reazione al pericolo ha fondamenti filogenetici: l’autoconservazione è un dato primitivo. Del resto un intensa paura di morire è un elemento fondamentale della nostra vita emotiva, per cui nessuno è libero dalla paura del pericolo della morte. Il luogo comune non riesce a comprendere la relazione che l’ “uomo appassionatamente vivo” ha con il pericolo e con la morte. Il pugile deve costantemente controllare l’ansia e la paura derivanti dall’istinto di conservazione. Gli schemi motori istintuali devono essere sostituti con il gesto tecnico. La drammatizzazione del rischio da la possibilità di agire le proprie spinte autodistruttive pur senza danneggiarsi. Il controllo del rischio si manifesta come controllo onnipotente della paura della morte. L’atto sportivo diventerebbe così un mezzo per esorcizzare la paura. L’autoaffermazione attraverso il rischio permette di superare penosi sentimenti di inadeguatezza , in quanto prova-specchio della propria esistenza. La volontà È la capacità propria dell’individuo di perseguire la sua possibilità di autodeterminarsi verso degli scopi. Per realizzarsi essa implica una libertà di scelta. La volontà è indispensabile al pugile per avere il coraggio di resistere invece di ritirarsi anche quando si accorge della propria inferiorità. L’agonismo Esso risponde all’esigenza spontanea dell’uomo di misurarsi con la natura, con il prossimo e con se stesso. L’aggressività Essa rappresenta la molla fondamentale dell’agonismo. L’agonismo è la manifestazione matura , costruttiva e creativa dell’aggressività, volta all’autorealizzazione dell’individuo. Essa tende a far uscire l’essere umano dalla passività, a portarlo a contrastare le tendenze regressive dell’aggressione. L’aggressività esiste in tutti gli esseri viventi e la sua repressione vieta qualsiasi azione connessa con lo sviluppo dell’Io: nell’uomo essa è la base del tentativo di affermarsi come individuo e di scoprire la propria identità. L’aggressività è una delle qualità più preziose ma anche più difficili da educare. Lo sport può: - integrare l’aggressività in modo produttivo; - ritualizzare l’aggressività entro modelli agonistici; - permetterne una manifestazione libera e completa. Lo sport può dunque essere ritenuto una garanzia di sicurezza!! Poiché permette di elaborare l’aggressività in maniera positiva. L’agonismo è una condizione fondamentale per acquisire identità e stabilità psicologica. Dal confronto con gli altri dipende una valida strutturazione di un’identità sociale, il concetto di sé, e la sicurezza nelle proprie capacità. All’origine si può rintracciare un senso di insufficienza vitale, che costringe l’individuo ad impegnarsi agonisticamente nella competizione sociale. La ricerca psicologica ha dimostrato l’esistenza negli atleti di elevato livello di forti frustrazioni riconducibili a vissuti infantili. Il nucleo aggressivo dell’agonismo viene manifestato contro: - La natura (difficoltà proprie dello sport specifico); - Se stesso (sottoponendosi masochisticamente a duri sacrifici per raggiungere un obiettivo ideale); - L’avversario (indispensabile per agire la competizione). Alcuni fattori che inducono il giovane alla pratica agonistica originano da problemi psicologici quali: - Sentimenti di inferiorità (per cui si impegnano in attività capaci di smentire timidezza, insicurezza, ansiosità ed ipercriticismo); - Desiderio di potenza (derivante anch’esso da inferiorità latente); - Narcisismo (massima valorizzazione di sé attraverso il successo); - Virilità come modello (ardimento e bravura proposti come ideale “maschile”). La preparazione psicologica dell’atleta L’ALLENAMENTO IDEO-MOTORIO È una tecnica comportamentale che permette lo sviluppo di una data abilità motoria esclusivamente mediante la ripetuta rappresentazione mentale del gesto o dell’azione cinetica, e cioè in assenza di ogni ricorso a specifici movimenti corporei. In genere viene eseguito in una stanza silenziosa, in penombra. La riproduzione mentale dell’azione motoria viene attivata utilizzando: - il ricordo dell’azione così come l’atleta l’ha vista compiere da altri; - sequenze fotografiche o proiezioni dell’azione per alcuni minuti prima dall’addestramento ideomotorio; - richiamo mnemonico delle istruzioni verbali del tecnico; - descrizione verbale del movimento.