Identità di genere e
media
Sociologia Generale Avanzata
Anno Accademico 2007/2008
Prof.ssa Ester Cois
Introduzione
La parità tra i sessi? Un obiettivo
raggiunto: oggi le ragazze hanno le
stesse opportunità lavorative e di vita
dei ragazzi
Basti pensare che all’università hanno
accesso a tutte le facoltà e si laureano
in misura maggiore dei loro coetanei
Le immagine stereotipate diffuse dai
media?
Un tema che sa di “vecchio”, stantio,
affrontato da studiose femministe
insoddisfatte della loro vita amorosa e
inacidite di fronte alla bellezza delle
“altre” donne, quelle perfette dipinte
dalla pubblicità
Anche gli uomini vengono ritratti come
oggetti
sessuali,
a
ulteriore
dimostrazione della parità tra i sessi
Le donne in/visibili e senza potere?
E basta con questa smania di potere!
Le donne che sacrificano la vita privata
per inseguire la carriera pagano un
prezzo troppo alto: che ne è della loro
femminilità?
Il femminismo?
Ah, sì, quando le donne andavano in
piazza a bruciare i reggiseni e
professavano l’amore libero
Questi sono alcuni dei luoghi comuni
circolanti nella nostra società, fatti propri
da donne come da uomini, per lo più da
ragazzi e ragazze appartenenti alle
nuove generazioni
Riflettono un modo di pensare volto a
minimizzare le difficoltà affrontate ogni
giorno dalle donne che lavorano e/o
hanno famiglia
Esse conducono una vita sicuramente
migliore rispetto a 30-40 anni fa, dal
punto di vista dei diritti acquisiti, ma
ancora
segnata
da
profonde
disuguaglianze tra i sessi
Sia in ambito privato, specie per quanto
concerne la divisione dei compiti
all’interno della coppia
Sia in ambito pubblico, in particolare per
la difficoltà di fare carriera
E’ inoltre inquietante constatare la
persistenza dei fenomeni delle molestie
e delle violenze sessuali che colpiscono
le ragazze e le donne in ogni
dimensione della vita quotidiana (tra le
pareti domestiche, sul luogo di lavoro,
per strada)
Va quindi scalfita quell’apparente e
spesso data per scontata eguaglianza
tra i sessi:
Se da un lato considerarla “cosa fatta”
contribuisce a nascondere perduranti e
sottili disparità e ingiustizie (e al tempo
stesso non valorizza la differenza
sessuale e le differenze di genere)
Dall’altro lato porta a offuscare tra le
giovani generazioni proprio la memoria
storica delle tante lotte condotte dalle
femministe, che hanno consentito alle
ragazze di ampliare gli orizzonti delle
loro scelte di vita
Può essere allora proficuo domandarsi:
che cosa si intende oggi per
“femminilità” o per “identità femminile”?
E per “mascolinità”
maschile”?
e
“identità
Quali sono i modelli femminili e maschili
prevalentemente diffusi dai media da
cui trarre ispirazione su come
atteggiarsi, comportarsi, “essere”?
Teniamo presente che negli ultimi decenni i
media hanno assunto sempre più rilevanza
nel fornire punti di riferimento per orientarsi,
divenendo
una
nuova
agenzia
di
socializzazione in competizione con quelle
tradizionali (famiglia, scuola, parrocchia, etc.)
I media permettono infatti ai singoli utenti di
avviare processi di autoformazione, sia nella
raccolta di informazioni, sia nella costruzione
dell’identità soggettiva
Dal momento che i media presentano
una molteplicità di situazioni, storie e
personaggi, favoriscono un processo
riflessivo del sè
Oggetto della lezione
La lezione mira a offrire una sintetica
panoramica dei dibattiti teorici e dei
risultati delle ricerche sviluppatesi a
livello nazionale e internazionale
riguardo al tema Genere e Media.
Ne emerge un quadro complesso, che
attesta le difficoltà delle donne ad
occupare spazio e rilevanza nell’arena
culturale mediatica
Notazioni generali: Genere e
Media
Si tratta di un tema emerso a partire
dagli anni ’60 e ’70 del Novecento, che
continua ad essere dibattuto con grande
vivacità intellettuale, in prevalenza nei
Paesi anglosassoni e nordeuropei
(nell’ambito dei Feminist Studies,
Women’s Studies, Gender Studies,
Feminist Media Studies, Men’s Studies,
Gay and Lesbian Studies, etc.)
Gli aspetti derivati dall’intreccio tra
“genere” e “media” affrontati in questo
lasso temporale sono molteplici:
Dalla comparazione delle posizioni
professionali occupate da donne e
uomini nelle organizzazioni dei media:
Carriere femminili e maschili
All’analisi delle immagini femminili e
maschili nei contenuti
Allo studio degli “usi” e delle
interpretazioni dei contenuti da parte dei
pubblici (audience)
Anche se la ricerca si è inizialmente
focalizzata
sul
genere
femminile
(individuando il tema “donne e media”), di
recente è aumentato l’interesse nei confronti
del processo di costruzione dell’identità
maschile e dell’identità omosessuale, sia
maschile sia femminile
Allargamento della prospettiva di questo
ambito di studi
N.B. il termine “genere” non coincide con le
“donne”: è un codice binario che, oltre a
segnare la presenza dei due sessi nella
società, implica reciprocità, sottolinea la
relazione e le interazioni tra donne e uomini
viste in una dialettica costante
Nelle ricerche ci si interroga sul ruolo assunto
dai media nell’orientare l’opinione pubblica
riguardo ai concetti di “femminilità” e di
“mascolinità”
Ai media viene attribuita grande importanza
in qualità di costruttori della realtà sociale,
poiché rendono più visibili, e quindi rafforzano
a livello simbolico, determinati comportamenti
sociali e categorie, così come ne celano o ne
mettono in secondo piano altri, decretando
gerarchie di valori
Se i primi studi erano caratterizzati da
un eccessivo allarmismo circa il potere
dei media di ostacolare il processo di
emancipazione femminile (dal momento
che la rappresentazione dei ruoli di
genere
risultava
alquanto
stereotipata)…
…i cambiamenti riscontrati via via nei
contenuti hanno rafforzato l’ipotesi che i
media potessero invece agevolare la
trasformazione della realtà sociale
Nel corso degli ultimi decenni essi
hanno diffuso e legittimato nuovi ruoli
per donne e uomini (ad es. attraverso le
immagini di donne in carriera e di
uomini teneri con i figli), e hanno
cominciato ad accogliere le differenze
identitarie
dei
soggetti
rispetto
all’orientamento sessuale (ad es.
rappresentando
gay,
lesbiche,
transessuali, etc.)
Ne deriva un’offerta attuale di modelli di
genere piuttosto ampia e diversificata,
che contribuisce a svecchiare la
concezione tradizionalistica dei sessi,
alimentando in particolare le aspirazioni
lavorative delle ragazze
Nonostante la pluralità dei modelli
femminili e maschili veicolati dai media
e la varietà delle interpretazioni offerte
da diversi tipi di pubblici, permangono
forti perplessità relative a questa
tematica espresse e discusse da
studiose e studiosi (e da professioniste
e professionisti dei media “attivisti” in
ogni parte del mondo)
1) Come attestano molte ricerche, il
messaggio prevalente (mainstream)
relativo alla femminilità diffuso dai
media implica una svalorizzazione
dell’esperienza, delle competenze e
dell’intellettualità delle donne
Ad es. sono ancora poche le donne che
rivestono ruoli di rilievo e spessore
nell’ambito
dell’informazione,
della
pubblicità o della fiction, mentre si dà
maggiore enfasi a i ruoli tradizionali e
all’aspetto fisico
2) Di conseguenza, continua ad essere
ritenuta valida l’ipotesi di una correlazione tra
questo tipo di messaggio e la minore
importanza attribuita al genere maschile
rispetto a quello maschile nella società,
attestata dal fatto che le donne fanno ancora
fatica ad arrivare ai vertici delle posizioni
sociali e professionali
Es. Esigua presenza di donne nella sfera
politica, nei ruoli dirigenziali o alla direzione
dei mezzi d’informazione nel nostro Paese
In una graduatoria di 183 Stati, l’Italia
nel 2004 era al 73° posto con l’11,05%
di donne alla Camera e l’8,01% al
Senato sul totale dei membri
Nel 2006 la situazione non è cambiata
molto, anche se da una percentuale del
10% di donne nell’intero Parlamento si
è passati al 16% e da 2 donne ministro
della scorsa legislatura si è arrivati a 6
(il 24% sul totale dei ministri)
Le dirigenti delle aziende industriali
sono il 5%, contro il 95% dei dirigenti
Le direttrici dei principali quotidiani
italiani sono il 3,2%, nelle agenzie di
stampa non superano il 5,9, nelle radio
il 4,8 e nelle televisioni l’8,5
3) Dalle ricerche emerge inoltre che le donne
che lavorano nelle organizzazioni dei media
tendono ad adeguarsi ai valori e ai punti di
vista
maschili,
invece
di
bilanciarli
proponendo una visione del mondo “al
femminile”
Dipende solo dalla mancanza di potere
decisionale?
Manca comunque una riflessione sulle
differenze di genere da parte di tutti coloro,
donne
e
uomini,
che
concorrono
professionalmente a costruire i contenuti
4) Considerando il punto di vista del
pubblico, sia femminile sia maschile,
che margine di scelta effettiva dei
contenuti ha?
In che modo può intervenire in qualità di
“opinione pubblica” per contrastare ciò
di cui non è soddisfatto, oltre a decidere
di non esporsi a quei contenuti?
Come fruitori di quotidiani e telespettatrici è
possibile provare un senso di disagio:
Quando sui giornali si leggono principalmente
dichiarazioni di politici uomini (le donne che
fanno politica saranno anche poche ma
quanta “voce” hanno?)
Quando si assiste alle riedizioni televisive
della “donna bella e stupida” (come
l’irriverente,
per
quanto
ironica,
rappresentazione delle gemelle Lecciso, La
Pupa e il Secchione, etc.)
Quando alle donne non viene data la parola
su questioni rilevanti (come nel salotto di
Bruno Vespa)
Quando le stesse donne fanno osservazioni
sul fisico delle altre donne o si contendono
l’uomo (come nei talk show condotti da Maria
De Filippi)
Quando il sogno delle ragazzine è fare le
veline a Striscia la Notizia (in una
moltiplicazione di concorsi di bellezza, oltre a
Miss Italia)
Cosa ne consegue?
E’ necessario farsi un’idea dei dibattiti in
corso sul tema “genere e media”, che solo
superficialmente può essere considerata una
problematica superata
Nella Quinta Conferenza Mondiale sulle
donne dell’ONU, svoltasi a New York nel
2005 (a dieci anni di distanza dalla
Conferenza di Pechino), è stato rinnovato
l’invito ai governi e alle organizzazioni dei
media a promuovere un’immagine meno
stereotipata delle donne e la partecipazione
delle professioniste dei media a tutti i livelli
dei processi decisionali
Questione di Sguardi:
una cornice teorica
Lo sfondo teorico in cui si inscrivono le
ricerche USA e UE su “genere e
media” consiste nelle:
a) Teorie femministe: impulso iniziale
b) Teorie dei media
Dall’intreccio tra questi due ambiti
teorici derivano diversi modi di
interpretare:
1) Le immagini femminili e maschili
2) I comportamenti dei pubblici
3) I ruoli professionali delle donne nelle
organizzazioni dei media
Si tratta di diversi “sguardi” o punti di vista,
che forniscono una determinata cornice
interpretativa (frame) ai dati “oggettivi”
ricavati dalle analisi
In base allo sguardo adottato dalle
studiose/i:
a) Negli anni ’60 e ’70 prevale il modello della
parità tra i sessi
b) Negli anni ’80 e ’90 prevale il modello della
valorizzazione femminile
c) Nella seconda metà degli anni ’90 emerge il
modello postgenere
Attualmente, tuttavia, i tre modelli
coesistono
Ripercorriamo alcune tappe che hanno
segnato la storia del pensiero di genere
e il Movimento delle donne
Il modello della parità tra i sessi
Anni ’60 e ’70
Due celebri testi ne segnano l’avvio:
a) “La mistica della femminilità”: B.
Friedan (1963)
b) “La condizione della donna”: J.
Mitchell (1966)
Denuncia
della
manipolazione
ideologica delle donne a opera dei
media
Obiettivo prioritario del Movimento
femminista: Sconfiggere la diffusione
di stereotipi mirati a confinare le donne
nel
“privato”
o
a
sfruttarne
commercialmente il corpo
Anni ’70: negli Usa si sviluppa il Women’s
Liberation Movement (WLM), che contiene due
correnti:
1) Femminismo
Liberale
(si
riallaccia
al
femminismo di fine ‘800 (Equal rights feminism):
le donne, da sempre considerate esseri inferiori,
devono condurre battaglie politiche, sociali,
economiche, per raggiungere l’uguaglianza con
l’uomo, divenendo così “esseri umani completi”
2) Femminismo Radicale: le donne non devono
imitare il modello maschile, ma valorizzare la
propria “specificità” e costruire una cultura
femminile
I concetti di uguaglianza e differenza
rappresentano i due poli tra cui oscilleranno le
successive teorie femministe
Il paradigma teorico delle prime ricerche sul
tema “donne e media” è il Femminismo
Liberale, la corrente che maggiormente
interpreta il Modello della Parità
Il genere è considerato come “neutro”: donne
e uomini sono esseri umani uguali
Dal momento che le donne (in quanto
soggetto collettivo) sono state per secoli
poste dagli uomini in condizione di inferiorità,
impossibilitate a esprimere le proprie capacità
e a fare valere i propri diritti, esse devono
riequilibrare la loro condizione, tramite riforme
e leggi a loro vantaggio
Il modello di riferimento è quello
maschile: se le donne sono state
intrappolate nell’ambito del privato, la
necessità
primaria
diventa
l’emancipazione femminile attraverso il
lavoro, sostenuta dalle battaglie per
ottenere l’accesso alle carriere maschili
e per la parità di salario a parità di
occupazione lavorativa
Aderire a questa linea di pensiero per
le studiose/i significa:
a) Confrontare i ruoli sociali in cui sono
ritratte le donne nei contenuti dei
media con quelli in cui sono ritratti gli
uomini (Role image approach)
b) Confrontare le immagini delle donne
con la realtà della condizione
femminile
Le ricerche denunciano:
ì
- Una rappresentazione femminile
stereotipata e discriminante rispetto a
quella maschile
- Lo scarto esistente tra le immagini
femminili veicolate dai media e la vita
varia e diversificata delle donne nella
realtà (proprie in quegli anni entrano in
massa nel mondo del lavoro)
Nella fiction televisiva americana la
stereotipizzazione delle donne si rivela
sotto un duplice aspetto:
a) Sono
sottorappresentate
numericamente rispetto agli uomini (e
rispetto alla quantità di donne
effettivamente presenti nella realtà)
b) Sono ritratte in un numero limitato di
ruoli (più spesso nei ruoli di madre e di
moglie, raramente in un ruolo
professionale)
Quando sono mostrate al lavoro, svolgono
occupazioni di minore prestigio rispetto agli
uomini
Sono più interessate alla vita personale piuttosto
che a quella professionale
Se hanno forti ambizioni spesso vengono
“punite” dall’insuccesso in amore
Nella pubblicità, messa sotto accusa dalle
femministe, le donne sono rappresentate
prevalentemente come casalinghe (spesso
mentre svolgono lavori domestici) oppure come
oggetti sessuali del desiderio maschile
(rivestimento erotico dei beni di consumo)
Negli spot le donne che lavorano sono
pochissime e in ruoli di poco prestigio o
subalterni agli uomini
Gaye
Tuchman
(1978)
avanza
un’ipotesi che giustifica la denuncia
sociale delle studiose/i: secondo la
reflection hypothesis i Media non
riflettono la realtà, quanto i valori e le
idee dominanti presenti nella società
Ciò che viene mostrato in televisione
sono le immagini di donna e di famiglia
ideali, in linea con i valori americani,
che nascondono intenti puramente
commerciali e ideologici
Tuchman avverte l’intento di un
annullamento simbolico delle donne da
parte dei media: convincendole che la
loro vita deve essere limitata agli affetti
familiari e alla casa, le si esclude dalle
forze produttive e dunque, a livello
simbolico, si annulla la rilevanza della
loro presenza nel mondo
La “teoria della coltivazione” (Cultivation
Theory) (Gerbner, 1972): teoria che
nell’ambito dei Media Studies avvalora
l’ipotesi di un’audience passiva, succube dei
contenuti trasmessi dalla TV
Chi guarda assiduamente la TV (heavy
viewers) non può che restare influenzato
dalle rappresentazioni della realtà che essa
propone, che tendono a rafforzare l’ordine
sociale e le idee e le categorie sociali
dominanti
Es. Si mostrano più uomini che donne; più
persone di razza bianca che nera; più
persone della middle-class che della workingclass
Se nella fiction televisiva USA lo studioso
verifica la presenza di numerosi stereotipi
sessisti, i risultati delle analisi sul pubblico vi
trovano corrispondenza: chi guarda molta
televisione dimostra di essere più sessista
rispetto a chi la guarda poco (light viewers)
Gerbner denuncia la forte resistenza culturale
da parte dei media a rappresentare i
cambiamenti
sociali,
considerando
l’immagine femminile diffusa dalla televisione
“una repressione orchestrata nei confronti
dell’avanzata economica e sociale delle
donne”
I Media sono accusati di ostacolare
l’emancipazione femminile, passando
sotto silenzio la partecipazione delle
donne
alla
vita
sociale,
non
riconoscendo l’esistenza del movimento
femminista e proponendo come modello
dominante quello tradizionalista
Si
esprime
il
timore
che
la
rappresentazione
stereotipata
del
genere femminile possa frenare le
aspirazioni
delle
ragazze,
scoraggiandole a lavorare
Altri aspetti emergenti dalle ricerche
sono
la
discriminazione
e
la
segregazione
femminile
presenti
all’interno degli apparati produttivi dei
Media:
Le
donne
risultano
fortemente
ostacolate nella carriera e in generale
occupano posizioni professionali meno
importanti di quelle occupate dagli
uomini
Ne deriva che non hanno il potere di
decidere quali contenuti trasmettere
L’ipotesi è che se si arrivasse a un
riequilibrio numerico tra professionisti e
professioniste
all’interno
delle
organizzazioni dei Media, l’immagine
femminile potrebbe migliorare
“La maggioranza di noi crede che il
sessismo nei Media scomparirà se le
donne occuperanno posizioni chiave
nella direzione e nella produzione”
(Butler, Paisley, 1980)
Anche in Italia negli anni ’70 del ‘900
emergono due correnti femministe:
a) Una maggiormente legata al modello
della parità, che si riallaccia al
movimento emancipazionista di inizio
‘800
b) Una definita Neofemminismo che,
denunciando l’oppressione maschile
sviluppatasi nell’ambito del privato,
richiama fortemente la necessità di
salvaguardare l’autonomia e la
specificità femminile
Ricerche di Gioia Di Cristofaro Longo (1985 e
1992),
promosse
dalla
Commissione
Nazionale per la realizzazione della parità tra
uomo e donna
Vi si denuncia la presenza di molti stereotipi
di genere nei contenuti dei Media (“la novità
di un’assenza di novità”)
Si invitano i cittadini a segnalare i casi di
discriminazione femminile riscontrati nelle
pubblicità
Differenza rispetto alle altre ricerche: si
presuppone nel pubblico un aumentato livello
di non accettazione di un’immagine femminile
distorta, offensiva e lesiva della dignità delle
donne
Il modello della valorizzazione femminile
Anni ’80 del ‘900
Negli USA come nei Paesi Europei, il modello
della parità viene messo fortemente in
discussione
Sulla scia del femminismo radicale si
comincia a rifiutare la politica riformista
egualitaria che porta le donne ad assimilarsi
alla logica maschile
Se sul lavoro le donne cercano di imitare i
comportamenti competitivi degli uomini, lo
fanno soffocando i valori femminili, che
vengono integrati ai valori dominanti maschili
Si avverte invece la necessità di valorizzare
la cultura femminile: l’intero apparato
culturale viene rivisto dal punto di vista delle
donne
Si inizia:
- A contestare la loro esclusione dalle varie
discipline
smascherando
l’ideologia
patriarcale
- A riscrivere la storia, la scienza, la filosofia, la
religione, la letteratura, etc., rivalutando la
produzione teorica delle donne e facendo
emergere la loro invisibile presenza (es.
Women’s Studies)
Il modello della parità viene così in parte
sostituito
dal
modello
della
Valorizzazione Femminile (Capecchi,
1993)
In questa prospettiva, l’obiettivo non è di
rendere le donne uguali agli uomini sul
piano formale, ma di ridare valore alle
differenze socialmente costruite e/o a
quelle biologiche, essenziali, esistenti
tra gli uomini e le donne
Non essere trattati egualmente, ma
essere trattati da eguali
Inoltre, uno degli assunti principali
emersi dal Femminismo anni ’80
riguarda l’importanza di considerare le
differenze di ceto, razza, età, etnia,
livello d’istruzione, etc. all’interno del
genere femminile
Entro questo modello confluiscono
due correnti femministe, a lungo
contrapposte:
a) La posizione sostenuta dalle teoriche
del gender, che ha segnato la
tradizione femminista angloamericana
b) La posizione delle teoriche della
differenza
sessuale,
nata
dal
movimento francese dell’ écriture
féminine (Cixous, Kristeva, Irigaray),
affermatasi in Europa
1975: G. Rubin introduce il concetto di
gender, che smaschera la costruzione socioculturale dei due sessi, i significati che nel
tempo sono stati attribuiti a uomini e donne,
organizzandone la divisione dei compiti e le
modalità di comportamento nell’ambito del
privato come nel sociale
La tesi della “naturale” inferiorità femminile
viene contestata
Le teoriche del gender portano alla luce
“quanto di fabbricato, costruito e non naturale
vi fosse in ciò che fino ad allora era stato
chiamato semplicemente sesso e dato per
scontato, astorico, immodificabile”.
Grazie alla “scoperta” dei generi, di un
maschile e di un femminile, la distinzione
originaria – maschio/femmina – viene
interpellata e ripensata
Ad es. (Nadotti, 1996), “perché si suppone
che le femmine siano naturalmente inclini al
sacrificio e al lavoro di cura, docili, abnegate,
passive,
accomodanti,
portate
alla
sedentarietà e alla stabilità, paurose, fragili,
bisognose di protezione, incapaci di pensiero
astratto, emotive, inaffidabili, e i maschi
naturalmente attivi, aggressivi, coraggiosi,
forti, capaci d’iniziativa e portati al movimento
e all’esplorazione, protettivi, ardimentosi,
adatti ai mestieri rudi e all’aria aperta,
razionali?”
Secondo quest’ottica la disparità tra l’uomo e
la donna non è naturale, fondata su
presupposti biologici e quindi immutabile,
bensì costruita storicamente a svantaggio del
genere femminile: al “sesso” (sex) si
contrappone il “genere” (gender).
Anche la filosofa francese L. Irigaray (1985 e
1990), teorica del pensiero della differenza
sessuale (che ha influenzato L. Muraro, e A.
Cavarero) afferma la necessità di decostruire,
a partire dai sistemi filosofici e religiosi, la
presunta neutralità e universalità di valori,
dogmi e concetti che sono invece maschili e
che rappresentano il dominio di una parte di
umanità sull’altra
La messa in discussione di un’unica verità
universale o di un pensiero neutro
totalizzante non costituisce esclusivamente
una questione di “costruzione sociale”, ma
poggia sulla differenza biologica tra i sessi,
un dato innegabile e irriducibile da cui partire
Il concetto che l’umanità è divisa in due
generi sessuati al femminile e al maschile va
al di là di una rivalutazione della “specificità
femminile” e si allarga a una teoria che
ripensa la specificità di ciascun genere,
elaborando una cultura nel rispetto dei due
generi, che ancora non esiste
Una cultura che riequilibri il potere tra i due
sessi, dando o ridando valore al genere
femminile
Le donne non devono diventare “uomini”, ma
devono avere accesso a una soggettività di
pari valore affermando la loro differenza e il
loro sguardo sul mondo
Irigaray (1985): “Perché abbia luogo l’opera
della differenza sessuale occorre, è vero, una
rivoluzione di pensiero e di etica. Tutto è da
reinterpretare nelle relazioni tra il soggetto e il
discorso, il soggetto e il cosmo, il micro e il
macrocosmo. Tutto; e per cominciare, il
soggetto si è sempre scritto al maschile,
benchè si pretendesse universale o neutro:
l’uomo”.
Il modello della valorizzazione femminile
porta a interrogarsi su come fare emergere
quella cultura, quei valori e quelle
caratteristiche
femminili
(biologiche
o
socialmente costruite) che sono state
cancellate e/o sono servite per dimostrare la
subalternità della donna all’uomo
Dalla fine degli anni ’80: anche nell’ambito del
modello della parità si è incominciato ad
accogliere il concetto di “differenza”, per le
contraddizioni che pone alle donne il cercare
di ottenere l’uguaglianza con gli uomini senza
partire dal riconoscimento delle differenze, in
positivo, esistenti tra i sessi (concetto di pari
opportunità)
I dibattiti delle femministe influenzano il
campo dei Media Studies, rendendo più
problematico il concetto di “genere”
nell’analisi di contenuto
Emergono teorie femministe specifiche sui
Media:
- il Feminist Psychoanalytic Film Criticism
(USA): Film Theory
- il Feminist Cultural Television Criticism:
Cultural Studies britannici
Il punto di vista teorico con cui analizzare
l’immagine della donna nei media diventa
quello della Differenza
Nell’analisi di contenuto non si
confrontano più i ruoli rivestiti dalle
donne con quelli degli uomini, ma viene
rivalutata la rappresentazione delle
caratteristiche
e
dei
valori
specificatamente femminili, ad es. tutto
ciò che attiene al “privato”
Anni ’80 e ’90: vengono anche segnalate
numerose “eccezioni” o “controstereotipi di
genere”, ossia immagini femminili e maschili
non
ancorate
a
una
concezione
tradizionalista dei sessi, soprattutto nella
fiction televisiva
Alcune studiose (Brow, 1990) evidenziano
come i serial polizieschi americani inizino a
mostrare le donne in ruoli e ambiti “maschili”,
e contengano frequenti momenti in cui si
entra nella zona della differenza.
Es. Policewoman, Charlie’s Angels, New York
New York, Hill Street Blues
Le protagoniste di New York New York
(Cagney & Lacey) rappresentano delle
eccezioni: sono due donne poliziotto
emancipate e intelligenti, legate da un forte
rapporto di solidarietà e amicizia
Il punto di vista femminile si insinua in queste
serie: è una rottura dell’ordine narrativo
dominante
Alle azioni maschili si sovrappongono le
conversazioni che aprono uno spazio
immaginario al femminile, in quanto
l’attenzione al privato e alle relazioni
personali fa parte del bagaglio esperenziale
delle donne
Inoltre, specie negli Audience Studios, si
pone attenzione ai processi d’interpretazione
dei testi da parte di audience femminili
inserite in specifici contesti socio-culturali,
studiate con metodi qualitativi (es. la
casalinga di Voghera)
Per quanto riguarda le donne che lavorano
negli apparati produttivi dei Media, si sostiene
che non bisogna solo aumentare il numero
delle donne nelle posizioni professionali più
autorevoli e prestigiose, ma si devono
metterne in discussione le regole e il sistema
valoriale su cui poggia l’industria dei media,
al fine di fare emergere l’esperienza, le
competenze e i valori femminili
Anche in Italia vi è questo cambiamento
di prospettiva
Un approccio di “attenzione alla
specificità” femminile, piuttosto che di
“attenzione alla discriminazione”
Es. Ricerche di Milly Buonanno sulla
fiction televisiva italiana
Attestano la presenza di una pluralità di
modelli femminili
Il modello post genere
Ultimo decennio
Ricca produzione teorica in direzione di una
decostruzione
della
dualità
binaria
maschile/femminile
L’intento delle studiose femministe postmoderne è superare le differenze di genere:
categorie socialmente costruite che rischiano
di ingabbiare donne e uomini entro confini
prestabiliti, senza tenere conto delle
scollature tra
- sesso biologico
- identità di genere
- orientamento sessuale
Non prospetta la fine delle differenze tra i
sessi
Esplora la possibilità di modificare la
concezione
di
opposizione
binaria
uomo/donna,
tenendo
conto
della
complessità del mondo attuale, dove
vengono allo scoperto crescentemente realtà
come
- omosessualità
- transgenderismo
- transessualismo
Soggetti queer che oscillano “tra i generi”,
senza
riconoscersi
nell’eterosessualità
tradizionale
Inoltre, incremento flussi migratori e
aumentata mobilità sociale: persone di
razze, etnie e culture diverse convivono
Rispetto alla teoria del gender e al
pensiero della differenza sessuale si
percorrono vie alternative, cercando di
non perdere la ricchezza delle due
posizioni
Donna
Haraway
(1991),
esponente
del
“cyberfemminismo” propone il cyborg come simbolo
della nuova soggettività femminista: né uomo né
donna, né umano né macchina, una metafora del
superamento della contrapposizione dualistica del
maschile e del femminile
Ma la figura ibrida del cyborg non significa
l’annullamento della differenza sessuale: Haraway
rivaluta la diversità tra donne (per età, ceto, razza,
etnia, orientamento sessuale, etc.) come fonte di
ricchezza politica
Incoraggia le nuove generazioni femminili ad
acquisire competenze in ambito tecnologico, perché
le nuove tecnologie rappresentano il futuro, e le
donne non possono rischiare di restarne fuori, in
termini di potere
Teresa De Lauretis (1999) definisce un
soggetto eccentrico: un soggetto
molteplice, indisciplinato, in continuo
movimento rispetto ai confini assegnati
al “femminile”; un soggetto critico e
resistente all’ideologia di genere
trasmessa da agenzie di socializzazione
come la famiglia, la scuola, i media
(tecnologie del genere, apparati che
permettono a ogni singola donna di ingenerarsi donna, identificandosi nelle
rappresentazioni
del
femminile
dominanti).
La studiosa bell hooks (1992), di fronte
agli stereotipi sessuali e razzisti diffusi
dai media occidentali rivendica la
possibilità da parte delle donne di ogni
razza di mantenere uno sguardo in
perenne
opposizione
(oppositional
gaze)
Judith Butler, esponente della Queer Theory,
decostruisce l’opposizione tra sesso (visto
come fattore immutabile) e genere (termine
usato in contrasto con tutto ciò che vi è di
biologico)
Il sesso non va disgiunto dal genere, poiché
anche il sesso è una costruzione sociale: da
quando si nasce l’identità soggettiva viene
orientata a seconda che si appartenga al
sesso maschile o femminile (cioè verso
desideri eterosessuali), ma i desideri sessuali
e il sentirsi uomini o donne spesso sono in
contrasto con il sesso biologico
In Gender Trouble (1990), sostiene che
esiste solo il genere, che è una sorta di
performance (allusione alla teatralità del
travestimento drag): le identità possono
essere facilmente cambiate, ri-significate a
piacimento
In Bodies that matter (1993), rivaluta
l’importanza che ha il corpo biologico nel
definire l’identità soggettiva, ribadendo però
la necessità di aprire varchi nella norma
eterosessuale per attivare un riassetto più
dinamico, libero e democratico delle identità
Rosi Braidotti (1994) introduce il concetto di
soggetto nomade, dall’identità complessa e
multipla, potenzialmente contraddittoria e in
continuo mutamento
“Una forma di resistenza all’assimilazione e
all’omologazione alle modalità dominanti di
rappresentazione dell’io”
Tenta di conciliare la teoria angloamericana del
gender e la teoria europea della differenza
sessuale
Scardina le categorie classiche di “uomo” e
“donna”, ma senza rinunciare al concetto di
differenza sessuale, proponendo di attraversare
diversi livelli di complessità che tengano conto
non solo delle differenze tra uomini e donne, ma
anche di quelle tra donne e di quelle esistenti
all’interno di ciascuna donna
Resta in vita il dibattito aperto da G.Rubin
sulla dicotomia sesso/genere:
a) Da un lato la posizione di chi, come
Braidotti, teme che la nuova soggettività
proposta dal femminismo postgenere sia
sessualmente indifferenziata, e dunque
torni a cancellare la specificità femminile
b) Dall’altro lato la posizione di chi, come
Butler, teme che insistere sulla differenza
sessuale possa riproporre l’ideologia
dell’”eterno femminino”, o la norma
etereosessuale, non lasciando spazio ad
altre forme di espressione dell’identità
L’aspetto peculiare del modello postgenere è
quindi la rivalutazione di ogni differenza, e la
rivendicazione di nuovi spazi di libertà per i
soggetti, al di là delle gabbie dei due generi
Attenzione
alle
diverse
espressioni
dell’identità: la cantante Madonna è stata
salutata come l’immagine-manifesto della
queer theory per la sua capacità di giocare
con l’identità di genere, apparendo di volta in
volta come la sposina vergine, l’audace
bisessuale, la donna ipermascolina o quella
iperfemminile
Nell’ultimo
decennio
sono
andate
aumentando le immagini di donne e uomini
che trasgrediscono vistosamente i canoni
tradizionali del “femminile” e del “maschile”
nei comportamenti, nel modo di vestire, di
parlare, di atteggiarsi, nelle scelte sessuali,
esulando dall’ambito dell’eccezionalità
Es. programmazione televisiva italiana. I
vincitori/trici del Grande Fratello (ed.2004 e
2005):
- una ragazza molto mascolina, sboccata e
rude
- un ragazzo provocatoriamente effeminato,
ma non gay, semplicemente “femminile”
Si tratta solo di performance, di scambio
delle parti tra uomini e donne messe in
scena
appositamente
per
“fare
audience”?
O queste immagini sono un segno di
apertura da parte delle organizzazioni
dei media a legittimare soggettività
eccentriche esistenti nel sociale?
E’ allora possibile gettare un nuovo
sguardo sui modelli femminili e maschili
proposti dai media, scoprendo come
ogni immagine
- sia multistratificata, ironica,
- alluda a un’altra
- richieda al pubblico una grande
capacità di interpretazione intertestuale
Quindi?
a)
E’ possibile suddividere idealmente le
ricerche sul tema “genere e media” in base
al tipo di sguardo adottato in sede di analisi,
derivato
dalle
correnti
femministe
maggiormente diffuse in un determinato
periodo storico
- Nelle prime ricerche (anni ’60-’70 del ‘900) si
denuncia una forte stereotipizzazione della
figura femminile in tutti i contenuti dei
media, che oltre a svalorizzare a livello
simbolico il genere femminile, non rende
conto dell’avanzata delle donne nel mondo
del lavoro
- L’adesione al modello della parità tra i
sessi porta le studiose e gli studiosi a
confrontare per quantità e qualità le
immagini femminili con quelle maschili,
prese come termine di riferimento
- Allo stesso modo, essi auspicano un
riequilibrio numerico delle professioniste
che lavorano nelle organizzazioni dei
media, dal momento che sono in netta
minoranza rispetto ai professionisti
B) Un secondo filone di ricerca si inscrive nel
modello della valorizzazione femminile
(anni’80 e ’90): viene messa in discussione la
concezione egualitaria che spinge le donne
ad assimilarsi agli uomini, invece di
valorizzare la propria specificità e diffondere
una cultura femminile
- Studiose e studiosi cominciano a evidenziare
nei contenuti dei media gli aspetti che
valorizzano il genere femminile (ad es. il
“privato” messo in primo piano o la
rappresentazione di personaggi femminili forti
e solidali tra loro)
- Inoltre, con una metodologia qualitativa ed
etnografica, esplorano i punti di vista dei
pubblici femminili
c) In altre ricerche (fine anni Novanta del
Novecento) viene adottato uno sguardo
postgenere: con questo termine facciamo
riferimento alle teoriche femministe che
cercano di decostruire la tradizionale
opposizione binaria di genere, in quanto
ritengono che “il maschile” e “il femminile”
siano costrutti socioculturali talmente rigidi da
impedire il riconoscimento sociale di gay,
lesbiche, soggetti dall’identità sessuale e di
genere indefinita come i travestiti o i
transessuali.
- Nelle analisi di contenuto l’attenzione è svolta
a smascherare ogni costrutto artificioso di
genere connesso alla rappresentazione di
“donne” e di “uomini”
Donne e uomini nella
pubblicità di ieri e di
oggi
Anni ’20-’30 del Novecento: negli USA la
donna
è
considerata
la
principale
consumatrice
La pubblicità si indirizza prevalentemente a
lei e costruisce molteplici identità femminili
nello sforzo di incrementare il suo potenziale
d’acquisto
Ad es. Prospettare alle donne la possibilità
di
a)
Riflettersi nell’immagine della madre che si
sacrifica per i figli
e anche
b)
Nell’immagine di colei che si permette
occasionalmente di soddisfare alcuni piaceri
personali
Inciti maggiormente al consumo, anziché offrire
una sola possibile identificazione
Molte
sfaccettature
della
stessa
artificiale “Mistica della femminilità”
(Myra Mc Donald, 2004; Betty Friedan,
1963)
Dopo la Prima Guerra Mondiale
(esperienze lavorative nelle fabbriche al
posto degli uomini al fronte), le donne
vengono spinte dall’industria culturale a
ritornare a casa, per occuparsi
esclusivamente
delle
mansioni
domestiche e della famiglia
a)
b)
c)
Nel periodo tra le due guerre mondiali
convivono tre costruzioni dell’identità femminile
dominanti:
La casalinga con capacità manageriali:
rivolta alle donne della middle class, perché le
donne della working-class continuavano a
lavorare fuori casa
La madre colpevole: si faceva leva
sull’insicurezza delle giovani madri al fine di
rafforzare un approccio alla maternità
tradizionale
La ragazza vivace, spregiudicata, moderna:
la giovane non ancora sposata, che lavorava
come impiegata o commessa, dal look
androgino: immagine ideale per vendere
prodotti come cosmetici e sigarette (consumi
“proibiti” o illeciti per le altre)
Pubblicità esemplare del messaggio più
diffuso, per incitare le donne a diventare
casalinghe perfette:
Mrs Happyman: electrolux (“Daily Express, 25
Marzo 1930)
“Guardate tutti! Le case trasformate e abbellite
– il problema della servitù risolto – e ogni
marito un uomo Felice, come il mio! Questo è
ciò che questo magnifico elettrodomestico
farà per voi”.
La mistica della femminilità
Anni ’50 del ‘900: si scorge di nuovo
l’intento
dell’industria culturale a
spingere le donne verso il “privato”
Betty Friedan documenta tramite
interviste la condizione delle donne
americane:
un’insoddisfazione
inspiegabile diffusa
Una bella casa, un marito adorabile, dei
figli meravigliosi: eppure si sentivano
vuote e inutili
Friedan spiega questo malessere con la
mancata realizzazione
nella vita
pubblica, professionale, perché molte di
loro avevano studiato al college e
avevano
poi
abbandonato
ogni
possibilità di realizzazione per mettere
su famiglia (Vedi Film Mona Lisa Smile)
La studiosa smaschera l’ideologia
propagandata
dalla
società
dei
consumi, accusando i pubblicitari di
diffondere una mistica della femminilità
allo scopo di confinare le donne in casa
Perché? Il motivo è evidente.
Le donne americane detenevano il 75% del potere
d’acquisto
Secondo alcune indagini di mercato la categoria di
donna che poteva rappresentare la consumatrice
ideale
- non era la professionista (una minoranza negativa
dal punto di vista dei venditori, perché troppo portata
alla critica),
- né la vera casalinga (troppo restìa ad accettare il
nuovo),
- ma – come negli anni ’30 – la “massaia moderna”
(quella che ha studiato al college e subito dopo si è
sposata). (Vedi “La fabbrica delle mogli”). Brava ad
amministrare con piglio manageriale la casa e con
interessi extra-casalinghi, pronta ad accettare l’aiuto
degli elettrodomestici per risparmiare tempo da
passare con la sua famiglia.
Friedan svela i retroscena, le tecniche
manipolatorie dei “persuasori occulti” per
spingere al consumo: le promesse della
pubblicità non bastano a colmare quel vuoto
esistenziale avvertito da così tante donne
“Ma una nuova cucina economica o la carta igienica
più morbida non fanno della donna una moglie o una
madre migliore, anche se crede d’aver bisogno
proprio di questo. Tingersi i capelli non arresta il
tempo; l’acquisto di una Plymouth non dà una nuova
identità; fumare una Marlboro non le procurerà un
invito a letto, anche se è questo ciò che crede di
volere. Ma queste promesse irrealizzate possono
alimentare in lei una fame permanente di oggetti, e
impedirle di capire di che cosa ha veramente bisogno
o che cosa vuole”
Anni ’70 del ‘900: la denuncia di Friedan
della costruzione e della diffusione da
parte dei media di una mistica della
femminilità ai danni della libera
espressione delle donne nell’ambito
pubblico ha dato il via al duro attacco
del sessismo presente nella pubblicità
da parte delle femministe.
Ricerca sulla pubblicità televisiva (National
Organization for women, 1972): le donne
sono fortemente discriminate rispetto agli
uomini
Su 2750 spot monitorati, esse sono
rappresentate per il 46% come casalinghe,
spesso mentre svolgono lavori domestici; per
il 14% in occupazioni lavorative sottomesse
agli uomini; per il 20% come donne-oggetti;
nella stessa proporzione come non intelligenti
La voce fuori campo – indice d’autorità – è
maschile per il 93% dei casi (“Perché io
valgo”: bisogno di ribadirlo, dichiararlo)
Una ricerca “accademica” della stessa epoca
(Rauch, 1972) pervenne agli stessi risultati:
su 1000 spot analizzati, il 75% usa le donne
per pubblicizzare prodotti per la cucina o il
bagno, certificando che il posto della donna è
“a
casa”;
le
donne
mostrate
in
un’occupazione extra-domestica (il 19%
contro il 44% degli uomini) svolgono per lo
più un lavoro che rende servizio agli uomini;
questi ultimi sono rappresentati soprattutto in
ruoli professionali, spesso di alto livello; la
voce fuori campo è prevalentemente
maschile (per l’87% dei casi); le donne sono
generalmente più giovani degli uomini (il 71%
contro il 43% ha un’età compresa tra i 20 e i
35 anni)
E. Goffman in Gender Advertisements (1976)
offre
un’accurata
analisi
della
rappresentazione di genere nella pubblicità
dei giornali e delle riviste popolari americane
Conferma la divulgazione di un’immagine
femminile che vuole fare apparire la donna
“naturalmente” subordinata all’uomo
Nota come tutti gli atteggiamenti in cui le
donne sono rappresentate assomiglino a
quelli dei bambini: esseri deboli, bisognosi
della guida e della protezione maschile
Gli uomini sono in genere rappresentati più
alti delle donne, in posture protettive nei loro
confronti, spesso mostrati mentre le
istruiscono
Le donne si appoggiano all’uomo con aria
sognante e sorridente: le loro mani servono
solo a toccare, tenere o accarezzare, mai a
impugnare o manipolare qualcosa, come
accade per gli uomini (es. mamme guerriere,
grottesco; swiffer, manager…degli stracci da
pulizia)
Inoltre, mentre l’immagine dell’uomo è
realistica e seria, le donne sembrano delle
modelle che recitano, no “persone” realmente
presenti nella situazione sociale in cui sono
ritratte
La conclusione è che la pubblicità non
mostra come gli uomini e le donne si
comportano realmente, ma come
dovrebbero comportarsi secondo i rituali
convenzionali approvati dalla società:
assistiamo a una standardizzazione,
semplificazione e esagerazione dei ruoli
di genere
Ossia,
il
fenomeno
dell’iperritualizzazione dei ruoli di genere, che
non ha niente di naturale
Ricerca di M. Ceulemans e G.Fauconnier
(1979): in USA come in Europa la pubblicità
veicola tre immagini principali della donna:
a) La casalinga, moglie e madre
b) La donna giovane e bella (spesso dipinta
come donna-oggetto), con il solo scopo
nella vita di attirare l’attenzione dell’uomo e
che di solito non appare competente e
intelligente
(caratteristiche
giudicate
maschili, poco seducenti in una donna)
c) La donna narcisista o autoerotica,
sensuale e cosciente della sua bellezza,
versione commerciale della donna liberata
Rispetto all’ultima immagine gli studiosi
commentano:
“ Sotto il pretesto della liberazione
sessuale, la pubblicità continua a
perpetuare l’immagine tradizionale della
donna come simbolo sessuale. Le altre
dimensioni della personalità femminile e
i numeroso modi in cui la donna
partecipa a tutte le attività della vita
contemporanea restano pressochè
assenti”
In queste ricerche (Modello della parità),
si rimarca come la pubblicità rifletta la
visione maschile della donna e si
esprime la preoccupazione che possa
frenare i cambiamenti sociali in corso (la
partecipazione delle donne alla vita
pubblica) influenzando negativamente
le ragazze, impedendo loro una presa di
coscienza dei limiti che presenta
assumere il solo ruolo di casalinga
Inoltre si sottolinea come la donna venga
doppiamente ingannata dalla pubblicità:
- è sia il soggetto del consumo, poiché a lei si
indirizza la pubblicità ed è lei che si vuole
convincere
- è anche l’oggetto del consumo, perché è
specialmente la sua immagine che viene
venduta a se stessa, ma attraverso lo
sguardo degli altri
Il paradosso della donna-oggetto: ammicca
sensuale al pubblico maschile, ma vende il
prodotto a essa associato soprattutto alle
donne, che vanno a fare la spesa (es. perché
io valgo: ti dicono come sei e perché vali, e
agli occhi di chi)
Stereotipi e controstereotipi di
genere
Tra i temi più dibattuti negli anni ’70 vi è la
costruzione
da
parte
dell’industria
pubblicitaria di sempre nuove “trappole” per
le donne, al fine di promuovere il consumo
capitalistico
La pubblicità non resta del tutto indifferente al
femminismo e all’esigenza diffusa tra le
donne di modificare i propri ruoli
Anzi, cavalca l’onda e, in continuità con le
strategie del passato, costruisce l’immagine
della
donna
moderna,
liberata
e
indipendente, utile a vendere elettrodomestici
che fanno risparmiare tempo, cosmetici,
biancheria intima e abbigliamento alla moda
per conquistare “lui”, ma anche per
autogratificarsi
Proliferano immagini femminili ambivalenti,
che sfruttano gli aspetti più superficiali delle
istanze promosse dal femminismo, come la
“rivoluzione sessuale” o l’”emancipazione
femminile attraverso il lavoro”
Esempio di “Cosmopolitan”, rivista periodica
nata nel 1964 negli USA (diffusa in UK nel
1972 e in Italia nel 1973), come interprete
della “liberazione sessuale” delle donne
Si indirizza alle giovani donne che lavorano e
che rivendicano il diritto (al pari degli uomini)
a godere appieno della sessualità, senza
inibizioni o frustrazioni, libere dai vincoli
imposti dalla tradizione
Le donna sessualmente liberata è audace,
disinibita, esperta di zone erogene maschili e
femminili, conosce mille trucchi per sedurre
gli uomini (dal sapiente uso della cosmesi agli
abiti e alla biancheria intima provocante, fino
alla preparazione di cibi afrodisiaci, etc)
Molte studiose/i hanno evidenziato il
messaggio contraddittorio veicolato
dalla rivista:
a) Da un lato è innegabile che
Cosmopolitan abbia contribuito a
svecchiare l’immagine della “casalinga”,
invitando le lettrici a riflettere sulla loro
capacità di essere soggetti attivi
all’interno della coppia
b) D’altro canto è evidente come ogni
azione della donna-cosmo sia in
funzione dell’uomo
Anche nella pubblicità italiana di quegli anni,
accanto alla regina della casa, e alla donnaoggetto, troviamo la donna moderna, che
talvolta lavora fuori casa, ma che è maniaca
del pulito e dell’igiene esattamente come la
regina della casa
Così come iniziano a comparire immagini di
uomini che accudiscono i figli piccoli o che
svolgono qualche mansione domestica,
infrangendo solo apparentemente la classica
divisione dei compiti tra i sessi (es. Nelsen
Piatti)
Dorfles
(1998):
“Carosello:
pubblicità del
Moulinex del 1975, tutta giocata con la voce fuori
campo maschile. “Esiste ancora Biancaneve?” (si
vede una ragazza vestita da Biancaneve che
accarezza una colomba). “Sì esiste, ma vive in
città e lavora. La Biancaneve dei giorni nostri è
una donna molto attiva, impegnata e dinamica,
perfettamente inserita nei problemi della realtà in
cui vive” (si vede la stessa ragazza vestita
elegante che scrive a macchina). “mi dica,
Biancaneve, lei è felice? Non rimpiange la
casetta nel bosco? Oggi vivi intensamente, con
un ritmo pressante. La tua vita è una continua
lotta contro il tempo. Però ti piace. Per questo
servono tutte le cose che fanno risparmiare
tempo. Per esempio Moulinex. Moulinex regala
tempo alla donna”.
Minestroni (1996): “La massaia sorridente e
“liberata”, proposta dai commercials televisivi,
è soltanto un mito patinato. Il sogno del
Baleno e lavoro meno è un’arma a doppio
taglio. La moderna Housewife è diventata
schiava della performance e del risultato:
vuole liquidare lo sporco impossibile e
smacchiare a fondo senza strapp, desidera
un bucato abbagliante e così bianco che più
bianco non si può, ed è quotidianamente
ossessionata dalle polveri blu che lavano di
più, dal detergente Favilla con il quale la casa
brilla, dai detersivi fantasmatici, mostruosi e
intelligenti”
Ravaioli (1978): “Un marito in grembiule
davanti a un lavandino, o un padre intento a
cambiare l’ultimo nato, certo riescono assai
meglio della solita casalinga o della solita
madre a richiamare l’attenzione sulla mirabile
potenza
di
quel
detersivo
o
sull’impareggiabile
comodità
di
quel
pannolino, al tempo stesso suscitando
l’illusione della regola infranta; ma, dicono gli
slogan, con quel detersivo “persino lui lava i
piatti”, con quel pannolino “chiunque può
farlo”: e tutto rientra nella norma”
Falabrino(1992):
“Furbamente,
il
marketing e la pubblicità cercano di
fondere
femminismo
e
bellezza,
inventando lo shampoo “libera e bella” e
adottando il nuovo linguaggio per alcuni
reggiseni, mentre in America e in Italia
le femministe bruciano questo odiati
simboli della femminilità tradizionale”
Come afferma Clelia Pallotta (2000), negli
anni a venire i pubblicitari faticheranno
sempre più a indirizzare la comunicazione
persuasiva nei confronti delle consumatrici, a
causa della frammentazione degli stili di vita
e di consumo delle donne
Durante il decennio degli anni ’80, in uno
scenario pubblicitario in cui continuano a
prevalere le immagini della casalinga e della
donna-oggetto,
aumentano
infatti
le
“eccezioni”, i controstereotipi di genere
Le caratteristiche tradizionalmente associate
a uomini e donne vengono spesso scambiate
tra i sessi, in quello che è un “gioco”, una
strategia di marketing piuttosto che una
legittimazione di nuovi ruoli sociali
Riaffiora lo stesso interrogativo: la
pubblicità ostacola i cambiamenti sociali
o contribuisce ad accelerarli?
L’adesione al modello della valorizzazione
femminile induce studiose/i a evidenziare nei
contenuti dei media la presenza di elementi
modernizzanti, piuttosto di concentrare
l’attenzione sugli aspetti che continuano a
discriminare il genere femminile
Inoltre si comincia a pensare che gli stereotipi
di genere diffusi dalla pubblicità non abbiano
in realtà impedito alle nuove generazioni
femminili, come si temeva nei ’70, di avviarsi
verso percorsi di autonomia nell’ambito
dell’istruzione e del mondo del lavoro
Vari studi sul pubblico di entrambi i sessi
condotti a cavallo tra gli anni ’70 e ’80,
mettono in luce l’esistenza di una percezione
più articolata e positiva dell’immagine delle
donne (ad es. giudicate forti, intelligenti,
professionali, ecc.) di quanto non risulti
dall’analisi di contenuto, e riscontrano un
livello minore di sessismo rispetto a quello
presentato dai media
Aumenta perciò la fiducia nella capacità
critica del pubblico
Lo sguardo sulle immagini di donne e uomini risulta
però attento a cogliere le contraddizioni insite nei
messaggi veicolati
Es. la pubblicità degli ’80, specie quella delle riviste
di moda femminili, lancia l’immagine della donna in
carriera vestita con il tailleur di taglio severo,
manageriale, maschile
La moda che allude all’avanzata delle donne nel
mondo del lavoro propone la donna vestita al
maschile, prendendo a prestito dagli uomini
indumenti come completo giacca-pantalone,
cravatta, cappello, bretelle e accessori come la
valigetta portadocumenti o addirittura i sigari
Il “travestimento” in panni maschili interpreta e
simbolicamente traduce l’aspirazione delle donne a
divenire pari agli uomini nell’ambito professionale,
attestando lo stesso grado di capacità e
autorevolezza
E’ però possibile notare come entro questo
tipo di immagini si aggiungano molti elementi
tipicamente
femminili,
indici
di
eterosessualità: camicie di pizzo, labbra
lucide di rossetto o unghie laccate servono a
sdrammatizzare
l’assunzione
dei
ruoli
maschili da parte delle donne
Inoltre, se spesso nella pubblicità le donne si
vestono, si pettinano e si atteggiano al
maschile, apparendo dure, mascoline e
sicure di sé, ciò paradossalmente non fa che
accrescere il potere di seduzione femminile
tutto giocato sull’ambiguità e l’androginia
Viceversa, si assiste alla femminilizzazione del
genere maschile, nelle immagini di uomini che si
profumano, si mettono creme dopobarba e
denudano il corpo divenendo talvolta uominioggetto, stavolta dei desideri femminili
Uomini sexy, talvolta eterei o sessualmente
ambigui, che evocano una zona di confine tra
autoerotismo e omosessualità, ma che il più delle
volte mettono in mostra corpi muscolosi, a ribadire
la propria virilità (Caligaris, 19979
E proliferano le immagini di uomini nel ruolo di
marito, talvolta impegnato in compiti domestici
come cucinare o lavare i piatti, e di padre
affettuoso con i figli, sebbene spesso gli uomini
dipinti in questi ruoli risultino imbranati, non del
tutto adatti a ricoprirli
Durante gli anni ’80 prosegue la tendenza a
mostrare immagini che evocano scambi di ruolo tra
i sessi, esulando in termini quantitativi dalle
“eccezioni”
La pubblicità cerca di convincere le donne che
l’uguaglianza tra i sessi è stata finalmente
raggiunta,
e
propone
l’immagine
della
superwoman:
una
donna
indipendente
e
seducente, capace di avere tutto sotto controllo
nella vita privata, nel lavoro e nel sociale
La pubblicità incarna fantasie femminili di vendetta
contro l’uomo e di potere al femminile, mostra le
donne alla guida di auto, che bevono alcolici, che si
abbracciano tra loro mimando relazioni lesbiche,
che occupano posizioni professionali elevate con
uomini alle loro dipendenze (es. campari Red
passion)
Un’utopia costruita a tavolino, per cui si vuole
fare credere alla donna di poter fare ciò che
vuole , sempre con il fine ideologico
sotterraneo di incrementare i consumi
Es. pubblicità cosmetici P. Milton, diretti a
“una donna sicura delle proprie scelte”; delle
calze Sisì “mettile a dura prova”, o del
profumo Valentino Vendetta Pour Femme
Questo tipo di figura va a sostituire
l’immagine obsoleta della casalinga-mogliemadre,
che
scompare
pressochè
completamente dalle riviste periodiche
femminili
Se le immagini della casalinga diminuiscono,
rimanendo vincolate ai prodotti d’uso
domestico reclamizzati negli spot televisivi, e
se nel campo della seduzione le donne della
pubblicità sono sempre meno donne-oggetto
(e quindi sempre più donne soggetto),
all’interno
del
messaggio
pubblicitario
permane un’ambivalenza che smorza questa
utopia e riafferma a livello profondo di
significato la concezione gerarchica della
relazione tra i sessi
Anzitutto si può menzionare l’ideale di bellezza
femminile associato alla snellezza e alla
giovinezza: le immagini di donne superbelle
sottolineano l’importanza che riveste la bellezza
nella vita di una donna rispetto ad altre qualità
meno enfatizzate, costruendo una forte pressione
sociale sulle ragazze
Inoltre, a confronto con le donne, gli uomini
vengono rappresentati in ruoli più autorevoli e
maggiormente agganciati alla realtà: la pubblicità
mostra soggetti maschili quasi sempre di successo
sul piano professionale, in immagini che
sovrastano per quantità quelle che raffigurano le
donne che lavorano, in costante declino dopo la
novità della “donna in carriera”, o che solidarizzano
tra loro (amaro Averna), rivelando una complicità al
maschile che difficilmente viene declinata al
femminile
a)
-
-
Ultimi due aspetti presenti nella recente
letteratura sul tema
Alcuni sostengono che l’ideale di bellezza
ultimamente cominci a fare pressione anche sugli
uomini, oltre che sulle donne. Quindi, nel criticare
la società dei consumi, bisogna spostare
l’accento dal sessismo agli interessi commerciali,
che impongono a tutti indifferentemente di
comprare prodotti cosmetici di bellezza
Si può sostenere che questa parità di trattamento
tra uomini e donne, cioè lo sfruttamento
commerciale di entrambi i sessi, costituisca una
“magra consolazione” per il genere femminile
Però non va sottovalutata la novità
dell’introduzione di uno sguardo femminile sugli
uomini,
implicitamente
presupposto
nelle
immagini che li raffigurano intenti a curare il loro
corpo
b) Altro aspetto riguarda il fatto che la
pubblicità ironizza sulla versione
tradizionale della “femminilità” e della
“mascolinità”.
- Forse indurre a ridere degli stereotipi di
genere può risultare più efficace al fine
di decostruire i vecchi schemi, dati gli
effetti di presa di distanza che può
provocare, rispetto alla pubblicità che
inneggia al potere femminile
Esempi di spot trasmessi dalla TV
italiana
Negli ultimi anni, la rappresentazione
della famiglia e della relazione tra i
sessi offerta dagli spot mandati in onda
dalla tv italiana è sensibilmente mutata,
pur con un certo ritardo rispetto alla
realtà
Spot: Croccarelle Santa Lucia
Troviamo l’esempio di una famiglia
ricostituita: una coppia che desidera
sposarsi e riunisce a pranzo i rispettivi
figli avuti da partner diversi affinchè si
conoscano
Spot Sugo Knorr
Un bambino a tavola con la mamma e il
suo compagno, con cui scherza, dice:
“Mi vuoi bene anche se non sei il mio
papà”?, e gli ruba il piatto di spaghetti
Spot Detersivo Ace OxyMagic
Uno dei pochi spot che ritraggono la
condizione femminile della doppia presenza:
una donna a una cena di lavoro si annoia e si
rovescia un bicchiere di vino rosso per avere
una scusa per tornare a casa. Si sfila l’abito,
lo smacchia, e il giorno dopo lo mostra
orgogliosa alla suocera con la crocchia
bianca
Si
confronta
la
donna
moderna,
eventualmente in carriera, con la vecchia
immagine della casalinga, depositaria del
sapere femminile tradizionale (o viceversa,
spot detersivo bucato)
Spot Enterogermina
Una giovane donna fotoreporter mentre
lavora in un contesto esotico e
avventuroso, e in seguito la si vede
sotto l’ombrellone che gioca con sua
figlia, con la voce fuori campo che
afferma perentoria: “Ma la missione più
impegnativa è fare la mamma!”
Spot Knorr zuppe pronte
Indicativo della tendenza a ironizzare
sugli stereotipi di genere: due amiche,
ironizzando
sulla
figura
in
via
d’estinzione del principe azzurro,
discutono se sia giusto correre dietro al
proprio fidanzato o farsi desiderare
decidendo alla fine, davanti alla zuppa
fumante: “Lasciamolo aspettare!”
Ognuno di questi spot allude alle
trasformazioni
sociali
in
corso,
rimandando però la memoria del
pubblico alle “puntate precedenti”, ai
clichè tradizionali
Come se la pubblicità ci domandasse:
“Dobbiamo proprio guardare avanti?”
Lettrici e lettori delle riviste di moda
Alcune ricerche sui pubblici delle riviste periodiche
di moda: attestano come i modelli di genere
presentati vengano osservati dai lettori e dalle
lettrici con malcelato interesse, alla ricerca di
istruzioni su come apparire e su come comportarsi
con l’altro sesso
Joke Hermes (1995): le lettrici di Woman, Best,
Bella, Me, Libelle, Viva, Cosmopolitan, Marie
Claire, tendono ad assegnare alle riviste femminili
uno scarso valore: vengono lette essenzialmente
per riempire i momenti d’attesa, noia o relax nella
giornata
(dal
parrucchiere,
dal
medico,
sull’autobus, la sera)
Poiché i contenuti sono frammentati, brevi e poco
impegnativi è molto facile interromperne la lettura
(easy to put down)
Però sono molti gli “usi” fatti delle riviste: per
rilassarsi, per trovare informazioni e consigli
utili su come comportarsi, per confrontarsi
con le storie e le emozioni altrui in modo da
riflettere sulla propria vita e sui propri
problemi
Ma
soprattutto
forniscono
identità
immaginarie temporanee: permettono alle
lettrici di riflettere sul proprio “sé” ideale,
proiettandosi in molteplici immagini femminili
“perfette” (perfette mogli, madri, amanti, figlie,
lavoratrici), che offrono loro un senso di
momentaneo controllo e potere sulla vita
reale
David Gauntlett (2002), su un gruppo di
lettrici di periodici femminili (Glamour,
Cosmopolitan, Elle, More, New Woman,
Vogue, ecc.) evidenzia come esse esprimano
un piacere ambivalente:
a) le riviste piacciono perché possono
insegnare qualcosa su come comportarsi,
sulla salute e sugli eventi culturali
b) al tempo stesso le lettrici sono critiche
rispetto alla difficoltà di diventare la donna
idealizzata proposta
Le riviste non vengono prese “alla lettera”,
ma vissute come puro intrattenimento, perché
aprono uno spazio immaginario in cui vedersi
migliori, più attraenti, più sicure di sé
Analizzando alcune riviste di moda maschile
(FHM, Loaded,Maxim, Men’s Health), Gauntlett
si discosta dalla posizione delle femministe che
considerano queste riviste un attacco al genere
femminile, perché legittimano un mondo
maschile in cui le donne sono essenzialmente
viste come oggetti sessuali (calendari)
Secondo lo studioso, le riviste maschili mettono
certamente in scena le donne-oggetto, ma
offrono un’immagine della mascolinità non
monolitica
Le riviste usano un tono ironico e amichevole,
anticipando il fatto che molti lettori potrebbero
rifiutare articoli “seri” sulle relazioni di coppia o
consigli sul sesso, la salute, la cucina
Dosano i contenuti con humour e ironia per
“addolcire la pillola”.
I lettori dichiarano di non prendere troppo sul serio
le riviste, anche se risultano curiosi di ottenere
informazioni sulle relazioni interpersonali e sul
sesso
L’autore afferma che l’ironia rivolta ai lettori non si
basa su assunti maschilisti o sessisti, ma mira anzi
a ribaltare gli stereotipi di genere, per es.
inducendo a ridere dei comportamenti da “macho”
Le riviste maschili sono volte alla costruzione
sociale della mascolinità contemporanea: cercano
di insegnare agli uomini come trattare dolcemente
le loro partner o a divenire autosufficienti nel
cucinare e nel pulire la casa senza dipendere dalle
donne
Secondo lo studioso oggi gli uomini ne hanno
bisogno per capire come comportarsi con un
universo femminile in costante trasformazione
Quindi…
Fin dagli anni Venti e Trenta del Novecento
le donne vengono identificate dall’industria
pubblicitaria come le principali consumatrici
di prodotti d’uso domestico: il target di
riferimento più rilevante è quello della
“casalinga”.
- Negli anni ’50 e ’60 del ‘900 la pubblicità, in
concomitanza con gli altri media, ha
divulgato una mistica della femminilità al
fine di convincere le donne a “stare a casa”
e a rinunciare alle ambizioni professionali
a)
b) Negli anni ’60 e ’70 del ‘900 l’affermazione
del femminismo e il massiccio ingresso delle
donne nel mondo del lavoro costituiscono
cambiamenti sociali che non possono non
essere
tenuti
in
considerazione
dai
pubblicitari
- Oltre all’immagine della casalinga (e del suo
contraltare, rappresentato dalla donnaoggetto), i pubblicitari “costruiscono” modelli
femminili nei quali le donne “moderne” che
lavorano possano identificarsi
- Negli anni ’80 del ‘900 fa la sua comparsa
l’immagine della donna in carriera, la donna
vestita al maschile, la donna moderna sicura
di sé, la donna indipendente e sessualmente
audace
- Anche
l’immagine
maschile
viene
diversificata: all’immagine dell’uomo di
successo, si affiancano le immagini di uominioggetto, uomini che curano il corpo (si apre il
mercato della cosmesi maschile), uomini alle
prese con le incombenze domestiche
(soprattutto cucinare) e padri affettuosi con i
figli
- Nel decennio successivo aumentano
quelle immagini che scambiano i ruoli
tra uomini e donni definibili come
controstereotipi di genere, ma nella
pubblicità permangono aspetti di
ambiguità che continuano a fare
discutere le studiose e gli studiosi
La donna in carriera nelle
soap opera
“E’ duro per molte studiose accettare
che le donne provino piacere a fruire di
ciò che la cultura dominante offre loro
per intrattenerle. Ma, al tempo stesso,
esse possono utilizzare questo piacere
per criticare e mettere in discussione i
valori dominanti inscritti nelle soap”
M.E. Brown (1994, p.5)
Anno 1933: la Procter & Gamble, la maggiore
impresa americana di prodotti detergenti, scopre
il potenziale promozionale del serial radiofonico
Nasce così la soap opera, dalla combinazione tra
lo sponsor pubblicitario (l’azienda produttrice di
sapone, soap) e il contenuto melodrammatico
della trama (opera)
Iniziò così una serie di episodi radiofonici relativi
a vari programmi prodotti dalla P&G, ciascuno
dei quali strutturato per promuovere la vendita di
un certo prodotto dell’azienda. “The Road of Life”
era legata al sapone Ivory. “Young Doctor
Malone” al detersivo liquido per piatti Joy, Oxidol
e “Mà Perkins” divennero sinonimi, come Duz e
“The Guiding Light”, Tide e “Life Can Be
Beautiful”, mentre Cheer era associato a
“Backstage Wife”.
Le soap opera, costruite con l’intento da
parte delle aziende e dei broadcasters
radiofonici di attirare le donne in qualità
di consumatrici, si rivolgono in maniera
mirata al pubblico delle “casalinghe”.
Nel passaggio dalla loro diffusione via
radio a quella televisiva, i produttori si
chiedevano preoccupati: “Ma le donne
durante il giorno riusciranno a mettersi
in poltrona a guardare le soap? Non le
distoglieremo dai lavori domestici e
dalla famiglia?”
Ecco il motivo per cui, oltre alla scelta di
contenuti melodrammatici ritenuti consoni ad
appagare la sensibilità emotiva del pubblico
femminile, la forma narrativa della soap è
continuativa, indeterminata e piena di
ripetizioni, adatta a facilitare la visione delle
casalinghe impegnate nei lavori domestici
(anch’essi
routinari,
frammentari
e
discontinui), visto che non necessita di
un’attenzione costante
La scommessa è vinta: ad es. la soap The
Guiding Light, dal 1952 trasmessa anche in
tv, ha avuto un enorme successo di pubblico
ed è durata oltre 50 anni
Le soap e i loro pubblici
diventano oggetti di studio
a)
b)
Sulle soap opera giudizi contrastanti:
Da un lato sono tra i contenuti dei media
comunemente più denigrati e ridicolizzati,
considerati prodotti di bassa cultura, e il loro
pubblico viene immaginato per lo più composto da
casalinghe frustrate, piene di sogni romantici e con
scarso quoziente intellettivo
Dall’altro, la grande quantità e varietà di donne (e
uomini) in tutto il mondo che le guarda ogni giorno
attesta l’esistenza di un giudizio positivo e/o
piuttosto articolato su di esse
Molte studiose/i hanno indagato il “fenomeno soapopera”, cercando di evidenziare i motivi per cui le
soap siano tanto apprezzate dal loro vasto pubblico
a)
b)
c)
Ricerca “pionieristica” di Herzog (1944) sul
pubblico
femminile
delle
soap
opera
radiofoniche americane: le soap forniscono tre
tipi di gratificazioni:
l’opportunità di rilassarsi
L’opportunità
di
sognare
compensando
frustrazioni emotive e difficoltà quotidiane
L’opportunità di trarre consigli utili da applicare
alla propria vita, in particolare identificandosi
nei personaggi femminili dal carattere forte e
deciso
All’epoca, il fatto che le soap potessero
risultare fonti di consigli per risolvere problemi
familiari e personali provocò stupore tra gli
stessi produttori, perché probabilmente era una
risultato superiore alle loro aspettative
Anni ’70 del ‘900: le studiose femministe erano
piuttosto critiche nei confronti dei prodotti culturali
“per donne”, come appunto le soap opera o i
romanzi rosa, considerati contenuti “ghettizzanti”,
attraverso i quali si perpetuava la subordinazione
femminile agli uomini
E’ solo dall’inizio degli anni ’80 che le soap opera e i
loro pubblici cominciano ad essere analizzati in
ambito accademico, per alcuni fattori concomitanti:
a) Una generale rivalutazione dei testi culturali
popolari
b) Un interesse specifico delle studiose ad analizzare
audience femminili situate, considerando in
particolare la condizione sociale delle donne
casalinghe (“la casalinga di Voghera”)
c) Un enorme successo di pubblico a livello
internazionale delle soap opera statunitensi Dallas
e Dynasty
Anni ’80 e ’90: si sviluppa il filone di ricerca
più rilevante sui pubblici femminili delle soap
opera, nell’ambito degli Audience Studios
Molte studiose di questo filone di ricerca
aderiscono al Feminist Cultural Television
Criticism, riferito alle pensatrici francesi della
valorizzazione della differenza sessuale
Si interrogano sia sulla struttura di
significazione del testo “soap”, che sugli usi e
piaceri che le spettatrici traggono dal
guardare quotidianamente questo genere di
testi, utilizzando per studiare il pubblico il
metodo
etnografico
(osservazione
partecipante del contesto di fruizione) e le
interviste in profondità
Lo sguardo con cui sono analizzati le soap e il
pubblico femminile è quello derivato dal modello
della valorizzazione femminile, che permette di
superare il pregiudizio per cui le soap
contribuiscono alla discriminazione delle donne
nella società
Geraghty (1991): “il piacere di guardare le soap
consiste principalmente nel capire le donne dal
punto di vista delle donne, in quanto si tratta di
testi che, mettendo in scena la dimensione
“privata” delle relazioni interpersonali e dei
sentimenti,
rivalutano
una
cultura
specificatamente femminile”
Ad es. le soap enfatizzano la relazione tra madre
e figlia, le relazioni di solidarietà tra donne e
dipingono le donne come il centro emozionale
della famiglia
Inoltre, riflettono la cultura orale femminile
costituita dalle conversazioni
L’accento è posto sulla “parola” più che
sull’azione
Le spettatrici vengono guidate dal testo a
seguire
i
percorsi
psicologici
delle
protagoniste femminili
Se le donne nelle soap assumono un ruolo di
primo piano, come “motore” delle storie, gli
uomini sono posti in secondo piano e
vengono spesso rappresentati come le donne
vorrebbero che fossero nella realtà: romantici
e sensibili, proiezioni di desideri femminili
Non solo all’interno della sfera privata le donne
vengono valorizzate: siccome il mondo del lavoro
nelle soap è presentato come un’estensione del
“personale” (“pubblico” e “privato” sono intrecciati, ad
es. molti coniugi e familiari lavorano insieme), più che
negli altri prodotti di fiction troviamo molte donne che
lavorano e in particolare le prime donne in carriera
Tra le protagoniste di Dynasty ricordiamo Alexis: una
donna in carriera sexy e spregiudicata, capace di
sottomettere gli uomini sia in campo lavorativo che
amoroso; un’immagine che, esasperando i messaggi
protati avanti dal femminismo liberale, alimenta lo
stereotipo della “donna in carriera” (femminile
nell’aspetto e mascolina nei comportamenti),
sfiorando la parodia
Va però considerato il piacere offerto alle spettatrici:
osservare un ruolo femminile forte all’interno del
mondo tradizionalmente maschile del business
Le studiose concordano sul fatto che tutti
questi elementi possano costituire fonte di
gratificazione per il pubblico femminile
Inoltre, le soap sono viste come “testi aperti”,
costruiti in modo da sollecitare svariate
interpretazioni da parte delle spettatrici: oltre
a presentare contenuti ambivalenti, ogni
evento viene filtrato da molteplici punti di
vista, commentato da più personaggi; la
stessa struttura a puntate, teoricamente
senza fine, rimanda a innumerevoli
proseguimenti possibili delle storie
Le ricerche nell’ambito degli
Audience Studies
D. Hobson, in Housewives and the Mass
Media (1980), mette in luce alcuni aspetti
cruciali della fruizione delle soap: dalle
interviste a un gruppo di casalinghe della
working class emerge che vedere le soap
permette loro di alleviare i lavori domestici
noiosi e ripetitivi, aiutandole a vincere quel
senso di solitudine dovuto all’essere
confinate in casa
Inoltre, sottolineando la preferenza per le
soap, esse rimarcano la presa di distanza da
contenuti come la politica o i fatti d’attualità,
considerandoli parte di un mondo maschile.
Hobson afferma che è la posizione sociale di
casalinghe a condizionare le loro scelte: essendo
immerse in una cultura patriarcale, tendono ad
autosvalutarsi, ad allontanarsi volontariamente da
contenuti “maschili” che ritengono estranei a loro, ma
che giudicano più importanti di quelli “femminili”.
Da un’altra indagine etnografica su un gruppo di
casalinghe fan della soap inglese Crossroads,
Hobson evince che la pratica di guardare le soap si
integra nella vita quotidiana, insinuandosi nelle
routine domestiche e nelle conversazioni tra donne
In particolare, osserva che le spettatrici cercano di
ritagliarsi uno spazio per sé: dal momento che i lavori
domestici impediscono di rilassarsi completamente,
molte di loro hanno sviluppato la capacità di
“guardare a metà”, sbirciando le immagini del piccolo
schermo mentre cucinano o servono la cena.
Rispetto a questo piacere, rileva come
esse provino un forte senso di colpa.
Ciò dimostra che il ruolo occupato
all’interno della famiglia condiziona la
modalità di fruizione della tv: il
significato complessivo del “guardare la
soap”
dipende
anche
dalla
negoziazione del tempo libero che le
spettatrici casalinghe si concedono
nell’arco della giornata
Ien Ang (1985), da uno studio sulle interpretazioni di
Dallas offerte da un gruppo di fan, rileva che la
caratteristica della soap maggiormente apprezzata è
il “realismo”, ossia il fatto che i personaggi femminili e
maschili possono essere immaginati come persone
vere.
L’autrice sostiene che non si tratta di un “realismo
empirico”, che si aggancia ad aspetti concreti della
realtà, ma di un “realismo emozionale”, riguardante i
sentimenti realistici espressi dai personaggi.
Le soap si rivolgono a un pubblico capace di
sintonizzarsi con la “struttura tragica del sentimento”
presente nel testo (“tragica” nel senso che nella
soap, come nel melodramma, la felicità non dura mai
a lungo), quindi con emozioni universalmente
riconosciute come l’amore, la gelosia, la
disperazione, l’odio.
Il piacere di guardare la soap dipende allora da
quell’impressione psicologica di realtà definita
Secondo Ang, indagare le emozioni suscitate da
Dallas può aiutare a comprendere meglio il
successo e la popolarità ottenuta: adottando
un’ottica postmoderna
esorta
le
studiose
femministe a occuparsi delle dimensioni del
piacere, del desiderio e della fantasia femminile,
spesso sottovalutate.
Solo così è, ad es., possibile comprendere perché
alcune spettatrici si identifichino in Sue Ellen, un
personaggio autolesionista che annega la sua
delusione amorosa nell’alcool.
Proiettarsi in Sue Ellen permette loro di
sperimentare nella fantasia situazioni negative che
nella realtà non vorrebbero mai vivere, allo scopo
di abbandonarsi, di allentare la pressione indotta
dalle fatiche quotidiane e di accettare “l’impresa
complessa di essere una donna”, con punti di forza
e anche di debolezza.
Andrea Press (1991) analizza le differenti
interpretazioni di Dynasty offerte da un gruppo di
donne appartenenti alla working class e da un
gruppo di donne della middle-class. Dalla ricerca
risulta che le spettatrici della working class
tendono molto più di quelle della middle-class a
ritenere Dynast “realistica”, nel senso, questa
volta, di un realismo empirico, concreto, che
deriva dal pensare che “i ricchi” si comportino
veramente come li dipingono le soap.
Secondo Press, questa forte impressione di
realismo deriva dalla distanza esistente tra la
condizione di vita delle donne della working-class
e quella delle eroine di Dynasty iscritta nell’upper
class.
Le donne della middle-class, a confronto, avendo
a disposizione più strumenti culturali, risultano
critiche e disincantate rispetto al “mondo dei
ricchi” rappresentato da Dynasty.
Nonostante giudichino la soap per tanti versi
irrealistica, esse si immedesimano maggiormente
nei sentimenti espressi dai personaggi femminili
e nelle vicende familiari, d’amore e di lavoro che
li vedono coinvolti, cercando di cogliere gli aspetti
di somiglianza tra la vita delle protagoniste e la
propria.
La studiosa registra anche sostanziali differenze
nelle interpretazioni della soap a seconda
dall’appartenenza generazionale.
Le donne sui 60 anni, cresciute assorbendo le idee
tradizionaliste e in seguito vivendo gli anni del
femminismo, giudicano il contenuto televisivo molto
cambiato per quanto concerne la rappresentazione
femminile: in Dynasty apprezzano le immagini delle donne
in carriera o delle lavoratrici in ambiti “maschili”, che
esprimono autonomia e libertà in campo sentimentale e
sessuale.
Le donne sui 30 anni, cresciute in un periodo di grande
confusione tra Tradizione e Modernità, e avendo
sperimentato di persona le difficoltà di fare carriera e/o di
coniugare il lavoro con la maternità, risultano invece
critiche rispetto alla rappresentazione delle donne
“liberate”, ritenuta esagerata e distorta rispetto alla realtà,
mentre si dimostrano più sensibili nei confronti
dell’immagine della famiglia unita.
Questa ricerca attesta come, a seconda della classe
d’appartenenza, del livello d’istruzione, dell’avere vissuto
in particolari contesti storici e sociali, le spettatrici possono
fornire risposte molto diverse rispetto a uno stesso
contenuto.
Alcune
ricerche
spostano
il
fuoco
dell’attenzione sugli usi “extratestuali” delle
audience femminili, concentrandosi sulle
conversazioni riguardanti le soap.
Ancora Hobson verifica la consuetudine di un
gruppo di segretarie di scambiarsi punti di
vista sulle vicende delle soap opera preferite
durante le pause dal lavoro.
Il piacere di guardare le soap si estende al di
là della loro visione e diventa un pretesto per
parlare di sé, delle proprie vite e interessi,
permettendo di stabilire alleanze e relazioni di
solidarietà tra donne.
Mary Ellen Brown (1994), dall’osservazione
partecipante condotta su un gruppo di fan delle soap
Days of our lives, Coronation Street, Sons and
Daughters, Neighbours, deduce che il piacere
principale di vedere le soap consiste nel creare un
network, una rete di discorsi tra donne, sviluppando
una solidarietà al femminile e un senso di potere
(empowerment), di potenziale “resistenza” all’ordine
patriarcale dominante (resistive pleasure).
Ad es. osserva che tra amiche o tra madre e figlia
spesso si ironizza sulla cultura maschile e si critica il
comportamento dei protagonisti maschili delle soap.
In questo contesto, anche la disapprovazione che
esse ricevono dagli uomini (mariti, fratelli, ecc.) per il
fatto di guardare le soap diventa motivo di piacere e
conferma loro di stare mettendo in discussione
l’ordine dominante
Non sempre però le spettatrici offrono letture di
“resistenza” o ne sono consapevoli: a un certo livello è
possibile che le spettatrici siano condizionate dalla cultura
maschile in cui sono immerse (veicolata anche dalle
soap), ma quando si trovano libere di parlare tra loro (nei
discorsi che traggono spunto dalle storie delle soap),
spesso decostruiscono la concezione ideologica della
relazione gerarchica tra i sessi
Sebbene nelle ricerche si riscontri l’intento di rivalutare le
soap e i loro pubblici, il giudizio delle studiose riguardo
agli effetti provocati dalla pratica quotidiana di “guardare
le soap” rimane aperto: se da un lato le soap possono
rappresentare per le spettatrici casalinghe un “ghetto”
(confinandole in quel mondo femminile romantico e
sganciato dalla realtà in cui esse stesse tendono a
identificarsi), dall’altro lato le conversazioni tra donne, e
partire dalle soap, consentono di aprire “spazi” di
solidarietà e di resistenza al femminile.
Quindi…
All’inizio degli anni ’80 del ‘900 le soap
opera vengono rivalutate in ambito
accademico, in particolare dalle studiose
che ne mettono in luce le caratteristiche che
possono gratificare le spettatrici (nelle soap
i personaggi femminili sono valorizzati sia in
ambito privato sia in ambito pubblico, come
attesta l’immagine della donna in carriera)
b) Il filone di ricerca sui pubblici femminili delle
soap interno agli Audience Studies analizza
gli usi e i piaceri che le spettatrici traggono
da questi tipi di testi, utilizzando metodi
qualitativi ed etnografici.
a)
Sono molti i piaceri offerti dalla pratica di
“guardare le soap”: alleviare la ripetitività dei
lavori domestici; scambiarsi punti di vista
sulle vicende delle soap con altre donne
sviluppando una solidarietà al femminile e
forme di “resistenza” all’ordine patriarcale
dominante
c) Le soap si presentano come “testi aperti” a
molteplici interpretazioni e possono dunque
costituire per le spettatrici sia un “ghetto” sia
uno “spazio” di critica e di riflessione sulla
propria vita e in generale sulla relazione
uomo-donna
L’effetto-vetrina delle giornaliste
in TV
“Pur essendo ormai numerose, visibili, e
non ultimo apprezzate, le giornaliste
restano largamente escluse dalla
distribuzione e dall’esercizio della
risorsa del potere. Si potrebbe dire che
nella visibilità senza potere risiede la
cifra della condizione presente delle
donne nel giornalismo italiano, e non
solo italiano” (Buonanno, 1993)
Dagli studi sulla donna idealizzata degli
spot e delle riviste di moda femminili, o
da quelli sulle eroine “moderne ma non
troppo” della fiction, passiamo alle
riflessioni sulle donne “in carne e ossa”
che
popolano
il
mondo
dell’informazione.
Giornaliste:
potere e sguardo femminile
Anni ’70 del ‘900: viene rilevata una forte
discriminazione delle donne all’interno delle
organizzazioni dei Media
Esse svolgevano professioni di minori importanza
quanto a potere decisionale
Le loro carriere erano più brevi di quelle maschili,
arrivando ai livelli intermedi del management
Le soluzioni? Modello della parità: incremento
numerico delle professioniste nelle posizioni “chiave”
dell’industria culturale
Questione dell’accesso femminile alle posizioni più
prestigiose, occupate in prevalenza dagli uomini
Carriera giornalistica: anni ’50 e ’60, USA, la
maggioranza dei giornalisti erano uomini
Tra il 1971 e il 1982 la percentuale delle
donne giornaliste nelle televisioni locali è
triplicata
a) Pressioni della Federal Communication
Commission
b) Rapida crescita degli staff giornalistici
- Ma le donne ancora discriminate nei salari
- Nella selezione delle speaker televisive
selezionate in base all’età e all’attrattiva fisica
Anni ’80: processo di femminilizzazione del
giornalismo e di alcuni campi della comunicazioni di
massa (editoria, pubblicità, pubbliche relazioni)
“Scambio di genere” (gender switch): certi settori
definiti “ghetti rosa” (pink collar ghettos)
Alcune aree della produzione mediatica erano più
accessibili alle donne rispetto ad altre: le donne
sembravano avere pieno accesso ai campi vicini alle
responsabilità domestiche di cura (media e
programmi educativi indirizzati ai bambini, sezioni
spettacolo e cultura dei quotidiani (soft news);
programmi d’intrattenimento televisivi
Ma erano una minoranza nei campi della politica
interna ed estera; notizie economiche; programmi
d’attualità e di informazione
Inoltre, segregazione verticale delle donne
negli apparati dei media (impedimento ad
accedere ai vertici della carriera)
E segregazione orizzontale (a parità di
posizione
professionale
le
donne
guadagnavano meno degli uomini)
“l’incremento del numero delle donne negli
apparati produttivi dei Media non si traduce in
maggior potere o influenza delle donne; al
contrario, ciò ha significato un abbassamento
dei salari e dello status di tutti coloro che
lavorano nei campi più femminilizzati”
Paradosso
in
molte
professioni
tradizionalmente esercitate da uomini,
“invase” dalla presenza femminile: svilimento
della professione stessa, e non maggiore
acquisizione di potere e autonomia creativa
da parte delle donne
Anni ’90: situazione delle carriere femminili
nei media è via via migliorata
Ma a tutt’oggi permane una forte disparità
numerica tra i sessi nell’occupazione dei ruoli
decisionali o dei campi ritenuti per tradizione
“maschili”
Es. Nei principali broadcaster televisivi
USA le donne nella posizione di news
director (middle management) sono
aumentate dal 7,6% nel 1982 al 25,9%
nel 2002, scesa al 21,3% nel 2005
Nel 2005 il 17% nel ruolo di general
manager (upper management)
E’
possibile
che
aumentino:
nell’informazione televisiva le donne
rappresentano il 39,3% della forza
lavoro
a) Persistenza segregazione verticale del
genere
femminile,
difficoltà
infrangere il soffitto di cristallo
di
b) Necessità di diffondere una cultura
della differenza che stimoli le
giornaliste a esprimere uno sguardo
femminile sul mondo
“ All’inizio degli anni ’70 siamo entrate
nel mondo del lavoro convinte che
rifiutare i valori delle donne ci avrebbe
fatto guadagnare rispetto e promozioni
nelle nostre carriere. Costantemente
cercavamo di dimostrare la nostra
uguaglianza, il nostro essere simili o
migliori degli uomini; dimostravamo di
potere competere con loro e di poterci
adattare al sistema di valori dominante”
Ma la consapevolezza successiva di trovarsi in un
mondo in cui le potenzialità e i valori femminili
vengono soffocati e integrati ai valori dominanti
maschili ha portato al bisogno di costruire e di
valorizzare una cultura femminile
In linea con il femminismo radicale, ci si chiede come
le professioniste possano modificare i valori
dominanti introducendo valori e punti di vista
femminili
Ideare un modo di fare giornalismo non omologato al
maschile, che tenda a dare più spazio e voce alle
donne sia in qualità di “soggetti delle notizie” sia nelle
vesti di “persone intervistate”
Ciò comporta l’introduzione di modifiche nelle
procedure di raccolta, selezione/gerarchizzazione e
di presentazione delle notizie (newsmaking)
Le donne nei contenuti
dell’informazione
Ricerche sul modello della Valorizzazione Femminile
4° Programma d’azione comunitaria sulle pari opportunità per donne e
uomini (1996-2000): UE ha finanziato il progetto Promoting Good
Practice in Gender Portrayal in Television, organizzato da 6 tv
pubbliche europee
Ricerca comparata sulla partecipazione femminile nei programmi tv:
Nei principali network di questi Paesi le donne sono sottorappresentate
rispetto agli uomini: da un minimo di presenza femminile nei programmi
sportivi (12%) , a un max nei programmi per bambini (44%); nel genere
dell’informazione le donne sono presenti per il 31% (che sale al 55%
per le speaker dei tg)
I ruoli in cui sono ritratte le donne implicano un basso status sociale:
47% in qualità di “semplici cittadine” (senza specificare la qualifica
professionale); solo il 20% di “esperte” intervistate
Quando parlano le donne (le partecipanti ai dibattiti sono il 30%, le
intervistate il 28%), gli argomenti trattati sono: le relazioni
interpersonali, la famiglia, la salute, il sociale
Gli ambiiti in cui le donne intervengono di meno sono lo sport, la
scienza, la tecnologia, l’economia, la politica
Incentivare le professioniste e i professionisti dei
media ad adottare una prospettiva di genere:
migliorare le loro competenze professionali e la
qualità dell’informazione
Iniziativa concreta per rendere complessità alla figura
femminile: kit Screening Gender (pacchetto
audiovisivo per la formazione) diretto a tutti quelli che
lavorano in tv: una serie di indicazioni pratiche
inerenti la scelta delle persone da intervistare (ad es.
suggerendo di sforzarsi di intervistare più donne
esperte, anche nei campi occupazionali nella società
maggiormente ricoperti dagli uomini), delle persone a
cui dare voce nei talk show (gestendo a loro favore i
turni di parola), delle locations in cui riprendere
donne e uomini (es. non mostrare le donne solo
nell’ambiente
domestico),
fino
alla
scelta
dell’inquadratura.
Non rafforzare nel pubblico la percezione di
autorevolezza maschile e scarsa importanza del
genere femminile.
Secondo progetto: L’immagine della
donna nei media (15 Paesi, tra cui
l’Italia)
Margareth Gallagher: risultati del Global
media Monitoring Project
Alcune studiose (van Zoonen) sono scettiche
rispetto ai cambiamenti che possono derivare
dall’incremento delle professioniste nella
produzione mediatica, mentre ritiene che
saranno i cambiamenti relativi alla natura dei
contenuti a coinvolgere maggiormente le
donne
Ad es. quelli derivati dall’innovazione dei
generi dei programmi – come lo è stato
l’infotainment (informazione spettacolo, ad
es. i talk show) che ha aperto più spazi per
l’espressione della soggettività femminile di
quanto
non
abbiano
fatto
gli
stili
d’informazione tradizionali – e/o dalle
trasfromazioni economiche e tecnologiche.
Il dibattito in Italia
Fine anni ’ 70. dibattito sulla visibilità e
rilevanza delle giornaliste, sotto la
spinta
del
femminismo
e
dell’ampliamento del campo dei media
informativi
Aumento notevole sia nella stampa
quotidiana
sia,
soprattutto
nell’informazione televisiva.
1)
2)
3)
4)
4 generazioni di donne giornaliste:
Le grandi emancipate (o pioniere): Anni ’50
e ’60 (es. Miriam Mafai)
Le politiche (o innovatrici), atteggiamento
impegnato (Annunziata, Fallaci, Rossanda)
Le neoemancipate, leve giornalistiche
femminili degli anni ’80: Lilli Gruber,
Carmen Lasorella, Mariolina Sattanino,
Bianca Berlinguer, Ritanna Armeni, ecc.
Le ultime arrivate degli anni ’90, sfuggono a
precise identificazioni: Cristina Parodi, Didi
Leoni, Francesca Senette, etc.
Anni ’90: Guerra del Golfo, inviate di
guerra
Giuliana Sgrena,
Grazia Cutuli
Ilaria
Alpi,
Maria
Alcune cifre.
Dal 1978 al 2002 le giornaliste
professioniste passano dal 10% al 28%
sul totale della categoria
Ma inferiore ad altri Paesi (USA oltre
33% dal 1982; Francia 39% nel 1999)
La grande visibilità televisiva delle
giornaliste induce a sopravvalutare la
loro effettiva presenza numerica
Di buon auspicio la percentuale delle
praticanti: 48%
Ma visibilità senza potere
Donne ai vertici delle posizioni
redazionali sono pochissime: direttrici di
quotidiani sono solo il 2%; in RAI
rappresentano il 9%, nelle altre radio e
tv il 4%; nella stampa periodica arrivano
al 42%, perché l’area delle riviste
femminili è tradizionalmente riservata
alle donne
Ostacoli alla carriera
Autoesclusione, delle “politiche”: presa di distanza
dal potere, per gratificazioni lavorative
Difficoltà ad affermare uno “sguardo di donna”
nell’informazione: mancanza di potere decisionale,
ma anche scarsa consapevolezza delle giornaliste di
essere portatrici di uno sguardo diverso da quello
maschile
4 generazioni di donne coalizzate in una comunità
consapevole, per costruire un punto di vista
femminile sull’informazione, che non è scontato le
donne esprimano in quanto tali
Potenziale di autonomia ed eticità, derivato dalla
distanza dal potere attuata strategicamente da parte
di molte giornaliste, tematizzato come punto di forza
dell’espressione di una differenza femminile
In conclusione, la questione della mancanza di potere delle giornaliste
viene discussa e problematizzata, ossia messa in relazione all’obiettivo
di modificare il sistema valoriale maschile su cui poggia l’informazione.
Da un lato le giornaliste che attuano la scalata al potere spesso hanno
interiorizzato valori, atteggiamenti e modalità di comportamento
maschili e/o non hanno riflettuto abbastanza sulla possibilità di
modificare routine produttive consolidate per volgere i contenuti
informativi verso una maggiore valorizzazione del loro stesso genere
D’altro canto, rimane aperta la questione relativa al rapporto conflittuale
instaurato da molte giornaliste con le forme maschili del potere e quindi
con modalità lavorative che non riconoscono come proprie, tanto da
indurle ad autoescludersi dalle stanze dei bottoni
Come affermano alcune professioniste che lavorano in ambienti a
dominanza maschile, dalla giornalista all’avvocata, dalla dirigente
d’azienda alla chirurga:
“C’è un modo del potere maschile in cui non possiamo o non vogliamo
riconoscerci perché non ci corrisponde. E’ chiaro che la questione è
complessa, bisogna parlarne. E certamente la risposta non è quella
dell’adattamento e l’accettazione delle regole che gli uomini si sono dati
in nostra assenza”.
La rappresentazione di genere
nell’informazione RAI
Contenuto
dei
programmi
televisivi
d’informazione:
a) Scissione tra immagine e parola delle
donne
b) Molta presenza delle speaker del tg e delle
conduttrici, ma assenza di opinioniste ed
esperte o di semplici donne “ospiti in studio”
(invitate
a
fornire
un’opinione
su
avvenimenti, o a illustrare un punto di vista,
una decisione di rilievo pubblico)
c) Ciò di conseguenza produce l’assenza in
TV di un pensiero femminile sul mondo
“Una, nessuna …a quando centomila?
La rappresentazione della donna in
televisione” (L.Cornero, 2001)
Nell’informazione televisiva le donne
non hanno sufficiente voce o potere per
proporre uno sguardo al femminile
Ricerca sui tg e i programmi
d’informazione e attualità trasmessi
dalle tre reti RAI
Analisi dei tg
Se le speaker hanno accresciuto la loro
autorevolezza e raggiunto la parità numerica con gli
uomini..
…i servizi firmati da giornaliste sono solo il 23%
Riguardano soprattutto i generi della cronaca e della
cultura
Le donne solo inquadrate e quelle citate e/o
intervistate nei servizi sono prevalentemente
confinate nello spettacolo e nella cronaca (non
parlano di politica, economia, sport)
Il ruolo prevalente delle donne intervistate è quello di
attrice o altre professioni del mondo dello spettacolo
Gli esperti interpellati sono soltanto uomini
Analisi dei programmi d’informazione e attualità
I conduttori e/o i giornalisti occupano ruoli di maggiore prestigio
rispetto alle colleghe e sono legittimati nella posizione di leader
d’opinione
Gli esperti sono nella stragrande maggioranza uomini in tutti i
campi del sapere, anche quelli tradizionalmente femminili (dalla
politica all’educazione dei figli, dalla tecnologia alla
gastronomia, dalla scienza alla floricoltura)
Quando si presentano le esperte non viene sottolineato il “titolo”
professionale, ma si evidenzia più frequentemente il ruolo di
“madre” o di “moglie”
Delle donne si tende ad apprezzare la bellezza e il sex-appeal a
scapito di altre qualità e spesso la telecamera sottolinea i
particolari più attraenti del corpo femminile
L’atteggiamento dei conduttori verso le ospiti in studio (specie
quelli avanti con l’età) è per lo più paternalistico, protettivo
In generale i conduttori/giornalisti tendono più delle donne ad
autovalorizzarsi e a valorizzarsi tra loro, mentre le
conduttrici/giornaliste spesso si autosvalorizzano (ammettono di
non sapere o si scusano), e nel relazionarsi con le altre donne si
adeguano alle modalità maschili ( ad es. sottolineando i ruoli
casalinghi delle ospiti in studio o la minore importanza nei
confronti del partner, complimentandosi sull’aspetto fisico più
che sulla competenza professionale, etc.)
a)
b)
La svalorizzazione delle donne nell’informazione agisce
su molteplici livelli
Distribuzione squilibrata del potere effettivo e simbolico
tra uomini e donne che si traduce nella pressochè
assenza di direttrici di tg o di giornaliste opinioniste (es.
Lucia Annunziata, direttrice tg3 e presidente RAI;
Milena Gabanelli, che “fa opinione” con Report)
La difficoltà da parte delle conduttrici stesse a
fuoriuscire dai rassicuranti binari di un’informazione al
maschile rende necessario allargare il più possibile i
confini della “comunità consapevole”
Sono però da segnalare alcuni programmi “minori”
(Art’è, Okkupati), in cui si avverte la volontà di fare
emergere l’intellettualità e la creatività femminile: ad es.
nella scelta di intervistare spesso le donne, nel porgere
loro domande rispettandone il vissuto e le emozioni,
nella capacità di raccontare le donne “a tutto tondo”,
non ingabbiandole in un ruolo predefinito
Sono es. che suggeriscono la possibilità concreta di
introdurre
modalità
non
stereotipate
di
fare
informazione.
Quindi…
a) A partire dagli anni ’70 del ‘900 il
numero
delle
giornaliste
è
progressivamente cresciuto all’interno
delle redazioni della carta stampata e
delle televisioni. In particolare sono
aumentate le speaker dei telegiornali
che, unitamente alle inviate nei teatri
di guerra, hanno dato grande visibilità
alle
giornaliste
nel
mondo
dell’informazione
b)
In realtà, come hanno verificato molti studi,
il numero delle giornaliste rimane ancora
oggi esiguo rispetto alla presenza dei
giornalisti (arrivando in molti Paesi a
rappresentare al massimo un terzo degli
uomini). Inoltre, si tratta di una visibilità
senza potere: le professioniste ai vertici
delle posizioni redazionali sono pochissime.
Un ulteriore aspetto rilevato è la scarsa
attenzione giornalistica rivolta alle donne in
qualità di “soggetti delle notizie” e di
“esperte” interpellate in ogni campo del
sapere, e di conseguenza la scarsità di
“voci femminili” nell’informazione
c)
Le studiose di interrogano su come
possa
emergere
nei
contenuti
informativi uno sguardo femminile
sugli avvenimenti che accadono nel
mondo e su ogni argomento di
interesse pubblico: non si tratta solo di
aumentare
la
quantità
delle
professioniste nei ruoli decisionali,
quanto di sensibilizzare le donne e gli
uomini
che
lavorano
nelle
organizzazioni
dei
media
alla
necessità di applicare una prospettiva
di genere nel produrre informazione.
Quindi…
Nelle società occidentali industrializzate il
mercato dell’abbigliamento, dei cosmetici, del
fitness e della chirurgia estetica spinge
soprattutto le donne, e ultimamente anche gli
uomini, a uniformarsi all’ideale della
snellezza, che rimanda a sua volta al mito
dell’eterna giovinezza
Da sempre le donne subiscono i dettami della
moda per quanto riguarda l’aspetto fisico e il
look complessivo a cui conformarsi. La
“normalizzazione” del corpo femminile
costituisce in realtà una forma del potere
maschile esercitato nei secoli sulla donna.
Le donne tendono a giudicare se stesse con
occhi maschili, sentendosi continuamente
inadeguate rispetto ai canoni estetici decretati dai
media
I significati del “corpo snello femminile” sono
molteplici: può fornire l’impressione di ottenere
un maggiore controllo sul proprio corpo e sulla
propria vita; può significare la volontà di
emanciparsi dall’immagine tradizionale della
“donna-madre” adottando sul luogo di lavoro i
valori maschili dell’efficienza e della disciplina;
può
indicare
l’adeguamento
all’ideologia
dominante che di fatto svalorizza il genere
femminile, istigando le ragazze a limitare le loro
possibilità d’espressione alla bellezza
Cinema e pubblico femminile
Le icone femminili e maschili lanciate dall’industria
cinematografica entrano a far parte dell’immaginario
collettivo andando a influenzare comportamenti,
atteggiamenti e stili di vita di donne e uomini
appartenenti a una determinata generazione:
segnano un’epoca interpretando i cambiamenti
sociali e divenendo importanti modelli di riferimento
Ad es. da eroine mascoline e focose (Greta Garbo,
Marlene Dietrich, Bette Davis, Catherine Hepburn,
Lauren Bacall, Rita Hayworth) negli anni ’30 e ’40, si
passa a un modello diametralmente opposto, basato
su una femminilità prorompente e seducente in modo
quasi infantile, bamboleggiante (Marilyn Monroe,
Debbie Reynolds, Brigitte Bardot e Lucille Ball) negli
anni ’50 e ’60, coincidente con la propagazione della
“mistica della femminilità”
Viceversa, per gli eroi maschili si è
passati dai tipi “classici”, virili e “tutti
d’un pezzo” come Humphrey Bogart,
John Wayne, Clark Gable e Gary
Cooper negli anni ’50 e ’60, a icone
tormentate e complesse come James
Dean, Marlon Brando, Anthony Perkins
nei decenni successivi
Qui interessa il dibattito degli anni ’70 sulla
“posizione del soggetto” costruita dalla macchina
cinematografica per le spettatrici e gli spettatori,
ovvero il modo in cui i testi filmici guidano e
indirizzano lo sguardo del pubblico
Un tema centrale all’interno dei Film Studies
L’esperienza di visione nel buio della sala
cinematografica attiva meccanismi psichici
omologhi a quelli che presiedono alla formazione
dell’identità del soggetto
Calandosi in un processo regressivo, chi assiste
allo spettacolo cinematografico è trasportato nel
proprio passato e si trova a rivivere gli eventi
nodali del suo percorso di crescita
Nel momento stesso in cui comincia a
vedere le immagini del film è già coinvolto
in un processo di identificazione
Ma prima ancora che il pubblico si
identifichi con l’attore o con il personaggio
preferito,
l’istituzione
cinematografica
posiziona lo spettatore e la spettatrice,
cioè fissa la relazione che ognuno dovrà
intrattenere con il testo filmico
La Screen Theory: lo sguardo
maschile sulle donne
•Le studiose afferenti alla Feminist Film Theory durante gli
anni settanta hanno condotto una critica accesa nei confronti
della
rappresentazione
della donna nel cinema
hollywoodiano, giudicandola estremamente stereotipata, puro
oggetto di piacere dello sguardo maschile
•In particolare è la Screen Theory, elaborata nell’ambito della
rivista cinematografica inglese “Screen”, a dare l’avvio al
dibattito sul rapporto tra cinema e pubblico femminile.
Secondo questa teoria il testo filmico impone i propri
significati all’audience in quanto “posiziona” ogni soggetto
all’interno di categorie discorsive preordinate, alle quali si
presume sia pressoché impossibile sfuggire.
Nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema
(1975) Laura Mulvey osserva come nel cinema
hollywoodiano la “posizione soggettiva” attraverso la
quale ogni spettatore e ogni spettatrice è indirizzato a
vedere il film consiste nell’adottare uno sguardo
prettamente maschile (male gaze): il corpo femminile
è attraversato dalla macchina da presa come oggetto
del desiderio voyeuristico maschile, e i piaceri offerti
alle spettatrici presuppongono la negazione della
soggettività femminile, poiché anch’esse sono
invitate ad adeguarsi allo sguardo maschile sulle
donne che le “oggettiva”.
L’unica possibile identificazione delle spettatrici con
le eroine del cinema è allora definibile come
masochistica, nel senso che implica l’accettazione di
un ruolo subordinato all’uomo.
Tra gli anni ’70 e ’80 l’approccio femminista al cinema
viene fortemente influenzato dalla psicoanalisi
freudiana e lacaniana. Mulvey individua il piacere
freudiano
di
guardare
un’altra
persona
trasformandola in oggetto di stimolazione sessuale e
utilizza anche il concetto di “identificazione
narcisistica” (che per J. Lacan rimanda alla “fase
dello specchio”, quando durante l’infanzia inizia a
costituirsi l’ego individuale).
A suo avviso il cinema hollywoodiano permette al
pubblico maschile di ottenere questi due piaceri
contemporaneamente: il piacere che deriva
dall’osservare il corpo-oggetto femminile erotizzato, e
il piacere di identificarsi con il protagonista maschile
(il quale è a stretto contatto visivo e/o corporeo con il
personaggio femminile).
In particolare Mulvey fa riferimento al cinema di
Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile, 1954; La
donna che visse due volte, 1958; Marnie, 1964, ecc.),
regista che mette in scena in modo amplificato il
voyeurismo maschile.
Nei film di Hitchcock il pubblico vede esattamente ciò
che vede l’eroe maschile: la ripresa in soggettiva dal
punto di vista del protagonista maschile guida il
pubblico, sia maschile che femminile, nella sua
medesima posizione. L’audience è così calata
all’interno di una situazione voyeuristica. In questo
tipo di cinema, di stampo patriarcale, in cui gli uomini
sono protagonisti dell’azione e le donne interpretano
ruoli passivi, Mulvey ritiene praticamente impossibile
per le spettatrici provare a loro volta un piacere
voyeuristico nei confronti dei personaggi maschili.
Liesbet van Zoonen (1994) considera l’analisi di
Mulvey soffocante perché non lascia la possibilità alle
spettatrici di avere uno sguardo che non sia
sottomesso a quello maschile, e sottolinea come
molte studiose abbiano cercato di mettere in luce
anche il piacere femminile derivato dalla fruizione
cinematografica, ipotizzando una moltiplicazione
degli sguardi.
La stessa Mulvey (1981) in un saggio successivo a
Visual Pleasure, rivisita la sua tesi: riconoscendo
l’esistenza di smagliature nel dispositivo narrativo del
cinema classico – ossia la costruzione di personaggi
maschili che rivelano tratti di femminilità e la
costruzione di personaggi femminili che mostrano
capacità d’azione – ammette la possibilità di una
visione autenticamente femminile.
Mary Ann Doane (1982), nel considerare il piacere concesso
alla spettatrice, mette in luce la complessità dell’identità
femminile. Essa recupera il concetto di “mascheramento”
della psicoanalista J. Riviere: l’identità femminile
consisterebbe in un travestimento, in un “fare finta” di
possedere i tratti culturalmente associati alle donne per
nascondere inclinazioni e preferenze di fatto maschili.
La duplicità o la bisessualità femminile, secondo Doane,
impedirebbe di assumere una posizione voyeuristica , in
quanto essa prevede l’esistenza di una distanza tra il
soggetto dello sguardo e l’oggetto di visione, dalla quale
scaturisce il desiderio.
Le spettatrici a suo avviso possono solo avere o
un’identificazione narcisistica con l’oggetto della visione o
“mascolinizzarsi” identificandosi con l’eroe maschile. In una
secondo saggio Doane (1988), utilizzando concetti come
“gioco”, “scherzo” e “fantasia”, prevede però una serie di
escamotage per il pubblico femminile che permetterebbero di
avere un’esperienza di visione critica soddisfacente.
Teresa De Lauretis, esponente del Feminist
Psychoanalytic Film Criticism di matrice
statunitense, considera il cinema una
“tecnologia del genere” attraverso la quale si
indirizzano le donne a in-generarsi donne,
cioè a identificarsi nei modelli di femminilità
dominanti.
Dalla sua analisi dei testi filmici emerge che
la struttura narrativa distribuisce i ruoli
gerarchici di potere tra i personaggi con la
funzione
di
sedurre
le
spettatrici
(riproducendo lo schema del mito di Edipo)
affinché esse assorbano il concetto
tradizionalistico di femminilità.
A)
B)
La studiosa concepisce per il pubblico due possibili
processi di identificazione:
Uno consiste nell’identificazione maschile, attiva,
con lo sguardo (lo sguardo nella macchina da
presa e quelli dei personaggi maschili) e
nell’identificazione
femminile,
passiva,
con
l’immagine (corpo femminile, paesaggio);
Il secondo consiste in una doppia identificazione
simultanea con la figura del movimento narrativo e
con la figura dell’immagine narrativa, che riflette
l’oscillazione tra posizione attiva/passiva del
desiderio (desiderio per l’altro e desiderio di essere
desiderati dall’altro).
Questo secondo tipo di identificazione contempla
l’adesione della spettatrice anche con la
componente attiva della narrazione.
Le riflessioni successive al saggio di
Mulvey del 1975 sui possibili percorsi
d’identificazione offerti alle spettatrici
aprono la strada all’idea che il cinema
non si limiti a collocare il pubblico entro
una struttura della differenza sessuale
rigida e immutabile, ma possa invece
offrire fantasie liberatorie.
Le gratificazioni offerte alle
spettatrici
Gertrud Koch (1980) è tra le poche femministe che
all’inizio degli anni ’80 del ‘900 ha considerato la
possibilità di un apprezzamento della bellezza
femminile sullo schermo da parte delle spettatrici.
Soprattutto la figura della Vamp (un’immagine nata in
Europa e poi esportata e integrata nel cinema
hollywoodiano) può fornire alle spettatrici un modello
positivo di autonomia femminile.
In
termini
psicoanalitici,
inoltre,
la
vamp
permetterebbe alla spettatrice di rivivere l’esperienza
gratificante, d’amore, avuta con la madre nella fase
pre-edipica: Koch afferma pertanto che l’ambivalenza
sessuale di Greta Garbo o Marlene Dietrich accoglie,
oltre allo sguardo maschile, lo sguardo femminile
omosessuale.
Studiose come Jackie Byars (1991) hanno invece
criticato la psicoanalisi freudiana e lacaniana, in
quanto considera la donna in maniera negativa come
l’”altro”, “differente” e “mancante” rispetto all’uomo,
relegandola nel ruolo di “secondo sesso”, come ha
sostenuto a suo tempo (1949) Simone De Beauvoir.
Byars prende a riferimento l’approccio psicoanalitico
di studiose come Nancy Chodorow e Carol Gilligan
che mette in rilievo come le bambine, dal momento
che nascono da un essere umano del loro stesso
genere, seguono un percorso di individuazione
diverso dai bambini, presentando una maggiore
difficoltà a separarsi dalla madre: ne deriva che le
ragazze/donne si pensano maggiormente in
relazione agli altri, mentre i ragazzi/uomini si
percepiscono molto di più come individui autonomi,
scissi dagli altri.
Questa “differenza” tra i sessi va letta
positivamente, come capacità femminile di
instaurare legami profondi (e accudenti) con
le altre persone, dentro e fuori la cerchia
familiare.
L’analisi di Bryars dei film melodrammatici
degli anni ’50, dimostra ad es. che la struttura
narrativa di queste storie, che ritraggono
come protagoniste madri e figlie, non
posiziona il pubblico in un’ottica maschile e
voyeuristica; piuttosto, induce le spettatrici a
provare piacere nell’identificarsi in donne dal
carattere forte, spesso coinvolte in legami
d’amicizia con altre donne.
Byars ipotizza quindi l’esistenza di uno
sguardo “al femminile” nei confronti delle
eroine cinematografiche.
Altri esempi di letture di film che esplorano il
piacere offerto dal testo filmico alle spettatrici.
L. Arbuthnot e G. Seneca (1982ù) analizzano
il film “Gli uomini preferiscono le bionde”
(H.Hawks, 1953), con protagoniste M.
Monroe e J. Russell. Secondo le studiose
questo film può essere considerato
femminista: le due attrici mettono in scena
due donne forti e indipendenti in cerca di
marito.
La trama romantica del film, basata sul
tradizionale
desiderio
femminile
di
sposarsi/sistemarsi, rappresenta solo il
contenuto manifesto della storia: a un livello
profondo di significato si può constatare la
presenza di elementi di “resistenza”
all’oggettivazione maschile della donna. Ad
es. se le due attrici sono apparentemente
costruite come oggetti dello sguardo
maschile, esse spesso capovolgono questo
sguardo nel momento in cui scrutano e fanno
commenti sull’”uomo giusto” da accalappiare.
Inoltre le spettatrici possono provare piacere
nell’osservare uno stretto legame d’amicizia
tra donne da cui è assente la gelosia e la
competizione.
L’analisi di T. Skjerdal (1997) del film Thelma
e Louise (R. Scott, 1991), è finalizzata a
rovesciare l’approccio psicoanalitico al
cinema nei termini proposti da Mulvey.
Secondo la Screen Theory nella prima parte
del film le due protagoniste verrebbero viste
come donne oggetto totalmente dipendenti
dai mariti. In seguito, dopo la violenza
sessuale subita da una di loro, esse
scappano alla ricerca dell’indipendenza, della
libertà e dello spazio, qualità generalmente
attribuite agli uomini.
La stessa fuga delle protagoniste si avvale di simboli
del potere e della forza maschili: l’automobile, la
pistola, il linguaggio rude. E si può infine ipotizzare,
afferma la studiosa, quale lettura del finale verrebbe
fornita secondo questo tipo di approccio: l’episodio
delle due eroine che spingono l’auto giù dal Grand
Canyon attesterebbe come le donne siano
intrappolate nel sistema dominante maschile che non
lascia loro altra scelta che uccidersi.
Skjerdal contesta principalmente il fatto che
l’approccio psicoanalitico tradizionale, ponendo una
distinzione rigida tra ruolo attivo maschile e ruolo
passivo femminile, impedisce di guardare anche alle
possibili interpretazioni positive dei contenuti del film.
Thelma e Louise può infatti offrire alle spettatrici la
fantasia liberatoria di cambiare i proprio destino
divenendo, da oggetti passivi e dipendenti dagli
uomini, soggetti attivi, dando autentica voce ai
desideri femminili e zittendo i discorsi degli uomini.
Si è visto come negli anni ’80 e ’90,
nell’ambito dei Media Studies, l’attenzione si
sposti dall’analisi del testo allo studio
dell’audience, considerando la varietà dei
contesti di ricezione. La ricerca di J. Stacey
(1994) si muove in questa direzione.
Basandosi sui racconti di vita di un gruppo di
donne inglesi, spettatrici assidue di cinema
durante gli anni post-bellici 1940-50, Stacey
contesta le ipotesi sostenute dalla Screen
Theory: esse non sembrano assorbire
passivamente ciò che vedono al cinema né
sono necessariamente imbrigliate in uno
sguardo maschile.
Dalla loro “memoria iconica” risulta che erano
consapevoli di non potere assomigliare alle
immagini femminili ideali presentate dal
cinema hollywoodiano e al tempo stesso
provano piacere nell’identificarsi con le star
dell’epica, ne apprezzavano il glamour e in
sostanza l’andare al cinema serviva loro per
sfuggire alla monotonia della vita quotidiana.
Ciò che questa ricerca attesta è la
contraddittorietà
dell’esperienza
delle
spettatrici, che non si restringe all’assunzione
di una sola posizione (quella passiva,
implicita nel male gaze) della soggettività
femminile
Un ulteriore aspetto su cui riflettere deriva dalla tendenza
dell’industria cinematografica, e in particolare dello star
system americano, a costruire icone maschili con
l’esplicita finalità di attrarre gli sguardi femminili ( un
fenomeno che comincia ad avvertirsi anche nella fiction
televisiva e nella pubblicità): si va da Richard Gere ai
tempi di American Gigolò, 1980, a Tom Cruise (Top Gun,
1986), da Brad Pitt (Vento di passioni, 1994) a Leonardo
Di Caprio (Titanic, 1997), tutti belli, seducenti, dai corpi
modellati e sufficientemente romantici.
Se da un lato viene introdotta la legittimità di uno sguardo
femminile su corpi-oggetto maschili erotizzati, che in
un’ottica paritaria risarcirebbe le spettatrici dall’esclusione
della soggettività femminile dal testo filmico, si può
obiettare che le storie dei film interpretati da questi
“belloni” non sono filtrate dal punto di vista dei personaggi
femminili. Al centro della trama, protagonisti dell’azione, vi
sono gli uomini (che lottano e vincono, si riscattano,
amano e si sacrificano per amore).
Film che decostruiscono gli
stereotipi di genere
Una rapida carrellata di film pensati e costruiti da
registe donne con l’intento di rappresentare punti di
vista femminili sul mondo e sul genere maschile, e
forse di mettere in scena il “potere del desiderio
femminile”, con le sue contraddizioni.
Negli anni ’80 del ‘900 spiccano i film della regista
tedesca Margarethe von Trotta (Sorelle, 1979; Anni
di piombo, 1981; Lucida Follia, 1982, ecc.), mentre
negli anni ’90 emerge la cinematografia della regista
neozelandese J. Campion che specialmente con
Lezioni di piano (1993) offre un mirabile esempio di
forza femminile raccontando la difficile battaglia della
protagonista contro le convenzioni, gli uomini e se
stessa per affermare il proprio desiderio nel mondo.
Altri film diretti da registe che vale la pena di
menzionare sono Orlando di Sally Potter (1992),
tratto dal testo di V.Woolf, poliedrico e ironico
affresco di come potrebbe cambiare la vita di un
uomo nel momento in cui diventasse una donna.
Oppure Gli occhi della Vita (2002) di Mira Nair , un
film minore della regista indiana, ma estremamente
efficace nel raccontare come il raggiungimento da
parte delle donne dell’indipendenza psicologica dagli
uomini passi attraverso una lunga fase di “prove ed
errori”, per poi approdare a un cambiamento di punto
di vista: da donne perennemente frustrate e deluse
dagli uomini, a donne che rivalutano il loro rapporto
d’amicizia e si aprono con ottimismo alla vita.
Un altro film interessante è Lost in
Translation (2003, S. Coppola) per la
delicatezza tutta femminile nel raccontare un
incontro casuale, diventato poi di “quasi
amore” tra un uomo e una donna. Questi film
si caratterizzano per il fatto di ritrarre le
donne in qualità di soggetti attivi della
narrazione, di mostrare il corpo femminile in
maniera non oggettivata, di valorizzare
l’alleanza
tra
donne,
di
dipingere
l’immaginario amoroso ed erotico con occhi e
sensibilità femminili; sono film che in
sostanza guidano il pubblico a posizionarsi in
un’ottica femminile (female gaze).
Se la quantità di registe nel mondo è ancora
piuttosto esigua, sono molti i film diretti da
uomini
che
raccontano
le
donne
(denunciando i soprusi che esse subiscono
dagli uomini ed evidenziandone i desideri
d’amore e di vendetta), nei quali si può
ravvisare l’intento di valorizzare i punti di vista
femminili. Alcuni tra i più recenti e significativi:
oltre a Thelma e Louise, Bagdad cafè (P.
Adlon, 1987); Nikita (L. Besson, 1990);
Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (J.
Avnet, 1991); Lanterne rosse (Z.Ymou,
1992); Chocolat (L.Allstrom, 2000); Pane e
Tulipani (S.Soldini, 2000); Il cerchio (J.
Panahi, 2000); Kill Bill (Q. Tarantino, 2003).
In particolare il
che ha creato i
paradossali ed
stereotipi
di
hollywoodiano.
regista spagnolo Pedro Almodovar,
personaggi femminili e maschili più
estremi, andando a sovvertire gli
genere
costruiti
dal
cinema
La galleria di personaggi che ha mostrato in questi
decenni (ad es. Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del
mucchio, 1980; Che ho fatto io per meritare questo?,
1984; Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1987;
Legami!, 1989; Tacchi a spillo, 1991; Tutto su mia
madre, 1999; Parla con lei, 2002; La mala educacion,
2004; Volver, 2006) fuoriescono dalle convenzioni
sociali e dalle tradizionali categorie di genere. Suore
peccatrici, puttane, travestiti, transessuali, lesbiche,
gay, uomini iperfemminili che piangono, uominimacho che a loro volta si scoprono fragili, donne
ipermascoline che criticano l’universo maschile e
donne disperate e sottomesse in amore che
scoprono inaspettati punti di forza.
L’accentuazione in maniera caricaturale e
performativa
delle
caratteristiche
tradizionalmente attribuite agli uomini e alle
donne sollecita il pubblico a mettere in
discussione i rigidi costrutti di genere:
Almodovar infatti costruisce forti personalità
maschili in sembianze femminili e va
continuamente
scoprendo
sensibilità
femminili in personaggi interpretati da uomini.
I personaggi più intensi che Almodovar mette
in scena sono ad esempio i travestiti e i
transessuali, anime dalla sensibilità femminile
imbrigliate in corpi maschili che reclamano il
riconoscimento sociale del loro valore umano
e il diritto di esprimere liberamente le proprie
inclinazioni sessuali e sentimentali.
Il travestito Agrado in Tutto su mia madre
racconta al pubblico di una sala teatrale
quanto gli è costato ogni singolo “pezzo” di
corpo femminile da sovrapporre al suo
originario corpo maschile (zigomi, labbra,
seni, glutei): “Costa molto essere “autentica”,
ma una persona è tanto più autentica quanto
più somiglia all’immagine che ha sempre
sognato di se stessa”.
Ovvero esprime il concetto che è
fondamentale il proprio sentire interiore, al
quale si cerca eventualmente di accordare
l’aspetto esteriore.
Nei film di Almodovar il confine tra il concetto di
femminilità e quello di mascolinità si assottiglia,
le contraddizioni esplodono, le relazioni
gerarchiche di potere si invertono, l’azione non è
solo maschile così come l’oggetto di visione non
è solo femminile, e il risultato è l’accettazione
amorevole di tutte le differenze: la valorizzazione
della specificità/unicità di ogni essere umano,
che non consiste però nella cancellazione della
differenza sessuale (in linea con quanto
affermano le teoriche postgenere).
Gli uomini dipinti da Almodovar sono quasi
sempre dei perdenti, dei deboli, dei pusillanimi e
dei vigliacchi che spesso peccano di machismo,
mentre le donne sono quasi sempre sull’orlo di
una crisi di nervi, ma si sostengono a vicenda
con grande solidarietà e affetto, sanno
maternamente prendersi cura degli altri.
E’ evidente la tesi sostenuta dal regista spagnolo
della superiorità della donna (e di conseguenza
dell’uomo
femminilizzato)
rispetto
all’uomo
classicamente inteso.
Potremmo allora definire l’universo dei film di
Almodovar come multigenere: gli spettatori e le
spettatrici sono catapultati in uno spazio immaginario
in cui c’è posto per tutti e per tutte,
indipendentemente
dall’aspetto
fisico
e
dall’orientamento sessuale di ciascuno e ciascuna.
Segnaliamo infine altri film recenti che vanno nella
direzione di una legittimazione delle soggettività
oscillanti “tra” i generi: I segreti di Brokeback
Mountain (Ang Lee, 2006), nel quale si narra della
passione che inaspettatamente si accende tra due
giovani cowboy (e che diventerà Amore), e
Transamerica (D. Tucker, 2006), un road-movie che
con ironia e umanità riesce a mostrare la delicata
situazione psicologica di un uomo che sta per
diventare donna a tutti gli effetti.
Quindi….
Le icone femminili e maschili del cinema
fungono da modelli di riferimento per il
pubblico alimentando l’immaginario
collettivo. Dall’inizio della storia del
cinema si susseguono diversi modelli di
femminilità e mascolinità, non sempre
tendenti a confermare gli stereotipi di
genere
Un aspetto importante da tenere in
considerazione è la “posizione del soggetto”
che la macchina cinematografica costruisce
per le spettatrici e gli spettatori: il pubblico
viene guidato ad assumere il punto di vista
del soggetto dell’azione narrativa che è più
spesso il protagonista di sesso maschile,
mentre
la
protagonista
femminile
generalmente ricopre il ruolo passivo di
oggetto sessuale, istigando il pubblico, sia
maschile sia femminile, al voyeurismo.
Posizione paradossale per le spettatrici che
viene discussa dalle studiose femministe.
Vi sono però film diretti da registe
donne, e anche molti film diretti da
registi uomini, che intenzionalmente
rovesciano lo schema della tradizionale
divisione dei compiti tra protagonisti
maschili e femminili, attribuendo alle
donne il ruolo di “motori delle storie” e
guidando il pubblico di entrambi i sessi
ad adottare una prospettiva al femminile
Quindi…
Internet è un mezzo in espansione: viene
utilizzato da circa il 17% della popolazione
mondiale e si sta arrivando alla parità
numerica tra utenti uomini e utenti donne. Le
potenzialità offerte dall’uso di Internet sono
molteplici. In particolare vi è la possibilità di
accedere alle discussioni su qualunque
argomento di interesse pubblico, e quindi di
partecipare attivamente alla vita politica,
sociale e culturale, uscendo dai confini del
“privato”
Le donne hanno un rapporto conflittuale con
la tecnologia che dipende principalmente
dalla loro secolare esclusione dalle
professioni tecniche e scientifiche, considerati
“ambiti maschili”. Da molte ricerche emerge
che nell’uso di tecnologie come il telefono, la
televisione o Internet, esse presentano uno
stile di fruizione diverso da quello degli
uomini: maggiormente “relazionale” quello
femminile e più “strumentale” quello
maschile. Oltre a riflettere la classica
divisione dei compiti tra i sessi, questa
differenza di genere può essere sfruttata in
positivo: ad esempio per comunicare e
allearsi tra donne di ogni parte del mondo
Un aspetto individuato dalle ricerche
sugli utilizzi della Rete da parte di
navigatrici e navigatori assidui, è la
possibilità di cambiare virtualmente
genere, al fine di esprimere aspetti della
propria identità celati nella vita reale o di
sfuggire a forme di intimidazione (che
coinvolgono soprattutto le donne).