Identità di genere e media Sociologia Generale Avanzata Anno Accademico 2007/2008 Prof.ssa Ester Cois Introduzione La parità tra i sessi? Un obiettivo raggiunto: oggi le ragazze hanno le stesse opportunità lavorative e di vita dei ragazzi Basti pensare che all’università hanno accesso a tutte le facoltà e si laureano in misura maggiore dei loro coetanei Le immagine stereotipate diffuse dai media? Un tema che sa di “vecchio”, stantio, affrontato da studiose femministe insoddisfatte della loro vita amorosa e inacidite di fronte alla bellezza delle “altre” donne, quelle perfette dipinte dalla pubblicità Anche gli uomini vengono ritratti come oggetti sessuali, a ulteriore dimostrazione della parità tra i sessi Le donne in/visibili e senza potere? E basta con questa smania di potere! Le donne che sacrificano la vita privata per inseguire la carriera pagano un prezzo troppo alto: che ne è della loro femminilità? Il femminismo? Ah, sì, quando le donne andavano in piazza a bruciare i reggiseni e professavano l’amore libero Questi sono alcuni dei luoghi comuni circolanti nella nostra società, fatti propri da donne come da uomini, per lo più da ragazzi e ragazze appartenenti alle nuove generazioni Riflettono un modo di pensare volto a minimizzare le difficoltà affrontate ogni giorno dalle donne che lavorano e/o hanno famiglia Esse conducono una vita sicuramente migliore rispetto a 30-40 anni fa, dal punto di vista dei diritti acquisiti, ma ancora segnata da profonde disuguaglianze tra i sessi Sia in ambito privato, specie per quanto concerne la divisione dei compiti all’interno della coppia Sia in ambito pubblico, in particolare per la difficoltà di fare carriera E’ inoltre inquietante constatare la persistenza dei fenomeni delle molestie e delle violenze sessuali che colpiscono le ragazze e le donne in ogni dimensione della vita quotidiana (tra le pareti domestiche, sul luogo di lavoro, per strada) Va quindi scalfita quell’apparente e spesso data per scontata eguaglianza tra i sessi: Se da un lato considerarla “cosa fatta” contribuisce a nascondere perduranti e sottili disparità e ingiustizie (e al tempo stesso non valorizza la differenza sessuale e le differenze di genere) Dall’altro lato porta a offuscare tra le giovani generazioni proprio la memoria storica delle tante lotte condotte dalle femministe, che hanno consentito alle ragazze di ampliare gli orizzonti delle loro scelte di vita Può essere allora proficuo domandarsi: che cosa si intende oggi per “femminilità” o per “identità femminile”? E per “mascolinità” maschile”? e “identità Quali sono i modelli femminili e maschili prevalentemente diffusi dai media da cui trarre ispirazione su come atteggiarsi, comportarsi, “essere”? Teniamo presente che negli ultimi decenni i media hanno assunto sempre più rilevanza nel fornire punti di riferimento per orientarsi, divenendo una nuova agenzia di socializzazione in competizione con quelle tradizionali (famiglia, scuola, parrocchia, etc.) I media permettono infatti ai singoli utenti di avviare processi di autoformazione, sia nella raccolta di informazioni, sia nella costruzione dell’identità soggettiva Dal momento che i media presentano una molteplicità di situazioni, storie e personaggi, favoriscono un processo riflessivo del sè Oggetto della lezione La lezione mira a offrire una sintetica panoramica dei dibattiti teorici e dei risultati delle ricerche sviluppatesi a livello nazionale e internazionale riguardo al tema Genere e Media. Ne emerge un quadro complesso, che attesta le difficoltà delle donne ad occupare spazio e rilevanza nell’arena culturale mediatica Notazioni generali: Genere e Media Si tratta di un tema emerso a partire dagli anni ’60 e ’70 del Novecento, che continua ad essere dibattuto con grande vivacità intellettuale, in prevalenza nei Paesi anglosassoni e nordeuropei (nell’ambito dei Feminist Studies, Women’s Studies, Gender Studies, Feminist Media Studies, Men’s Studies, Gay and Lesbian Studies, etc.) Gli aspetti derivati dall’intreccio tra “genere” e “media” affrontati in questo lasso temporale sono molteplici: Dalla comparazione delle posizioni professionali occupate da donne e uomini nelle organizzazioni dei media: Carriere femminili e maschili All’analisi delle immagini femminili e maschili nei contenuti Allo studio degli “usi” e delle interpretazioni dei contenuti da parte dei pubblici (audience) Anche se la ricerca si è inizialmente focalizzata sul genere femminile (individuando il tema “donne e media”), di recente è aumentato l’interesse nei confronti del processo di costruzione dell’identità maschile e dell’identità omosessuale, sia maschile sia femminile Allargamento della prospettiva di questo ambito di studi N.B. il termine “genere” non coincide con le “donne”: è un codice binario che, oltre a segnare la presenza dei due sessi nella società, implica reciprocità, sottolinea la relazione e le interazioni tra donne e uomini viste in una dialettica costante Nelle ricerche ci si interroga sul ruolo assunto dai media nell’orientare l’opinione pubblica riguardo ai concetti di “femminilità” e di “mascolinità” Ai media viene attribuita grande importanza in qualità di costruttori della realtà sociale, poiché rendono più visibili, e quindi rafforzano a livello simbolico, determinati comportamenti sociali e categorie, così come ne celano o ne mettono in secondo piano altri, decretando gerarchie di valori Se i primi studi erano caratterizzati da un eccessivo allarmismo circa il potere dei media di ostacolare il processo di emancipazione femminile (dal momento che la rappresentazione dei ruoli di genere risultava alquanto stereotipata)… …i cambiamenti riscontrati via via nei contenuti hanno rafforzato l’ipotesi che i media potessero invece agevolare la trasformazione della realtà sociale Nel corso degli ultimi decenni essi hanno diffuso e legittimato nuovi ruoli per donne e uomini (ad es. attraverso le immagini di donne in carriera e di uomini teneri con i figli), e hanno cominciato ad accogliere le differenze identitarie dei soggetti rispetto all’orientamento sessuale (ad es. rappresentando gay, lesbiche, transessuali, etc.) Ne deriva un’offerta attuale di modelli di genere piuttosto ampia e diversificata, che contribuisce a svecchiare la concezione tradizionalistica dei sessi, alimentando in particolare le aspirazioni lavorative delle ragazze Nonostante la pluralità dei modelli femminili e maschili veicolati dai media e la varietà delle interpretazioni offerte da diversi tipi di pubblici, permangono forti perplessità relative a questa tematica espresse e discusse da studiose e studiosi (e da professioniste e professionisti dei media “attivisti” in ogni parte del mondo) 1) Come attestano molte ricerche, il messaggio prevalente (mainstream) relativo alla femminilità diffuso dai media implica una svalorizzazione dell’esperienza, delle competenze e dell’intellettualità delle donne Ad es. sono ancora poche le donne che rivestono ruoli di rilievo e spessore nell’ambito dell’informazione, della pubblicità o della fiction, mentre si dà maggiore enfasi a i ruoli tradizionali e all’aspetto fisico 2) Di conseguenza, continua ad essere ritenuta valida l’ipotesi di una correlazione tra questo tipo di messaggio e la minore importanza attribuita al genere maschile rispetto a quello maschile nella società, attestata dal fatto che le donne fanno ancora fatica ad arrivare ai vertici delle posizioni sociali e professionali Es. Esigua presenza di donne nella sfera politica, nei ruoli dirigenziali o alla direzione dei mezzi d’informazione nel nostro Paese In una graduatoria di 183 Stati, l’Italia nel 2004 era al 73° posto con l’11,05% di donne alla Camera e l’8,01% al Senato sul totale dei membri Nel 2006 la situazione non è cambiata molto, anche se da una percentuale del 10% di donne nell’intero Parlamento si è passati al 16% e da 2 donne ministro della scorsa legislatura si è arrivati a 6 (il 24% sul totale dei ministri) Le dirigenti delle aziende industriali sono il 5%, contro il 95% dei dirigenti Le direttrici dei principali quotidiani italiani sono il 3,2%, nelle agenzie di stampa non superano il 5,9, nelle radio il 4,8 e nelle televisioni l’8,5 3) Dalle ricerche emerge inoltre che le donne che lavorano nelle organizzazioni dei media tendono ad adeguarsi ai valori e ai punti di vista maschili, invece di bilanciarli proponendo una visione del mondo “al femminile” Dipende solo dalla mancanza di potere decisionale? Manca comunque una riflessione sulle differenze di genere da parte di tutti coloro, donne e uomini, che concorrono professionalmente a costruire i contenuti 4) Considerando il punto di vista del pubblico, sia femminile sia maschile, che margine di scelta effettiva dei contenuti ha? In che modo può intervenire in qualità di “opinione pubblica” per contrastare ciò di cui non è soddisfatto, oltre a decidere di non esporsi a quei contenuti? Come fruitori di quotidiani e telespettatrici è possibile provare un senso di disagio: Quando sui giornali si leggono principalmente dichiarazioni di politici uomini (le donne che fanno politica saranno anche poche ma quanta “voce” hanno?) Quando si assiste alle riedizioni televisive della “donna bella e stupida” (come l’irriverente, per quanto ironica, rappresentazione delle gemelle Lecciso, La Pupa e il Secchione, etc.) Quando alle donne non viene data la parola su questioni rilevanti (come nel salotto di Bruno Vespa) Quando le stesse donne fanno osservazioni sul fisico delle altre donne o si contendono l’uomo (come nei talk show condotti da Maria De Filippi) Quando il sogno delle ragazzine è fare le veline a Striscia la Notizia (in una moltiplicazione di concorsi di bellezza, oltre a Miss Italia) Cosa ne consegue? E’ necessario farsi un’idea dei dibattiti in corso sul tema “genere e media”, che solo superficialmente può essere considerata una problematica superata Nella Quinta Conferenza Mondiale sulle donne dell’ONU, svoltasi a New York nel 2005 (a dieci anni di distanza dalla Conferenza di Pechino), è stato rinnovato l’invito ai governi e alle organizzazioni dei media a promuovere un’immagine meno stereotipata delle donne e la partecipazione delle professioniste dei media a tutti i livelli dei processi decisionali Questione di Sguardi: una cornice teorica Lo sfondo teorico in cui si inscrivono le ricerche USA e UE su “genere e media” consiste nelle: a) Teorie femministe: impulso iniziale b) Teorie dei media Dall’intreccio tra questi due ambiti teorici derivano diversi modi di interpretare: 1) Le immagini femminili e maschili 2) I comportamenti dei pubblici 3) I ruoli professionali delle donne nelle organizzazioni dei media Si tratta di diversi “sguardi” o punti di vista, che forniscono una determinata cornice interpretativa (frame) ai dati “oggettivi” ricavati dalle analisi In base allo sguardo adottato dalle studiose/i: a) Negli anni ’60 e ’70 prevale il modello della parità tra i sessi b) Negli anni ’80 e ’90 prevale il modello della valorizzazione femminile c) Nella seconda metà degli anni ’90 emerge il modello postgenere Attualmente, tuttavia, i tre modelli coesistono Ripercorriamo alcune tappe che hanno segnato la storia del pensiero di genere e il Movimento delle donne Il modello della parità tra i sessi Anni ’60 e ’70 Due celebri testi ne segnano l’avvio: a) “La mistica della femminilità”: B. Friedan (1963) b) “La condizione della donna”: J. Mitchell (1966) Denuncia della manipolazione ideologica delle donne a opera dei media Obiettivo prioritario del Movimento femminista: Sconfiggere la diffusione di stereotipi mirati a confinare le donne nel “privato” o a sfruttarne commercialmente il corpo Anni ’70: negli Usa si sviluppa il Women’s Liberation Movement (WLM), che contiene due correnti: 1) Femminismo Liberale (si riallaccia al femminismo di fine ‘800 (Equal rights feminism): le donne, da sempre considerate esseri inferiori, devono condurre battaglie politiche, sociali, economiche, per raggiungere l’uguaglianza con l’uomo, divenendo così “esseri umani completi” 2) Femminismo Radicale: le donne non devono imitare il modello maschile, ma valorizzare la propria “specificità” e costruire una cultura femminile I concetti di uguaglianza e differenza rappresentano i due poli tra cui oscilleranno le successive teorie femministe Il paradigma teorico delle prime ricerche sul tema “donne e media” è il Femminismo Liberale, la corrente che maggiormente interpreta il Modello della Parità Il genere è considerato come “neutro”: donne e uomini sono esseri umani uguali Dal momento che le donne (in quanto soggetto collettivo) sono state per secoli poste dagli uomini in condizione di inferiorità, impossibilitate a esprimere le proprie capacità e a fare valere i propri diritti, esse devono riequilibrare la loro condizione, tramite riforme e leggi a loro vantaggio Il modello di riferimento è quello maschile: se le donne sono state intrappolate nell’ambito del privato, la necessità primaria diventa l’emancipazione femminile attraverso il lavoro, sostenuta dalle battaglie per ottenere l’accesso alle carriere maschili e per la parità di salario a parità di occupazione lavorativa Aderire a questa linea di pensiero per le studiose/i significa: a) Confrontare i ruoli sociali in cui sono ritratte le donne nei contenuti dei media con quelli in cui sono ritratti gli uomini (Role image approach) b) Confrontare le immagini delle donne con la realtà della condizione femminile Le ricerche denunciano: ì - Una rappresentazione femminile stereotipata e discriminante rispetto a quella maschile - Lo scarto esistente tra le immagini femminili veicolate dai media e la vita varia e diversificata delle donne nella realtà (proprie in quegli anni entrano in massa nel mondo del lavoro) Nella fiction televisiva americana la stereotipizzazione delle donne si rivela sotto un duplice aspetto: a) Sono sottorappresentate numericamente rispetto agli uomini (e rispetto alla quantità di donne effettivamente presenti nella realtà) b) Sono ritratte in un numero limitato di ruoli (più spesso nei ruoli di madre e di moglie, raramente in un ruolo professionale) Quando sono mostrate al lavoro, svolgono occupazioni di minore prestigio rispetto agli uomini Sono più interessate alla vita personale piuttosto che a quella professionale Se hanno forti ambizioni spesso vengono “punite” dall’insuccesso in amore Nella pubblicità, messa sotto accusa dalle femministe, le donne sono rappresentate prevalentemente come casalinghe (spesso mentre svolgono lavori domestici) oppure come oggetti sessuali del desiderio maschile (rivestimento erotico dei beni di consumo) Negli spot le donne che lavorano sono pochissime e in ruoli di poco prestigio o subalterni agli uomini Gaye Tuchman (1978) avanza un’ipotesi che giustifica la denuncia sociale delle studiose/i: secondo la reflection hypothesis i Media non riflettono la realtà, quanto i valori e le idee dominanti presenti nella società Ciò che viene mostrato in televisione sono le immagini di donna e di famiglia ideali, in linea con i valori americani, che nascondono intenti puramente commerciali e ideologici Tuchman avverte l’intento di un annullamento simbolico delle donne da parte dei media: convincendole che la loro vita deve essere limitata agli affetti familiari e alla casa, le si esclude dalle forze produttive e dunque, a livello simbolico, si annulla la rilevanza della loro presenza nel mondo La “teoria della coltivazione” (Cultivation Theory) (Gerbner, 1972): teoria che nell’ambito dei Media Studies avvalora l’ipotesi di un’audience passiva, succube dei contenuti trasmessi dalla TV Chi guarda assiduamente la TV (heavy viewers) non può che restare influenzato dalle rappresentazioni della realtà che essa propone, che tendono a rafforzare l’ordine sociale e le idee e le categorie sociali dominanti Es. Si mostrano più uomini che donne; più persone di razza bianca che nera; più persone della middle-class che della workingclass Se nella fiction televisiva USA lo studioso verifica la presenza di numerosi stereotipi sessisti, i risultati delle analisi sul pubblico vi trovano corrispondenza: chi guarda molta televisione dimostra di essere più sessista rispetto a chi la guarda poco (light viewers) Gerbner denuncia la forte resistenza culturale da parte dei media a rappresentare i cambiamenti sociali, considerando l’immagine femminile diffusa dalla televisione “una repressione orchestrata nei confronti dell’avanzata economica e sociale delle donne” I Media sono accusati di ostacolare l’emancipazione femminile, passando sotto silenzio la partecipazione delle donne alla vita sociale, non riconoscendo l’esistenza del movimento femminista e proponendo come modello dominante quello tradizionalista Si esprime il timore che la rappresentazione stereotipata del genere femminile possa frenare le aspirazioni delle ragazze, scoraggiandole a lavorare Altri aspetti emergenti dalle ricerche sono la discriminazione e la segregazione femminile presenti all’interno degli apparati produttivi dei Media: Le donne risultano fortemente ostacolate nella carriera e in generale occupano posizioni professionali meno importanti di quelle occupate dagli uomini Ne deriva che non hanno il potere di decidere quali contenuti trasmettere L’ipotesi è che se si arrivasse a un riequilibrio numerico tra professionisti e professioniste all’interno delle organizzazioni dei Media, l’immagine femminile potrebbe migliorare “La maggioranza di noi crede che il sessismo nei Media scomparirà se le donne occuperanno posizioni chiave nella direzione e nella produzione” (Butler, Paisley, 1980) Anche in Italia negli anni ’70 del ‘900 emergono due correnti femministe: a) Una maggiormente legata al modello della parità, che si riallaccia al movimento emancipazionista di inizio ‘800 b) Una definita Neofemminismo che, denunciando l’oppressione maschile sviluppatasi nell’ambito del privato, richiama fortemente la necessità di salvaguardare l’autonomia e la specificità femminile Ricerche di Gioia Di Cristofaro Longo (1985 e 1992), promosse dalla Commissione Nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna Vi si denuncia la presenza di molti stereotipi di genere nei contenuti dei Media (“la novità di un’assenza di novità”) Si invitano i cittadini a segnalare i casi di discriminazione femminile riscontrati nelle pubblicità Differenza rispetto alle altre ricerche: si presuppone nel pubblico un aumentato livello di non accettazione di un’immagine femminile distorta, offensiva e lesiva della dignità delle donne Il modello della valorizzazione femminile Anni ’80 del ‘900 Negli USA come nei Paesi Europei, il modello della parità viene messo fortemente in discussione Sulla scia del femminismo radicale si comincia a rifiutare la politica riformista egualitaria che porta le donne ad assimilarsi alla logica maschile Se sul lavoro le donne cercano di imitare i comportamenti competitivi degli uomini, lo fanno soffocando i valori femminili, che vengono integrati ai valori dominanti maschili Si avverte invece la necessità di valorizzare la cultura femminile: l’intero apparato culturale viene rivisto dal punto di vista delle donne Si inizia: - A contestare la loro esclusione dalle varie discipline smascherando l’ideologia patriarcale - A riscrivere la storia, la scienza, la filosofia, la religione, la letteratura, etc., rivalutando la produzione teorica delle donne e facendo emergere la loro invisibile presenza (es. Women’s Studies) Il modello della parità viene così in parte sostituito dal modello della Valorizzazione Femminile (Capecchi, 1993) In questa prospettiva, l’obiettivo non è di rendere le donne uguali agli uomini sul piano formale, ma di ridare valore alle differenze socialmente costruite e/o a quelle biologiche, essenziali, esistenti tra gli uomini e le donne Non essere trattati egualmente, ma essere trattati da eguali Inoltre, uno degli assunti principali emersi dal Femminismo anni ’80 riguarda l’importanza di considerare le differenze di ceto, razza, età, etnia, livello d’istruzione, etc. all’interno del genere femminile Entro questo modello confluiscono due correnti femministe, a lungo contrapposte: a) La posizione sostenuta dalle teoriche del gender, che ha segnato la tradizione femminista angloamericana b) La posizione delle teoriche della differenza sessuale, nata dal movimento francese dell’ écriture féminine (Cixous, Kristeva, Irigaray), affermatasi in Europa 1975: G. Rubin introduce il concetto di gender, che smaschera la costruzione socioculturale dei due sessi, i significati che nel tempo sono stati attribuiti a uomini e donne, organizzandone la divisione dei compiti e le modalità di comportamento nell’ambito del privato come nel sociale La tesi della “naturale” inferiorità femminile viene contestata Le teoriche del gender portano alla luce “quanto di fabbricato, costruito e non naturale vi fosse in ciò che fino ad allora era stato chiamato semplicemente sesso e dato per scontato, astorico, immodificabile”. Grazie alla “scoperta” dei generi, di un maschile e di un femminile, la distinzione originaria – maschio/femmina – viene interpellata e ripensata Ad es. (Nadotti, 1996), “perché si suppone che le femmine siano naturalmente inclini al sacrificio e al lavoro di cura, docili, abnegate, passive, accomodanti, portate alla sedentarietà e alla stabilità, paurose, fragili, bisognose di protezione, incapaci di pensiero astratto, emotive, inaffidabili, e i maschi naturalmente attivi, aggressivi, coraggiosi, forti, capaci d’iniziativa e portati al movimento e all’esplorazione, protettivi, ardimentosi, adatti ai mestieri rudi e all’aria aperta, razionali?” Secondo quest’ottica la disparità tra l’uomo e la donna non è naturale, fondata su presupposti biologici e quindi immutabile, bensì costruita storicamente a svantaggio del genere femminile: al “sesso” (sex) si contrappone il “genere” (gender). Anche la filosofa francese L. Irigaray (1985 e 1990), teorica del pensiero della differenza sessuale (che ha influenzato L. Muraro, e A. Cavarero) afferma la necessità di decostruire, a partire dai sistemi filosofici e religiosi, la presunta neutralità e universalità di valori, dogmi e concetti che sono invece maschili e che rappresentano il dominio di una parte di umanità sull’altra La messa in discussione di un’unica verità universale o di un pensiero neutro totalizzante non costituisce esclusivamente una questione di “costruzione sociale”, ma poggia sulla differenza biologica tra i sessi, un dato innegabile e irriducibile da cui partire Il concetto che l’umanità è divisa in due generi sessuati al femminile e al maschile va al di là di una rivalutazione della “specificità femminile” e si allarga a una teoria che ripensa la specificità di ciascun genere, elaborando una cultura nel rispetto dei due generi, che ancora non esiste Una cultura che riequilibri il potere tra i due sessi, dando o ridando valore al genere femminile Le donne non devono diventare “uomini”, ma devono avere accesso a una soggettività di pari valore affermando la loro differenza e il loro sguardo sul mondo Irigaray (1985): “Perché abbia luogo l’opera della differenza sessuale occorre, è vero, una rivoluzione di pensiero e di etica. Tutto è da reinterpretare nelle relazioni tra il soggetto e il discorso, il soggetto e il cosmo, il micro e il macrocosmo. Tutto; e per cominciare, il soggetto si è sempre scritto al maschile, benchè si pretendesse universale o neutro: l’uomo”. Il modello della valorizzazione femminile porta a interrogarsi su come fare emergere quella cultura, quei valori e quelle caratteristiche femminili (biologiche o socialmente costruite) che sono state cancellate e/o sono servite per dimostrare la subalternità della donna all’uomo Dalla fine degli anni ’80: anche nell’ambito del modello della parità si è incominciato ad accogliere il concetto di “differenza”, per le contraddizioni che pone alle donne il cercare di ottenere l’uguaglianza con gli uomini senza partire dal riconoscimento delle differenze, in positivo, esistenti tra i sessi (concetto di pari opportunità) I dibattiti delle femministe influenzano il campo dei Media Studies, rendendo più problematico il concetto di “genere” nell’analisi di contenuto Emergono teorie femministe specifiche sui Media: - il Feminist Psychoanalytic Film Criticism (USA): Film Theory - il Feminist Cultural Television Criticism: Cultural Studies britannici Il punto di vista teorico con cui analizzare l’immagine della donna nei media diventa quello della Differenza Nell’analisi di contenuto non si confrontano più i ruoli rivestiti dalle donne con quelli degli uomini, ma viene rivalutata la rappresentazione delle caratteristiche e dei valori specificatamente femminili, ad es. tutto ciò che attiene al “privato” Anni ’80 e ’90: vengono anche segnalate numerose “eccezioni” o “controstereotipi di genere”, ossia immagini femminili e maschili non ancorate a una concezione tradizionalista dei sessi, soprattutto nella fiction televisiva Alcune studiose (Brow, 1990) evidenziano come i serial polizieschi americani inizino a mostrare le donne in ruoli e ambiti “maschili”, e contengano frequenti momenti in cui si entra nella zona della differenza. Es. Policewoman, Charlie’s Angels, New York New York, Hill Street Blues Le protagoniste di New York New York (Cagney & Lacey) rappresentano delle eccezioni: sono due donne poliziotto emancipate e intelligenti, legate da un forte rapporto di solidarietà e amicizia Il punto di vista femminile si insinua in queste serie: è una rottura dell’ordine narrativo dominante Alle azioni maschili si sovrappongono le conversazioni che aprono uno spazio immaginario al femminile, in quanto l’attenzione al privato e alle relazioni personali fa parte del bagaglio esperenziale delle donne Inoltre, specie negli Audience Studios, si pone attenzione ai processi d’interpretazione dei testi da parte di audience femminili inserite in specifici contesti socio-culturali, studiate con metodi qualitativi (es. la casalinga di Voghera) Per quanto riguarda le donne che lavorano negli apparati produttivi dei Media, si sostiene che non bisogna solo aumentare il numero delle donne nelle posizioni professionali più autorevoli e prestigiose, ma si devono metterne in discussione le regole e il sistema valoriale su cui poggia l’industria dei media, al fine di fare emergere l’esperienza, le competenze e i valori femminili Anche in Italia vi è questo cambiamento di prospettiva Un approccio di “attenzione alla specificità” femminile, piuttosto che di “attenzione alla discriminazione” Es. Ricerche di Milly Buonanno sulla fiction televisiva italiana Attestano la presenza di una pluralità di modelli femminili Il modello post genere Ultimo decennio Ricca produzione teorica in direzione di una decostruzione della dualità binaria maschile/femminile L’intento delle studiose femministe postmoderne è superare le differenze di genere: categorie socialmente costruite che rischiano di ingabbiare donne e uomini entro confini prestabiliti, senza tenere conto delle scollature tra - sesso biologico - identità di genere - orientamento sessuale Non prospetta la fine delle differenze tra i sessi Esplora la possibilità di modificare la concezione di opposizione binaria uomo/donna, tenendo conto della complessità del mondo attuale, dove vengono allo scoperto crescentemente realtà come - omosessualità - transgenderismo - transessualismo Soggetti queer che oscillano “tra i generi”, senza riconoscersi nell’eterosessualità tradizionale Inoltre, incremento flussi migratori e aumentata mobilità sociale: persone di razze, etnie e culture diverse convivono Rispetto alla teoria del gender e al pensiero della differenza sessuale si percorrono vie alternative, cercando di non perdere la ricchezza delle due posizioni Donna Haraway (1991), esponente del “cyberfemminismo” propone il cyborg come simbolo della nuova soggettività femminista: né uomo né donna, né umano né macchina, una metafora del superamento della contrapposizione dualistica del maschile e del femminile Ma la figura ibrida del cyborg non significa l’annullamento della differenza sessuale: Haraway rivaluta la diversità tra donne (per età, ceto, razza, etnia, orientamento sessuale, etc.) come fonte di ricchezza politica Incoraggia le nuove generazioni femminili ad acquisire competenze in ambito tecnologico, perché le nuove tecnologie rappresentano il futuro, e le donne non possono rischiare di restarne fuori, in termini di potere Teresa De Lauretis (1999) definisce un soggetto eccentrico: un soggetto molteplice, indisciplinato, in continuo movimento rispetto ai confini assegnati al “femminile”; un soggetto critico e resistente all’ideologia di genere trasmessa da agenzie di socializzazione come la famiglia, la scuola, i media (tecnologie del genere, apparati che permettono a ogni singola donna di ingenerarsi donna, identificandosi nelle rappresentazioni del femminile dominanti). La studiosa bell hooks (1992), di fronte agli stereotipi sessuali e razzisti diffusi dai media occidentali rivendica la possibilità da parte delle donne di ogni razza di mantenere uno sguardo in perenne opposizione (oppositional gaze) Judith Butler, esponente della Queer Theory, decostruisce l’opposizione tra sesso (visto come fattore immutabile) e genere (termine usato in contrasto con tutto ciò che vi è di biologico) Il sesso non va disgiunto dal genere, poiché anche il sesso è una costruzione sociale: da quando si nasce l’identità soggettiva viene orientata a seconda che si appartenga al sesso maschile o femminile (cioè verso desideri eterosessuali), ma i desideri sessuali e il sentirsi uomini o donne spesso sono in contrasto con il sesso biologico In Gender Trouble (1990), sostiene che esiste solo il genere, che è una sorta di performance (allusione alla teatralità del travestimento drag): le identità possono essere facilmente cambiate, ri-significate a piacimento In Bodies that matter (1993), rivaluta l’importanza che ha il corpo biologico nel definire l’identità soggettiva, ribadendo però la necessità di aprire varchi nella norma eterosessuale per attivare un riassetto più dinamico, libero e democratico delle identità Rosi Braidotti (1994) introduce il concetto di soggetto nomade, dall’identità complessa e multipla, potenzialmente contraddittoria e in continuo mutamento “Una forma di resistenza all’assimilazione e all’omologazione alle modalità dominanti di rappresentazione dell’io” Tenta di conciliare la teoria angloamericana del gender e la teoria europea della differenza sessuale Scardina le categorie classiche di “uomo” e “donna”, ma senza rinunciare al concetto di differenza sessuale, proponendo di attraversare diversi livelli di complessità che tengano conto non solo delle differenze tra uomini e donne, ma anche di quelle tra donne e di quelle esistenti all’interno di ciascuna donna Resta in vita il dibattito aperto da G.Rubin sulla dicotomia sesso/genere: a) Da un lato la posizione di chi, come Braidotti, teme che la nuova soggettività proposta dal femminismo postgenere sia sessualmente indifferenziata, e dunque torni a cancellare la specificità femminile b) Dall’altro lato la posizione di chi, come Butler, teme che insistere sulla differenza sessuale possa riproporre l’ideologia dell’”eterno femminino”, o la norma etereosessuale, non lasciando spazio ad altre forme di espressione dell’identità L’aspetto peculiare del modello postgenere è quindi la rivalutazione di ogni differenza, e la rivendicazione di nuovi spazi di libertà per i soggetti, al di là delle gabbie dei due generi Attenzione alle diverse espressioni dell’identità: la cantante Madonna è stata salutata come l’immagine-manifesto della queer theory per la sua capacità di giocare con l’identità di genere, apparendo di volta in volta come la sposina vergine, l’audace bisessuale, la donna ipermascolina o quella iperfemminile Nell’ultimo decennio sono andate aumentando le immagini di donne e uomini che trasgrediscono vistosamente i canoni tradizionali del “femminile” e del “maschile” nei comportamenti, nel modo di vestire, di parlare, di atteggiarsi, nelle scelte sessuali, esulando dall’ambito dell’eccezionalità Es. programmazione televisiva italiana. I vincitori/trici del Grande Fratello (ed.2004 e 2005): - una ragazza molto mascolina, sboccata e rude - un ragazzo provocatoriamente effeminato, ma non gay, semplicemente “femminile” Si tratta solo di performance, di scambio delle parti tra uomini e donne messe in scena appositamente per “fare audience”? O queste immagini sono un segno di apertura da parte delle organizzazioni dei media a legittimare soggettività eccentriche esistenti nel sociale? E’ allora possibile gettare un nuovo sguardo sui modelli femminili e maschili proposti dai media, scoprendo come ogni immagine - sia multistratificata, ironica, - alluda a un’altra - richieda al pubblico una grande capacità di interpretazione intertestuale Quindi? a) E’ possibile suddividere idealmente le ricerche sul tema “genere e media” in base al tipo di sguardo adottato in sede di analisi, derivato dalle correnti femministe maggiormente diffuse in un determinato periodo storico - Nelle prime ricerche (anni ’60-’70 del ‘900) si denuncia una forte stereotipizzazione della figura femminile in tutti i contenuti dei media, che oltre a svalorizzare a livello simbolico il genere femminile, non rende conto dell’avanzata delle donne nel mondo del lavoro - L’adesione al modello della parità tra i sessi porta le studiose e gli studiosi a confrontare per quantità e qualità le immagini femminili con quelle maschili, prese come termine di riferimento - Allo stesso modo, essi auspicano un riequilibrio numerico delle professioniste che lavorano nelle organizzazioni dei media, dal momento che sono in netta minoranza rispetto ai professionisti B) Un secondo filone di ricerca si inscrive nel modello della valorizzazione femminile (anni’80 e ’90): viene messa in discussione la concezione egualitaria che spinge le donne ad assimilarsi agli uomini, invece di valorizzare la propria specificità e diffondere una cultura femminile - Studiose e studiosi cominciano a evidenziare nei contenuti dei media gli aspetti che valorizzano il genere femminile (ad es. il “privato” messo in primo piano o la rappresentazione di personaggi femminili forti e solidali tra loro) - Inoltre, con una metodologia qualitativa ed etnografica, esplorano i punti di vista dei pubblici femminili c) In altre ricerche (fine anni Novanta del Novecento) viene adottato uno sguardo postgenere: con questo termine facciamo riferimento alle teoriche femministe che cercano di decostruire la tradizionale opposizione binaria di genere, in quanto ritengono che “il maschile” e “il femminile” siano costrutti socioculturali talmente rigidi da impedire il riconoscimento sociale di gay, lesbiche, soggetti dall’identità sessuale e di genere indefinita come i travestiti o i transessuali. - Nelle analisi di contenuto l’attenzione è svolta a smascherare ogni costrutto artificioso di genere connesso alla rappresentazione di “donne” e di “uomini” Donne e uomini nella pubblicità di ieri e di oggi Anni ’20-’30 del Novecento: negli USA la donna è considerata la principale consumatrice La pubblicità si indirizza prevalentemente a lei e costruisce molteplici identità femminili nello sforzo di incrementare il suo potenziale d’acquisto Ad es. Prospettare alle donne la possibilità di a) Riflettersi nell’immagine della madre che si sacrifica per i figli e anche b) Nell’immagine di colei che si permette occasionalmente di soddisfare alcuni piaceri personali Inciti maggiormente al consumo, anziché offrire una sola possibile identificazione Molte sfaccettature della stessa artificiale “Mistica della femminilità” (Myra Mc Donald, 2004; Betty Friedan, 1963) Dopo la Prima Guerra Mondiale (esperienze lavorative nelle fabbriche al posto degli uomini al fronte), le donne vengono spinte dall’industria culturale a ritornare a casa, per occuparsi esclusivamente delle mansioni domestiche e della famiglia a) b) c) Nel periodo tra le due guerre mondiali convivono tre costruzioni dell’identità femminile dominanti: La casalinga con capacità manageriali: rivolta alle donne della middle class, perché le donne della working-class continuavano a lavorare fuori casa La madre colpevole: si faceva leva sull’insicurezza delle giovani madri al fine di rafforzare un approccio alla maternità tradizionale La ragazza vivace, spregiudicata, moderna: la giovane non ancora sposata, che lavorava come impiegata o commessa, dal look androgino: immagine ideale per vendere prodotti come cosmetici e sigarette (consumi “proibiti” o illeciti per le altre) Pubblicità esemplare del messaggio più diffuso, per incitare le donne a diventare casalinghe perfette: Mrs Happyman: electrolux (“Daily Express, 25 Marzo 1930) “Guardate tutti! Le case trasformate e abbellite – il problema della servitù risolto – e ogni marito un uomo Felice, come il mio! Questo è ciò che questo magnifico elettrodomestico farà per voi”. La mistica della femminilità Anni ’50 del ‘900: si scorge di nuovo l’intento dell’industria culturale a spingere le donne verso il “privato” Betty Friedan documenta tramite interviste la condizione delle donne americane: un’insoddisfazione inspiegabile diffusa Una bella casa, un marito adorabile, dei figli meravigliosi: eppure si sentivano vuote e inutili Friedan spiega questo malessere con la mancata realizzazione nella vita pubblica, professionale, perché molte di loro avevano studiato al college e avevano poi abbandonato ogni possibilità di realizzazione per mettere su famiglia (Vedi Film Mona Lisa Smile) La studiosa smaschera l’ideologia propagandata dalla società dei consumi, accusando i pubblicitari di diffondere una mistica della femminilità allo scopo di confinare le donne in casa Perché? Il motivo è evidente. Le donne americane detenevano il 75% del potere d’acquisto Secondo alcune indagini di mercato la categoria di donna che poteva rappresentare la consumatrice ideale - non era la professionista (una minoranza negativa dal punto di vista dei venditori, perché troppo portata alla critica), - né la vera casalinga (troppo restìa ad accettare il nuovo), - ma – come negli anni ’30 – la “massaia moderna” (quella che ha studiato al college e subito dopo si è sposata). (Vedi “La fabbrica delle mogli”). Brava ad amministrare con piglio manageriale la casa e con interessi extra-casalinghi, pronta ad accettare l’aiuto degli elettrodomestici per risparmiare tempo da passare con la sua famiglia. Friedan svela i retroscena, le tecniche manipolatorie dei “persuasori occulti” per spingere al consumo: le promesse della pubblicità non bastano a colmare quel vuoto esistenziale avvertito da così tante donne “Ma una nuova cucina economica o la carta igienica più morbida non fanno della donna una moglie o una madre migliore, anche se crede d’aver bisogno proprio di questo. Tingersi i capelli non arresta il tempo; l’acquisto di una Plymouth non dà una nuova identità; fumare una Marlboro non le procurerà un invito a letto, anche se è questo ciò che crede di volere. Ma queste promesse irrealizzate possono alimentare in lei una fame permanente di oggetti, e impedirle di capire di che cosa ha veramente bisogno o che cosa vuole” Anni ’70 del ‘900: la denuncia di Friedan della costruzione e della diffusione da parte dei media di una mistica della femminilità ai danni della libera espressione delle donne nell’ambito pubblico ha dato il via al duro attacco del sessismo presente nella pubblicità da parte delle femministe. Ricerca sulla pubblicità televisiva (National Organization for women, 1972): le donne sono fortemente discriminate rispetto agli uomini Su 2750 spot monitorati, esse sono rappresentate per il 46% come casalinghe, spesso mentre svolgono lavori domestici; per il 14% in occupazioni lavorative sottomesse agli uomini; per il 20% come donne-oggetti; nella stessa proporzione come non intelligenti La voce fuori campo – indice d’autorità – è maschile per il 93% dei casi (“Perché io valgo”: bisogno di ribadirlo, dichiararlo) Una ricerca “accademica” della stessa epoca (Rauch, 1972) pervenne agli stessi risultati: su 1000 spot analizzati, il 75% usa le donne per pubblicizzare prodotti per la cucina o il bagno, certificando che il posto della donna è “a casa”; le donne mostrate in un’occupazione extra-domestica (il 19% contro il 44% degli uomini) svolgono per lo più un lavoro che rende servizio agli uomini; questi ultimi sono rappresentati soprattutto in ruoli professionali, spesso di alto livello; la voce fuori campo è prevalentemente maschile (per l’87% dei casi); le donne sono generalmente più giovani degli uomini (il 71% contro il 43% ha un’età compresa tra i 20 e i 35 anni) E. Goffman in Gender Advertisements (1976) offre un’accurata analisi della rappresentazione di genere nella pubblicità dei giornali e delle riviste popolari americane Conferma la divulgazione di un’immagine femminile che vuole fare apparire la donna “naturalmente” subordinata all’uomo Nota come tutti gli atteggiamenti in cui le donne sono rappresentate assomiglino a quelli dei bambini: esseri deboli, bisognosi della guida e della protezione maschile Gli uomini sono in genere rappresentati più alti delle donne, in posture protettive nei loro confronti, spesso mostrati mentre le istruiscono Le donne si appoggiano all’uomo con aria sognante e sorridente: le loro mani servono solo a toccare, tenere o accarezzare, mai a impugnare o manipolare qualcosa, come accade per gli uomini (es. mamme guerriere, grottesco; swiffer, manager…degli stracci da pulizia) Inoltre, mentre l’immagine dell’uomo è realistica e seria, le donne sembrano delle modelle che recitano, no “persone” realmente presenti nella situazione sociale in cui sono ritratte La conclusione è che la pubblicità non mostra come gli uomini e le donne si comportano realmente, ma come dovrebbero comportarsi secondo i rituali convenzionali approvati dalla società: assistiamo a una standardizzazione, semplificazione e esagerazione dei ruoli di genere Ossia, il fenomeno dell’iperritualizzazione dei ruoli di genere, che non ha niente di naturale Ricerca di M. Ceulemans e G.Fauconnier (1979): in USA come in Europa la pubblicità veicola tre immagini principali della donna: a) La casalinga, moglie e madre b) La donna giovane e bella (spesso dipinta come donna-oggetto), con il solo scopo nella vita di attirare l’attenzione dell’uomo e che di solito non appare competente e intelligente (caratteristiche giudicate maschili, poco seducenti in una donna) c) La donna narcisista o autoerotica, sensuale e cosciente della sua bellezza, versione commerciale della donna liberata Rispetto all’ultima immagine gli studiosi commentano: “ Sotto il pretesto della liberazione sessuale, la pubblicità continua a perpetuare l’immagine tradizionale della donna come simbolo sessuale. Le altre dimensioni della personalità femminile e i numeroso modi in cui la donna partecipa a tutte le attività della vita contemporanea restano pressochè assenti” In queste ricerche (Modello della parità), si rimarca come la pubblicità rifletta la visione maschile della donna e si esprime la preoccupazione che possa frenare i cambiamenti sociali in corso (la partecipazione delle donne alla vita pubblica) influenzando negativamente le ragazze, impedendo loro una presa di coscienza dei limiti che presenta assumere il solo ruolo di casalinga Inoltre si sottolinea come la donna venga doppiamente ingannata dalla pubblicità: - è sia il soggetto del consumo, poiché a lei si indirizza la pubblicità ed è lei che si vuole convincere - è anche l’oggetto del consumo, perché è specialmente la sua immagine che viene venduta a se stessa, ma attraverso lo sguardo degli altri Il paradosso della donna-oggetto: ammicca sensuale al pubblico maschile, ma vende il prodotto a essa associato soprattutto alle donne, che vanno a fare la spesa (es. perché io valgo: ti dicono come sei e perché vali, e agli occhi di chi) Stereotipi e controstereotipi di genere Tra i temi più dibattuti negli anni ’70 vi è la costruzione da parte dell’industria pubblicitaria di sempre nuove “trappole” per le donne, al fine di promuovere il consumo capitalistico La pubblicità non resta del tutto indifferente al femminismo e all’esigenza diffusa tra le donne di modificare i propri ruoli Anzi, cavalca l’onda e, in continuità con le strategie del passato, costruisce l’immagine della donna moderna, liberata e indipendente, utile a vendere elettrodomestici che fanno risparmiare tempo, cosmetici, biancheria intima e abbigliamento alla moda per conquistare “lui”, ma anche per autogratificarsi Proliferano immagini femminili ambivalenti, che sfruttano gli aspetti più superficiali delle istanze promosse dal femminismo, come la “rivoluzione sessuale” o l’”emancipazione femminile attraverso il lavoro” Esempio di “Cosmopolitan”, rivista periodica nata nel 1964 negli USA (diffusa in UK nel 1972 e in Italia nel 1973), come interprete della “liberazione sessuale” delle donne Si indirizza alle giovani donne che lavorano e che rivendicano il diritto (al pari degli uomini) a godere appieno della sessualità, senza inibizioni o frustrazioni, libere dai vincoli imposti dalla tradizione Le donna sessualmente liberata è audace, disinibita, esperta di zone erogene maschili e femminili, conosce mille trucchi per sedurre gli uomini (dal sapiente uso della cosmesi agli abiti e alla biancheria intima provocante, fino alla preparazione di cibi afrodisiaci, etc) Molte studiose/i hanno evidenziato il messaggio contraddittorio veicolato dalla rivista: a) Da un lato è innegabile che Cosmopolitan abbia contribuito a svecchiare l’immagine della “casalinga”, invitando le lettrici a riflettere sulla loro capacità di essere soggetti attivi all’interno della coppia b) D’altro canto è evidente come ogni azione della donna-cosmo sia in funzione dell’uomo Anche nella pubblicità italiana di quegli anni, accanto alla regina della casa, e alla donnaoggetto, troviamo la donna moderna, che talvolta lavora fuori casa, ma che è maniaca del pulito e dell’igiene esattamente come la regina della casa Così come iniziano a comparire immagini di uomini che accudiscono i figli piccoli o che svolgono qualche mansione domestica, infrangendo solo apparentemente la classica divisione dei compiti tra i sessi (es. Nelsen Piatti) Dorfles (1998): “Carosello: pubblicità del Moulinex del 1975, tutta giocata con la voce fuori campo maschile. “Esiste ancora Biancaneve?” (si vede una ragazza vestita da Biancaneve che accarezza una colomba). “Sì esiste, ma vive in città e lavora. La Biancaneve dei giorni nostri è una donna molto attiva, impegnata e dinamica, perfettamente inserita nei problemi della realtà in cui vive” (si vede la stessa ragazza vestita elegante che scrive a macchina). “mi dica, Biancaneve, lei è felice? Non rimpiange la casetta nel bosco? Oggi vivi intensamente, con un ritmo pressante. La tua vita è una continua lotta contro il tempo. Però ti piace. Per questo servono tutte le cose che fanno risparmiare tempo. Per esempio Moulinex. Moulinex regala tempo alla donna”. Minestroni (1996): “La massaia sorridente e “liberata”, proposta dai commercials televisivi, è soltanto un mito patinato. Il sogno del Baleno e lavoro meno è un’arma a doppio taglio. La moderna Housewife è diventata schiava della performance e del risultato: vuole liquidare lo sporco impossibile e smacchiare a fondo senza strapp, desidera un bucato abbagliante e così bianco che più bianco non si può, ed è quotidianamente ossessionata dalle polveri blu che lavano di più, dal detergente Favilla con il quale la casa brilla, dai detersivi fantasmatici, mostruosi e intelligenti” Ravaioli (1978): “Un marito in grembiule davanti a un lavandino, o un padre intento a cambiare l’ultimo nato, certo riescono assai meglio della solita casalinga o della solita madre a richiamare l’attenzione sulla mirabile potenza di quel detersivo o sull’impareggiabile comodità di quel pannolino, al tempo stesso suscitando l’illusione della regola infranta; ma, dicono gli slogan, con quel detersivo “persino lui lava i piatti”, con quel pannolino “chiunque può farlo”: e tutto rientra nella norma” Falabrino(1992): “Furbamente, il marketing e la pubblicità cercano di fondere femminismo e bellezza, inventando lo shampoo “libera e bella” e adottando il nuovo linguaggio per alcuni reggiseni, mentre in America e in Italia le femministe bruciano questo odiati simboli della femminilità tradizionale” Come afferma Clelia Pallotta (2000), negli anni a venire i pubblicitari faticheranno sempre più a indirizzare la comunicazione persuasiva nei confronti delle consumatrici, a causa della frammentazione degli stili di vita e di consumo delle donne Durante il decennio degli anni ’80, in uno scenario pubblicitario in cui continuano a prevalere le immagini della casalinga e della donna-oggetto, aumentano infatti le “eccezioni”, i controstereotipi di genere Le caratteristiche tradizionalmente associate a uomini e donne vengono spesso scambiate tra i sessi, in quello che è un “gioco”, una strategia di marketing piuttosto che una legittimazione di nuovi ruoli sociali Riaffiora lo stesso interrogativo: la pubblicità ostacola i cambiamenti sociali o contribuisce ad accelerarli? L’adesione al modello della valorizzazione femminile induce studiose/i a evidenziare nei contenuti dei media la presenza di elementi modernizzanti, piuttosto di concentrare l’attenzione sugli aspetti che continuano a discriminare il genere femminile Inoltre si comincia a pensare che gli stereotipi di genere diffusi dalla pubblicità non abbiano in realtà impedito alle nuove generazioni femminili, come si temeva nei ’70, di avviarsi verso percorsi di autonomia nell’ambito dell’istruzione e del mondo del lavoro Vari studi sul pubblico di entrambi i sessi condotti a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, mettono in luce l’esistenza di una percezione più articolata e positiva dell’immagine delle donne (ad es. giudicate forti, intelligenti, professionali, ecc.) di quanto non risulti dall’analisi di contenuto, e riscontrano un livello minore di sessismo rispetto a quello presentato dai media Aumenta perciò la fiducia nella capacità critica del pubblico Lo sguardo sulle immagini di donne e uomini risulta però attento a cogliere le contraddizioni insite nei messaggi veicolati Es. la pubblicità degli ’80, specie quella delle riviste di moda femminili, lancia l’immagine della donna in carriera vestita con il tailleur di taglio severo, manageriale, maschile La moda che allude all’avanzata delle donne nel mondo del lavoro propone la donna vestita al maschile, prendendo a prestito dagli uomini indumenti come completo giacca-pantalone, cravatta, cappello, bretelle e accessori come la valigetta portadocumenti o addirittura i sigari Il “travestimento” in panni maschili interpreta e simbolicamente traduce l’aspirazione delle donne a divenire pari agli uomini nell’ambito professionale, attestando lo stesso grado di capacità e autorevolezza E’ però possibile notare come entro questo tipo di immagini si aggiungano molti elementi tipicamente femminili, indici di eterosessualità: camicie di pizzo, labbra lucide di rossetto o unghie laccate servono a sdrammatizzare l’assunzione dei ruoli maschili da parte delle donne Inoltre, se spesso nella pubblicità le donne si vestono, si pettinano e si atteggiano al maschile, apparendo dure, mascoline e sicure di sé, ciò paradossalmente non fa che accrescere il potere di seduzione femminile tutto giocato sull’ambiguità e l’androginia Viceversa, si assiste alla femminilizzazione del genere maschile, nelle immagini di uomini che si profumano, si mettono creme dopobarba e denudano il corpo divenendo talvolta uominioggetto, stavolta dei desideri femminili Uomini sexy, talvolta eterei o sessualmente ambigui, che evocano una zona di confine tra autoerotismo e omosessualità, ma che il più delle volte mettono in mostra corpi muscolosi, a ribadire la propria virilità (Caligaris, 19979 E proliferano le immagini di uomini nel ruolo di marito, talvolta impegnato in compiti domestici come cucinare o lavare i piatti, e di padre affettuoso con i figli, sebbene spesso gli uomini dipinti in questi ruoli risultino imbranati, non del tutto adatti a ricoprirli Durante gli anni ’80 prosegue la tendenza a mostrare immagini che evocano scambi di ruolo tra i sessi, esulando in termini quantitativi dalle “eccezioni” La pubblicità cerca di convincere le donne che l’uguaglianza tra i sessi è stata finalmente raggiunta, e propone l’immagine della superwoman: una donna indipendente e seducente, capace di avere tutto sotto controllo nella vita privata, nel lavoro e nel sociale La pubblicità incarna fantasie femminili di vendetta contro l’uomo e di potere al femminile, mostra le donne alla guida di auto, che bevono alcolici, che si abbracciano tra loro mimando relazioni lesbiche, che occupano posizioni professionali elevate con uomini alle loro dipendenze (es. campari Red passion) Un’utopia costruita a tavolino, per cui si vuole fare credere alla donna di poter fare ciò che vuole , sempre con il fine ideologico sotterraneo di incrementare i consumi Es. pubblicità cosmetici P. Milton, diretti a “una donna sicura delle proprie scelte”; delle calze Sisì “mettile a dura prova”, o del profumo Valentino Vendetta Pour Femme Questo tipo di figura va a sostituire l’immagine obsoleta della casalinga-mogliemadre, che scompare pressochè completamente dalle riviste periodiche femminili Se le immagini della casalinga diminuiscono, rimanendo vincolate ai prodotti d’uso domestico reclamizzati negli spot televisivi, e se nel campo della seduzione le donne della pubblicità sono sempre meno donne-oggetto (e quindi sempre più donne soggetto), all’interno del messaggio pubblicitario permane un’ambivalenza che smorza questa utopia e riafferma a livello profondo di significato la concezione gerarchica della relazione tra i sessi Anzitutto si può menzionare l’ideale di bellezza femminile associato alla snellezza e alla giovinezza: le immagini di donne superbelle sottolineano l’importanza che riveste la bellezza nella vita di una donna rispetto ad altre qualità meno enfatizzate, costruendo una forte pressione sociale sulle ragazze Inoltre, a confronto con le donne, gli uomini vengono rappresentati in ruoli più autorevoli e maggiormente agganciati alla realtà: la pubblicità mostra soggetti maschili quasi sempre di successo sul piano professionale, in immagini che sovrastano per quantità quelle che raffigurano le donne che lavorano, in costante declino dopo la novità della “donna in carriera”, o che solidarizzano tra loro (amaro Averna), rivelando una complicità al maschile che difficilmente viene declinata al femminile a) - - Ultimi due aspetti presenti nella recente letteratura sul tema Alcuni sostengono che l’ideale di bellezza ultimamente cominci a fare pressione anche sugli uomini, oltre che sulle donne. Quindi, nel criticare la società dei consumi, bisogna spostare l’accento dal sessismo agli interessi commerciali, che impongono a tutti indifferentemente di comprare prodotti cosmetici di bellezza Si può sostenere che questa parità di trattamento tra uomini e donne, cioè lo sfruttamento commerciale di entrambi i sessi, costituisca una “magra consolazione” per il genere femminile Però non va sottovalutata la novità dell’introduzione di uno sguardo femminile sugli uomini, implicitamente presupposto nelle immagini che li raffigurano intenti a curare il loro corpo b) Altro aspetto riguarda il fatto che la pubblicità ironizza sulla versione tradizionale della “femminilità” e della “mascolinità”. - Forse indurre a ridere degli stereotipi di genere può risultare più efficace al fine di decostruire i vecchi schemi, dati gli effetti di presa di distanza che può provocare, rispetto alla pubblicità che inneggia al potere femminile Esempi di spot trasmessi dalla TV italiana Negli ultimi anni, la rappresentazione della famiglia e della relazione tra i sessi offerta dagli spot mandati in onda dalla tv italiana è sensibilmente mutata, pur con un certo ritardo rispetto alla realtà Spot: Croccarelle Santa Lucia Troviamo l’esempio di una famiglia ricostituita: una coppia che desidera sposarsi e riunisce a pranzo i rispettivi figli avuti da partner diversi affinchè si conoscano Spot Sugo Knorr Un bambino a tavola con la mamma e il suo compagno, con cui scherza, dice: “Mi vuoi bene anche se non sei il mio papà”?, e gli ruba il piatto di spaghetti Spot Detersivo Ace OxyMagic Uno dei pochi spot che ritraggono la condizione femminile della doppia presenza: una donna a una cena di lavoro si annoia e si rovescia un bicchiere di vino rosso per avere una scusa per tornare a casa. Si sfila l’abito, lo smacchia, e il giorno dopo lo mostra orgogliosa alla suocera con la crocchia bianca Si confronta la donna moderna, eventualmente in carriera, con la vecchia immagine della casalinga, depositaria del sapere femminile tradizionale (o viceversa, spot detersivo bucato) Spot Enterogermina Una giovane donna fotoreporter mentre lavora in un contesto esotico e avventuroso, e in seguito la si vede sotto l’ombrellone che gioca con sua figlia, con la voce fuori campo che afferma perentoria: “Ma la missione più impegnativa è fare la mamma!” Spot Knorr zuppe pronte Indicativo della tendenza a ironizzare sugli stereotipi di genere: due amiche, ironizzando sulla figura in via d’estinzione del principe azzurro, discutono se sia giusto correre dietro al proprio fidanzato o farsi desiderare decidendo alla fine, davanti alla zuppa fumante: “Lasciamolo aspettare!” Ognuno di questi spot allude alle trasformazioni sociali in corso, rimandando però la memoria del pubblico alle “puntate precedenti”, ai clichè tradizionali Come se la pubblicità ci domandasse: “Dobbiamo proprio guardare avanti?” Lettrici e lettori delle riviste di moda Alcune ricerche sui pubblici delle riviste periodiche di moda: attestano come i modelli di genere presentati vengano osservati dai lettori e dalle lettrici con malcelato interesse, alla ricerca di istruzioni su come apparire e su come comportarsi con l’altro sesso Joke Hermes (1995): le lettrici di Woman, Best, Bella, Me, Libelle, Viva, Cosmopolitan, Marie Claire, tendono ad assegnare alle riviste femminili uno scarso valore: vengono lette essenzialmente per riempire i momenti d’attesa, noia o relax nella giornata (dal parrucchiere, dal medico, sull’autobus, la sera) Poiché i contenuti sono frammentati, brevi e poco impegnativi è molto facile interromperne la lettura (easy to put down) Però sono molti gli “usi” fatti delle riviste: per rilassarsi, per trovare informazioni e consigli utili su come comportarsi, per confrontarsi con le storie e le emozioni altrui in modo da riflettere sulla propria vita e sui propri problemi Ma soprattutto forniscono identità immaginarie temporanee: permettono alle lettrici di riflettere sul proprio “sé” ideale, proiettandosi in molteplici immagini femminili “perfette” (perfette mogli, madri, amanti, figlie, lavoratrici), che offrono loro un senso di momentaneo controllo e potere sulla vita reale David Gauntlett (2002), su un gruppo di lettrici di periodici femminili (Glamour, Cosmopolitan, Elle, More, New Woman, Vogue, ecc.) evidenzia come esse esprimano un piacere ambivalente: a) le riviste piacciono perché possono insegnare qualcosa su come comportarsi, sulla salute e sugli eventi culturali b) al tempo stesso le lettrici sono critiche rispetto alla difficoltà di diventare la donna idealizzata proposta Le riviste non vengono prese “alla lettera”, ma vissute come puro intrattenimento, perché aprono uno spazio immaginario in cui vedersi migliori, più attraenti, più sicure di sé Analizzando alcune riviste di moda maschile (FHM, Loaded,Maxim, Men’s Health), Gauntlett si discosta dalla posizione delle femministe che considerano queste riviste un attacco al genere femminile, perché legittimano un mondo maschile in cui le donne sono essenzialmente viste come oggetti sessuali (calendari) Secondo lo studioso, le riviste maschili mettono certamente in scena le donne-oggetto, ma offrono un’immagine della mascolinità non monolitica Le riviste usano un tono ironico e amichevole, anticipando il fatto che molti lettori potrebbero rifiutare articoli “seri” sulle relazioni di coppia o consigli sul sesso, la salute, la cucina Dosano i contenuti con humour e ironia per “addolcire la pillola”. I lettori dichiarano di non prendere troppo sul serio le riviste, anche se risultano curiosi di ottenere informazioni sulle relazioni interpersonali e sul sesso L’autore afferma che l’ironia rivolta ai lettori non si basa su assunti maschilisti o sessisti, ma mira anzi a ribaltare gli stereotipi di genere, per es. inducendo a ridere dei comportamenti da “macho” Le riviste maschili sono volte alla costruzione sociale della mascolinità contemporanea: cercano di insegnare agli uomini come trattare dolcemente le loro partner o a divenire autosufficienti nel cucinare e nel pulire la casa senza dipendere dalle donne Secondo lo studioso oggi gli uomini ne hanno bisogno per capire come comportarsi con un universo femminile in costante trasformazione Quindi… Fin dagli anni Venti e Trenta del Novecento le donne vengono identificate dall’industria pubblicitaria come le principali consumatrici di prodotti d’uso domestico: il target di riferimento più rilevante è quello della “casalinga”. - Negli anni ’50 e ’60 del ‘900 la pubblicità, in concomitanza con gli altri media, ha divulgato una mistica della femminilità al fine di convincere le donne a “stare a casa” e a rinunciare alle ambizioni professionali a) b) Negli anni ’60 e ’70 del ‘900 l’affermazione del femminismo e il massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro costituiscono cambiamenti sociali che non possono non essere tenuti in considerazione dai pubblicitari - Oltre all’immagine della casalinga (e del suo contraltare, rappresentato dalla donnaoggetto), i pubblicitari “costruiscono” modelli femminili nei quali le donne “moderne” che lavorano possano identificarsi - Negli anni ’80 del ‘900 fa la sua comparsa l’immagine della donna in carriera, la donna vestita al maschile, la donna moderna sicura di sé, la donna indipendente e sessualmente audace - Anche l’immagine maschile viene diversificata: all’immagine dell’uomo di successo, si affiancano le immagini di uominioggetto, uomini che curano il corpo (si apre il mercato della cosmesi maschile), uomini alle prese con le incombenze domestiche (soprattutto cucinare) e padri affettuosi con i figli - Nel decennio successivo aumentano quelle immagini che scambiano i ruoli tra uomini e donni definibili come controstereotipi di genere, ma nella pubblicità permangono aspetti di ambiguità che continuano a fare discutere le studiose e gli studiosi La donna in carriera nelle soap opera “E’ duro per molte studiose accettare che le donne provino piacere a fruire di ciò che la cultura dominante offre loro per intrattenerle. Ma, al tempo stesso, esse possono utilizzare questo piacere per criticare e mettere in discussione i valori dominanti inscritti nelle soap” M.E. Brown (1994, p.5) Anno 1933: la Procter & Gamble, la maggiore impresa americana di prodotti detergenti, scopre il potenziale promozionale del serial radiofonico Nasce così la soap opera, dalla combinazione tra lo sponsor pubblicitario (l’azienda produttrice di sapone, soap) e il contenuto melodrammatico della trama (opera) Iniziò così una serie di episodi radiofonici relativi a vari programmi prodotti dalla P&G, ciascuno dei quali strutturato per promuovere la vendita di un certo prodotto dell’azienda. “The Road of Life” era legata al sapone Ivory. “Young Doctor Malone” al detersivo liquido per piatti Joy, Oxidol e “Mà Perkins” divennero sinonimi, come Duz e “The Guiding Light”, Tide e “Life Can Be Beautiful”, mentre Cheer era associato a “Backstage Wife”. Le soap opera, costruite con l’intento da parte delle aziende e dei broadcasters radiofonici di attirare le donne in qualità di consumatrici, si rivolgono in maniera mirata al pubblico delle “casalinghe”. Nel passaggio dalla loro diffusione via radio a quella televisiva, i produttori si chiedevano preoccupati: “Ma le donne durante il giorno riusciranno a mettersi in poltrona a guardare le soap? Non le distoglieremo dai lavori domestici e dalla famiglia?” Ecco il motivo per cui, oltre alla scelta di contenuti melodrammatici ritenuti consoni ad appagare la sensibilità emotiva del pubblico femminile, la forma narrativa della soap è continuativa, indeterminata e piena di ripetizioni, adatta a facilitare la visione delle casalinghe impegnate nei lavori domestici (anch’essi routinari, frammentari e discontinui), visto che non necessita di un’attenzione costante La scommessa è vinta: ad es. la soap The Guiding Light, dal 1952 trasmessa anche in tv, ha avuto un enorme successo di pubblico ed è durata oltre 50 anni Le soap e i loro pubblici diventano oggetti di studio a) b) Sulle soap opera giudizi contrastanti: Da un lato sono tra i contenuti dei media comunemente più denigrati e ridicolizzati, considerati prodotti di bassa cultura, e il loro pubblico viene immaginato per lo più composto da casalinghe frustrate, piene di sogni romantici e con scarso quoziente intellettivo Dall’altro, la grande quantità e varietà di donne (e uomini) in tutto il mondo che le guarda ogni giorno attesta l’esistenza di un giudizio positivo e/o piuttosto articolato su di esse Molte studiose/i hanno indagato il “fenomeno soapopera”, cercando di evidenziare i motivi per cui le soap siano tanto apprezzate dal loro vasto pubblico a) b) c) Ricerca “pionieristica” di Herzog (1944) sul pubblico femminile delle soap opera radiofoniche americane: le soap forniscono tre tipi di gratificazioni: l’opportunità di rilassarsi L’opportunità di sognare compensando frustrazioni emotive e difficoltà quotidiane L’opportunità di trarre consigli utili da applicare alla propria vita, in particolare identificandosi nei personaggi femminili dal carattere forte e deciso All’epoca, il fatto che le soap potessero risultare fonti di consigli per risolvere problemi familiari e personali provocò stupore tra gli stessi produttori, perché probabilmente era una risultato superiore alle loro aspettative Anni ’70 del ‘900: le studiose femministe erano piuttosto critiche nei confronti dei prodotti culturali “per donne”, come appunto le soap opera o i romanzi rosa, considerati contenuti “ghettizzanti”, attraverso i quali si perpetuava la subordinazione femminile agli uomini E’ solo dall’inizio degli anni ’80 che le soap opera e i loro pubblici cominciano ad essere analizzati in ambito accademico, per alcuni fattori concomitanti: a) Una generale rivalutazione dei testi culturali popolari b) Un interesse specifico delle studiose ad analizzare audience femminili situate, considerando in particolare la condizione sociale delle donne casalinghe (“la casalinga di Voghera”) c) Un enorme successo di pubblico a livello internazionale delle soap opera statunitensi Dallas e Dynasty Anni ’80 e ’90: si sviluppa il filone di ricerca più rilevante sui pubblici femminili delle soap opera, nell’ambito degli Audience Studios Molte studiose di questo filone di ricerca aderiscono al Feminist Cultural Television Criticism, riferito alle pensatrici francesi della valorizzazione della differenza sessuale Si interrogano sia sulla struttura di significazione del testo “soap”, che sugli usi e piaceri che le spettatrici traggono dal guardare quotidianamente questo genere di testi, utilizzando per studiare il pubblico il metodo etnografico (osservazione partecipante del contesto di fruizione) e le interviste in profondità Lo sguardo con cui sono analizzati le soap e il pubblico femminile è quello derivato dal modello della valorizzazione femminile, che permette di superare il pregiudizio per cui le soap contribuiscono alla discriminazione delle donne nella società Geraghty (1991): “il piacere di guardare le soap consiste principalmente nel capire le donne dal punto di vista delle donne, in quanto si tratta di testi che, mettendo in scena la dimensione “privata” delle relazioni interpersonali e dei sentimenti, rivalutano una cultura specificatamente femminile” Ad es. le soap enfatizzano la relazione tra madre e figlia, le relazioni di solidarietà tra donne e dipingono le donne come il centro emozionale della famiglia Inoltre, riflettono la cultura orale femminile costituita dalle conversazioni L’accento è posto sulla “parola” più che sull’azione Le spettatrici vengono guidate dal testo a seguire i percorsi psicologici delle protagoniste femminili Se le donne nelle soap assumono un ruolo di primo piano, come “motore” delle storie, gli uomini sono posti in secondo piano e vengono spesso rappresentati come le donne vorrebbero che fossero nella realtà: romantici e sensibili, proiezioni di desideri femminili Non solo all’interno della sfera privata le donne vengono valorizzate: siccome il mondo del lavoro nelle soap è presentato come un’estensione del “personale” (“pubblico” e “privato” sono intrecciati, ad es. molti coniugi e familiari lavorano insieme), più che negli altri prodotti di fiction troviamo molte donne che lavorano e in particolare le prime donne in carriera Tra le protagoniste di Dynasty ricordiamo Alexis: una donna in carriera sexy e spregiudicata, capace di sottomettere gli uomini sia in campo lavorativo che amoroso; un’immagine che, esasperando i messaggi protati avanti dal femminismo liberale, alimenta lo stereotipo della “donna in carriera” (femminile nell’aspetto e mascolina nei comportamenti), sfiorando la parodia Va però considerato il piacere offerto alle spettatrici: osservare un ruolo femminile forte all’interno del mondo tradizionalmente maschile del business Le studiose concordano sul fatto che tutti questi elementi possano costituire fonte di gratificazione per il pubblico femminile Inoltre, le soap sono viste come “testi aperti”, costruiti in modo da sollecitare svariate interpretazioni da parte delle spettatrici: oltre a presentare contenuti ambivalenti, ogni evento viene filtrato da molteplici punti di vista, commentato da più personaggi; la stessa struttura a puntate, teoricamente senza fine, rimanda a innumerevoli proseguimenti possibili delle storie Le ricerche nell’ambito degli Audience Studies D. Hobson, in Housewives and the Mass Media (1980), mette in luce alcuni aspetti cruciali della fruizione delle soap: dalle interviste a un gruppo di casalinghe della working class emerge che vedere le soap permette loro di alleviare i lavori domestici noiosi e ripetitivi, aiutandole a vincere quel senso di solitudine dovuto all’essere confinate in casa Inoltre, sottolineando la preferenza per le soap, esse rimarcano la presa di distanza da contenuti come la politica o i fatti d’attualità, considerandoli parte di un mondo maschile. Hobson afferma che è la posizione sociale di casalinghe a condizionare le loro scelte: essendo immerse in una cultura patriarcale, tendono ad autosvalutarsi, ad allontanarsi volontariamente da contenuti “maschili” che ritengono estranei a loro, ma che giudicano più importanti di quelli “femminili”. Da un’altra indagine etnografica su un gruppo di casalinghe fan della soap inglese Crossroads, Hobson evince che la pratica di guardare le soap si integra nella vita quotidiana, insinuandosi nelle routine domestiche e nelle conversazioni tra donne In particolare, osserva che le spettatrici cercano di ritagliarsi uno spazio per sé: dal momento che i lavori domestici impediscono di rilassarsi completamente, molte di loro hanno sviluppato la capacità di “guardare a metà”, sbirciando le immagini del piccolo schermo mentre cucinano o servono la cena. Rispetto a questo piacere, rileva come esse provino un forte senso di colpa. Ciò dimostra che il ruolo occupato all’interno della famiglia condiziona la modalità di fruizione della tv: il significato complessivo del “guardare la soap” dipende anche dalla negoziazione del tempo libero che le spettatrici casalinghe si concedono nell’arco della giornata Ien Ang (1985), da uno studio sulle interpretazioni di Dallas offerte da un gruppo di fan, rileva che la caratteristica della soap maggiormente apprezzata è il “realismo”, ossia il fatto che i personaggi femminili e maschili possono essere immaginati come persone vere. L’autrice sostiene che non si tratta di un “realismo empirico”, che si aggancia ad aspetti concreti della realtà, ma di un “realismo emozionale”, riguardante i sentimenti realistici espressi dai personaggi. Le soap si rivolgono a un pubblico capace di sintonizzarsi con la “struttura tragica del sentimento” presente nel testo (“tragica” nel senso che nella soap, come nel melodramma, la felicità non dura mai a lungo), quindi con emozioni universalmente riconosciute come l’amore, la gelosia, la disperazione, l’odio. Il piacere di guardare la soap dipende allora da quell’impressione psicologica di realtà definita Secondo Ang, indagare le emozioni suscitate da Dallas può aiutare a comprendere meglio il successo e la popolarità ottenuta: adottando un’ottica postmoderna esorta le studiose femministe a occuparsi delle dimensioni del piacere, del desiderio e della fantasia femminile, spesso sottovalutate. Solo così è, ad es., possibile comprendere perché alcune spettatrici si identifichino in Sue Ellen, un personaggio autolesionista che annega la sua delusione amorosa nell’alcool. Proiettarsi in Sue Ellen permette loro di sperimentare nella fantasia situazioni negative che nella realtà non vorrebbero mai vivere, allo scopo di abbandonarsi, di allentare la pressione indotta dalle fatiche quotidiane e di accettare “l’impresa complessa di essere una donna”, con punti di forza e anche di debolezza. Andrea Press (1991) analizza le differenti interpretazioni di Dynasty offerte da un gruppo di donne appartenenti alla working class e da un gruppo di donne della middle-class. Dalla ricerca risulta che le spettatrici della working class tendono molto più di quelle della middle-class a ritenere Dynast “realistica”, nel senso, questa volta, di un realismo empirico, concreto, che deriva dal pensare che “i ricchi” si comportino veramente come li dipingono le soap. Secondo Press, questa forte impressione di realismo deriva dalla distanza esistente tra la condizione di vita delle donne della working-class e quella delle eroine di Dynasty iscritta nell’upper class. Le donne della middle-class, a confronto, avendo a disposizione più strumenti culturali, risultano critiche e disincantate rispetto al “mondo dei ricchi” rappresentato da Dynasty. Nonostante giudichino la soap per tanti versi irrealistica, esse si immedesimano maggiormente nei sentimenti espressi dai personaggi femminili e nelle vicende familiari, d’amore e di lavoro che li vedono coinvolti, cercando di cogliere gli aspetti di somiglianza tra la vita delle protagoniste e la propria. La studiosa registra anche sostanziali differenze nelle interpretazioni della soap a seconda dall’appartenenza generazionale. Le donne sui 60 anni, cresciute assorbendo le idee tradizionaliste e in seguito vivendo gli anni del femminismo, giudicano il contenuto televisivo molto cambiato per quanto concerne la rappresentazione femminile: in Dynasty apprezzano le immagini delle donne in carriera o delle lavoratrici in ambiti “maschili”, che esprimono autonomia e libertà in campo sentimentale e sessuale. Le donne sui 30 anni, cresciute in un periodo di grande confusione tra Tradizione e Modernità, e avendo sperimentato di persona le difficoltà di fare carriera e/o di coniugare il lavoro con la maternità, risultano invece critiche rispetto alla rappresentazione delle donne “liberate”, ritenuta esagerata e distorta rispetto alla realtà, mentre si dimostrano più sensibili nei confronti dell’immagine della famiglia unita. Questa ricerca attesta come, a seconda della classe d’appartenenza, del livello d’istruzione, dell’avere vissuto in particolari contesti storici e sociali, le spettatrici possono fornire risposte molto diverse rispetto a uno stesso contenuto. Alcune ricerche spostano il fuoco dell’attenzione sugli usi “extratestuali” delle audience femminili, concentrandosi sulle conversazioni riguardanti le soap. Ancora Hobson verifica la consuetudine di un gruppo di segretarie di scambiarsi punti di vista sulle vicende delle soap opera preferite durante le pause dal lavoro. Il piacere di guardare le soap si estende al di là della loro visione e diventa un pretesto per parlare di sé, delle proprie vite e interessi, permettendo di stabilire alleanze e relazioni di solidarietà tra donne. Mary Ellen Brown (1994), dall’osservazione partecipante condotta su un gruppo di fan delle soap Days of our lives, Coronation Street, Sons and Daughters, Neighbours, deduce che il piacere principale di vedere le soap consiste nel creare un network, una rete di discorsi tra donne, sviluppando una solidarietà al femminile e un senso di potere (empowerment), di potenziale “resistenza” all’ordine patriarcale dominante (resistive pleasure). Ad es. osserva che tra amiche o tra madre e figlia spesso si ironizza sulla cultura maschile e si critica il comportamento dei protagonisti maschili delle soap. In questo contesto, anche la disapprovazione che esse ricevono dagli uomini (mariti, fratelli, ecc.) per il fatto di guardare le soap diventa motivo di piacere e conferma loro di stare mettendo in discussione l’ordine dominante Non sempre però le spettatrici offrono letture di “resistenza” o ne sono consapevoli: a un certo livello è possibile che le spettatrici siano condizionate dalla cultura maschile in cui sono immerse (veicolata anche dalle soap), ma quando si trovano libere di parlare tra loro (nei discorsi che traggono spunto dalle storie delle soap), spesso decostruiscono la concezione ideologica della relazione gerarchica tra i sessi Sebbene nelle ricerche si riscontri l’intento di rivalutare le soap e i loro pubblici, il giudizio delle studiose riguardo agli effetti provocati dalla pratica quotidiana di “guardare le soap” rimane aperto: se da un lato le soap possono rappresentare per le spettatrici casalinghe un “ghetto” (confinandole in quel mondo femminile romantico e sganciato dalla realtà in cui esse stesse tendono a identificarsi), dall’altro lato le conversazioni tra donne, e partire dalle soap, consentono di aprire “spazi” di solidarietà e di resistenza al femminile. Quindi… All’inizio degli anni ’80 del ‘900 le soap opera vengono rivalutate in ambito accademico, in particolare dalle studiose che ne mettono in luce le caratteristiche che possono gratificare le spettatrici (nelle soap i personaggi femminili sono valorizzati sia in ambito privato sia in ambito pubblico, come attesta l’immagine della donna in carriera) b) Il filone di ricerca sui pubblici femminili delle soap interno agli Audience Studies analizza gli usi e i piaceri che le spettatrici traggono da questi tipi di testi, utilizzando metodi qualitativi ed etnografici. a) Sono molti i piaceri offerti dalla pratica di “guardare le soap”: alleviare la ripetitività dei lavori domestici; scambiarsi punti di vista sulle vicende delle soap con altre donne sviluppando una solidarietà al femminile e forme di “resistenza” all’ordine patriarcale dominante c) Le soap si presentano come “testi aperti” a molteplici interpretazioni e possono dunque costituire per le spettatrici sia un “ghetto” sia uno “spazio” di critica e di riflessione sulla propria vita e in generale sulla relazione uomo-donna L’effetto-vetrina delle giornaliste in TV “Pur essendo ormai numerose, visibili, e non ultimo apprezzate, le giornaliste restano largamente escluse dalla distribuzione e dall’esercizio della risorsa del potere. Si potrebbe dire che nella visibilità senza potere risiede la cifra della condizione presente delle donne nel giornalismo italiano, e non solo italiano” (Buonanno, 1993) Dagli studi sulla donna idealizzata degli spot e delle riviste di moda femminili, o da quelli sulle eroine “moderne ma non troppo” della fiction, passiamo alle riflessioni sulle donne “in carne e ossa” che popolano il mondo dell’informazione. Giornaliste: potere e sguardo femminile Anni ’70 del ‘900: viene rilevata una forte discriminazione delle donne all’interno delle organizzazioni dei Media Esse svolgevano professioni di minori importanza quanto a potere decisionale Le loro carriere erano più brevi di quelle maschili, arrivando ai livelli intermedi del management Le soluzioni? Modello della parità: incremento numerico delle professioniste nelle posizioni “chiave” dell’industria culturale Questione dell’accesso femminile alle posizioni più prestigiose, occupate in prevalenza dagli uomini Carriera giornalistica: anni ’50 e ’60, USA, la maggioranza dei giornalisti erano uomini Tra il 1971 e il 1982 la percentuale delle donne giornaliste nelle televisioni locali è triplicata a) Pressioni della Federal Communication Commission b) Rapida crescita degli staff giornalistici - Ma le donne ancora discriminate nei salari - Nella selezione delle speaker televisive selezionate in base all’età e all’attrattiva fisica Anni ’80: processo di femminilizzazione del giornalismo e di alcuni campi della comunicazioni di massa (editoria, pubblicità, pubbliche relazioni) “Scambio di genere” (gender switch): certi settori definiti “ghetti rosa” (pink collar ghettos) Alcune aree della produzione mediatica erano più accessibili alle donne rispetto ad altre: le donne sembravano avere pieno accesso ai campi vicini alle responsabilità domestiche di cura (media e programmi educativi indirizzati ai bambini, sezioni spettacolo e cultura dei quotidiani (soft news); programmi d’intrattenimento televisivi Ma erano una minoranza nei campi della politica interna ed estera; notizie economiche; programmi d’attualità e di informazione Inoltre, segregazione verticale delle donne negli apparati dei media (impedimento ad accedere ai vertici della carriera) E segregazione orizzontale (a parità di posizione professionale le donne guadagnavano meno degli uomini) “l’incremento del numero delle donne negli apparati produttivi dei Media non si traduce in maggior potere o influenza delle donne; al contrario, ciò ha significato un abbassamento dei salari e dello status di tutti coloro che lavorano nei campi più femminilizzati” Paradosso in molte professioni tradizionalmente esercitate da uomini, “invase” dalla presenza femminile: svilimento della professione stessa, e non maggiore acquisizione di potere e autonomia creativa da parte delle donne Anni ’90: situazione delle carriere femminili nei media è via via migliorata Ma a tutt’oggi permane una forte disparità numerica tra i sessi nell’occupazione dei ruoli decisionali o dei campi ritenuti per tradizione “maschili” Es. Nei principali broadcaster televisivi USA le donne nella posizione di news director (middle management) sono aumentate dal 7,6% nel 1982 al 25,9% nel 2002, scesa al 21,3% nel 2005 Nel 2005 il 17% nel ruolo di general manager (upper management) E’ possibile che aumentino: nell’informazione televisiva le donne rappresentano il 39,3% della forza lavoro a) Persistenza segregazione verticale del genere femminile, difficoltà infrangere il soffitto di cristallo di b) Necessità di diffondere una cultura della differenza che stimoli le giornaliste a esprimere uno sguardo femminile sul mondo “ All’inizio degli anni ’70 siamo entrate nel mondo del lavoro convinte che rifiutare i valori delle donne ci avrebbe fatto guadagnare rispetto e promozioni nelle nostre carriere. Costantemente cercavamo di dimostrare la nostra uguaglianza, il nostro essere simili o migliori degli uomini; dimostravamo di potere competere con loro e di poterci adattare al sistema di valori dominante” Ma la consapevolezza successiva di trovarsi in un mondo in cui le potenzialità e i valori femminili vengono soffocati e integrati ai valori dominanti maschili ha portato al bisogno di costruire e di valorizzare una cultura femminile In linea con il femminismo radicale, ci si chiede come le professioniste possano modificare i valori dominanti introducendo valori e punti di vista femminili Ideare un modo di fare giornalismo non omologato al maschile, che tenda a dare più spazio e voce alle donne sia in qualità di “soggetti delle notizie” sia nelle vesti di “persone intervistate” Ciò comporta l’introduzione di modifiche nelle procedure di raccolta, selezione/gerarchizzazione e di presentazione delle notizie (newsmaking) Le donne nei contenuti dell’informazione Ricerche sul modello della Valorizzazione Femminile 4° Programma d’azione comunitaria sulle pari opportunità per donne e uomini (1996-2000): UE ha finanziato il progetto Promoting Good Practice in Gender Portrayal in Television, organizzato da 6 tv pubbliche europee Ricerca comparata sulla partecipazione femminile nei programmi tv: Nei principali network di questi Paesi le donne sono sottorappresentate rispetto agli uomini: da un minimo di presenza femminile nei programmi sportivi (12%) , a un max nei programmi per bambini (44%); nel genere dell’informazione le donne sono presenti per il 31% (che sale al 55% per le speaker dei tg) I ruoli in cui sono ritratte le donne implicano un basso status sociale: 47% in qualità di “semplici cittadine” (senza specificare la qualifica professionale); solo il 20% di “esperte” intervistate Quando parlano le donne (le partecipanti ai dibattiti sono il 30%, le intervistate il 28%), gli argomenti trattati sono: le relazioni interpersonali, la famiglia, la salute, il sociale Gli ambiiti in cui le donne intervengono di meno sono lo sport, la scienza, la tecnologia, l’economia, la politica Incentivare le professioniste e i professionisti dei media ad adottare una prospettiva di genere: migliorare le loro competenze professionali e la qualità dell’informazione Iniziativa concreta per rendere complessità alla figura femminile: kit Screening Gender (pacchetto audiovisivo per la formazione) diretto a tutti quelli che lavorano in tv: una serie di indicazioni pratiche inerenti la scelta delle persone da intervistare (ad es. suggerendo di sforzarsi di intervistare più donne esperte, anche nei campi occupazionali nella società maggiormente ricoperti dagli uomini), delle persone a cui dare voce nei talk show (gestendo a loro favore i turni di parola), delle locations in cui riprendere donne e uomini (es. non mostrare le donne solo nell’ambiente domestico), fino alla scelta dell’inquadratura. Non rafforzare nel pubblico la percezione di autorevolezza maschile e scarsa importanza del genere femminile. Secondo progetto: L’immagine della donna nei media (15 Paesi, tra cui l’Italia) Margareth Gallagher: risultati del Global media Monitoring Project Alcune studiose (van Zoonen) sono scettiche rispetto ai cambiamenti che possono derivare dall’incremento delle professioniste nella produzione mediatica, mentre ritiene che saranno i cambiamenti relativi alla natura dei contenuti a coinvolgere maggiormente le donne Ad es. quelli derivati dall’innovazione dei generi dei programmi – come lo è stato l’infotainment (informazione spettacolo, ad es. i talk show) che ha aperto più spazi per l’espressione della soggettività femminile di quanto non abbiano fatto gli stili d’informazione tradizionali – e/o dalle trasfromazioni economiche e tecnologiche. Il dibattito in Italia Fine anni ’ 70. dibattito sulla visibilità e rilevanza delle giornaliste, sotto la spinta del femminismo e dell’ampliamento del campo dei media informativi Aumento notevole sia nella stampa quotidiana sia, soprattutto nell’informazione televisiva. 1) 2) 3) 4) 4 generazioni di donne giornaliste: Le grandi emancipate (o pioniere): Anni ’50 e ’60 (es. Miriam Mafai) Le politiche (o innovatrici), atteggiamento impegnato (Annunziata, Fallaci, Rossanda) Le neoemancipate, leve giornalistiche femminili degli anni ’80: Lilli Gruber, Carmen Lasorella, Mariolina Sattanino, Bianca Berlinguer, Ritanna Armeni, ecc. Le ultime arrivate degli anni ’90, sfuggono a precise identificazioni: Cristina Parodi, Didi Leoni, Francesca Senette, etc. Anni ’90: Guerra del Golfo, inviate di guerra Giuliana Sgrena, Grazia Cutuli Ilaria Alpi, Maria Alcune cifre. Dal 1978 al 2002 le giornaliste professioniste passano dal 10% al 28% sul totale della categoria Ma inferiore ad altri Paesi (USA oltre 33% dal 1982; Francia 39% nel 1999) La grande visibilità televisiva delle giornaliste induce a sopravvalutare la loro effettiva presenza numerica Di buon auspicio la percentuale delle praticanti: 48% Ma visibilità senza potere Donne ai vertici delle posizioni redazionali sono pochissime: direttrici di quotidiani sono solo il 2%; in RAI rappresentano il 9%, nelle altre radio e tv il 4%; nella stampa periodica arrivano al 42%, perché l’area delle riviste femminili è tradizionalmente riservata alle donne Ostacoli alla carriera Autoesclusione, delle “politiche”: presa di distanza dal potere, per gratificazioni lavorative Difficoltà ad affermare uno “sguardo di donna” nell’informazione: mancanza di potere decisionale, ma anche scarsa consapevolezza delle giornaliste di essere portatrici di uno sguardo diverso da quello maschile 4 generazioni di donne coalizzate in una comunità consapevole, per costruire un punto di vista femminile sull’informazione, che non è scontato le donne esprimano in quanto tali Potenziale di autonomia ed eticità, derivato dalla distanza dal potere attuata strategicamente da parte di molte giornaliste, tematizzato come punto di forza dell’espressione di una differenza femminile In conclusione, la questione della mancanza di potere delle giornaliste viene discussa e problematizzata, ossia messa in relazione all’obiettivo di modificare il sistema valoriale maschile su cui poggia l’informazione. Da un lato le giornaliste che attuano la scalata al potere spesso hanno interiorizzato valori, atteggiamenti e modalità di comportamento maschili e/o non hanno riflettuto abbastanza sulla possibilità di modificare routine produttive consolidate per volgere i contenuti informativi verso una maggiore valorizzazione del loro stesso genere D’altro canto, rimane aperta la questione relativa al rapporto conflittuale instaurato da molte giornaliste con le forme maschili del potere e quindi con modalità lavorative che non riconoscono come proprie, tanto da indurle ad autoescludersi dalle stanze dei bottoni Come affermano alcune professioniste che lavorano in ambienti a dominanza maschile, dalla giornalista all’avvocata, dalla dirigente d’azienda alla chirurga: “C’è un modo del potere maschile in cui non possiamo o non vogliamo riconoscerci perché non ci corrisponde. E’ chiaro che la questione è complessa, bisogna parlarne. E certamente la risposta non è quella dell’adattamento e l’accettazione delle regole che gli uomini si sono dati in nostra assenza”. La rappresentazione di genere nell’informazione RAI Contenuto dei programmi televisivi d’informazione: a) Scissione tra immagine e parola delle donne b) Molta presenza delle speaker del tg e delle conduttrici, ma assenza di opinioniste ed esperte o di semplici donne “ospiti in studio” (invitate a fornire un’opinione su avvenimenti, o a illustrare un punto di vista, una decisione di rilievo pubblico) c) Ciò di conseguenza produce l’assenza in TV di un pensiero femminile sul mondo “Una, nessuna …a quando centomila? La rappresentazione della donna in televisione” (L.Cornero, 2001) Nell’informazione televisiva le donne non hanno sufficiente voce o potere per proporre uno sguardo al femminile Ricerca sui tg e i programmi d’informazione e attualità trasmessi dalle tre reti RAI Analisi dei tg Se le speaker hanno accresciuto la loro autorevolezza e raggiunto la parità numerica con gli uomini.. …i servizi firmati da giornaliste sono solo il 23% Riguardano soprattutto i generi della cronaca e della cultura Le donne solo inquadrate e quelle citate e/o intervistate nei servizi sono prevalentemente confinate nello spettacolo e nella cronaca (non parlano di politica, economia, sport) Il ruolo prevalente delle donne intervistate è quello di attrice o altre professioni del mondo dello spettacolo Gli esperti interpellati sono soltanto uomini Analisi dei programmi d’informazione e attualità I conduttori e/o i giornalisti occupano ruoli di maggiore prestigio rispetto alle colleghe e sono legittimati nella posizione di leader d’opinione Gli esperti sono nella stragrande maggioranza uomini in tutti i campi del sapere, anche quelli tradizionalmente femminili (dalla politica all’educazione dei figli, dalla tecnologia alla gastronomia, dalla scienza alla floricoltura) Quando si presentano le esperte non viene sottolineato il “titolo” professionale, ma si evidenzia più frequentemente il ruolo di “madre” o di “moglie” Delle donne si tende ad apprezzare la bellezza e il sex-appeal a scapito di altre qualità e spesso la telecamera sottolinea i particolari più attraenti del corpo femminile L’atteggiamento dei conduttori verso le ospiti in studio (specie quelli avanti con l’età) è per lo più paternalistico, protettivo In generale i conduttori/giornalisti tendono più delle donne ad autovalorizzarsi e a valorizzarsi tra loro, mentre le conduttrici/giornaliste spesso si autosvalorizzano (ammettono di non sapere o si scusano), e nel relazionarsi con le altre donne si adeguano alle modalità maschili ( ad es. sottolineando i ruoli casalinghi delle ospiti in studio o la minore importanza nei confronti del partner, complimentandosi sull’aspetto fisico più che sulla competenza professionale, etc.) a) b) La svalorizzazione delle donne nell’informazione agisce su molteplici livelli Distribuzione squilibrata del potere effettivo e simbolico tra uomini e donne che si traduce nella pressochè assenza di direttrici di tg o di giornaliste opinioniste (es. Lucia Annunziata, direttrice tg3 e presidente RAI; Milena Gabanelli, che “fa opinione” con Report) La difficoltà da parte delle conduttrici stesse a fuoriuscire dai rassicuranti binari di un’informazione al maschile rende necessario allargare il più possibile i confini della “comunità consapevole” Sono però da segnalare alcuni programmi “minori” (Art’è, Okkupati), in cui si avverte la volontà di fare emergere l’intellettualità e la creatività femminile: ad es. nella scelta di intervistare spesso le donne, nel porgere loro domande rispettandone il vissuto e le emozioni, nella capacità di raccontare le donne “a tutto tondo”, non ingabbiandole in un ruolo predefinito Sono es. che suggeriscono la possibilità concreta di introdurre modalità non stereotipate di fare informazione. Quindi… a) A partire dagli anni ’70 del ‘900 il numero delle giornaliste è progressivamente cresciuto all’interno delle redazioni della carta stampata e delle televisioni. In particolare sono aumentate le speaker dei telegiornali che, unitamente alle inviate nei teatri di guerra, hanno dato grande visibilità alle giornaliste nel mondo dell’informazione b) In realtà, come hanno verificato molti studi, il numero delle giornaliste rimane ancora oggi esiguo rispetto alla presenza dei giornalisti (arrivando in molti Paesi a rappresentare al massimo un terzo degli uomini). Inoltre, si tratta di una visibilità senza potere: le professioniste ai vertici delle posizioni redazionali sono pochissime. Un ulteriore aspetto rilevato è la scarsa attenzione giornalistica rivolta alle donne in qualità di “soggetti delle notizie” e di “esperte” interpellate in ogni campo del sapere, e di conseguenza la scarsità di “voci femminili” nell’informazione c) Le studiose di interrogano su come possa emergere nei contenuti informativi uno sguardo femminile sugli avvenimenti che accadono nel mondo e su ogni argomento di interesse pubblico: non si tratta solo di aumentare la quantità delle professioniste nei ruoli decisionali, quanto di sensibilizzare le donne e gli uomini che lavorano nelle organizzazioni dei media alla necessità di applicare una prospettiva di genere nel produrre informazione. Quindi… Nelle società occidentali industrializzate il mercato dell’abbigliamento, dei cosmetici, del fitness e della chirurgia estetica spinge soprattutto le donne, e ultimamente anche gli uomini, a uniformarsi all’ideale della snellezza, che rimanda a sua volta al mito dell’eterna giovinezza Da sempre le donne subiscono i dettami della moda per quanto riguarda l’aspetto fisico e il look complessivo a cui conformarsi. La “normalizzazione” del corpo femminile costituisce in realtà una forma del potere maschile esercitato nei secoli sulla donna. Le donne tendono a giudicare se stesse con occhi maschili, sentendosi continuamente inadeguate rispetto ai canoni estetici decretati dai media I significati del “corpo snello femminile” sono molteplici: può fornire l’impressione di ottenere un maggiore controllo sul proprio corpo e sulla propria vita; può significare la volontà di emanciparsi dall’immagine tradizionale della “donna-madre” adottando sul luogo di lavoro i valori maschili dell’efficienza e della disciplina; può indicare l’adeguamento all’ideologia dominante che di fatto svalorizza il genere femminile, istigando le ragazze a limitare le loro possibilità d’espressione alla bellezza Cinema e pubblico femminile Le icone femminili e maschili lanciate dall’industria cinematografica entrano a far parte dell’immaginario collettivo andando a influenzare comportamenti, atteggiamenti e stili di vita di donne e uomini appartenenti a una determinata generazione: segnano un’epoca interpretando i cambiamenti sociali e divenendo importanti modelli di riferimento Ad es. da eroine mascoline e focose (Greta Garbo, Marlene Dietrich, Bette Davis, Catherine Hepburn, Lauren Bacall, Rita Hayworth) negli anni ’30 e ’40, si passa a un modello diametralmente opposto, basato su una femminilità prorompente e seducente in modo quasi infantile, bamboleggiante (Marilyn Monroe, Debbie Reynolds, Brigitte Bardot e Lucille Ball) negli anni ’50 e ’60, coincidente con la propagazione della “mistica della femminilità” Viceversa, per gli eroi maschili si è passati dai tipi “classici”, virili e “tutti d’un pezzo” come Humphrey Bogart, John Wayne, Clark Gable e Gary Cooper negli anni ’50 e ’60, a icone tormentate e complesse come James Dean, Marlon Brando, Anthony Perkins nei decenni successivi Qui interessa il dibattito degli anni ’70 sulla “posizione del soggetto” costruita dalla macchina cinematografica per le spettatrici e gli spettatori, ovvero il modo in cui i testi filmici guidano e indirizzano lo sguardo del pubblico Un tema centrale all’interno dei Film Studies L’esperienza di visione nel buio della sala cinematografica attiva meccanismi psichici omologhi a quelli che presiedono alla formazione dell’identità del soggetto Calandosi in un processo regressivo, chi assiste allo spettacolo cinematografico è trasportato nel proprio passato e si trova a rivivere gli eventi nodali del suo percorso di crescita Nel momento stesso in cui comincia a vedere le immagini del film è già coinvolto in un processo di identificazione Ma prima ancora che il pubblico si identifichi con l’attore o con il personaggio preferito, l’istituzione cinematografica posiziona lo spettatore e la spettatrice, cioè fissa la relazione che ognuno dovrà intrattenere con il testo filmico La Screen Theory: lo sguardo maschile sulle donne •Le studiose afferenti alla Feminist Film Theory durante gli anni settanta hanno condotto una critica accesa nei confronti della rappresentazione della donna nel cinema hollywoodiano, giudicandola estremamente stereotipata, puro oggetto di piacere dello sguardo maschile •In particolare è la Screen Theory, elaborata nell’ambito della rivista cinematografica inglese “Screen”, a dare l’avvio al dibattito sul rapporto tra cinema e pubblico femminile. Secondo questa teoria il testo filmico impone i propri significati all’audience in quanto “posiziona” ogni soggetto all’interno di categorie discorsive preordinate, alle quali si presume sia pressoché impossibile sfuggire. Nel saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema (1975) Laura Mulvey osserva come nel cinema hollywoodiano la “posizione soggettiva” attraverso la quale ogni spettatore e ogni spettatrice è indirizzato a vedere il film consiste nell’adottare uno sguardo prettamente maschile (male gaze): il corpo femminile è attraversato dalla macchina da presa come oggetto del desiderio voyeuristico maschile, e i piaceri offerti alle spettatrici presuppongono la negazione della soggettività femminile, poiché anch’esse sono invitate ad adeguarsi allo sguardo maschile sulle donne che le “oggettiva”. L’unica possibile identificazione delle spettatrici con le eroine del cinema è allora definibile come masochistica, nel senso che implica l’accettazione di un ruolo subordinato all’uomo. Tra gli anni ’70 e ’80 l’approccio femminista al cinema viene fortemente influenzato dalla psicoanalisi freudiana e lacaniana. Mulvey individua il piacere freudiano di guardare un’altra persona trasformandola in oggetto di stimolazione sessuale e utilizza anche il concetto di “identificazione narcisistica” (che per J. Lacan rimanda alla “fase dello specchio”, quando durante l’infanzia inizia a costituirsi l’ego individuale). A suo avviso il cinema hollywoodiano permette al pubblico maschile di ottenere questi due piaceri contemporaneamente: il piacere che deriva dall’osservare il corpo-oggetto femminile erotizzato, e il piacere di identificarsi con il protagonista maschile (il quale è a stretto contatto visivo e/o corporeo con il personaggio femminile). In particolare Mulvey fa riferimento al cinema di Alfred Hitchcock (La finestra sul cortile, 1954; La donna che visse due volte, 1958; Marnie, 1964, ecc.), regista che mette in scena in modo amplificato il voyeurismo maschile. Nei film di Hitchcock il pubblico vede esattamente ciò che vede l’eroe maschile: la ripresa in soggettiva dal punto di vista del protagonista maschile guida il pubblico, sia maschile che femminile, nella sua medesima posizione. L’audience è così calata all’interno di una situazione voyeuristica. In questo tipo di cinema, di stampo patriarcale, in cui gli uomini sono protagonisti dell’azione e le donne interpretano ruoli passivi, Mulvey ritiene praticamente impossibile per le spettatrici provare a loro volta un piacere voyeuristico nei confronti dei personaggi maschili. Liesbet van Zoonen (1994) considera l’analisi di Mulvey soffocante perché non lascia la possibilità alle spettatrici di avere uno sguardo che non sia sottomesso a quello maschile, e sottolinea come molte studiose abbiano cercato di mettere in luce anche il piacere femminile derivato dalla fruizione cinematografica, ipotizzando una moltiplicazione degli sguardi. La stessa Mulvey (1981) in un saggio successivo a Visual Pleasure, rivisita la sua tesi: riconoscendo l’esistenza di smagliature nel dispositivo narrativo del cinema classico – ossia la costruzione di personaggi maschili che rivelano tratti di femminilità e la costruzione di personaggi femminili che mostrano capacità d’azione – ammette la possibilità di una visione autenticamente femminile. Mary Ann Doane (1982), nel considerare il piacere concesso alla spettatrice, mette in luce la complessità dell’identità femminile. Essa recupera il concetto di “mascheramento” della psicoanalista J. Riviere: l’identità femminile consisterebbe in un travestimento, in un “fare finta” di possedere i tratti culturalmente associati alle donne per nascondere inclinazioni e preferenze di fatto maschili. La duplicità o la bisessualità femminile, secondo Doane, impedirebbe di assumere una posizione voyeuristica , in quanto essa prevede l’esistenza di una distanza tra il soggetto dello sguardo e l’oggetto di visione, dalla quale scaturisce il desiderio. Le spettatrici a suo avviso possono solo avere o un’identificazione narcisistica con l’oggetto della visione o “mascolinizzarsi” identificandosi con l’eroe maschile. In una secondo saggio Doane (1988), utilizzando concetti come “gioco”, “scherzo” e “fantasia”, prevede però una serie di escamotage per il pubblico femminile che permetterebbero di avere un’esperienza di visione critica soddisfacente. Teresa De Lauretis, esponente del Feminist Psychoanalytic Film Criticism di matrice statunitense, considera il cinema una “tecnologia del genere” attraverso la quale si indirizzano le donne a in-generarsi donne, cioè a identificarsi nei modelli di femminilità dominanti. Dalla sua analisi dei testi filmici emerge che la struttura narrativa distribuisce i ruoli gerarchici di potere tra i personaggi con la funzione di sedurre le spettatrici (riproducendo lo schema del mito di Edipo) affinché esse assorbano il concetto tradizionalistico di femminilità. A) B) La studiosa concepisce per il pubblico due possibili processi di identificazione: Uno consiste nell’identificazione maschile, attiva, con lo sguardo (lo sguardo nella macchina da presa e quelli dei personaggi maschili) e nell’identificazione femminile, passiva, con l’immagine (corpo femminile, paesaggio); Il secondo consiste in una doppia identificazione simultanea con la figura del movimento narrativo e con la figura dell’immagine narrativa, che riflette l’oscillazione tra posizione attiva/passiva del desiderio (desiderio per l’altro e desiderio di essere desiderati dall’altro). Questo secondo tipo di identificazione contempla l’adesione della spettatrice anche con la componente attiva della narrazione. Le riflessioni successive al saggio di Mulvey del 1975 sui possibili percorsi d’identificazione offerti alle spettatrici aprono la strada all’idea che il cinema non si limiti a collocare il pubblico entro una struttura della differenza sessuale rigida e immutabile, ma possa invece offrire fantasie liberatorie. Le gratificazioni offerte alle spettatrici Gertrud Koch (1980) è tra le poche femministe che all’inizio degli anni ’80 del ‘900 ha considerato la possibilità di un apprezzamento della bellezza femminile sullo schermo da parte delle spettatrici. Soprattutto la figura della Vamp (un’immagine nata in Europa e poi esportata e integrata nel cinema hollywoodiano) può fornire alle spettatrici un modello positivo di autonomia femminile. In termini psicoanalitici, inoltre, la vamp permetterebbe alla spettatrice di rivivere l’esperienza gratificante, d’amore, avuta con la madre nella fase pre-edipica: Koch afferma pertanto che l’ambivalenza sessuale di Greta Garbo o Marlene Dietrich accoglie, oltre allo sguardo maschile, lo sguardo femminile omosessuale. Studiose come Jackie Byars (1991) hanno invece criticato la psicoanalisi freudiana e lacaniana, in quanto considera la donna in maniera negativa come l’”altro”, “differente” e “mancante” rispetto all’uomo, relegandola nel ruolo di “secondo sesso”, come ha sostenuto a suo tempo (1949) Simone De Beauvoir. Byars prende a riferimento l’approccio psicoanalitico di studiose come Nancy Chodorow e Carol Gilligan che mette in rilievo come le bambine, dal momento che nascono da un essere umano del loro stesso genere, seguono un percorso di individuazione diverso dai bambini, presentando una maggiore difficoltà a separarsi dalla madre: ne deriva che le ragazze/donne si pensano maggiormente in relazione agli altri, mentre i ragazzi/uomini si percepiscono molto di più come individui autonomi, scissi dagli altri. Questa “differenza” tra i sessi va letta positivamente, come capacità femminile di instaurare legami profondi (e accudenti) con le altre persone, dentro e fuori la cerchia familiare. L’analisi di Bryars dei film melodrammatici degli anni ’50, dimostra ad es. che la struttura narrativa di queste storie, che ritraggono come protagoniste madri e figlie, non posiziona il pubblico in un’ottica maschile e voyeuristica; piuttosto, induce le spettatrici a provare piacere nell’identificarsi in donne dal carattere forte, spesso coinvolte in legami d’amicizia con altre donne. Byars ipotizza quindi l’esistenza di uno sguardo “al femminile” nei confronti delle eroine cinematografiche. Altri esempi di letture di film che esplorano il piacere offerto dal testo filmico alle spettatrici. L. Arbuthnot e G. Seneca (1982ù) analizzano il film “Gli uomini preferiscono le bionde” (H.Hawks, 1953), con protagoniste M. Monroe e J. Russell. Secondo le studiose questo film può essere considerato femminista: le due attrici mettono in scena due donne forti e indipendenti in cerca di marito. La trama romantica del film, basata sul tradizionale desiderio femminile di sposarsi/sistemarsi, rappresenta solo il contenuto manifesto della storia: a un livello profondo di significato si può constatare la presenza di elementi di “resistenza” all’oggettivazione maschile della donna. Ad es. se le due attrici sono apparentemente costruite come oggetti dello sguardo maschile, esse spesso capovolgono questo sguardo nel momento in cui scrutano e fanno commenti sull’”uomo giusto” da accalappiare. Inoltre le spettatrici possono provare piacere nell’osservare uno stretto legame d’amicizia tra donne da cui è assente la gelosia e la competizione. L’analisi di T. Skjerdal (1997) del film Thelma e Louise (R. Scott, 1991), è finalizzata a rovesciare l’approccio psicoanalitico al cinema nei termini proposti da Mulvey. Secondo la Screen Theory nella prima parte del film le due protagoniste verrebbero viste come donne oggetto totalmente dipendenti dai mariti. In seguito, dopo la violenza sessuale subita da una di loro, esse scappano alla ricerca dell’indipendenza, della libertà e dello spazio, qualità generalmente attribuite agli uomini. La stessa fuga delle protagoniste si avvale di simboli del potere e della forza maschili: l’automobile, la pistola, il linguaggio rude. E si può infine ipotizzare, afferma la studiosa, quale lettura del finale verrebbe fornita secondo questo tipo di approccio: l’episodio delle due eroine che spingono l’auto giù dal Grand Canyon attesterebbe come le donne siano intrappolate nel sistema dominante maschile che non lascia loro altra scelta che uccidersi. Skjerdal contesta principalmente il fatto che l’approccio psicoanalitico tradizionale, ponendo una distinzione rigida tra ruolo attivo maschile e ruolo passivo femminile, impedisce di guardare anche alle possibili interpretazioni positive dei contenuti del film. Thelma e Louise può infatti offrire alle spettatrici la fantasia liberatoria di cambiare i proprio destino divenendo, da oggetti passivi e dipendenti dagli uomini, soggetti attivi, dando autentica voce ai desideri femminili e zittendo i discorsi degli uomini. Si è visto come negli anni ’80 e ’90, nell’ambito dei Media Studies, l’attenzione si sposti dall’analisi del testo allo studio dell’audience, considerando la varietà dei contesti di ricezione. La ricerca di J. Stacey (1994) si muove in questa direzione. Basandosi sui racconti di vita di un gruppo di donne inglesi, spettatrici assidue di cinema durante gli anni post-bellici 1940-50, Stacey contesta le ipotesi sostenute dalla Screen Theory: esse non sembrano assorbire passivamente ciò che vedono al cinema né sono necessariamente imbrigliate in uno sguardo maschile. Dalla loro “memoria iconica” risulta che erano consapevoli di non potere assomigliare alle immagini femminili ideali presentate dal cinema hollywoodiano e al tempo stesso provano piacere nell’identificarsi con le star dell’epica, ne apprezzavano il glamour e in sostanza l’andare al cinema serviva loro per sfuggire alla monotonia della vita quotidiana. Ciò che questa ricerca attesta è la contraddittorietà dell’esperienza delle spettatrici, che non si restringe all’assunzione di una sola posizione (quella passiva, implicita nel male gaze) della soggettività femminile Un ulteriore aspetto su cui riflettere deriva dalla tendenza dell’industria cinematografica, e in particolare dello star system americano, a costruire icone maschili con l’esplicita finalità di attrarre gli sguardi femminili ( un fenomeno che comincia ad avvertirsi anche nella fiction televisiva e nella pubblicità): si va da Richard Gere ai tempi di American Gigolò, 1980, a Tom Cruise (Top Gun, 1986), da Brad Pitt (Vento di passioni, 1994) a Leonardo Di Caprio (Titanic, 1997), tutti belli, seducenti, dai corpi modellati e sufficientemente romantici. Se da un lato viene introdotta la legittimità di uno sguardo femminile su corpi-oggetto maschili erotizzati, che in un’ottica paritaria risarcirebbe le spettatrici dall’esclusione della soggettività femminile dal testo filmico, si può obiettare che le storie dei film interpretati da questi “belloni” non sono filtrate dal punto di vista dei personaggi femminili. Al centro della trama, protagonisti dell’azione, vi sono gli uomini (che lottano e vincono, si riscattano, amano e si sacrificano per amore). Film che decostruiscono gli stereotipi di genere Una rapida carrellata di film pensati e costruiti da registe donne con l’intento di rappresentare punti di vista femminili sul mondo e sul genere maschile, e forse di mettere in scena il “potere del desiderio femminile”, con le sue contraddizioni. Negli anni ’80 del ‘900 spiccano i film della regista tedesca Margarethe von Trotta (Sorelle, 1979; Anni di piombo, 1981; Lucida Follia, 1982, ecc.), mentre negli anni ’90 emerge la cinematografia della regista neozelandese J. Campion che specialmente con Lezioni di piano (1993) offre un mirabile esempio di forza femminile raccontando la difficile battaglia della protagonista contro le convenzioni, gli uomini e se stessa per affermare il proprio desiderio nel mondo. Altri film diretti da registe che vale la pena di menzionare sono Orlando di Sally Potter (1992), tratto dal testo di V.Woolf, poliedrico e ironico affresco di come potrebbe cambiare la vita di un uomo nel momento in cui diventasse una donna. Oppure Gli occhi della Vita (2002) di Mira Nair , un film minore della regista indiana, ma estremamente efficace nel raccontare come il raggiungimento da parte delle donne dell’indipendenza psicologica dagli uomini passi attraverso una lunga fase di “prove ed errori”, per poi approdare a un cambiamento di punto di vista: da donne perennemente frustrate e deluse dagli uomini, a donne che rivalutano il loro rapporto d’amicizia e si aprono con ottimismo alla vita. Un altro film interessante è Lost in Translation (2003, S. Coppola) per la delicatezza tutta femminile nel raccontare un incontro casuale, diventato poi di “quasi amore” tra un uomo e una donna. Questi film si caratterizzano per il fatto di ritrarre le donne in qualità di soggetti attivi della narrazione, di mostrare il corpo femminile in maniera non oggettivata, di valorizzare l’alleanza tra donne, di dipingere l’immaginario amoroso ed erotico con occhi e sensibilità femminili; sono film che in sostanza guidano il pubblico a posizionarsi in un’ottica femminile (female gaze). Se la quantità di registe nel mondo è ancora piuttosto esigua, sono molti i film diretti da uomini che raccontano le donne (denunciando i soprusi che esse subiscono dagli uomini ed evidenziandone i desideri d’amore e di vendetta), nei quali si può ravvisare l’intento di valorizzare i punti di vista femminili. Alcuni tra i più recenti e significativi: oltre a Thelma e Louise, Bagdad cafè (P. Adlon, 1987); Nikita (L. Besson, 1990); Pomodori verdi fritti alla fermata del treno (J. Avnet, 1991); Lanterne rosse (Z.Ymou, 1992); Chocolat (L.Allstrom, 2000); Pane e Tulipani (S.Soldini, 2000); Il cerchio (J. Panahi, 2000); Kill Bill (Q. Tarantino, 2003). In particolare il che ha creato i paradossali ed stereotipi di hollywoodiano. regista spagnolo Pedro Almodovar, personaggi femminili e maschili più estremi, andando a sovvertire gli genere costruiti dal cinema La galleria di personaggi che ha mostrato in questi decenni (ad es. Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, 1980; Che ho fatto io per meritare questo?, 1984; Donne sull’orlo di una crisi di nervi, 1987; Legami!, 1989; Tacchi a spillo, 1991; Tutto su mia madre, 1999; Parla con lei, 2002; La mala educacion, 2004; Volver, 2006) fuoriescono dalle convenzioni sociali e dalle tradizionali categorie di genere. Suore peccatrici, puttane, travestiti, transessuali, lesbiche, gay, uomini iperfemminili che piangono, uominimacho che a loro volta si scoprono fragili, donne ipermascoline che criticano l’universo maschile e donne disperate e sottomesse in amore che scoprono inaspettati punti di forza. L’accentuazione in maniera caricaturale e performativa delle caratteristiche tradizionalmente attribuite agli uomini e alle donne sollecita il pubblico a mettere in discussione i rigidi costrutti di genere: Almodovar infatti costruisce forti personalità maschili in sembianze femminili e va continuamente scoprendo sensibilità femminili in personaggi interpretati da uomini. I personaggi più intensi che Almodovar mette in scena sono ad esempio i travestiti e i transessuali, anime dalla sensibilità femminile imbrigliate in corpi maschili che reclamano il riconoscimento sociale del loro valore umano e il diritto di esprimere liberamente le proprie inclinazioni sessuali e sentimentali. Il travestito Agrado in Tutto su mia madre racconta al pubblico di una sala teatrale quanto gli è costato ogni singolo “pezzo” di corpo femminile da sovrapporre al suo originario corpo maschile (zigomi, labbra, seni, glutei): “Costa molto essere “autentica”, ma una persona è tanto più autentica quanto più somiglia all’immagine che ha sempre sognato di se stessa”. Ovvero esprime il concetto che è fondamentale il proprio sentire interiore, al quale si cerca eventualmente di accordare l’aspetto esteriore. Nei film di Almodovar il confine tra il concetto di femminilità e quello di mascolinità si assottiglia, le contraddizioni esplodono, le relazioni gerarchiche di potere si invertono, l’azione non è solo maschile così come l’oggetto di visione non è solo femminile, e il risultato è l’accettazione amorevole di tutte le differenze: la valorizzazione della specificità/unicità di ogni essere umano, che non consiste però nella cancellazione della differenza sessuale (in linea con quanto affermano le teoriche postgenere). Gli uomini dipinti da Almodovar sono quasi sempre dei perdenti, dei deboli, dei pusillanimi e dei vigliacchi che spesso peccano di machismo, mentre le donne sono quasi sempre sull’orlo di una crisi di nervi, ma si sostengono a vicenda con grande solidarietà e affetto, sanno maternamente prendersi cura degli altri. E’ evidente la tesi sostenuta dal regista spagnolo della superiorità della donna (e di conseguenza dell’uomo femminilizzato) rispetto all’uomo classicamente inteso. Potremmo allora definire l’universo dei film di Almodovar come multigenere: gli spettatori e le spettatrici sono catapultati in uno spazio immaginario in cui c’è posto per tutti e per tutte, indipendentemente dall’aspetto fisico e dall’orientamento sessuale di ciascuno e ciascuna. Segnaliamo infine altri film recenti che vanno nella direzione di una legittimazione delle soggettività oscillanti “tra” i generi: I segreti di Brokeback Mountain (Ang Lee, 2006), nel quale si narra della passione che inaspettatamente si accende tra due giovani cowboy (e che diventerà Amore), e Transamerica (D. Tucker, 2006), un road-movie che con ironia e umanità riesce a mostrare la delicata situazione psicologica di un uomo che sta per diventare donna a tutti gli effetti. Quindi…. Le icone femminili e maschili del cinema fungono da modelli di riferimento per il pubblico alimentando l’immaginario collettivo. Dall’inizio della storia del cinema si susseguono diversi modelli di femminilità e mascolinità, non sempre tendenti a confermare gli stereotipi di genere Un aspetto importante da tenere in considerazione è la “posizione del soggetto” che la macchina cinematografica costruisce per le spettatrici e gli spettatori: il pubblico viene guidato ad assumere il punto di vista del soggetto dell’azione narrativa che è più spesso il protagonista di sesso maschile, mentre la protagonista femminile generalmente ricopre il ruolo passivo di oggetto sessuale, istigando il pubblico, sia maschile sia femminile, al voyeurismo. Posizione paradossale per le spettatrici che viene discussa dalle studiose femministe. Vi sono però film diretti da registe donne, e anche molti film diretti da registi uomini, che intenzionalmente rovesciano lo schema della tradizionale divisione dei compiti tra protagonisti maschili e femminili, attribuendo alle donne il ruolo di “motori delle storie” e guidando il pubblico di entrambi i sessi ad adottare una prospettiva al femminile Quindi… Internet è un mezzo in espansione: viene utilizzato da circa il 17% della popolazione mondiale e si sta arrivando alla parità numerica tra utenti uomini e utenti donne. Le potenzialità offerte dall’uso di Internet sono molteplici. In particolare vi è la possibilità di accedere alle discussioni su qualunque argomento di interesse pubblico, e quindi di partecipare attivamente alla vita politica, sociale e culturale, uscendo dai confini del “privato” Le donne hanno un rapporto conflittuale con la tecnologia che dipende principalmente dalla loro secolare esclusione dalle professioni tecniche e scientifiche, considerati “ambiti maschili”. Da molte ricerche emerge che nell’uso di tecnologie come il telefono, la televisione o Internet, esse presentano uno stile di fruizione diverso da quello degli uomini: maggiormente “relazionale” quello femminile e più “strumentale” quello maschile. Oltre a riflettere la classica divisione dei compiti tra i sessi, questa differenza di genere può essere sfruttata in positivo: ad esempio per comunicare e allearsi tra donne di ogni parte del mondo Un aspetto individuato dalle ricerche sugli utilizzi della Rete da parte di navigatrici e navigatori assidui, è la possibilità di cambiare virtualmente genere, al fine di esprimere aspetti della propria identità celati nella vita reale o di sfuggire a forme di intimidazione (che coinvolgono soprattutto le donne).