III Ci concentreremo, oggi, sulle filosofie di Bruno e bruniane: usiamo questa espressione al duplice scopo di: 1) decodificare le influenze e le categorie che convivono nella articolata e complessa concezione filosofica di G. Bruno; 2) storicizzare le varie interpretazioni che di Bruno sono state date da autori diversi nel corso di quattro secoli. “Filosofie di Bruno e bruniane” campodeifioriurbani.wordpress.com RESOCONTO DEGLI INCONTRI PRECEDENTI: Nel corso degli incontri I e II abbiamo introdotto l’opera e il metodo di riscrittura che adotteremo per affrontare lo Spaccio de la bestia trionfante. In realtà fin dagli anni di Bruno, lo è stato oggetto di varie e contrastanti interpretazioni. G. Schoppius identificò nella Bestia il Pontefice romano; mentre il Postillatore napoletano, uno dei primi e più acuti lettori del dialogo bruniano, ne individuò subito la fondamentale polemica antiriformata. In periodi più recenti hanno dominato a lungo interpretazioni in chiave democratica, laica, progressista; abbiamo adottato questa possibilità, cercando di sviluppare un nesso tra il progetto di renovatio mundi di Bruno e l’ideale post-unitario del fare gli italiani, tra Rinascimento e Risorgimento: evocata nella frase di D’Azeglio (fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani), la necessità post-unitaria di correggere la decadenza del carattere italico, ci ha fatto pensare al rinnovamento dei valori e alla riforma della società proposti da Bruno nello Spaccio. Questa lettura accompagnò anche la riscoperta di Bruno tra 800 e 900, riproponendo le contese che accompagnarono l’erezione della statua nel 1889 a Roma. Nel 1929, alla sigla dei Patti Lateranensi, i cattolici ne chiesero la rimozione ma non la ottennero, grazie all’intervento di Giovanni Gentile, estimatore dell’inattuale filosofo della pluralità dei mondi. Persino Mussolini, la cui politica si rafforzava grazie al patto con la Chiesa, tenne alla Camera dei Deputati il 13 maggio 1929:“(…) non v’è dubbio che, dopo il Concordato del Laterano, non tutte le voci che si sono levate nel campo cattolico erano intonate. Taluni hanno cominciato a fare il processo al Risorgimento; altri ha trovato che la statua di Giordano Bruno a Roma è quasi offensiva. Bisogna che io dichiari che la statua di Giordano Bruno, malinconica come il destino di questo frate, resterà dove è. È vero che quando fu collocata in Campo di Fiori, ci furono delle proteste violentissime; perfino Ruggero Bonghi era contrario, e fu fischiato dagli studenti di Roma; ma ormai ho l’impressione che parrebbe di incrudelire contro questo filosofo, che se errò e persisté nell’errore, pagò. (…)” Nel clima politico e culturale della borghesia ottocentesca, con le sue convinzioni anticlericali e liberali, l'interpretazione moderata si consolida affrontando il tema dei rapporti tra filosofia e libertà religiosa: una suggestione che ci presenta Bruno come un testimone dell'esigenza della libertà dello spirito, un razionalista che mira ad interpretare senza imposizioni autoritarie i dogmi religiosi. Oggi abbandoneremo questa suggestione per dare spazio alle sue più fiere avversarie: le interpretazioni del dopoguerra. Nell’esplorare i sentieri proposti da Badaloni e da Yates, ci troveremo di fronte ad alcuni termini capaci di evocare più di una filosofia (Natura, Ermetismo, Gnosi, Magia): da essi ripartiremo per confrontarci con quelle matrici e influenze, capaci di convivere e contaminare la filosofia di Bruno, trasformandola in un sistema complesso e articolato. Gli studi del dopoguerra sono tesi a liberare la filosofia di Bruno non solo dai condizionamenti ottocenteschi (Bruno martire del libero pensiero e teorico del laicismo) ma anche da quelli dell'attualismo gentiliano e dello spiritualismo cattolico. •Sotto questo profilo l’interpretazione di N. Badaloni costituisce una vera e propria svolta, perché offre una lettura dell'opera del Nolano finalmente restituita ai suoi legami con il pensiero moderno e riconosciuta nei suoi aspetti più innovatori. •Sgombrato il campo da tutti i tentativi di imporre a Bruno interessi teologici o religiosi di qualunque tipo, si insiste soprattutto sugli interessi naturalistici (che ovviamente non potevano non scontrarsi polemicamente con le credenze e i modi di vita del mondo circostante) e sulle diverse matrici del suo pensiero che tuttavia si evolve all'interno dell'aristotelismo per arricchirsi e ampliarsi con l'innesto di altre fonti. •Avremmo così l'evoluzione da un iniziale averroismo verso una concezione dell'infinito prima formulata in termini atomistici poi in termini neoplatonico-anassagorei. Bruno avrebbe cercato in una natura intesa in termini di infinità e di mutevolezza continua quei fattori di costanza che la rendessero intelligibile. Le idee platoniche (private del loro aspetto finalistico) non sarebbero altro che lo stesso mondo sensibile colto nei suoi aspetti di costanza ed eternità, mentre senso e intelletto costituirebbero due modi di intendere la stessa realtà fisica la cui visione non è data da una scienza matematica ma da una penetrazione metafisica che coglie il movimento unitario del tutto. Mantenendo il pregiudizio che l'ordine delle cose sia riproducibile nel pensiero, la novità della sua filosofia consiste nella collocazione di un mondo di forme, attraverso cui passa il divenire delle cose, nell'universo infinito: •L’universo infinito è segnato dal prendere forma di un'infinita materia che segue un ordine costante •l'arte della memoria è lo strumento mentale per riuscire a rappresentare l'universo in una immagine riassuntiva che si basa sull'innesto delle idee nella natura. •Dio è la forza vivificante delle cose, il sigillo della costanza dell'universo e della sua continua creatività. la posizione di Bruno rispetto alla scienza moderna: certo la sua è ancora una posizione speculativa, filosofica, per tanti aspetti espressione di una fase di transizione, ma portando a precisazione la moderna visione del mondo, egli finisce per condizionare e influenzare la nuova ricerca scientifica. La scoperta dell'infinito (che è realtà materiale) agita e sommuove i concetti scientifici tradizionali: nella misura in cui Bruno identifica la nuova cosmologia eliocentrica con l'antica filosofia della natura di cui vuole la rinascita, quest'ultima assume un significato moderno e attuale, implicando anche la liberazione dalle superstizioni e dalle sofisticherie. l'interesse di Bruno per la magia: posto che la scienza possiede un interesse pratico di di liberazione umana, essa si configura come ricerca oggettiva delle cause della natura e non come supposti poteri del soggetto, come anticipazione di un fatto singolo di fronte ad una sollecitazione determinata. La magia non è capacità di operare miracoli ma spiegazione del perché si ripetono certi eventi e di come sia possibile utilizzarli come vincoli. Essa spiega come sia possibile vincere con determinati simboli o atti l'animo dell'uomo facendo udire a ciascuno il richiamo dello spirito corporeo universale. Natura, virtù, religione Anche la riflessione etica di Bruno viene presentata da Badaloni in continuità con quella sulla natura e quindi liberata da tutte le interpretazioni spiritualistiche che vedono la fonte dell'etica nel contatto con Dio cui tutto si subordina. Badaloni mostra come questa visione sorga dall'aver equivocato il senso del termine "divino" che Bruno impiega in senso metaforico per indicare la costanza del tutto che è oggetto di comprensione intellettuale: divina è allora la stessa coscienza del reale. Il raccogliere il reale nella mente corrisponde al carattere divino dell'uomo, in quanto la mente ci dà modo di rispecchiare in forme costanti l'infinita mutevolezza delle cose. La moralità si fonda dunque sul pensare, che consente un legame con la razionalità e la vita. La contemplazione intellettuale, in cui consiste la più alta forma di moralità e alla cui elevazione Bruno richiama, significa intendere più a fondo l'oggettività delle cose e approfondire la tendenza più nascosta del nostro essere, orientando i nostri impulsi verso l'unità con la natura poiché l'intelletto è la natura stessa:è l’eternità e costanza che sta alla base del mutamento. Respingendo l'ascetismo cristiano, Bruno apprezza la religione antica, e particolarmente quelle egizia anche se egli è ben lontano da volerla riesumare e sostituirla al cristianesimo (come pretenderà la Yates). Il problema della libertà dell'uomo nasce dall'intuizione della costanza dell'essere nella sua infinitezza e l'intelligenza è condizione di libertà. La moralità sta nel dominio del transeunte raggiunto attraverso la percezione del permanere della sostanza al di là del nascere e del morire delle cose: in questa coscienza del divenire universale consiste, secondo Badaloni, la storicità (non lo storicismo) del pensiero di Bruno Ne deriva una complessa problematica sociale Anche il mondo sociale rispecchia questo aspetto di mutevolezza naturale: infatti, intesa la necessità del tutto, il movimento incessante delle cose nel suo significato reale, l'uomo è in grado di cogliere il vero significato delle vicende del mondo sociale e tendere al mantenimento del corpo sociale che è lacerato all'interno dalle singole volontà. Di qui la valorizzazione delle attività volte a questo fine, compresa la religione: la virtù suprema è perfezione del proprio e altrui intelletto al servizio della comunità; le religioni possono contribuire a conservare e rafforzare i legami sociali e vanno bandite solo quando diventano strumento di divisione sociale. Al principe tocca creare una situazione di pace sociale e di convivenza che implichi un diritto comune: entro questo quadro può svolgersi la lotta per la ricerca della fortuna che alterna le sorti dei singoli, senza che ciò si svolga in un clima distruttivo. Politica Badaloni sottolinea come questo orientamento sia stato suggerito a Bruno dalle sue esperienze nei paesi più avanzati dell'Europa moderna: egli ha potuto apprezzare la politica di Enrico III e di Elisabetta I che hanno impostato la convivenza civile su basi razionali e naturali. Dunque Bruno sarebbe cosciente delle trasformazioni del mondo moderno, come è testimoniato dall'apprezzamento del lavoro che apre ad un rapporto dinamico tra uomo e natura ma anche alla trasformazione dei rapporti sociali e di proprietà. Ne deriva il riconoscimento del ricambio necessario dei ceti dirigenti (la cui mancanza aveva potuto constatare a Napoli) da ricercarsi negli strati più alti della società (e qui si può giustificare chi, come l'Ogiati, ha parlato di aristocraticismo bruniano, notando la frattura con le masse popolari). In ogni caso Badaloni evidenzia la modernità di Bruno che si esplica nell'accettazione delle fratture sociali (con il conseguente abbandono delle ideologie gerarchico-feudali), della nuova struttura del principato (liberato dalle concezioni feudali del sovrano) e della funzione della legge. E' secondo natura, che è continuo mutare di forme, assecondare il nuovo che avanza e cambia il mondo: perciò si deve lasciare posto all'iniziativa del singolo e alla circolazione della ricchezza. La natura non è Provvidenza ma Fortuna che dà a ciascuno la sua sorte: essa si offre a tutti, anche se non tutti sono capaci d' afferrarla. Perciò Bruno, che non è al di sopra delle parti ma è dalla parte dell'avvenire e del progresso, approva un ordine politico non egalitaristico ma fondato sulla divisione di gradi raggiunti con l'abilità e sull'impero della legge, in base al principio "natura sit rationi lex, non naturae ratio". Questo atteggiamento generale giustifica, secondo Badaloni, anche la vicenda personale di Bruno che da Venezia, città moderna con un governo fondato sulla legge (tra l'altro Venezia era stato il primo stato cattolico a riconoscere la monarchia di Enrico IV), voleva seguire più da vicino la politica antispagnola di Enrico IV (in cui sarebbe stata coinvolta anche l'Italia) e prendere contatto con Clemente VIII, papa antispagnolo, in vista di un suo rientro in seno alla Chiesa cattolica e alla corte francese. La situazione sembrava volgere al meglio, profilandosi un accordo tra Francia e Papato che avrebbe portato ad un clima più tollerante e ad un allentamento del controllo censorio imposto agli intellettuali, cui avrebbe dovuto essere lasciata libertà di pensiero come guide politiche dei popoli. Ma egli si illuse sulla disponibilità della Chiesa e accettò la morte non volendo divenire meno alle sue convinzioni, peraltro perfettamente accertate dagli inquisitori. Excursus su Stato moderno e filosofie politiche del Rinascimento La crisi della modernità ha comportato una diversa considerazione delle categorie etiche, giuridiche e politiche. Il connotato comune delle moderne teorie del diritto naturale è da ravvisare nella sostituzione della trascendenza con l'immanenza delle leggi e delle istituzioni politiche, con la conseguente prevalenza della volontà dello Stato sulla voluntas Dei . La realtà è considerata matura per produrre da sé il giusto e, conseguentemente, anche il cosiddetto obbligo di diritto naturale, emancipandosi dalla sua base teonoma, è fatto scaturire dalla natura stessa delle cose, in uno sviluppo progressivo che lo fa evolvere in legge. Sul piano politico, lo Stato, risultato della riflessione e del calcolo, opera d'arte e prodotto dell' arte dello Stato e della scienza di governo, ha al suo vertice non più un principe nel senso feudale del termine, ma piuttosto un sovrano indipendente che fa di preferenza affidamento sulla sua intelligenza e sulle sue risorse piuttosto che su principi etici o sulla posizione che gli è affidata da Dio in una società piramidale. Contro questo processo di secolarizzazione e di autonomizzazione del diritto e della politica si erge Tommaso Campanella, la cui vasta produzione di scritti politici è in larga misura sconosciuta agli studiosi in netto contrasto con l'amplissima diffusione delle numerose edizioni della Città del Sole, che ha finito per avere un effetto addirittura distorcente e riduttivo rispetto all'acutezza e alla profondità di pensiero del filosofo di Stilo. Nei prossimi incontri proveremo a confrontare la visione politica di Bruno con il realismo di Machiavelli e con l’utopia di Moro, con la teologia politica dell’altro dei tre maggiori filosofi della natura, Campanella. Prima di introdurre le riflessioni della Yates e la differenza tra scienza, magia e filosofia della natura, ripercorriamo la storia filosofica di questo termine: >>> “Natura e ordine del mondo …” •Nella Metafisica Aristotele afferma che «la natura è la sostanza di quelle cose che hanno un principio di movimento in se stesse», distinte dagli enti ingenerati ed eterni (oggetto della metafisica e della matematica), da ciò che è «per caso» o «fortuna», e infine da ciò che è «per arte», ossia è dovuto al fare umano. •Già i sofisti avevano distinto, in sede giuridico-morale, ciò che è «per natura» da ciò che è «per convenzione» umana (nòmos). Ogni cosa naturale è dunque caratterizzata, secondo Aristotele, da un principio immanente che la spinge alla realizzazione della propria essenza (il seme è per es. indirizzato a divenire albero), secondo una concezione finalistica che stabilisce il senso del divenire e la meta (o «luogo naturale») del movimento. •Anche gli stoici ebbero della natura un concetto finalistico e organicistico, in analogia con il modello del vivente (ma mentre Aristotele privilegia il modello diacronico della crescita e riproduzione, gli stoici si riferiscono al modello sincronico relativo al modo in cui gli organi di un essere vivente funzionano concordemente al fine di mantenerlo in vita). Questa funzione armonica e vitale è incarnata da un «fuoco artefice» o «soffio vitale» (pnéuma) che penetra il gran corpo dell’universo e dirige ogni suo membro secondo un ordine necessario e razionale, ordine che si manifesta anche in sede etica: la legge morale è una legge naturale e la libertà del saggio consiste nel seguire la natura (naturam sequi). •Opposta al vitalismo teleologico di Aristotele e degli stoici è invece la concezione meccanicistica e materialistica che della natura hanno gli atomisti e poi gli epicurei. Etica e natura Per Aristotele la phronesis, la prudenza, è il sapere che orienta all'azione e, facendosi habitus (o disposizione morale), consente di discernere i fini da perseguire e i mezzi con cui realizzarli. Se per Platone l’anima immortale è il vero soggetto della felicità morale, Aristotele rinuncia ad una concezione dell'anima come individualmente immortale. Il premio per chi agisce bene è, per Aristotele, la felicità in questa vita e in questo mondo: non pensa che il fine dell'etica sia il raggiungimento del bene assoluto (Platone) principio della realtà e del mondo delle idee e quindi estraneo alla vita pratica dell'uomo. Tuttavia il bene supremo è alla portata dell'uomo con il conseguimento della eudaimonia, la felicità, che si può conseguire solo quando questa è autosufficiente: il bene è ciò verso cui ogni cosa tende, ciò che costituisce il fine di ogni singola azione orientata e dunque molteplice. Il termine di riferimento nella speculazione stoica ed epicurea è senza dubbio la natura. Per gli stoici la natura è un qualcosa da cui salvarsi; è come un ordine razionale ed il prezzo da pagare per l'uomo, per entrare in questo ordine, è l'ascetismo. Per gli epicurei, invece, la natura è indifferente all'uomo, essa non può né salvarlo, né danneggiarlo. Il rapporto con la natura per gli stoici si configura come un "vivere secondo natura che è vivere secondo virtù". La virtù è quindi razionale, è tutto ciò che si oppone alle emozioni. Essa è una sola, perché le altre virtù non sono altro che una manifestazione d'intelligenza in situazioni diverse e con scopi diversi. Le emozioni che vengono a turbare l'anima sono: 1.dolore 2.piacere 3.desiderio 4.paura. L'uomo deve tagliare di netto con queste emozioni e vivere di dovere. Il dovere è una prescrizione, una regola. Gli epicurei, invece, vivono la natura come causale, per cui non si distingue tra vizio e virtù. Le azioni dell'uomo vanno valutate in se stesse, per la loro immediata fruibilità. Il criterio di misura attraverso cui giudicare le azioni è il piacere. Esso è principio e fine della vita beata e consiste fondamentalmente nella mancanza di dolore. il piacere è, dunque, direttamente collegato con l'atarassia. L'unica possibilità di vita serena, e nello stesso tempo non solitaria, è vivere con un gruppo di amici con i quali discutere pacatamente, evitando qualsiasi desiderio e bisogno non strettamente necessario. >>> “fino al naturalismo rinascimentale” •Con i neoplatonici la concezione della natura muta radicalmente. Nella processione delle ipostasi che dall’Uno, attraverso l’Intelletto e l’Anima, digrada verso la materia, intesa quale mero non essere, la natura rappresenta l’Anima nella sua forma inferiore perché rivolta verso il non essere stesso: «la natura — dice Plotino — è Anima fuori di sé». La concezione neo-platonica della natura, filtrata attraverso il tardo stoicismo, influenzò per secoli il pensiero cristiano a causa della comune svalutazione della realtà sensibile e materiale rispetto a Dio. •Tutto il pensiero cristiano, dalla patristica alla scolastica, manifesta peraltro la preoccupazione di distinguere il creatore dal creato (la natura non emana dall’Uno, ma è creata da un Dio a essa trascendente), donde la distinzione scolastica tra natura naturata e natura naturans, di origine averroista, dove è il secondo termine a godere di maggiore considerazione da parte del pensiero. Con la riscoperta di Aristotele nel sec. xiii, tuttavia, anche la natura naturata diviene oggetto di particolare attenzione. La natura di un ente, dice Tommaso ripetendo Aristotele, è causa finale del suo movimento, ma è stato Dio che ha riposto tale movimento nelle cose, donde la divina dignità del creato e, in esso, dell’uomo, che, nonostante il peccato originale, conserva la sua peculiare somiglianza con Dio. •A questa conciliazione di aristotelismo e cristianesimo si oppone la filosofia della natura del Rinascimento (Telesio, Campanella, Bruno), la quale, con la ripresa di motivi stoici, manifesta una ispirazione panteistico-vitalistica e ilozoistica (cfr. ilozoismo) richiamantesi al platonismo e ai presocratici. Bruno concepisce pertanto la natura naturans, e quindi Dio stesso, come «mens insita omnibus» che, come lo pnéuma stoico, infonde vita all’universo infinito. Di qui anche l’animismo e la magia che sono tanta parte del naturalismo rinascimentale Magia ed Ermetismo, l’interpretazione di F.A. Yates A partire dalle fonti di tutto il modo antico (egizio, mesopotamico, persiano, ebraico e, infine, cristiano) prende forma nell’antichità una magia in lingua greca, il cui più alto comandamento consiste nel riconoscimento della correlazione tra l’alto e il basso – come esempio più significativo citeremo qui Apollonio di Tiana. Chi sia in grado di comprendere i processi che hanno luogo nel cosmo – questa l’idea di base – sarà anche in grado di influenzarli. Da questo punto di vista diviene chiaro – anche secondo le odierne concezioni – perché la magia venisse considerata una scienza in senso proprio. Come ogni altro ramo della scienza, anche la magia penetrò nella cultura araba come parte della filosofia, trovando in quell’ambito nuovi sviluppi. È poi dalla letteratura araba che nel Medioevo l’occidente latino venne a conoscenza della magia degli antichi: vennero tradotti scritti magici come il Picatrix (il fine dei saggi) e se ne scrissero altri a partire da essi, diffusi sotto i nomi di Raziel, Adamo, Salomone o Ermete. Se davvero tutto il mondo (come sostenuto da Ermete nell’Asclepius) è popolato di angeli e demoni, si può ricorrere alla magia senza alcuna remora, poiché la magia altro non è che l’arte di soggiogare gli spiriti ottenendone conoscenza, salute e potere. La demonizzazione dei maghi e la loro persecuzione da parte della Chiesa, ottenne quasi ovunque il risultato di scuotere alle fondamenta questa scomoda antagonista della religione. Solo il Rinascimento con il suo entusiasmo per l’ermetismo e il platonismo riportò la magia dagli oscuri meandri in cui era relegata alla luce del giorno. Sul terreno attorno a Marsilio Ficino sorgono i presupposti di ciò che per secoli si sarebbe inteso con il termine di magia. Di fronte ad un insegnamento che si allontanava così radicalmente dai presupposti delle dottrine aristoteliche come la magia ermetica non potevano mancare i conflitti con la Chiesa. È così che qualche mago finisce per pagare la sua sete di conoscenza con il carcere e con la vita – come Giordano Bruno. A livello popolare, "ermetico" è sinonimo di "oscuro, chiuso, incomprensibile, enigmatico", nonostante il sotteso rimando a Hermes, il dio greco dell'interpretazione, dell'ermeneutica appunto. A livello più colto "ermetismo" è la corrente poetica sbocciata negli anni Trenta a Firenze, che annoverò tra i suoi cultori figure come Ungaretti, Quasimodo, Gatto, etc. In realtà l'ermetismo in senso storico-filologico risale a un orizzonte ben più remoto e sorprendente: per dirla con qualche semplificazione, fu un'affascinante e complessa operazione di ermeneutica. I grandi miti teogonici e cosmologici dell'antico Egitto faraonico furono "ellenizzati" e ricollocati in un nuovo linguaggio e in nuove coordinate storico-culturali. Così, il dio egizio Thoth, il rivelatore per eccellenza della sapienza divina, si trasformò nell'Ermete (Hermes) "tre volte grandissimo" (Trismegisto) e i suoi oracoli subirono riletture e ricreazioni sempre più complesse ed esoteriche. Ma all'avventura ermeneutica del trapasso Egitto-Grecia si aggiunse un altro anello, quello cristiano e latino: la rivelazione pagana si rivestiva di un nuovo manto e diventava un'anticipazione profetica della Rivelazione per eccellenza e della sua inconcussa verità. l'ermetismo Ermete il filosofo approda in Europa in abiti arabi e autore di opere astrologiche, alchemiche e magiche. In latino sopravvive, quasi per miracolo, solo l’Asclepius, che tra il XII e il XV secolo esercita però ancora un forte influsso sulla filosofia e sulla mistica. La filosofia ermetica prorompe però in occidente, non ultimo, grazie alla caduta di Costantinopoli. Bessarione fa portare in occidente gli scritti che costituiscono l’eredità collettiva della cultura greca – tra questi anche gli scritti ermetici. Due codici, contenenti il Corpus Hermeticum, intraprendono il loro viaggio alla volta di Firenze. Uno di essi è destinato a Bessarione, dell’altro entra in possesso Cosimo de’ Medici, che lo affida a Ficino perché lo traduca. Da quel momento in poi le edizioni si susseguono una dopo l’altra, e a Venezia in particolare. L’effetto onda causato dal diffondersi degli scritti ermetici nella cultura occidentale, assume le dimensioni di un fenomeno che possiamo dire epocale. L’Europa, l’occidente cristiano, si trova improvvisamente a confrontarsi con una seconda rivelazione divina, antica quanto la Bibbia e più chiara ancora della Bibbia. Per alcuni questa seconda rivelazione costituisce una conferma delle verità scritturali. Per menti più acute, il Corpus Hermeticum costituisce invece un fertile terreno per speculazioni filosofiche e teologiche di più ampio respiro, non sempre conciliabili con la tradizione cristiana. Un esempio classico è proprio quello di Giordano Bruno, che definì ‘religione’ la magia divina degli egizi:’la buona religione andata in declino quando il cristianesimo la distrusse, la mise al bando con le sue leggi, e la rimpiazzò con il culto delle cose morte, con assurdi riti, con una condotta poco morale e con una guerra senza fine.’ Durante il suo soggiorno parigino prima e londinese poi, Bruno ha insegnato dunque la filosofia di Ermete Trismegisto, la prisca sophia di cui egli intende essere il reastauratore, alla cui luce ha letto anche il copernicanesimo e da cui ha tratti tutte le implicazioni sul piano etico e religioso. La prisca sophia "La visione che viene elaborata dal Nolano è una nuova interpretazione ermetica della divinità dell'universo, una gnosi sviluppata. Il copernicanesimo annuncia il risorgere vittorioso dell'antica verace filosofia dopo il lungo periodo in cui era rimasta sepolta nelle tenebre. (..) La verità bruniana non è né quelle cattolica ortodossa né quella protestante ortodossa: è la verità egiziana, quella magica. (..)Bruno ha compiuto l'ascensione gnostica, ha vissuto l 'esperienza ermetica ed è pertanto divenuto un essere divino imbevuto delle Potestà [cioè dei poteri magici]". L'universo "viene trasformato da Bruno in una gnosi ermetica profondamente allargata, in una nuova rivelazione di Dio come mago che infonde una magica animazione nei mondi innumerevoli, in una visione, infine, per ricevere la quale, l'uomo mago, miraculum megnum, deve dilatarsi a proporzioni infinite per poterla riflettere in sè". La figura di Bruno risulta centrale in un' altra opera della Yates dedicata a "L'arte della memoria" (trad. it., Torino 1972), argomento apparentemente marginale ma che invece costituisce il crocevia di numerosi fili tematici che ancora una volta fanno capo alla cultura ermetica con tutti i suoi risvolti cosmologici, magici e gnoseologici (e non si dimentichi che Bruno aveva insegnato mnemotecnica a Parigi e che per l'apprendimento di quest'arte il Mocenigo l'aveva chiamato a Venezia). >>> Qual è, allora, l'operazione che Bruno ha cercato di compiere? «è molto semplice — precisa la Yates —. egli riconduce la magia rinascimentale alle sue fonti pagane, abbandonando i deboli tentativi di Ficino di elaborare una magia innocua dissimulandone la fonte principale, l'Asclepius [in cui si insegnava a costruire idoli e amuleti, e che Agostino aveva condannato], violentemente schernendo gli ermetici religiosi [che, come abbiamo detto, in età rinascimentale erano numerosi] che hanno creduto di fondare un ermetismo cristiano facendo a meno dell'Asclepius, e proclamandosi un Egiziano convinto, che [...] deplora la distruzione, operata dai cristiani, del culto degli Dei naturali della Grecia e della religione attraverso cui gli Egiziani avevano raggiunto le idee divine, il sole intelligibile, l'Uno del neoplatonismo.» Ecco come Bruno cita nello Spaccio il lamento dell'Asclepio con la sua profezia finale, e quali accenti commossi gli infonde: Non sai, o Asclepio, come l'Egitto sia la imagine del cielo [...], la nostra terra è tempio del mondo. Ma, oimé, tempo verrà che apparirà l'Egitto in vano essere stato religioso cultore della divinitade [...]. 0 Egitto, Egitto, delle religioni tue solamente rimarranno le favole [...]. Le tenebre si preponeranno alla luce, la morte sarà giudicata più utile che la vita, nessuno alzerà gli occhi al cielo, il religioso sarà stimato insano, l'empio sarà giudicato prudente, il furioso forte, il pessimo buono. E credetemi che ancora sarà definita pena capitale a colui che s'applicarà alla religion della mente; perché si trovaranno nove giustizie, nuove leggi, nulla si trovarà di santo, nulla di relligioso: non si udirà cosa degna di cielo o di celesti. Soli angeli perniciosi rimarranno, li quali meschiati con gli uomini forzaranno gli miseri all'audacia di ogni male, come fusse giustizia; donando materia a guerre, rapine, frodi e tutte altre cose contrarie alla anima e giustizia naturale: e questa sarà la vecchiaia ed il disordine e la irreligione del mondo. Ma non dubitare, Asclepio, perché, dopo che saranno accadute queste cose, allora il signore e padre Dio, governator del mondo, romnipotente provveditore [...] senza dubbio donarà fine a cotal macchia, richiamando il mondo all'antico volto. La filosofia di Bruno, scrive la Yates, «è fondamentalmente ermetica [...], egli era un mago ermetico del tipo più radicale, con una sorta di missione magico - religiosa». L'egizianismo di Bruno è una religione, la «buona religione» distrutta dal Cristianesimo, cui bisogna tornare: la missione del “profeta” Bruno… «Così, tutto il tentativo ficiniano di costruire una theologia platonica cristiana, con i suoi prisci theologi e magi e con il suo platonismo cristiano, furtivamente permeato di alcuni elementi magici, era meno che niente agli occhi di Giordano Bruno, il quale, accettando in pieno e spregiudicatamente la religione magica egiziana dell'Asclepius (e trascurando i presunti preannunci del Cristianesimo contenuti nel Corpus Hermeticum), considerò la religione magica egiziana come un'esperienza teurgica ed estatica genuinamente neoplatonica, come un'ascesa verso l'Uno. E tale essa era di fatto, poiché l'egizianismo ermetico non era altro che l'egizianismo interpretato da neoplatonici della tarda antichità. Tuttavia, non si risolve il problema dell'interpretazione di Bruno, riducendolo a un pedissequo continuatore di questo tipo di neoplatonismo e considerandolo un semplice seguace di un culto misteriosofico egiziano, perché egli era stato certamente influenzato dal grande apparato messo in moto da Ficino e da Pico, con tutta la sua forza psicologica, le sue associazioni cabalistiche e cristiane, il suo sincretismo di diverse posizioni filosofiche e religiose, antiche o medievali, e con la sua magia. Occorre inoltre rammentare — e questo, secondo me, è uno degli aspetti più significativi di Giordano Bruno — che egli venne alla ribalta verso la fine del XVI secolo, di quel secolo che vide terribili manifestazioni di intolleranza religiosa, e nel quale si cercò nell'ermetismo religioso un rifugio di tolleranza, una via che portasse all'unione delle varie sette in lotta fra loro. Abbiamo visto che c'erano diverse varietà di ermetismo cristiano, cattolico e protestante, e che la maggior parte di esse rifuggiva dalla magia. A questo punto sopraggiunge Giordano Bruno, il quale prende incondizionatamente come base l'ermetismo magico egiziano, predica una specie di controriforma egiziana, profetizza un ritorno alla tradizione egiziana grazie al quale le difficoltà religiose si comporranno in una soluzione nuova; propugna, infine, anche una riforma morale, accentuando l'importanza di buone opere sociali, di un'etica rispondente a criteri di utilità sociale». F.A.Yates È dunque chiaro che Bruno non poteva andare d'accordo né coi cattolici né coi protestanti (al limite non può dirsi neppure cristiano, perché finì col mettere in dubbio la divinità di Cristo e i dogmi fondamentali del Cristianesimo) e che gli appoggi che cercò, ora da una parte ora dall'altra, erano appoggi tattici per realizzare la propria riforma. E appunto per questo provocò in tutti gli ambienti in cui insegnò violente reazioni. Se ai giorni nostri si è imposta, fino a diventare una moda, la visione ermetica di Frances A. Yates, le ultime interpretazioni tendono a riscoprire la dinamicità eccezionale e la pluridimensionalità dell'esperienza filosofica, politica, religiosa e linguistica di Bruno. Nelle prossime fasi del nostro corso ci soffermeremo sulla reazione alle tesi della Yates (H. Gatti) e sul conseguente tentativo di ancorare più saldamente la filosofia bruniana ad una visione della scienza capace di travalicare anche i confini tra meccanica classica e meccanica quantistica (G.Conforto). Concludiamo occupandoci, con la sezione video, del rifiuto dell’interpretazione di Bruno come martire del libero pensiero moderno (tesi che abbiamo proposto legando i temi del Risorgimento alla Renovatio Mundi di Bruno) e approfondendo la questione Magia >>> La Magia come conoscenza “verso il concetto di Scienza” A partire dalle fonti di tutto il modo antico (egizio, mesopotamico, persiano, ebraico e, infine, cristiano) prende forma nell’antichità una magia in lingua greca, il cui più alto comandamento consiste nel riconoscimento della correlazione tra l’alto e il basso – come esempio più significativo citeremo qui Apollonio di Tiana. Chi sia in grado di comprendere i processi che hanno luogo nel cosmo – questa l’idea di base – sarà anche in grado di influenzarli. Da questo punto di vista diviene chiaro – anche secondo le odierne concezioni – perché la magia venisse considerata una scienza in senso proprio. Come ogni altro ramo della scienza, anche la magia penetrò nella cultura araba come parte della filosofia, trovando in quell’ambito nuovi sviluppi. È poi dalla letteratura araba che nel Medioevo l’occidente latino venne a conoscenza della magia degli antichi: vennero tradotti scritti magici come il Picatrix (il fine dei saggi) e se ne scrissero altri a partire da essi, diffusi sotto i nomi di Raziel, Adamo, Salomone o Ermete. Se davvero tutto il mondo (come sostenuto da Ermete nell’Asclepius) è popolato di angeli e demoni, si può ricorrere alla magia senza alcuna remora, poiché la magia altro non è che l’arte di soggiogare gli spiriti ottenendone conoscenza, salute e potere. La demonizzazione dei maghi e la loro persecuzione da parte della Chiesa, ottenne quasi ovunque il risultato di scuotere alle fondamenta questa scomoda antagonista della religione. Solo il Rinascimento con il suo entusiasmo per l’ermetismo e il platonismo riportò la magia dagli oscuri meandri in cui era relegata alla luce del giorno. Sul terreno attorno a Marsilio Ficino sorgono i presupposti di ciò che per secoli si sarebbe inteso con il termine di magia. Di fronte ad un insegnamento che si allontanava così radicalmente dai presupposti delle dottrine aristoteliche come la magia ermetica non potevano mancare i conflitti con la Chiesa. È così che qualche mago finisce per pagare la sua sete di conoscenza con il carcere e con la vita – come Giordano Bruno. fine