e non c`è molto spa-zio per la speranza. Diventa

CENNI DI STORIA DEL TEATRO
A cura di Giuseppe Riccardo Festa
5. il XX secolo dopo Pirandello
Abbiamo accennato, durante il nostro precedente incontro,
al terremoto che, sul piano culturale, sconvolse il mondo tra
la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.
Chi arriva “dopo” fatica a rendersi conto della differenza tra
il “dopo” e il “prima” di certi eventi: il mondo, per lui, è già
così, quando lui arriva.
Ma chi vive a cavallo di questi “prima” e questi “dopo”
subisce a volte dei veri e propri traumi.
Va da sé che l’intera storia dell’umanità è fatta di “prima” e
di “dopo”: “prima” e “dopo” il fuoco, la ruota, la vela, la
lavorazione dei metalli, eccetera.
Solo che in passato le fasi intermedie fra i prima e i dopo
erano lunghissime, e abituarcisi era più facile.
Ma l’accelerazione ha cominciato ad essere via via sempre
più rapida, da Keplero in poi, con le grandi scoperte scientifiche, l’evoluzione della tecnologia e il mutamento dei costumi, politici e sociali: fino ad arrivare ad oggi, un tempo
in cui non siamo neanche più capaci di stupirci perché i
cambiamenti sono talmente ravvicinati da far parte del
nostro quotidiano.
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Non era così negli anni in cui l’accelerazione, nel susseguirsi delle novità, ha cominciato ad essere tale da spiazzare, come dicevamo, coloro che queste novità le vedevano
verificarsi, e non erano abituati, come noi, ai cambiamenti
rapidi e a chi questi cambiamenti li provocava.
Sto parlando di Sigmund Freud, che distrugge l’idea dell’esistenza di una individualità ben definita in ogni essere
umano; di Albert Einstein, che elabora una visione dell’universo – l’infinitamente grande - destinata a stravolgere i
concetti di tempo, di spazio e di moto con la sua famosa
Teoria della Relatività; e di altri studiosi, come Max Planck
e Werner Heisenberg, che inseguendo la materia nell’infinitamente piccolo, con la teoria dei quanti sconvolgono l’idea
stessa di materia, portando la fisica a stretto contatto col
misticismo.
Negli stessi anni l’Europa era scossa da inquietudini sociali
e politiche che avrebbero portato alla dissoluzione degli imperi centrali, alla nascita degli stati nazionali, alle due guerre mondiali, alla guerra civile spagnola, al fascismo, al nazismo, all’Olocausto.
Sul piano culturale, tutto questo provoca il puro e semplice
crollo di tutte le certezze.
Fino, pressappoco, alla fine dell’Ottocento, tutto era – o almeno sembrava – ordinato, facilmente classificabile, collocabile in rassicuranti caselle: le classi sociali, le gerarchie
politiche ed economiche, i valori culturali. Ma il disagio si
faceva sempre più evidente e pressante; se da un lato i popoli rivendicavano il diritto all’autodeterminazione, con i
moti indipendentisti italiani, ungheresi, iugoslavi, greci e le
periodiche rivoluzioni di piazza di Parigi, dall’altro gli intellettuali avvertivano lo sfaldarsi del sistema di valori tradizionali, al quale niente di nuovo sembrava capace di so2
stituirsi: è in questo clima che alla fine fioriscono, in letteratura, i Franz Kafka, i James Joyce, i Robert Musil, gli
Italo Svevo; e nelle altre arti movimenti come l’Espressionismo, che si ribella alle certezze borghesi, il Futurismo,
con l’esaltazione necrofila della macchina; il dadaismo, col
rifiuto dell’idea stessa di estetica; il surrealismo, che dal
dadaismo discende, e che nel 1924 il poeta André Breton, il
suo profeta, definì come automatismo psichico puro,
attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole
o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del
pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi
controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni
preoccupazione estetica e morale.
Ancora, in campo musicale, i primi decenni del ‘900 vedono nascere, con Alban Berg e Arnold Schoenberg, la dodecafonia, che rimuove ogni idea di melodia dalle composizioni; e mille altre schegge nelle quali si frammenta il
modo stesso di concepire il mondo, l’uomo e l’arte: fra
questi movimenti, già ne abbiamo parlato, non va dimenticato quello del Simbolismo francese, o Decadentismo, ultima propaggine del Romanticismo, che manifesta una sensazione diffusa, inquietante e del tutto giustificata di imminenza della fine del mondo, o almeno del mondo come
era stato visto fino a quel momento.
C’è un altro aspetto, di questa accelerazione, che dobbiamo
tenere in considerazione: a lungo, le novità in campo scientifico erano rimaste patrimonio di una cerchia ristretta di
addetti ai lavori; la loro influenza sulla vita quotidiana delle
popolazioni ed anche in campo artistico, se c’era stata, era
stata diluita nel tempo: così era stato per le scoperte astro3
nomiche di Copernico e Galileo, o altre, in biologia, come
la scoperta dei microrganismi e delle cellule.
Ma già altre novità, come la teoria dell’Evoluzione di Darwin, avevano avuto un impatto più diretto, pur se comunque
non proprio immediato: così era stato, ad esempio, per il secondo principio della termodinamica, enunciato da Clausius
nel 1864.
Quanto più si diffondeva l’alfabetizzazione, però, tanto più
immediato, a tutti i livelli, diventava l’effetto delle novità.
Così, il progressivo sfaldarsi delle certezze antropocentriche, che per millenni avevano rassicurato e consolato l’umanità, diventa una vera e propria valanga mano a mano
che il XX secolo si dipana, col progresso sempre più
vertiginoso delle conoscenze scientifiche e la sua lunga scia
di guerre, rivoluzioni, massacri e malesseri.
E il Teatro? Il Teatro non poteva non risentire di tutto questo; anzi, essendo come le altre arti specchio della società,
di questi malesseri, disagi e incertezze si è immediatamente
fatto interprete.
Anche il Teatro, come il resto della società, reagisce in modo differenziato al terremoto che scuote il mondo delle conoscenze e delle relazioni umane a partire dalla fine dell’Ottocento.
Il viaggio nel Novecento teatrale è ricco di contraddizioni:
alcuni autori, pur risentendo anch’essi delle novità sconvolgenti che si susseguono, restano tuttavia legati alla tradizione, se non sul piano sostanziale, almeno su quello formale:
è il caso di Luigi Pirandello, ad esempio, degli autori
teatrali americani e del grande Eduardo.
Altri autori, in modo netto e reciso, affermano invece a tutti
i livelli, in modo esplicito e spesso provocatorio, la propria
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weltanschauung, la propria visione del mondo, intervennedo sul modo stesso di concepire la rappresentazione teatrale
e sul significato che essa deve avere.
Così come accade con le altre arti, anche in Teatro,
attraverso questi autori, l’idea di gradevolezza diventa
estranea all’idea di creazione. Il colore di fondo di quegli
anni è molto cupo. Se muoiono le illusioni, è difficile
continuare a descrivere un mondo che di quelle illusioni
defunte si nutriva.
Si descrive invece il mondo con tutte le sue feroci contraddizioni, le sue miserie e le ingiustizie; e non c’è molto spazio per la speranza. Diventa inevitabile, con l’accento polemico, anche la forte connotazione politica del messaggio
lanciato dagli autori.
È questo il caso di Bertolt Brecht, contemporaneo di D’Annunzio e di Pirandello, già diversissimi l’uno dall’altro, ma
comunque legati ad una visione del teatro ancora vincolata
alla tradizione.
Brecht nasce ad Augusta nel 1898, da una famiglia della
piccola borghesia. Già nel 1916, in piena Prima Guerra
mondiale, rischia l’espulsione dal liceo per aver così commentato il famoso verso oraziano dulce et decorum est pro
patria mori:
«Il detto che dolce e onorevole è morire per la patria può
essere considerato solo come propaganda con determinati
fini [...] solo degli stupidi possono essere così vanitosi da
desiderare la morte, tanto più che pronunciano simili affermazioni quando si ritengono ancora ben lontani dall'ultima
ora. Ma quando la comare morte si avvicina, ecco che se la
squagliano con lo scudo in spalla, come fece nella battaglia
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di Filippi l'inventore di questa massima, il grasso giullare
dell'imperatore».
Con l’avvento del nazismo Brecht fuggì qua e là per l’Europa, poi anche negli Stati Uniti, da dove dovette pure
fuggire, accusato di attività antiamericane durante la caccia
alle streghe del maccartismo. Si rifugiò in Svizzera e poi a
Berlino Est, dove pure fin per mettersi in contrasto con le
autorità comu-niste, vedendosi anche rifiutare la messa in
scena di alcune opere. Morì d’infarto, appena cinquantottenne, il 14 agosto 1956.
Tutta la vita e l’opera di Brecht, nel bene e nel male, sono
segnate dall’impegno politico. Fra i suoi testi teatrali è impossibile non citare L’Opera da tre soldi, musicata da Kurt
Weil, ispirata alla più antica “Opera del Mendicante”, di
John Gay, ambientata in una cinica e spietata Londra, nella
quale è in scena il mondo dei gangster e dei derelitti.
L’intenzione era di proporre qualcosa di provocatorio, che
scandalizzasse il pubblico borghese con l’ambientazione, i
personaggi e il linguaggio utilizzato. Brecht ambiva ad avere come pubblico il proletariato, cioè gli operai dell'industria. Non a caso, il titolo altro non è, provocatoriamente,
che il prezzo del biglietto d'entrata.
Invece gli operai disertarono le rappresentazioni, mentre il
pubblico borghese ne decretò il successo, con sommo disappunto dell'autore, che ritenne fallito il suo progetto, tanto
da non realizzare piùopere con questo preciso intento.
Altre importantissime opere teatrali di Brecht sono:
Madre Coraggio e i suoi figli (sottotitolo: Cronaca della
guerra dei Trent'anni), scritto fra il 1938 ed il 1939. Il
dramma, ambientato nel ‘600, racconta le disavventure di
una vivandiera che, al seguito degli eserciti, cerca di guada6
gnare qualcosa dalla guerra, ma otterrà solo la perdita dei
tre figli.
Scritto proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale, il
testo è una denuncia di tutte le guerre e degli orrori che esse
provocano.
Vita di Galileo, di cui egli stesso annotò nei suoi versuche:
«Il pezzo teatrale “Vita di Galileo” venne scritto in esilio in
Danimarca nel 1938/39. I giornali avevano riportato la
notizia della scissione dell'atomo di uranio da parte del
fisico Otto Hahn e dei suoi collaboratori».
Ci sono dubbi circa l’effettiva coincidenza fra la notizia
scientifica e la genesi del testo, che, pare, sarebbe stato concepito in realtà assai prima. Ma è un fatto che comunque
era ormai ineludibile l’influenza dell’evoluzione scientifica
sul mondo dell’arte.
Della Vita di Galileo esistono diverse versioni, di cui quella
danese è ritenuta la più importante. Brecht non considerava
mai definitive le versioni delle sue opere che via via andava
elaborando, sotto la spinta delle esigenze teatrali ma anche
della propria evoluzione e maturazione.
La commedia narra la vita del grande scienziato pisano,
dall’invenzione del cannocchiale alla scoperta dei satelliti
di Giove, fino al processo istituito dal Sant’Uffizio, al suo
atto di abiura e agli ultimi anni della vecchiaia. Sicuramente
dissonante da quella tramandataci dagli storici, qui la figura
di Galileo Galilei assume caratteri più umani: Brecht ne
mette in evidenza paure, timori e incertezze, e delinea un
uomo logorato dal dissidio interiore fra desiderio di combatterlo e voglia cedere al potere. Al di là delle vicende
personali, il dramma di Brecht focalizza la sua attenzione
sul rapporto tra la ricerca scientifica e il potere e, più in
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generale, sul sempre più lacerante rapporto fra cultura e
potere.
Un’altra caratteristica del teatro del ‘900 è, insieme alla
motivazione ideologica che muove alcuni dei suoi autori
più importanti, la forte carica di significati intellettuali di
cui volutamente questi autori infarciscono i testi. Non si
scrive tanto per il pubblico quanto per dare forma ad un’ideologia, esprimendo magari concetti che per il pubblico
sono difficili da capire, quando non inconcepibili e astrusi.
Un esempio particolarmente rilevante di questa tendenza lo
troviamo in Jean-Paul Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 - 15
aprile 1980), filosofo, scrittore e critico, padre della filosofia esistenzialista.
Nel 1964 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura,
che però rifiutò: Non voglio essere letto perché Nobel ma
solo se il mio lavoro lo merita. E poi, chi è quel tribunale
per giudicare la mia opera".
Oltre che dalla sua visione esistenzialista, illustrata nel libro
“L’essere e il nulla” e nel romanzo “La Noia”, Sartre è fortemente motivato dall’azione politica, anche nel suo caso di
matrice comunista.
Secondo Sartre l'uomo è l'essere che progetta di essere Dio
ma ovviamente non può realizzare il suo progetto.
Il mondo è «assurdo», senza ragione, è «di troppo». Esiste
semplicemente, senza «fondamento». Le cose e gli Uomini
esistono di fatto, e non di diritto.
L'Uomo è definito dalla coscienza (il per sé che si oppone
all'in sé): ogni coscienza è coscienza di qualcosa; l'uomo è
dunque fondamentalmente aperto sul mondo, incompleto,
girato verso, esistente (proiettato fuori di sé): c'è in lui un
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niente, un foro nell'essere, suscettibile di ricevere gli oggetti del mondo.
L'Uomo è assolutamente libero, non è nient'altro che ciò
che fa della sua vita, è un progetto: condannato ad essere
libero : anche non impegnarsi è una forma d'impegno,
poiché se ne è responsabili.
Nella filosofia di Sartre Dio non esiste (e in ogni caso, se
esistesse ciò non cambierebbe nulla), per cui l'uomo è unica
fonte di valore e di moralità; è condannato ad inventare la
propria morale.
Sartre, inoltre, rifiuta il concetto freudiano d'inconscio, che
sostituisce con la nozione di malafede: afferma, rivelandosi
in questo un post-romantico, che l'inconscio non saprebbe
diminuire l'assoluta libertà dell'Uomo.
Scoprì la scrittura drammaturgica in piena occupazione
nazista. Inseparabile ai suoi occhi dal resto della storia e
dell'azione collettiva, il Teatro finì col completarne ed ampliarne la celebrità, che si estese ben oltre i confini della
Francia. Sotto l'occupazione aveva scritto e fatto recitare Le
mosche (1943) e Porte chiuse (1944). Nel 1946 pubblicò La
puttana rispettosa e Morti senza sepoltura; nel 1948 Le mani sporche. La sua concezione del teatro lo indusse a rifiutare sia il teatro psicologico e realistico, fondato su personaggi e caratteri, che il teatro d'intrattenimento.
Il suo è un teatro che discute le grandi questioni contemporanee attraverso personaggi presi in situazioni limite, violente, la cui sfida è sempre la libertà, la responsabilità, il
senso dell’esistenza, estremi predicati spesso in contraddizione con l'azione.
Oreste, protagonista de le Mosche, si definisce con l'omicidio che compie: un omicidio giusto perché reagisce all'abuso del potere ed alla tirannia. I tre personaggi di Porte
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chiuse (riuniti in un salone per l'eternità poiché sono già
morti) sono condannati per sempre a giudicarsi e ad essere
giudicati, essendo ciascuno prigioniero della coscienza degli altri, da cui la famosa formula: «L'inferno sono gli altri». (L'enfer, c'est les autres).
Le mani sporche pone la questione della logica rivoluzionaria (che può condurre ad uccidere) e della coscienza che
le si oppone. Il diavolo ed il buon dio (1951) rinvia a una
contrapposizione netta tra Satana e Dio, mentre l'eroe cerca
il senso della sua esistenza attraverso l'azione, e in I sequestrati di Altona (1959) un ufficiale nazista è trascinato davanti ad un tribunale immaginario. Opere come queste testimoniano l’importanza della politica nel teatro di Sartre:
come in Grecia, la scena è un’agora dove un popolo sfinito
ma esigente vede esposti i problemi principali della città. A
parte il contenuto politico, l’interesse di Sartre per il teatro
è testimoniato anche da altre pièces, come Kean, adattamento da Dumas, del 1953; Nekrasov, satira dell’ambiente
giornalistico, del 1955 o anche il rifacimento de Le troiane,
da Euripide, del 1965.
Ma l’evoluzione culturale e scientifica influisce in modo
ancora più dirompente sul teatro, soprattutto il teatro
europeo. Con effetti particolarmente significativi su due
autori: Samuel Beckett e Eugene Ionesco, i padri del Teatro
dell’assurdo.
Samuel Barclay Beckett (Dublino, 13 aprile 1906 - Parigi,
22 dicembre 1989) fu Premio Nobel per la letteratura nel
1969 e autore di numerose opere teatrali, le più famose delle quali Aspettando Godot e Finale di partita. Accostarsi alla sua produzione significa attraversare le macerie del ven10
tesimo secolo con l'unica scialuppa di salvataggio rimasta,
l'ironia.
La sua famiglia era di estrazione borghese e di religione
protestante, ma lui non fu mai credente. Presso il Trinity
College di Dublino si laureò in francese ed italiano.
Trasferitosi poi a a Parigi, fu nominato lettore d'inglese a
l'École Normale Supérieure; frequentò gli ambienti
surrealisti ed entrò strettamente in contatto con James
Joyce.
Il successo arrivò nel 1952, quando appunto finì di scrivere
Aspettando Godot (scritta prima in francese e poi tradotta in
inglese) che fu rappresentata per la prima volta il 5 gennaio
1953 a Parigi, al Théâtre de Babylone. Entrò così in quel
gruppo di autori, che includeva già il franco-rumeno Eugène Ionesco ed il franco-armeno Arthur Adamov, che scrivevano brani appartenenti al teatro dell'assurdo.
Quando nel 1969 gli fu assegnato il Premio Nobel per la
letteratura, non si presentò per ritirarlo.
Se la fama di Beckett si deve ad Aspettando Godot, è la sua
opera narrativa, soprattutto la trilogia di romanzi scritti tra
il 1951 e il 1953 Molloy, Malone muore e L'Innominabile, a
rappresentare uno dei vertici della letteratura della seconda
metà del XX secolo.
La filosofia di fondo, in tutta l’opera di Beckett, è sempre la
stessa: lo stravolgimento della stessa idea di “raccontare”,
già avviato da Joyce.
La narrazione, da sempre, si basa su una situazione che parte da uno stato di equilibrio incerto; per un qualche motivo
questo equilibrio viene a mancare, e si creano le premesse
per lo sviluppo della storia, che si conclude con un nuovo,
più sicuro e definito equilibrio: dalla fiaba alla tragedia di
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Sofocle, dalla commedia di Aristofane al romanzo, sempre
la struttura di fondo di ogni evento narrativo, almeno fino a
Beckett e Jonesco, ha seguito questo percorso.
A questa struttura di base si aggiunge l’essenzialità: un
buon romanzo, una buona commedia o una buona tragedia
non contiene elementi estranei allo sviluppo della vicenda.
Tutto questo, con Beckett e Ionesco, smette di esistere.
Condizionata dagli sviluppi della scienza e dalle nefandezze
della storia, l’opera di Beckett descrive una radicale impotenza a trarre un qualsiasi senso compiuto dalla realtà. Per
Beckett le parole sono obbligate al paradosso di voler
comunicare che non c'è niente da comunicare. Nei suoi
romanzi raccontare, narrare, è possibile solo attraverso una
serie di finzioni, che i protagonisti (sempre più tesi alla
disgregazione della propria identità personale), si raccontano e raccontano al lettore, nello sforzo disperato e vano di
dare consistenza a se stessi e al mondo.
Così, anche i protagonisti di Aspettando Godot sono sulla
scena in un perpetuo far nulla, aspettando qualcuno che non
verrà mai; ancora più statica, priva di vicenda e addirittura
di una ben definita collocazione, è la storia di Finale di
Partita (partita a scacchi, non di calcio: Beckett amava
molto il gioco degli scacchi).
Grande amico di Beckett, che ne ha condizionato la produzione, ed esponente a sua volta del Teatro dell’assurdo è
Harold Pinter, nato a Londra il 10 ottobre 1930. È drammaturgo, regista e attore teatrale, premio Nobel per la letteratura nel 2005. Ha scritto per teatro, radio, televisione e
cinema. I suoi primi lavori sono considerati fra i capolavori,
appunto, del teatro dell'assurdo.
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La sua prima commedia, The Room, fu rappresentata per la
prima volta dagli studenti dell'università di Bristol nel 1957.
The Birthday Party (1958) fu inizialmente un fiasco, ma il
successo del suo lavoro successivo, The Caretaker (1960),
la riportò in auge e al successo. Queste commedie ed altri
dei suoi primi lavori, come The Homecoming (1964), sono
a volte etichettate come commedia della minaccia. Di solito
cominciano con una situazione apparentemente innocente
che diventa assurda e minacciosa in quanto gli attori si
comportano in modo inspiegabile sia per il pubblico che, a
volte, per gli altri personaggi. Questo stile ha ispirato l'aggettivo Pinteresque.
Fortemente impegnato in politica, con posizioni aspramente
critiche verso le attuali amministrazioni USA e UK, soprattutto per la loro propensione alla guerra, ha ottenuto il
Nobel 2005 per la letteratura con la seguente motivazione:
"nelle sue commedie [egli] scopre il baratro che sta sotto le
chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze
chiuse dell'oppressione".
Il terzo autore non si può prescindere quando si parla di
teatro dell’assurdo è Eugène Ionesco, che nacque a Slatina,
in Romania, il 26 novembre 1909; l'anno dopo la sua famiglia si trasferì a Parigi, dove rimase durante la Prima Guerra
mondiale. Immagini confuse di questo periodo tornano
spesso nelle opere di Ionesco: «Nei miei ricordi, racconta,
le apparizioni grottesche assomigliavano ai personaggi di
Brueghel, o di Bosch: grandi nasi, corpi deformi, sorrisi
atroci, piedi biforcuti».
Nel 1925 gli Ionesco tornarono in Romania. Eugène desiderava fare l’attore, ma per accontentare il padre si iscrisse
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all'Università. Negli anni '30 scrisse e pubblicò versi e articoli di critica da cui già traspaiono quelli che poi saranno i
principi fondamentali della sua drammaturgia.
Il suo incontro con il teatro fu del tutto casuale. Così lo
racconta in Note e Contro-note:
«Comprai un manuale di conversazione dal francese
all'inglese, da principianti. Mi misi al lavoro e coscientemente copiai, per impararle a memoria, le frasi prese dal
mio manuale. Rileggendole con attenzione, imparai dunque
non l'inglese, ma delle verità sorprendenti: che ci sono sette giorni nella settimana, ad esempio, cosa che già sapevo;
oppure che il pavimento sta in basso, il soffitto in alto. [...]
Con mia enorme meraviglia, la Signora Smith riferiva al
marito che essi avevano numerosi figli, che abitavano nei
dintorni di Londra, che il loro cognome era Smith, che il
Sig. Smith era un impiegato [...]. Mi dicevo che il Sig.
Smith doveva essere un po' al corrente di tutto ciò; ma, non
si sa mai, ci sono persone così distratte...».
Ionesco fu colpito in modo tale dalla bizzarria del comportamento della signora Smith, da decidere di comunicare
ai suoi contemporanei le verità essenziali appena scoperte.
E scrisse così La cantatrice calva, un'opera teatrale che si
potrebbe definire didattica.
Queste verità essenziali diventano però folli, la parola si
disarticola e ne risulta una tragedia del linguaggio.
La cantatrice calva, definibile un’anti-pièce, fu messa in
scena per la prima volta l'11 maggio 1950 al Théâtre des
Noctambules, e fu un fiasco. Ionesco non si lasciò però
scoraggiare: ora sapeva cosa dire e il modo in cui dirlo.
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Negli anni tra il 1950 e il 1952 scrisse altre 8 pièces che
definiscono i suoi principi di drammaturgia:
 Disarticolazione del linguaggio
 Proliferazione degli oggetti
 Descrizione di un mondo inquietante e assurdo, non
difforme da quello di Samuel Beckett
 Visione onirica del reale
 Introspezione psicoanalitica molto profonda (in Vittime
del dovere proprio quando la trama sembra una parodia
dell'inchiesta poliziesca, il personaggio Choubert sposta l'attenzione sul proprio io, scavando nel profondo e
trovando immagini d'infanzia.
Il pubblico iniziò a interessarsi a lui, ma le polemiche furono feroci. Per difendere il proprio modo di fare teatro, fece
conferenze, scrisse saggi, rilasciò interviste e, nel 1955,
realizzò un impromptu, un "improvviso" (Impromptu de
l'Alma): testo nel quale entra egli stesso entra in scena, e,
attaccato da tre dottori in teatrologia, Bartolomeo I, II e III
che citano Aristotele, Sartre e Brecht, si difende e si
giustifica.
Nel 1958, con la pubblicazione di Rinoceronte, Ionesco
raggiunse il massimo successo: conferenze, colloqui, viaggi
intorno al mondo divennero quotidiani, ma anche le critiche
si inasprirono: il drammaturgo fu accusato di conformismo
e di noncuranza per l'attualità e di non essere engagé,
politicamente impegnato.
Lui rispose alle accuse col libro Note e Contro note, in cui
definì le linee guida della propria drammaturgia, i propri
problemi di scrittore, la propria esperienza in teatro.
In seguito, tentato dall'aspetto serio e tragico della vita, non
scrisse più per deridere, ma per capire la vita e la morte.
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Le opere degli anni '70 sono pervase da rassegnazione, indotta dai tragici eventi della Primavera di Praga, della guerra del Vietnam, degli attentati terroristici alle Olimpiadi di
Monaco, che indussero Ionesco a definire il mondo e la
condizione umana con un solo aggettivo: assurdi.
«La Commedia Umana, scrisse, non mi assorbe abbastanza.
Non appartengo interamente a questo mondo».
Il suo sguardo, afferma la critica, sembra in effetti leggere
al di là dell'apparenza del mondo: egli si sente estraneo alla
realtà. Vede la propria vita pervasa di solitudine e di angoscia, dall'infanzia emergono immagini grottesche, da incubo, salvo rari momenti di euforia estatica, perché il mondo è anche meraviglioso: è proprio questa contraddizione
che rende affascinante la commedia che ha come protagonista l'uomo.
È morto il 28 marzo 1994.
Attraverso il teatro, Ionesco si interroga sulla vita e sulla
morte, esplora il reale. Il teatro è discesa nell'Inferno: l'inferno del suo io, ossessionato dal doppio stato esistenziale:
evanescenza e pesantezza, luce e tenebra; l'universo drammatico di Ionesco ha come sfondo un paesaggio onirico,
espressione spettacolare dei suoi incubi, dei suoi fantasmi.
Due figure emblematiche abitano questo universo:
 la donna - madre, moglie, sorella o amante: ha una
sensualità che allo stesso tempo affascina e disgusta; il
nido che offre è una prigione della coscienza e obbliga
l'uomo alla rassegnazione, perché deve accettare tutti i
limiti e rinnegare la speranza.
 il poliziotto, emblema dell'autorità: padre, professore,
medico-psicanalista, anch'egli impone una rinuncia.
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Ma il mondo è anche stupendo: accanto alle immagini di
atrocità si fanno spazio quelle di grazia, pervase di luce e di
natura. Il protagonista oscilla tra i due mondi, non trova un
equilibrio e perciò tenta di evadere, ma inutilmente, perché
fallisce sempre: è vittima, in un teatro spietatamente realistico che è un semplice racconto della condizione e del
destino umani.
Tutto ciò implica una rivoluzione della drammaturgia tradizionale: l'azione non è più un intrigo, ma una situazione
complessa e conflittuale senza soluzione. I personaggi non
sono eroi in senso classico, ma tipi senza psicologia, che
parlano per formule convenzionali e luoghi comuni: sono
gusci vuoti.
le strutture, così anticonvenzionali, del teatro di Ionesco si
ricollegano al Dadaismo e al Surrealismo per il gusto della
provocazione beffarda e polemica. Il nonsense, però, non è
mero gioco: cela una critica ben più profonda, al conformismo e alla banalità in primo luogo.
Un tema ricorrente, che accomuna Ionesco a Beckett, Adamov o Genet è la solitudine come condizione umana. I suoi
personaggi sono soli nella folla, e ciò li rende ancora più
tragici e assurdi dei vagabondi beckettiani; sono borghesi
inariditi e allucinati dalla solitudine che non riescono a
comunicare; si illudono di esprimere il proprio dramma ma
i cliché e i luoghi comuni denunciano il loro vuoto interiore. Le loro vite sono sopraffatte dal materialismo soffocante
di una realtà che li aliena, e ogni tentativo di opposizione si
conclude con il fallimento.
Abbiamo detto, iniziando questa chiacchierata, che l’evoluzione del teatro segue sostanzialmente, nel XX secolo, due
direzioni: quella che abbiamo appena descritto, che poi por17
terà fino alle avanguardie più estreme, agli sperimentalismi
più arditi e concettosi, ed un’altra.
Ripeto che per essere più vicina al concetto tradizionale di
spettacolo, di narrazione nel senso abituale del termine (con
la situazione iniziale di equilibrio instabile, la rottura di
questo equilibrio, il dipanarsi della vicenda ed il raggiungimento di un nuovo equilibrio), questo teatro non è perciò
meno intelligente o meno profondo – o più intelligente e
più profondo - dell’altro.
Tanto per fare un esempio, la bellezza indiscutibile di un
dipinto di Caravaggio non ci induce a dire che un Renoir,
un Ricasso o un Munch sono schifezze: sono modi diversi
di esprimersi di artisti che hanno seguito percorsi diversi.
Certamente, comunque, è vero che il teatro delle avanguardie è fortemente impregnato di concettualismo, vuole essere
capito più che amato, perché si rivolge al cervello e non al
cuore degli spettatori.
L’altro teatro, quello che prosegue la tradizione più antica
senza però sdegnare di ringiovanirsi e di affrontare anche
lui le realtà contemporanee, continua invece a cercare, oltre
che le menti, anche i cuori dei suoi spettatori.
Andiamo a dare un’occhiata, intanto, negli Stati Uniti, il
Paese che, a detta di George Bernard Shaw, è passato
direttamente dalla barbarie alla Decadenza.
È una definizione sarcastica, certamente, che però sembra
trovare riscontro nell’opera dei tre massimi autori teatrali
statunitensi, tutti geniali, tutti critici verso la società e i
costumi che descrivono nelle loro opere.
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Eugene Gladstone O'Neill (16 ottobre 1888 - 27 novembre
1953) fu premio Nobel per la letteratura nel 1936, ed è una
figura fondamentale del teatro nordamericano.
Prima di lui, infatti, il teatro, forse anche per l’ostilità
tipicamente puritana che là regnava contro lo spettacolo,
negli USA praticamente non esisteva. In mancanza di una
tradizione nazionale, O'Neill attinse strumenti, tecniche,
idee da tutto il teatro europeo.
Figlio d’arte – il padre era un attore irlandese - usò e ricreò
il coro e le maschere del teatro greco, le tecniche del melodramma e, soprattutto, quelle del realismo ibseniano, che
fuse con quelle dell'espressionismo di Strindberg.
Fu il primo a guardare con occhio critico gli elementi di
corruzione, disgregazione, alienazione della civiltà americana.
Iscrittosi all'Università di Princeton, ne fu espulso dopo un
anno; da allora fu un susseguirsi di avventure e incontri con
gli uomini più diversi. Fu cercatore d'oro in Honduras,
marinaio sui mari del Sud, disoccupato sul fronte del porto
di Buenos Aires, direttore di scena nella compagnia del padre, giornalista.
Questa girandola di esperienze finì quando, malato di tubercolosi, dovette ricoverarsi in sanatorio, dove scoprì la sua
vocazione di scrittore; quando ne fu dimesso, iniziò la
produzione teatrale.
Nei Drammi marini raccontò gli uomini e gli ambienti che
aveva incontrato negli anni precedenti: marinai, prostitute,
fuorilegge, vecchi vapori, bettole.
In viaggio per Cardiff (1916) fu un successo, Oltre l'orizzonte gli fece vincere il premio Pulitzer nel 1920.
In questi e negli altri drammi più riusciti (come Imperatore
Jones del 1920) O'Neill diede sfogo alla sua forte ispira19
zione sociale e propose la sua visione della condizione
umana: l'uomo è al mondo per lottare e per essere sconfitto.
In Desiderio sotto gli olmi (1924), con sinistra ironia, fece a
pezzi la filosofia americana del successo e la sua mitica
incarnazione: il pioniere fisicamente gagliardo e moralmente sano.
Nelle opere successive, che durano a volte sei ore (Strano
interludio del 1928, Il lutto si addice ad Elettra del 1931),
subentrarono preoccupazioni metafisiche e religiose.
Ma negli ultimi anni O'Neill riprese la vena realistica, seppure in chiave di approfondimento psicologico dei personaggi: tale è Lunga giornata verso la notte, dettato nel 1940
e rappresentato postumo, imperniato su pochi personaggi
ispirati alla propria famiglia (la madre morfinomane, il
padre alcolizzato, il figlio, lui stesso, tubercolotico).
La sua fama, già rinsaldata dal premio Nobel per la letteratura nel 1936, ricevette in America, dopo la sua morte,
una consacrazione sospetta ma definitiva quando due suoi
lavori furono adattati ad operetta.
Thomas Lanier Williams (Columbus, Mississipi, 1911 –
New York, 1983) è meglio conosciuto con lo pseudonimo
di Tennessee Williams.
Negli anni '30 ebbe i primi contatti con il teatro collaborando con diversi gruppi di avanguardia e scrivendo numerosi atti unici.
Esordì con scarso successo con Battle of Angels (Battaglia
d'Angeli, 1940), poi riscritto come Orpheus Descending (La
Calata di Orfeo, 1957).
Il successo e la fama gli arrisero con The Glass Menagerie
(Zoo di vetro, 1945) e A Streetcar Named Desire (Un tram
di nome Desiderio, 1947). In questi due drammi si forma la
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definitiva struttura ricorrente nel teatro di Williams, ambientato nel sud degli Stati Uniti in un mondo immobile,
chiuso sul suo passato aristocratico oramai irrecuperabile.
I suoi lavori si basano sull'opposizione tra l'individuo e la
società, con il ricorso a personaggi quasi archetipici: l'aristocratica decaduta, la fanciulla mite e vittima del maschio
dominatore, il giovane sensibile e con aspirazioni artistiche,
l'uomo intraprendente ed aggressivo. Questo quartetto, con
le successive varianti, si inserisce in un'opposizione più generale fra gli integrati che accettano le ipocrisie del perbenismo e gli outsider, emarginati e ribelli che rifiutano il
compromesso.
Dopo i drammi che lo fecero affermare, Williams scrisse
altre opere altrettanto fortunate, che spesso furono trasferite
sullo schermo, fra le quali The Rose Tattoo (La rosa tatuata), Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta)
Suddenly Last Summer (Improvvisamente l'estate scorsa).
Williams era omosessuale. Visse a lungo con il suo segretario, la cui morte lo scosse profondamente, accentuando i
suoi problemi di droga e alcolismo e causando il progressivo inaridirsi della sua vena creativa.
Terzo fra i grandi autori teatrali statunitensi che citiamo in
questa non esaustiva rassegna, è Arthur Asher Miller (17
ottobre 1915 – 10 febbraio 2005).
È stato una figura di primo piano nella letteratura americana
e nel cinema per oltre 61 anni. Le sue opere più note sono
The Crucible, Erano tutti miei figli (che vinse nel 1947 il
Tony Award), e Morte di un commesso viaggiatore, ancora
studiato e rappresentato in tutto il mondo. È noto anche per
il suo breve matrimonio con Marilyn Monroe (1956-1961),
la quale si convertì all'ebraismo per lui.
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Miller era nato in una famiglia ebrea benestante a New
York. Il padre, Isidore, produceva e vendeva abiti da donna,
ma cadde in rovina durante la grande depressione; la madre
era casalinga. Sua sorella Joan divenne attrice con il nome
di Joan Copeland, e lavorò in alcune sue opere.
Miller studiò giornalismo e teatro, e si interessò soprattutto
al teatro classico greco e alle opere di Henrik Ibsen. Nella
primavera del 1936 scrisse il suo primo lavoro, No Villain
(pare per vincere un premio di 250 dollari in una gara), ma
il risultato superò le sue ambizioni: vinse quello ma anche il
premio Avery Hopwood.
Raggiunse la fama nel 1947con Erano tutti miei figli, che
tratta del proprietario di una fabbrica che vende falsi pezzi
di ricambio di elicottero durante la seconda guerra mondiale. Erano tutti miei figli vinse il premio New York Drama
Critics Circle e due Tony Awards. Morte di un commesso
viaggiatore vinse il premio Pulitzer, tre Tony Awards e il
premio del New York Drama Critics Circle. Era la prima
volta che un lavoro li vinceva tutti e tre.
A giugno del 1956, in pieno furore maccartista, Miller
dovette presentarsi di fronte alla comitato di Stato sulle
attività anti americane. Il 31 maggio dell’anno successivo
fu giudicato colpevole di disprezzo al Congresso per aver
rifiutato di rivelare i nomi dei membri di un circolo letterario sospettato di avere legami con il comunismo. In appello,
fortunatamente, la condanna fu attenuata.
Torniamo in Europa, e dopo un rapido saluto a Federico
Garcia Lorca rientriamo anche in Italia.
Lorca fu soprattutto poeta, un poeta del tormento, in parte
determinato dal senso di colpa che gli provocava la sua
omosessualità; ma fu anche drammaturgo, attento al vento
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di novità che spirava in tutta l’Europa culturale dei primi
decenni del XX secolo.
Spagnolo, nato nel 1898, amante della musica e della letteratura, viaggiò negli Stati Uniti e a Cuba, non fece mistero della sua simpatia per il governo repubblicano,
durante la guerra civile, tanto da finire fucilato per mano
dei falangisti, nel 1936.
Come autore teatrale, vede arrivare il successo a Barcellona, nel 1927, col dramma storico Mariana Pineda, i cui
fondali furono disegnati da Salvador Dalí.
Altri suoi testi che merita ricordare, fortemente impregnati
di idee futuriste, sono El maleficio de la marìposa (Il
maleficio della farfalla), del 1920, gli atti teatrali El paseo
de Buster Keaton (La passeggiata di Buster Keaton) e La
doncella, el marinero y el estudiantes (La ragazza, il marinaio e lo studente).
L’attenzione del governo repubblicano spagnolo per la cultura meriterebbe di essere presa a esempio ancora oggi: nel
1931 García Lorca fu nominato direttore della compagnia
Teatro Universitario la Barraca, fondata dal Ministro
dell'Educazione, che aveva la missione di portare la propria
produzione nelle più remote aeree rurali del Paese. Lorca
non si limitò a dirigere, ma ne fu anche attore. Fu durante
questo tour con La Barraca, che scrisse le sue opere di
teatro più note, denominate 'trilogia rurale': Bodas de
sangre, Yerma e La casa de Bernarda Alba.
E torniamo finalmente in Italia, con un autore di indiscussa
grandezza, erede della grande tradizione popolare e nello
stesso tempo ricco di una profondità culturale che lo ha reso
famoso in tutto il mondo.
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Eduardo De Filippo o, più semplicemente, Eduardo (Napoli 24 maggio 1900 - Roma 31 ottobre 1984) era figlio
naturale dell'attore e commediografo Eduardo Scarpetta e di
Luisa De Filippo. Crebbe nell'ambiente teatrale napoletano
insieme ai fratelli Titina e Peppino, rivelando fin da
giovanissimo straordinarie doti comiche. I tre fratelli
lavorarono insieme negli anni venti sia nell'ambito del
teatro dialettale che in quello più eterogeneo del varietà,
della rivista e dell'avanspettacolo.
Parallelamente Eduardo compose testi di vario tipo, molti
dei quali rimasti a lungo inediti: il più antico tra quelli
pubblicati, Farmacia di turno, risale al 1920 e apre la
raccolta Cantata dei giorni pari. Nel 1929 i tre De Filippo
passarono nella compagnia Molinari, per la quale Eduardo,
due anni dopo, Eduardo scrisse una delle sue opere più
celebri, Natale in casa Cupiello.
Successivamente fondò, con l'adesione dei fratelli, la
compagnia del Teatro Umoristico "I De Filippo", che tenne
banco a teatro dal 1932 al 1944, anno in cui Peppino
l'abbandonò per darsi al cinema.
La scatenata verve comica dei tre fratelli risaliva alle forme
farsesche dell'antica "commedia dell'arte", che Eduardo
conosceva bene avendola studiata. Tuttavia Eduardo sentiva
il bisogno di abbandonare il "provincialismo" napoletano
della compagnia, o per meglio dire di confrontarlo con le
forme più prestigiose del teatro contemporaneo: l'incontro
casuale con Luigi Pirandello, che ebbe come conseguenze
una grande interpretazione dell'opera Berretto a sonagli
(1936) e la scrittura della commedia L'abito nuovo, fu
decisivo in tal senso.
Dopo un periodo di crisi intellettuale, dovuta soprattutto
allo scoppio della Seconda guerra mondiale e alle differenti
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scelte artistiche di Peppino, nel 1948 Eduardo acquistò il
semidistrutto Teatro San Ferdinando di Napoli, investendo
tutti i suoi guadagni nella sua ricostruzione.
Eduardo cercò di salvaguardare la facciata settecentesca del
teatro realizzando nel contempo, all'interno, una struttura
tecnicamente all'avanguardia per farne una "casa" per l'attore e per il pubblico. Al San Ferdinando interpretò le sue
opere ma mise in scena anche testi di altri autori napoletani
per recuperare la tradizione e farne un "trampolino" per un
nuovo Teatro. Adottò la parlata popolare, conferendo al
dialetto napoletano la dignità di lingua teatrale colta, ma
elaborò unlinguaggio che andò oltre napoletano ed italiano
per diventare una lingua universale. Non c’è dubbio che
l'azione e l'opera di Eduardo siano state decisive per fare
del "teatro dialettale", fin lì snobbato dai critici, un "teatro
d'arte" a tutti gli effetti..
Tra le opere più significative di questo periodo meritano
una citazione particolare Napoli milionaria! (1945), Questi
fantasmi! e Filumena Marturano (entrambi del 1946); Mia
famiglia (1953), Bene mio, core mio (1956), De Pretore
Vincenzo (1957), Sabato, domenica e lunedì (1959) scritto
apposta per l'attrice Pupella Maggio che ne fu protagonista.
Spesso le sue opere furono trasposte nel cinema, a volte da
lui stesso: Napoli milionaria!, ad esempio, fu anche un film
del 1950 diretto ed interpretato da Eduardo con Totò, Delia
Scala e la sorella Titina.
Il teatro di Eduardo De Filippo va oltre la comicità
"campana", supera i confini del teatro dialettale per
diventare teatro puro e senza confini. Eduardo non abbandonò mai il suo impegno politico e sociale che lo vide in
prima linea anche ad ottant'anni, quando, nominato senatore
a vita, lottò in Senato e sul palcoscenico per i minori
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rinchiusi negli istituti di pena. Nel 1962 partì per una lunga
tournée in Unione Sovietica, Polonia ed Ungheria dove poté
toccare con mano la grande ammirazione che pubblico ed
intellettuali avevano per lui. Tradotto e rappresentato in
tutto il mondo, combatté negli anni sessanta per la
creazione a Napoli di un teatro stabile. Continuò ad avere
successo e nel 1963 gli venne conferito il "Premio
Feltrinelli" per la rappresentazione Il sindaco del rione
Sanità (da cui in seguito sarà tratto un film per la televisione interpretato da Anthony Quinn).
Del 1974 è Gli esami non finiscono mai, allestito con
successo per la prima volta a Roma: tale commedia gli
permise di vincere il "premio Pirandello" per il teatro l'anno
successivo. Dopo aver ricevuto due lauree honoris causa
(prima a Birmingham nel 1977 e poi a Roma nel 1980) nel
1981 fu nominato senatore a vita al posto di Eugenio
Montale, e aderì al gruppo della Sinistra Indipendente.
Quando morì, la camera ardente venne allestita al Senato.
Fu sepolto al cimitero del Verano, dopo solenni esequie
trasmesse in diretta televisiva, e dopo il commosso saluto di
oltre trentamila persone.
Nel teatro italiano, la lezione di Eduardo resta imprescindibile non solo per quanto concerne la contemporanea
drammaturgia napoletana e tutta quella fascia di "spettacolarità" tra cinema-teatro-televisione che ha riconosciuto in
Massimo Troisi il proprio campione. Tracce dell'influenza
di Eduardo si riconoscono anche in Dario Fo ed in tutta una
serie di giovani "attautori" come Ascanio Celestini (soprattutto in merito al linguaggio) o di personalità sconosciute al grande pubblico che lavorano nell'ambito della
"ricerca".
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È problematico fermarsi qui. È difficile non parlare, per
esempio, di grandi mattatori come Carmelo Bene.
Bene è ricordato soprattutto per la sua innovazione del
linguaggio teatrale, per lo stile ricercato, quasi barocco, per
la sua maestria da interprete e per aver "massacrato" i
classici.
Da molti è considerato un affabulante ingannatore o un
presuntuoso "massacratore" dei grandi testi; per altri è stato
uno dei più grandi attori del '900, e questo suo "variare" era
un modo per andare contro corrente.
Ricordate che abbiamo parlato della differenza fra teatro
d’autore e teatro d’attore? Carmelo Bene rappresenta
l’estremo opposto del teatro d’autore, è la personificazione
del teatro d’attore.
Il suo era non solo uno schierarsi contro le classiche visioni
del teatro e della drammaturgia: attraverso il suo genio egli
rivendicava l'arte attoriale innalzando l'attore da mera maestranza (così definita da Silvio D'Amico) ad artista. Per
Carmelo Bene il testo, nato dalla penna di uno scrittore
spesso avulso dal problema del linguaggio scenico, non può
essere interpretato: deve necessariamente essere creato, o
meglio ricreato dall'attore. Carmelo Bene si scaglia contro il
teatro di testo, per un teatro di differenza da lui definito
"scrittura di scena", un teatro del dire e non del detto,
perché per lui il teatro del già detto sarebbe un semplice
ripetere a memoria le parole di altri senza crea-tività: quello
che Artaud, caro a Bene, definì un "teatro di invertiti, [...] di
Occidentali".
È l'attore, con la scrittura di scena, a produrre teatro hic et
nunc. Il testo è "spazzatura" nella scrittura di scena, perché
lo spettacolo va visto nella sua totalità. Il testo ha lo stesso
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valore di altri elementi come le luci, le musiche, le quinte,
ecc. Il teatro di testo, di immedesimazione, è definito da
Bene – secondo noi esagerando parecchio - come un teatro
cabarettistico. Gli attori che si calano nei ruoli, che interpretano, sono per lui degli intrattenitori, degli imbonitori,
dei "trovarobe". Da qui la sua mai sopita ostilità verso attori
altrimenti acclamati come Giorgio Albertazzi.
Nel teatro di Bene, l'attore è il Creatore. Bene rivendica la
scrittura di scena, in cui il testo non è più messo in risalto
come nel teatro di testo, ma è anzi martoriato, continuando
un discorso iniziato nella prima metà del ‘900 dal francese
Antonin Artaud (1896-1948), che già aveva iniziato la distruzione del linguaggio, ma per Bene anche Artaud aveva
fallito sulle scene, perché era caduto a sua volta nell’interpretazione.
Artaud, inventore del teatro della crudeltà, era innamorato
della fisicità del teatro orientale; condannava la tirannia del
testo, nell’azione teatrale. La crudeltà del suo teatro non
consisteva di violenza fisica, ma di necessità di scuotere il
pubblico: una violenta determinazione di scuotere la falsa
realtà che, diceva, si stende come un lenzuolo sulle nostre
percezioni. Credeva che il testo fosse stato un tiranno sul
significato, e in sua vece spingeva per un teatro fatto di un
unico linguaggio, a metà strada tra gesto e pensiero.
Credeva anche che le attività sessuali, inclusa la masturbazione, fossero dannose al processo creativo e dovessero
essere evitate se si voleva aspirare a raggiungere un
traguardo di purezza nell'arte.
Carmelo Bene distrugge l'Io (immedesimazione in un ruolo)
sulla scena, a favore di un teatro del soggetto-attore alla cui
superbia è affidata la scrittura di scena.
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Un’ultima nota non possiamo non dedicarla al più recente
premio Nobel italiano, un vero punto di unione fra la tradizione più antica e il rinnovamento più audace: Dario Fo,
che si autodefinisce un giullare, è impegnatissimo nel teatro
di denuncia sociale e politica e nello stesso tempo è attento
cultore della tradizione più antica della Commedia dell’arte;
è capace dello sberleffo più sghignazzante e della più raffinata analisi di un testo poetico, o esegesi di un quadro del
Rinascimento. Tanto per cambiare è conosciuto ed apprezzato, come autore, più all’estero che in patria, dove qualcuno ha perfino storto il naso quando gli è stato assegnato il
Nobel.
Chiudiamo con un interrogativo al quale mi guardo bene
dal dare risposta: quale futuro per il teatro, oggi che
l’effetto speciale, il colpo d’occhio, la sensazione sono così
determinanti in ogni forma di spettacolo, accanto
all’imprescindibile necessità di produrre quanto più reddito
possibile?
Il Teatro, oggi, non è un’attività redditizia. Se non fosse per
noi amatoriali e per le sovvenzioni pubbliche, almeno in
Italia sarebbe già morto da un pezzo.
Anche i professionisti, poi, a causa dei costi spaventosi
degli allestimenti ripiegano su spettacoli ridotti all’osso,
one-man-shows incentrati sulla capacità di richiamo di
personaggi spesso resi famosi dalla televisione, che un vero
legame con il teatro, una vera formazione attoriale neanche
ce l’hanno. D’altra parte è sempre più complicato mettere
in scena testi complessi, con cast nutriti e scenografie
elaborate.
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Una cosa è sicura: non ci sarà futuro, per il Teatro, se non ci
sarà educazione al Teatro.
Purtroppo, in Italia, quello dell’educazione è un tasto doloroso, non solo per il Teatro, ma per tutte le arti in generale,
oso dire per la cultura, che sembra essere l’ultimo dei problemi di chi predispone i programmi di formazione scolastica.
Perciò sta a noi, che il Teatro lo amiamo, suscitare in chi
abbiamo intorno l’entusiasmo per questa stupenda forma
d’arte, perché nessuno, più di chi ha fede nel Teatro, può
riuscire ad aumentare il numero dei seguaci di questa che,
insieme alla Musica e, in generale, all’Arte, in tutte le sue
forme, ritengo sia l’unica forma di religione capace di renderci migliori, perché invita alla riflessione senza additare a
nemici o lanciare anatemi, che educa senza imporre nulla e
diverte senza intontire.
L’unica religione che quindi è bene, anzi, necessario,
praticare.
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