CENNI DI STORIA DEL TEATRO A cura di Giuseppe Riccardo Festa 5. il XX secolo dopo Pirandello Abbiamo accennato, durante il nostro precedente incontro, al terremoto che, sul piano culturale, sconvolse il mondo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Chi arriva “dopo” fatica a rendersi conto della differenza tra il “dopo” e il “prima” di certi eventi: il mondo, per lui, è già così, quando lui arriva. Ma chi vive a cavallo di questi “prima” e questi “dopo” subisce a volte dei veri e propri traumi. Va da sé che l’intera storia dell’umanità è fatta di “prima” e di “dopo”: “prima” e “dopo” il fuoco, la ruota, la vela, la lavorazione dei metalli, eccetera. Solo che in passato le fasi intermedie fra i prima e i dopo erano lunghissime, e abituarcisi era più facile. Ma l’accelerazione ha cominciato ad essere via via sempre più rapida, da Keplero in poi, con le grandi scoperte scientifiche, l’evoluzione della tecnologia e il mutamento dei costumi, politici e sociali: fino ad arrivare ad oggi, un tempo in cui non siamo neanche più capaci di stupirci perché i cambiamenti sono talmente ravvicinati da far parte del nostro quotidiano. 1 Non era così negli anni in cui l’accelerazione, nel susseguirsi delle novità, ha cominciato ad essere tale da spiazzare, come dicevamo, coloro che queste novità le vedevano verificarsi, e non erano abituati, come noi, ai cambiamenti rapidi e a chi questi cambiamenti li provocava. Sto parlando di Sigmund Freud, che distrugge l’idea dell’esistenza di una individualità ben definita in ogni essere umano; di Albert Einstein, che elabora una visione dell’universo – l’infinitamente grande - destinata a stravolgere i concetti di tempo, di spazio e di moto con la sua famosa Teoria della Relatività; e di altri studiosi, come Max Planck e Werner Heisenberg, che inseguendo la materia nell’infinitamente piccolo, con la teoria dei quanti sconvolgono l’idea stessa di materia, portando la fisica a stretto contatto col misticismo. Negli stessi anni l’Europa era scossa da inquietudini sociali e politiche che avrebbero portato alla dissoluzione degli imperi centrali, alla nascita degli stati nazionali, alle due guerre mondiali, alla guerra civile spagnola, al fascismo, al nazismo, all’Olocausto. Sul piano culturale, tutto questo provoca il puro e semplice crollo di tutte le certezze. Fino, pressappoco, alla fine dell’Ottocento, tutto era – o almeno sembrava – ordinato, facilmente classificabile, collocabile in rassicuranti caselle: le classi sociali, le gerarchie politiche ed economiche, i valori culturali. Ma il disagio si faceva sempre più evidente e pressante; se da un lato i popoli rivendicavano il diritto all’autodeterminazione, con i moti indipendentisti italiani, ungheresi, iugoslavi, greci e le periodiche rivoluzioni di piazza di Parigi, dall’altro gli intellettuali avvertivano lo sfaldarsi del sistema di valori tradizionali, al quale niente di nuovo sembrava capace di so2 stituirsi: è in questo clima che alla fine fioriscono, in letteratura, i Franz Kafka, i James Joyce, i Robert Musil, gli Italo Svevo; e nelle altre arti movimenti come l’Espressionismo, che si ribella alle certezze borghesi, il Futurismo, con l’esaltazione necrofila della macchina; il dadaismo, col rifiuto dell’idea stessa di estetica; il surrealismo, che dal dadaismo discende, e che nel 1924 il poeta André Breton, il suo profeta, definì come automatismo psichico puro, attraverso il quale ci si propone di esprimere, con le parole o la scrittura o in altro modo, il reale funzionamento del pensiero. Comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale. Ancora, in campo musicale, i primi decenni del ‘900 vedono nascere, con Alban Berg e Arnold Schoenberg, la dodecafonia, che rimuove ogni idea di melodia dalle composizioni; e mille altre schegge nelle quali si frammenta il modo stesso di concepire il mondo, l’uomo e l’arte: fra questi movimenti, già ne abbiamo parlato, non va dimenticato quello del Simbolismo francese, o Decadentismo, ultima propaggine del Romanticismo, che manifesta una sensazione diffusa, inquietante e del tutto giustificata di imminenza della fine del mondo, o almeno del mondo come era stato visto fino a quel momento. C’è un altro aspetto, di questa accelerazione, che dobbiamo tenere in considerazione: a lungo, le novità in campo scientifico erano rimaste patrimonio di una cerchia ristretta di addetti ai lavori; la loro influenza sulla vita quotidiana delle popolazioni ed anche in campo artistico, se c’era stata, era stata diluita nel tempo: così era stato per le scoperte astro3 nomiche di Copernico e Galileo, o altre, in biologia, come la scoperta dei microrganismi e delle cellule. Ma già altre novità, come la teoria dell’Evoluzione di Darwin, avevano avuto un impatto più diretto, pur se comunque non proprio immediato: così era stato, ad esempio, per il secondo principio della termodinamica, enunciato da Clausius nel 1864. Quanto più si diffondeva l’alfabetizzazione, però, tanto più immediato, a tutti i livelli, diventava l’effetto delle novità. Così, il progressivo sfaldarsi delle certezze antropocentriche, che per millenni avevano rassicurato e consolato l’umanità, diventa una vera e propria valanga mano a mano che il XX secolo si dipana, col progresso sempre più vertiginoso delle conoscenze scientifiche e la sua lunga scia di guerre, rivoluzioni, massacri e malesseri. E il Teatro? Il Teatro non poteva non risentire di tutto questo; anzi, essendo come le altre arti specchio della società, di questi malesseri, disagi e incertezze si è immediatamente fatto interprete. Anche il Teatro, come il resto della società, reagisce in modo differenziato al terremoto che scuote il mondo delle conoscenze e delle relazioni umane a partire dalla fine dell’Ottocento. Il viaggio nel Novecento teatrale è ricco di contraddizioni: alcuni autori, pur risentendo anch’essi delle novità sconvolgenti che si susseguono, restano tuttavia legati alla tradizione, se non sul piano sostanziale, almeno su quello formale: è il caso di Luigi Pirandello, ad esempio, degli autori teatrali americani e del grande Eduardo. Altri autori, in modo netto e reciso, affermano invece a tutti i livelli, in modo esplicito e spesso provocatorio, la propria 4 weltanschauung, la propria visione del mondo, intervennedo sul modo stesso di concepire la rappresentazione teatrale e sul significato che essa deve avere. Così come accade con le altre arti, anche in Teatro, attraverso questi autori, l’idea di gradevolezza diventa estranea all’idea di creazione. Il colore di fondo di quegli anni è molto cupo. Se muoiono le illusioni, è difficile continuare a descrivere un mondo che di quelle illusioni defunte si nutriva. Si descrive invece il mondo con tutte le sue feroci contraddizioni, le sue miserie e le ingiustizie; e non c’è molto spazio per la speranza. Diventa inevitabile, con l’accento polemico, anche la forte connotazione politica del messaggio lanciato dagli autori. È questo il caso di Bertolt Brecht, contemporaneo di D’Annunzio e di Pirandello, già diversissimi l’uno dall’altro, ma comunque legati ad una visione del teatro ancora vincolata alla tradizione. Brecht nasce ad Augusta nel 1898, da una famiglia della piccola borghesia. Già nel 1916, in piena Prima Guerra mondiale, rischia l’espulsione dal liceo per aver così commentato il famoso verso oraziano dulce et decorum est pro patria mori: «Il detto che dolce e onorevole è morire per la patria può essere considerato solo come propaganda con determinati fini [...] solo degli stupidi possono essere così vanitosi da desiderare la morte, tanto più che pronunciano simili affermazioni quando si ritengono ancora ben lontani dall'ultima ora. Ma quando la comare morte si avvicina, ecco che se la squagliano con lo scudo in spalla, come fece nella battaglia 5 di Filippi l'inventore di questa massima, il grasso giullare dell'imperatore». Con l’avvento del nazismo Brecht fuggì qua e là per l’Europa, poi anche negli Stati Uniti, da dove dovette pure fuggire, accusato di attività antiamericane durante la caccia alle streghe del maccartismo. Si rifugiò in Svizzera e poi a Berlino Est, dove pure fin per mettersi in contrasto con le autorità comu-niste, vedendosi anche rifiutare la messa in scena di alcune opere. Morì d’infarto, appena cinquantottenne, il 14 agosto 1956. Tutta la vita e l’opera di Brecht, nel bene e nel male, sono segnate dall’impegno politico. Fra i suoi testi teatrali è impossibile non citare L’Opera da tre soldi, musicata da Kurt Weil, ispirata alla più antica “Opera del Mendicante”, di John Gay, ambientata in una cinica e spietata Londra, nella quale è in scena il mondo dei gangster e dei derelitti. L’intenzione era di proporre qualcosa di provocatorio, che scandalizzasse il pubblico borghese con l’ambientazione, i personaggi e il linguaggio utilizzato. Brecht ambiva ad avere come pubblico il proletariato, cioè gli operai dell'industria. Non a caso, il titolo altro non è, provocatoriamente, che il prezzo del biglietto d'entrata. Invece gli operai disertarono le rappresentazioni, mentre il pubblico borghese ne decretò il successo, con sommo disappunto dell'autore, che ritenne fallito il suo progetto, tanto da non realizzare piùopere con questo preciso intento. Altre importantissime opere teatrali di Brecht sono: Madre Coraggio e i suoi figli (sottotitolo: Cronaca della guerra dei Trent'anni), scritto fra il 1938 ed il 1939. Il dramma, ambientato nel ‘600, racconta le disavventure di una vivandiera che, al seguito degli eserciti, cerca di guada6 gnare qualcosa dalla guerra, ma otterrà solo la perdita dei tre figli. Scritto proprio alla vigilia della seconda guerra mondiale, il testo è una denuncia di tutte le guerre e degli orrori che esse provocano. Vita di Galileo, di cui egli stesso annotò nei suoi versuche: «Il pezzo teatrale “Vita di Galileo” venne scritto in esilio in Danimarca nel 1938/39. I giornali avevano riportato la notizia della scissione dell'atomo di uranio da parte del fisico Otto Hahn e dei suoi collaboratori». Ci sono dubbi circa l’effettiva coincidenza fra la notizia scientifica e la genesi del testo, che, pare, sarebbe stato concepito in realtà assai prima. Ma è un fatto che comunque era ormai ineludibile l’influenza dell’evoluzione scientifica sul mondo dell’arte. Della Vita di Galileo esistono diverse versioni, di cui quella danese è ritenuta la più importante. Brecht non considerava mai definitive le versioni delle sue opere che via via andava elaborando, sotto la spinta delle esigenze teatrali ma anche della propria evoluzione e maturazione. La commedia narra la vita del grande scienziato pisano, dall’invenzione del cannocchiale alla scoperta dei satelliti di Giove, fino al processo istituito dal Sant’Uffizio, al suo atto di abiura e agli ultimi anni della vecchiaia. Sicuramente dissonante da quella tramandataci dagli storici, qui la figura di Galileo Galilei assume caratteri più umani: Brecht ne mette in evidenza paure, timori e incertezze, e delinea un uomo logorato dal dissidio interiore fra desiderio di combatterlo e voglia cedere al potere. Al di là delle vicende personali, il dramma di Brecht focalizza la sua attenzione sul rapporto tra la ricerca scientifica e il potere e, più in 7 generale, sul sempre più lacerante rapporto fra cultura e potere. Un’altra caratteristica del teatro del ‘900 è, insieme alla motivazione ideologica che muove alcuni dei suoi autori più importanti, la forte carica di significati intellettuali di cui volutamente questi autori infarciscono i testi. Non si scrive tanto per il pubblico quanto per dare forma ad un’ideologia, esprimendo magari concetti che per il pubblico sono difficili da capire, quando non inconcepibili e astrusi. Un esempio particolarmente rilevante di questa tendenza lo troviamo in Jean-Paul Sartre (Parigi, 21 giugno 1905 - 15 aprile 1980), filosofo, scrittore e critico, padre della filosofia esistenzialista. Nel 1964 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura, che però rifiutò: Non voglio essere letto perché Nobel ma solo se il mio lavoro lo merita. E poi, chi è quel tribunale per giudicare la mia opera". Oltre che dalla sua visione esistenzialista, illustrata nel libro “L’essere e il nulla” e nel romanzo “La Noia”, Sartre è fortemente motivato dall’azione politica, anche nel suo caso di matrice comunista. Secondo Sartre l'uomo è l'essere che progetta di essere Dio ma ovviamente non può realizzare il suo progetto. Il mondo è «assurdo», senza ragione, è «di troppo». Esiste semplicemente, senza «fondamento». Le cose e gli Uomini esistono di fatto, e non di diritto. L'Uomo è definito dalla coscienza (il per sé che si oppone all'in sé): ogni coscienza è coscienza di qualcosa; l'uomo è dunque fondamentalmente aperto sul mondo, incompleto, girato verso, esistente (proiettato fuori di sé): c'è in lui un 8 niente, un foro nell'essere, suscettibile di ricevere gli oggetti del mondo. L'Uomo è assolutamente libero, non è nient'altro che ciò che fa della sua vita, è un progetto: condannato ad essere libero : anche non impegnarsi è una forma d'impegno, poiché se ne è responsabili. Nella filosofia di Sartre Dio non esiste (e in ogni caso, se esistesse ciò non cambierebbe nulla), per cui l'uomo è unica fonte di valore e di moralità; è condannato ad inventare la propria morale. Sartre, inoltre, rifiuta il concetto freudiano d'inconscio, che sostituisce con la nozione di malafede: afferma, rivelandosi in questo un post-romantico, che l'inconscio non saprebbe diminuire l'assoluta libertà dell'Uomo. Scoprì la scrittura drammaturgica in piena occupazione nazista. Inseparabile ai suoi occhi dal resto della storia e dell'azione collettiva, il Teatro finì col completarne ed ampliarne la celebrità, che si estese ben oltre i confini della Francia. Sotto l'occupazione aveva scritto e fatto recitare Le mosche (1943) e Porte chiuse (1944). Nel 1946 pubblicò La puttana rispettosa e Morti senza sepoltura; nel 1948 Le mani sporche. La sua concezione del teatro lo indusse a rifiutare sia il teatro psicologico e realistico, fondato su personaggi e caratteri, che il teatro d'intrattenimento. Il suo è un teatro che discute le grandi questioni contemporanee attraverso personaggi presi in situazioni limite, violente, la cui sfida è sempre la libertà, la responsabilità, il senso dell’esistenza, estremi predicati spesso in contraddizione con l'azione. Oreste, protagonista de le Mosche, si definisce con l'omicidio che compie: un omicidio giusto perché reagisce all'abuso del potere ed alla tirannia. I tre personaggi di Porte 9 chiuse (riuniti in un salone per l'eternità poiché sono già morti) sono condannati per sempre a giudicarsi e ad essere giudicati, essendo ciascuno prigioniero della coscienza degli altri, da cui la famosa formula: «L'inferno sono gli altri». (L'enfer, c'est les autres). Le mani sporche pone la questione della logica rivoluzionaria (che può condurre ad uccidere) e della coscienza che le si oppone. Il diavolo ed il buon dio (1951) rinvia a una contrapposizione netta tra Satana e Dio, mentre l'eroe cerca il senso della sua esistenza attraverso l'azione, e in I sequestrati di Altona (1959) un ufficiale nazista è trascinato davanti ad un tribunale immaginario. Opere come queste testimoniano l’importanza della politica nel teatro di Sartre: come in Grecia, la scena è un’agora dove un popolo sfinito ma esigente vede esposti i problemi principali della città. A parte il contenuto politico, l’interesse di Sartre per il teatro è testimoniato anche da altre pièces, come Kean, adattamento da Dumas, del 1953; Nekrasov, satira dell’ambiente giornalistico, del 1955 o anche il rifacimento de Le troiane, da Euripide, del 1965. Ma l’evoluzione culturale e scientifica influisce in modo ancora più dirompente sul teatro, soprattutto il teatro europeo. Con effetti particolarmente significativi su due autori: Samuel Beckett e Eugene Ionesco, i padri del Teatro dell’assurdo. Samuel Barclay Beckett (Dublino, 13 aprile 1906 - Parigi, 22 dicembre 1989) fu Premio Nobel per la letteratura nel 1969 e autore di numerose opere teatrali, le più famose delle quali Aspettando Godot e Finale di partita. Accostarsi alla sua produzione significa attraversare le macerie del ven10 tesimo secolo con l'unica scialuppa di salvataggio rimasta, l'ironia. La sua famiglia era di estrazione borghese e di religione protestante, ma lui non fu mai credente. Presso il Trinity College di Dublino si laureò in francese ed italiano. Trasferitosi poi a a Parigi, fu nominato lettore d'inglese a l'École Normale Supérieure; frequentò gli ambienti surrealisti ed entrò strettamente in contatto con James Joyce. Il successo arrivò nel 1952, quando appunto finì di scrivere Aspettando Godot (scritta prima in francese e poi tradotta in inglese) che fu rappresentata per la prima volta il 5 gennaio 1953 a Parigi, al Théâtre de Babylone. Entrò così in quel gruppo di autori, che includeva già il franco-rumeno Eugène Ionesco ed il franco-armeno Arthur Adamov, che scrivevano brani appartenenti al teatro dell'assurdo. Quando nel 1969 gli fu assegnato il Premio Nobel per la letteratura, non si presentò per ritirarlo. Se la fama di Beckett si deve ad Aspettando Godot, è la sua opera narrativa, soprattutto la trilogia di romanzi scritti tra il 1951 e il 1953 Molloy, Malone muore e L'Innominabile, a rappresentare uno dei vertici della letteratura della seconda metà del XX secolo. La filosofia di fondo, in tutta l’opera di Beckett, è sempre la stessa: lo stravolgimento della stessa idea di “raccontare”, già avviato da Joyce. La narrazione, da sempre, si basa su una situazione che parte da uno stato di equilibrio incerto; per un qualche motivo questo equilibrio viene a mancare, e si creano le premesse per lo sviluppo della storia, che si conclude con un nuovo, più sicuro e definito equilibrio: dalla fiaba alla tragedia di 11 Sofocle, dalla commedia di Aristofane al romanzo, sempre la struttura di fondo di ogni evento narrativo, almeno fino a Beckett e Jonesco, ha seguito questo percorso. A questa struttura di base si aggiunge l’essenzialità: un buon romanzo, una buona commedia o una buona tragedia non contiene elementi estranei allo sviluppo della vicenda. Tutto questo, con Beckett e Ionesco, smette di esistere. Condizionata dagli sviluppi della scienza e dalle nefandezze della storia, l’opera di Beckett descrive una radicale impotenza a trarre un qualsiasi senso compiuto dalla realtà. Per Beckett le parole sono obbligate al paradosso di voler comunicare che non c'è niente da comunicare. Nei suoi romanzi raccontare, narrare, è possibile solo attraverso una serie di finzioni, che i protagonisti (sempre più tesi alla disgregazione della propria identità personale), si raccontano e raccontano al lettore, nello sforzo disperato e vano di dare consistenza a se stessi e al mondo. Così, anche i protagonisti di Aspettando Godot sono sulla scena in un perpetuo far nulla, aspettando qualcuno che non verrà mai; ancora più statica, priva di vicenda e addirittura di una ben definita collocazione, è la storia di Finale di Partita (partita a scacchi, non di calcio: Beckett amava molto il gioco degli scacchi). Grande amico di Beckett, che ne ha condizionato la produzione, ed esponente a sua volta del Teatro dell’assurdo è Harold Pinter, nato a Londra il 10 ottobre 1930. È drammaturgo, regista e attore teatrale, premio Nobel per la letteratura nel 2005. Ha scritto per teatro, radio, televisione e cinema. I suoi primi lavori sono considerati fra i capolavori, appunto, del teatro dell'assurdo. 12 La sua prima commedia, The Room, fu rappresentata per la prima volta dagli studenti dell'università di Bristol nel 1957. The Birthday Party (1958) fu inizialmente un fiasco, ma il successo del suo lavoro successivo, The Caretaker (1960), la riportò in auge e al successo. Queste commedie ed altri dei suoi primi lavori, come The Homecoming (1964), sono a volte etichettate come commedia della minaccia. Di solito cominciano con una situazione apparentemente innocente che diventa assurda e minacciosa in quanto gli attori si comportano in modo inspiegabile sia per il pubblico che, a volte, per gli altri personaggi. Questo stile ha ispirato l'aggettivo Pinteresque. Fortemente impegnato in politica, con posizioni aspramente critiche verso le attuali amministrazioni USA e UK, soprattutto per la loro propensione alla guerra, ha ottenuto il Nobel 2005 per la letteratura con la seguente motivazione: "nelle sue commedie [egli] scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell'oppressione". Il terzo autore non si può prescindere quando si parla di teatro dell’assurdo è Eugène Ionesco, che nacque a Slatina, in Romania, il 26 novembre 1909; l'anno dopo la sua famiglia si trasferì a Parigi, dove rimase durante la Prima Guerra mondiale. Immagini confuse di questo periodo tornano spesso nelle opere di Ionesco: «Nei miei ricordi, racconta, le apparizioni grottesche assomigliavano ai personaggi di Brueghel, o di Bosch: grandi nasi, corpi deformi, sorrisi atroci, piedi biforcuti». Nel 1925 gli Ionesco tornarono in Romania. Eugène desiderava fare l’attore, ma per accontentare il padre si iscrisse 13 all'Università. Negli anni '30 scrisse e pubblicò versi e articoli di critica da cui già traspaiono quelli che poi saranno i principi fondamentali della sua drammaturgia. Il suo incontro con il teatro fu del tutto casuale. Così lo racconta in Note e Contro-note: «Comprai un manuale di conversazione dal francese all'inglese, da principianti. Mi misi al lavoro e coscientemente copiai, per impararle a memoria, le frasi prese dal mio manuale. Rileggendole con attenzione, imparai dunque non l'inglese, ma delle verità sorprendenti: che ci sono sette giorni nella settimana, ad esempio, cosa che già sapevo; oppure che il pavimento sta in basso, il soffitto in alto. [...] Con mia enorme meraviglia, la Signora Smith riferiva al marito che essi avevano numerosi figli, che abitavano nei dintorni di Londra, che il loro cognome era Smith, che il Sig. Smith era un impiegato [...]. Mi dicevo che il Sig. Smith doveva essere un po' al corrente di tutto ciò; ma, non si sa mai, ci sono persone così distratte...». Ionesco fu colpito in modo tale dalla bizzarria del comportamento della signora Smith, da decidere di comunicare ai suoi contemporanei le verità essenziali appena scoperte. E scrisse così La cantatrice calva, un'opera teatrale che si potrebbe definire didattica. Queste verità essenziali diventano però folli, la parola si disarticola e ne risulta una tragedia del linguaggio. La cantatrice calva, definibile un’anti-pièce, fu messa in scena per la prima volta l'11 maggio 1950 al Théâtre des Noctambules, e fu un fiasco. Ionesco non si lasciò però scoraggiare: ora sapeva cosa dire e il modo in cui dirlo. 14 Negli anni tra il 1950 e il 1952 scrisse altre 8 pièces che definiscono i suoi principi di drammaturgia: Disarticolazione del linguaggio Proliferazione degli oggetti Descrizione di un mondo inquietante e assurdo, non difforme da quello di Samuel Beckett Visione onirica del reale Introspezione psicoanalitica molto profonda (in Vittime del dovere proprio quando la trama sembra una parodia dell'inchiesta poliziesca, il personaggio Choubert sposta l'attenzione sul proprio io, scavando nel profondo e trovando immagini d'infanzia. Il pubblico iniziò a interessarsi a lui, ma le polemiche furono feroci. Per difendere il proprio modo di fare teatro, fece conferenze, scrisse saggi, rilasciò interviste e, nel 1955, realizzò un impromptu, un "improvviso" (Impromptu de l'Alma): testo nel quale entra egli stesso entra in scena, e, attaccato da tre dottori in teatrologia, Bartolomeo I, II e III che citano Aristotele, Sartre e Brecht, si difende e si giustifica. Nel 1958, con la pubblicazione di Rinoceronte, Ionesco raggiunse il massimo successo: conferenze, colloqui, viaggi intorno al mondo divennero quotidiani, ma anche le critiche si inasprirono: il drammaturgo fu accusato di conformismo e di noncuranza per l'attualità e di non essere engagé, politicamente impegnato. Lui rispose alle accuse col libro Note e Contro note, in cui definì le linee guida della propria drammaturgia, i propri problemi di scrittore, la propria esperienza in teatro. In seguito, tentato dall'aspetto serio e tragico della vita, non scrisse più per deridere, ma per capire la vita e la morte. 15 Le opere degli anni '70 sono pervase da rassegnazione, indotta dai tragici eventi della Primavera di Praga, della guerra del Vietnam, degli attentati terroristici alle Olimpiadi di Monaco, che indussero Ionesco a definire il mondo e la condizione umana con un solo aggettivo: assurdi. «La Commedia Umana, scrisse, non mi assorbe abbastanza. Non appartengo interamente a questo mondo». Il suo sguardo, afferma la critica, sembra in effetti leggere al di là dell'apparenza del mondo: egli si sente estraneo alla realtà. Vede la propria vita pervasa di solitudine e di angoscia, dall'infanzia emergono immagini grottesche, da incubo, salvo rari momenti di euforia estatica, perché il mondo è anche meraviglioso: è proprio questa contraddizione che rende affascinante la commedia che ha come protagonista l'uomo. È morto il 28 marzo 1994. Attraverso il teatro, Ionesco si interroga sulla vita e sulla morte, esplora il reale. Il teatro è discesa nell'Inferno: l'inferno del suo io, ossessionato dal doppio stato esistenziale: evanescenza e pesantezza, luce e tenebra; l'universo drammatico di Ionesco ha come sfondo un paesaggio onirico, espressione spettacolare dei suoi incubi, dei suoi fantasmi. Due figure emblematiche abitano questo universo: la donna - madre, moglie, sorella o amante: ha una sensualità che allo stesso tempo affascina e disgusta; il nido che offre è una prigione della coscienza e obbliga l'uomo alla rassegnazione, perché deve accettare tutti i limiti e rinnegare la speranza. il poliziotto, emblema dell'autorità: padre, professore, medico-psicanalista, anch'egli impone una rinuncia. 16 Ma il mondo è anche stupendo: accanto alle immagini di atrocità si fanno spazio quelle di grazia, pervase di luce e di natura. Il protagonista oscilla tra i due mondi, non trova un equilibrio e perciò tenta di evadere, ma inutilmente, perché fallisce sempre: è vittima, in un teatro spietatamente realistico che è un semplice racconto della condizione e del destino umani. Tutto ciò implica una rivoluzione della drammaturgia tradizionale: l'azione non è più un intrigo, ma una situazione complessa e conflittuale senza soluzione. I personaggi non sono eroi in senso classico, ma tipi senza psicologia, che parlano per formule convenzionali e luoghi comuni: sono gusci vuoti. le strutture, così anticonvenzionali, del teatro di Ionesco si ricollegano al Dadaismo e al Surrealismo per il gusto della provocazione beffarda e polemica. Il nonsense, però, non è mero gioco: cela una critica ben più profonda, al conformismo e alla banalità in primo luogo. Un tema ricorrente, che accomuna Ionesco a Beckett, Adamov o Genet è la solitudine come condizione umana. I suoi personaggi sono soli nella folla, e ciò li rende ancora più tragici e assurdi dei vagabondi beckettiani; sono borghesi inariditi e allucinati dalla solitudine che non riescono a comunicare; si illudono di esprimere il proprio dramma ma i cliché e i luoghi comuni denunciano il loro vuoto interiore. Le loro vite sono sopraffatte dal materialismo soffocante di una realtà che li aliena, e ogni tentativo di opposizione si conclude con il fallimento. Abbiamo detto, iniziando questa chiacchierata, che l’evoluzione del teatro segue sostanzialmente, nel XX secolo, due direzioni: quella che abbiamo appena descritto, che poi por17 terà fino alle avanguardie più estreme, agli sperimentalismi più arditi e concettosi, ed un’altra. Ripeto che per essere più vicina al concetto tradizionale di spettacolo, di narrazione nel senso abituale del termine (con la situazione iniziale di equilibrio instabile, la rottura di questo equilibrio, il dipanarsi della vicenda ed il raggiungimento di un nuovo equilibrio), questo teatro non è perciò meno intelligente o meno profondo – o più intelligente e più profondo - dell’altro. Tanto per fare un esempio, la bellezza indiscutibile di un dipinto di Caravaggio non ci induce a dire che un Renoir, un Ricasso o un Munch sono schifezze: sono modi diversi di esprimersi di artisti che hanno seguito percorsi diversi. Certamente, comunque, è vero che il teatro delle avanguardie è fortemente impregnato di concettualismo, vuole essere capito più che amato, perché si rivolge al cervello e non al cuore degli spettatori. L’altro teatro, quello che prosegue la tradizione più antica senza però sdegnare di ringiovanirsi e di affrontare anche lui le realtà contemporanee, continua invece a cercare, oltre che le menti, anche i cuori dei suoi spettatori. Andiamo a dare un’occhiata, intanto, negli Stati Uniti, il Paese che, a detta di George Bernard Shaw, è passato direttamente dalla barbarie alla Decadenza. È una definizione sarcastica, certamente, che però sembra trovare riscontro nell’opera dei tre massimi autori teatrali statunitensi, tutti geniali, tutti critici verso la società e i costumi che descrivono nelle loro opere. 18 Eugene Gladstone O'Neill (16 ottobre 1888 - 27 novembre 1953) fu premio Nobel per la letteratura nel 1936, ed è una figura fondamentale del teatro nordamericano. Prima di lui, infatti, il teatro, forse anche per l’ostilità tipicamente puritana che là regnava contro lo spettacolo, negli USA praticamente non esisteva. In mancanza di una tradizione nazionale, O'Neill attinse strumenti, tecniche, idee da tutto il teatro europeo. Figlio d’arte – il padre era un attore irlandese - usò e ricreò il coro e le maschere del teatro greco, le tecniche del melodramma e, soprattutto, quelle del realismo ibseniano, che fuse con quelle dell'espressionismo di Strindberg. Fu il primo a guardare con occhio critico gli elementi di corruzione, disgregazione, alienazione della civiltà americana. Iscrittosi all'Università di Princeton, ne fu espulso dopo un anno; da allora fu un susseguirsi di avventure e incontri con gli uomini più diversi. Fu cercatore d'oro in Honduras, marinaio sui mari del Sud, disoccupato sul fronte del porto di Buenos Aires, direttore di scena nella compagnia del padre, giornalista. Questa girandola di esperienze finì quando, malato di tubercolosi, dovette ricoverarsi in sanatorio, dove scoprì la sua vocazione di scrittore; quando ne fu dimesso, iniziò la produzione teatrale. Nei Drammi marini raccontò gli uomini e gli ambienti che aveva incontrato negli anni precedenti: marinai, prostitute, fuorilegge, vecchi vapori, bettole. In viaggio per Cardiff (1916) fu un successo, Oltre l'orizzonte gli fece vincere il premio Pulitzer nel 1920. In questi e negli altri drammi più riusciti (come Imperatore Jones del 1920) O'Neill diede sfogo alla sua forte ispira19 zione sociale e propose la sua visione della condizione umana: l'uomo è al mondo per lottare e per essere sconfitto. In Desiderio sotto gli olmi (1924), con sinistra ironia, fece a pezzi la filosofia americana del successo e la sua mitica incarnazione: il pioniere fisicamente gagliardo e moralmente sano. Nelle opere successive, che durano a volte sei ore (Strano interludio del 1928, Il lutto si addice ad Elettra del 1931), subentrarono preoccupazioni metafisiche e religiose. Ma negli ultimi anni O'Neill riprese la vena realistica, seppure in chiave di approfondimento psicologico dei personaggi: tale è Lunga giornata verso la notte, dettato nel 1940 e rappresentato postumo, imperniato su pochi personaggi ispirati alla propria famiglia (la madre morfinomane, il padre alcolizzato, il figlio, lui stesso, tubercolotico). La sua fama, già rinsaldata dal premio Nobel per la letteratura nel 1936, ricevette in America, dopo la sua morte, una consacrazione sospetta ma definitiva quando due suoi lavori furono adattati ad operetta. Thomas Lanier Williams (Columbus, Mississipi, 1911 – New York, 1983) è meglio conosciuto con lo pseudonimo di Tennessee Williams. Negli anni '30 ebbe i primi contatti con il teatro collaborando con diversi gruppi di avanguardia e scrivendo numerosi atti unici. Esordì con scarso successo con Battle of Angels (Battaglia d'Angeli, 1940), poi riscritto come Orpheus Descending (La Calata di Orfeo, 1957). Il successo e la fama gli arrisero con The Glass Menagerie (Zoo di vetro, 1945) e A Streetcar Named Desire (Un tram di nome Desiderio, 1947). In questi due drammi si forma la 20 definitiva struttura ricorrente nel teatro di Williams, ambientato nel sud degli Stati Uniti in un mondo immobile, chiuso sul suo passato aristocratico oramai irrecuperabile. I suoi lavori si basano sull'opposizione tra l'individuo e la società, con il ricorso a personaggi quasi archetipici: l'aristocratica decaduta, la fanciulla mite e vittima del maschio dominatore, il giovane sensibile e con aspirazioni artistiche, l'uomo intraprendente ed aggressivo. Questo quartetto, con le successive varianti, si inserisce in un'opposizione più generale fra gli integrati che accettano le ipocrisie del perbenismo e gli outsider, emarginati e ribelli che rifiutano il compromesso. Dopo i drammi che lo fecero affermare, Williams scrisse altre opere altrettanto fortunate, che spesso furono trasferite sullo schermo, fra le quali The Rose Tattoo (La rosa tatuata), Cat on a Hot Tin Roof (La gatta sul tetto che scotta) Suddenly Last Summer (Improvvisamente l'estate scorsa). Williams era omosessuale. Visse a lungo con il suo segretario, la cui morte lo scosse profondamente, accentuando i suoi problemi di droga e alcolismo e causando il progressivo inaridirsi della sua vena creativa. Terzo fra i grandi autori teatrali statunitensi che citiamo in questa non esaustiva rassegna, è Arthur Asher Miller (17 ottobre 1915 – 10 febbraio 2005). È stato una figura di primo piano nella letteratura americana e nel cinema per oltre 61 anni. Le sue opere più note sono The Crucible, Erano tutti miei figli (che vinse nel 1947 il Tony Award), e Morte di un commesso viaggiatore, ancora studiato e rappresentato in tutto il mondo. È noto anche per il suo breve matrimonio con Marilyn Monroe (1956-1961), la quale si convertì all'ebraismo per lui. 21 Miller era nato in una famiglia ebrea benestante a New York. Il padre, Isidore, produceva e vendeva abiti da donna, ma cadde in rovina durante la grande depressione; la madre era casalinga. Sua sorella Joan divenne attrice con il nome di Joan Copeland, e lavorò in alcune sue opere. Miller studiò giornalismo e teatro, e si interessò soprattutto al teatro classico greco e alle opere di Henrik Ibsen. Nella primavera del 1936 scrisse il suo primo lavoro, No Villain (pare per vincere un premio di 250 dollari in una gara), ma il risultato superò le sue ambizioni: vinse quello ma anche il premio Avery Hopwood. Raggiunse la fama nel 1947con Erano tutti miei figli, che tratta del proprietario di una fabbrica che vende falsi pezzi di ricambio di elicottero durante la seconda guerra mondiale. Erano tutti miei figli vinse il premio New York Drama Critics Circle e due Tony Awards. Morte di un commesso viaggiatore vinse il premio Pulitzer, tre Tony Awards e il premio del New York Drama Critics Circle. Era la prima volta che un lavoro li vinceva tutti e tre. A giugno del 1956, in pieno furore maccartista, Miller dovette presentarsi di fronte alla comitato di Stato sulle attività anti americane. Il 31 maggio dell’anno successivo fu giudicato colpevole di disprezzo al Congresso per aver rifiutato di rivelare i nomi dei membri di un circolo letterario sospettato di avere legami con il comunismo. In appello, fortunatamente, la condanna fu attenuata. Torniamo in Europa, e dopo un rapido saluto a Federico Garcia Lorca rientriamo anche in Italia. Lorca fu soprattutto poeta, un poeta del tormento, in parte determinato dal senso di colpa che gli provocava la sua omosessualità; ma fu anche drammaturgo, attento al vento 22 di novità che spirava in tutta l’Europa culturale dei primi decenni del XX secolo. Spagnolo, nato nel 1898, amante della musica e della letteratura, viaggiò negli Stati Uniti e a Cuba, non fece mistero della sua simpatia per il governo repubblicano, durante la guerra civile, tanto da finire fucilato per mano dei falangisti, nel 1936. Come autore teatrale, vede arrivare il successo a Barcellona, nel 1927, col dramma storico Mariana Pineda, i cui fondali furono disegnati da Salvador Dalí. Altri suoi testi che merita ricordare, fortemente impregnati di idee futuriste, sono El maleficio de la marìposa (Il maleficio della farfalla), del 1920, gli atti teatrali El paseo de Buster Keaton (La passeggiata di Buster Keaton) e La doncella, el marinero y el estudiantes (La ragazza, il marinaio e lo studente). L’attenzione del governo repubblicano spagnolo per la cultura meriterebbe di essere presa a esempio ancora oggi: nel 1931 García Lorca fu nominato direttore della compagnia Teatro Universitario la Barraca, fondata dal Ministro dell'Educazione, che aveva la missione di portare la propria produzione nelle più remote aeree rurali del Paese. Lorca non si limitò a dirigere, ma ne fu anche attore. Fu durante questo tour con La Barraca, che scrisse le sue opere di teatro più note, denominate 'trilogia rurale': Bodas de sangre, Yerma e La casa de Bernarda Alba. E torniamo finalmente in Italia, con un autore di indiscussa grandezza, erede della grande tradizione popolare e nello stesso tempo ricco di una profondità culturale che lo ha reso famoso in tutto il mondo. 23 Eduardo De Filippo o, più semplicemente, Eduardo (Napoli 24 maggio 1900 - Roma 31 ottobre 1984) era figlio naturale dell'attore e commediografo Eduardo Scarpetta e di Luisa De Filippo. Crebbe nell'ambiente teatrale napoletano insieme ai fratelli Titina e Peppino, rivelando fin da giovanissimo straordinarie doti comiche. I tre fratelli lavorarono insieme negli anni venti sia nell'ambito del teatro dialettale che in quello più eterogeneo del varietà, della rivista e dell'avanspettacolo. Parallelamente Eduardo compose testi di vario tipo, molti dei quali rimasti a lungo inediti: il più antico tra quelli pubblicati, Farmacia di turno, risale al 1920 e apre la raccolta Cantata dei giorni pari. Nel 1929 i tre De Filippo passarono nella compagnia Molinari, per la quale Eduardo, due anni dopo, Eduardo scrisse una delle sue opere più celebri, Natale in casa Cupiello. Successivamente fondò, con l'adesione dei fratelli, la compagnia del Teatro Umoristico "I De Filippo", che tenne banco a teatro dal 1932 al 1944, anno in cui Peppino l'abbandonò per darsi al cinema. La scatenata verve comica dei tre fratelli risaliva alle forme farsesche dell'antica "commedia dell'arte", che Eduardo conosceva bene avendola studiata. Tuttavia Eduardo sentiva il bisogno di abbandonare il "provincialismo" napoletano della compagnia, o per meglio dire di confrontarlo con le forme più prestigiose del teatro contemporaneo: l'incontro casuale con Luigi Pirandello, che ebbe come conseguenze una grande interpretazione dell'opera Berretto a sonagli (1936) e la scrittura della commedia L'abito nuovo, fu decisivo in tal senso. Dopo un periodo di crisi intellettuale, dovuta soprattutto allo scoppio della Seconda guerra mondiale e alle differenti 24 scelte artistiche di Peppino, nel 1948 Eduardo acquistò il semidistrutto Teatro San Ferdinando di Napoli, investendo tutti i suoi guadagni nella sua ricostruzione. Eduardo cercò di salvaguardare la facciata settecentesca del teatro realizzando nel contempo, all'interno, una struttura tecnicamente all'avanguardia per farne una "casa" per l'attore e per il pubblico. Al San Ferdinando interpretò le sue opere ma mise in scena anche testi di altri autori napoletani per recuperare la tradizione e farne un "trampolino" per un nuovo Teatro. Adottò la parlata popolare, conferendo al dialetto napoletano la dignità di lingua teatrale colta, ma elaborò unlinguaggio che andò oltre napoletano ed italiano per diventare una lingua universale. Non c’è dubbio che l'azione e l'opera di Eduardo siano state decisive per fare del "teatro dialettale", fin lì snobbato dai critici, un "teatro d'arte" a tutti gli effetti.. Tra le opere più significative di questo periodo meritano una citazione particolare Napoli milionaria! (1945), Questi fantasmi! e Filumena Marturano (entrambi del 1946); Mia famiglia (1953), Bene mio, core mio (1956), De Pretore Vincenzo (1957), Sabato, domenica e lunedì (1959) scritto apposta per l'attrice Pupella Maggio che ne fu protagonista. Spesso le sue opere furono trasposte nel cinema, a volte da lui stesso: Napoli milionaria!, ad esempio, fu anche un film del 1950 diretto ed interpretato da Eduardo con Totò, Delia Scala e la sorella Titina. Il teatro di Eduardo De Filippo va oltre la comicità "campana", supera i confini del teatro dialettale per diventare teatro puro e senza confini. Eduardo non abbandonò mai il suo impegno politico e sociale che lo vide in prima linea anche ad ottant'anni, quando, nominato senatore a vita, lottò in Senato e sul palcoscenico per i minori 25 rinchiusi negli istituti di pena. Nel 1962 partì per una lunga tournée in Unione Sovietica, Polonia ed Ungheria dove poté toccare con mano la grande ammirazione che pubblico ed intellettuali avevano per lui. Tradotto e rappresentato in tutto il mondo, combatté negli anni sessanta per la creazione a Napoli di un teatro stabile. Continuò ad avere successo e nel 1963 gli venne conferito il "Premio Feltrinelli" per la rappresentazione Il sindaco del rione Sanità (da cui in seguito sarà tratto un film per la televisione interpretato da Anthony Quinn). Del 1974 è Gli esami non finiscono mai, allestito con successo per la prima volta a Roma: tale commedia gli permise di vincere il "premio Pirandello" per il teatro l'anno successivo. Dopo aver ricevuto due lauree honoris causa (prima a Birmingham nel 1977 e poi a Roma nel 1980) nel 1981 fu nominato senatore a vita al posto di Eugenio Montale, e aderì al gruppo della Sinistra Indipendente. Quando morì, la camera ardente venne allestita al Senato. Fu sepolto al cimitero del Verano, dopo solenni esequie trasmesse in diretta televisiva, e dopo il commosso saluto di oltre trentamila persone. Nel teatro italiano, la lezione di Eduardo resta imprescindibile non solo per quanto concerne la contemporanea drammaturgia napoletana e tutta quella fascia di "spettacolarità" tra cinema-teatro-televisione che ha riconosciuto in Massimo Troisi il proprio campione. Tracce dell'influenza di Eduardo si riconoscono anche in Dario Fo ed in tutta una serie di giovani "attautori" come Ascanio Celestini (soprattutto in merito al linguaggio) o di personalità sconosciute al grande pubblico che lavorano nell'ambito della "ricerca". 26 È problematico fermarsi qui. È difficile non parlare, per esempio, di grandi mattatori come Carmelo Bene. Bene è ricordato soprattutto per la sua innovazione del linguaggio teatrale, per lo stile ricercato, quasi barocco, per la sua maestria da interprete e per aver "massacrato" i classici. Da molti è considerato un affabulante ingannatore o un presuntuoso "massacratore" dei grandi testi; per altri è stato uno dei più grandi attori del '900, e questo suo "variare" era un modo per andare contro corrente. Ricordate che abbiamo parlato della differenza fra teatro d’autore e teatro d’attore? Carmelo Bene rappresenta l’estremo opposto del teatro d’autore, è la personificazione del teatro d’attore. Il suo era non solo uno schierarsi contro le classiche visioni del teatro e della drammaturgia: attraverso il suo genio egli rivendicava l'arte attoriale innalzando l'attore da mera maestranza (così definita da Silvio D'Amico) ad artista. Per Carmelo Bene il testo, nato dalla penna di uno scrittore spesso avulso dal problema del linguaggio scenico, non può essere interpretato: deve necessariamente essere creato, o meglio ricreato dall'attore. Carmelo Bene si scaglia contro il teatro di testo, per un teatro di differenza da lui definito "scrittura di scena", un teatro del dire e non del detto, perché per lui il teatro del già detto sarebbe un semplice ripetere a memoria le parole di altri senza crea-tività: quello che Artaud, caro a Bene, definì un "teatro di invertiti, [...] di Occidentali". È l'attore, con la scrittura di scena, a produrre teatro hic et nunc. Il testo è "spazzatura" nella scrittura di scena, perché lo spettacolo va visto nella sua totalità. Il testo ha lo stesso 27 valore di altri elementi come le luci, le musiche, le quinte, ecc. Il teatro di testo, di immedesimazione, è definito da Bene – secondo noi esagerando parecchio - come un teatro cabarettistico. Gli attori che si calano nei ruoli, che interpretano, sono per lui degli intrattenitori, degli imbonitori, dei "trovarobe". Da qui la sua mai sopita ostilità verso attori altrimenti acclamati come Giorgio Albertazzi. Nel teatro di Bene, l'attore è il Creatore. Bene rivendica la scrittura di scena, in cui il testo non è più messo in risalto come nel teatro di testo, ma è anzi martoriato, continuando un discorso iniziato nella prima metà del ‘900 dal francese Antonin Artaud (1896-1948), che già aveva iniziato la distruzione del linguaggio, ma per Bene anche Artaud aveva fallito sulle scene, perché era caduto a sua volta nell’interpretazione. Artaud, inventore del teatro della crudeltà, era innamorato della fisicità del teatro orientale; condannava la tirannia del testo, nell’azione teatrale. La crudeltà del suo teatro non consisteva di violenza fisica, ma di necessità di scuotere il pubblico: una violenta determinazione di scuotere la falsa realtà che, diceva, si stende come un lenzuolo sulle nostre percezioni. Credeva che il testo fosse stato un tiranno sul significato, e in sua vece spingeva per un teatro fatto di un unico linguaggio, a metà strada tra gesto e pensiero. Credeva anche che le attività sessuali, inclusa la masturbazione, fossero dannose al processo creativo e dovessero essere evitate se si voleva aspirare a raggiungere un traguardo di purezza nell'arte. Carmelo Bene distrugge l'Io (immedesimazione in un ruolo) sulla scena, a favore di un teatro del soggetto-attore alla cui superbia è affidata la scrittura di scena. 28 Un’ultima nota non possiamo non dedicarla al più recente premio Nobel italiano, un vero punto di unione fra la tradizione più antica e il rinnovamento più audace: Dario Fo, che si autodefinisce un giullare, è impegnatissimo nel teatro di denuncia sociale e politica e nello stesso tempo è attento cultore della tradizione più antica della Commedia dell’arte; è capace dello sberleffo più sghignazzante e della più raffinata analisi di un testo poetico, o esegesi di un quadro del Rinascimento. Tanto per cambiare è conosciuto ed apprezzato, come autore, più all’estero che in patria, dove qualcuno ha perfino storto il naso quando gli è stato assegnato il Nobel. Chiudiamo con un interrogativo al quale mi guardo bene dal dare risposta: quale futuro per il teatro, oggi che l’effetto speciale, il colpo d’occhio, la sensazione sono così determinanti in ogni forma di spettacolo, accanto all’imprescindibile necessità di produrre quanto più reddito possibile? Il Teatro, oggi, non è un’attività redditizia. Se non fosse per noi amatoriali e per le sovvenzioni pubbliche, almeno in Italia sarebbe già morto da un pezzo. Anche i professionisti, poi, a causa dei costi spaventosi degli allestimenti ripiegano su spettacoli ridotti all’osso, one-man-shows incentrati sulla capacità di richiamo di personaggi spesso resi famosi dalla televisione, che un vero legame con il teatro, una vera formazione attoriale neanche ce l’hanno. D’altra parte è sempre più complicato mettere in scena testi complessi, con cast nutriti e scenografie elaborate. 29 Una cosa è sicura: non ci sarà futuro, per il Teatro, se non ci sarà educazione al Teatro. Purtroppo, in Italia, quello dell’educazione è un tasto doloroso, non solo per il Teatro, ma per tutte le arti in generale, oso dire per la cultura, che sembra essere l’ultimo dei problemi di chi predispone i programmi di formazione scolastica. Perciò sta a noi, che il Teatro lo amiamo, suscitare in chi abbiamo intorno l’entusiasmo per questa stupenda forma d’arte, perché nessuno, più di chi ha fede nel Teatro, può riuscire ad aumentare il numero dei seguaci di questa che, insieme alla Musica e, in generale, all’Arte, in tutte le sue forme, ritengo sia l’unica forma di religione capace di renderci migliori, perché invita alla riflessione senza additare a nemici o lanciare anatemi, che educa senza imporre nulla e diverte senza intontire. L’unica religione che quindi è bene, anzi, necessario, praticare. 30