Ho sempre “lottato” contro il facile pregiudizio che “vede” paesi economicamente deboli altrettanto moralmente degradati. Come se l’economia di un paese influenzasse la morale dei suoi abitanti. Portando alle estreme conseguenze questo pensiero si arriva a dire che i piccoli soldati dell’Africa non soffrono di “disturbo post-traumatico da stress” oppure che le piccole prostitute “sono orgogliose” di esserlo, perché con questo “mestiere” possono sfamare la loro famiglia. In quei paesi, poi, nei quali le violenze e aggressioni sono all’ordine del giorno queste vengono considerate peculiarità “culturali”. Negare che una persona possa provare le emozioni primarie (e universali), quali paura e disgusto, o affermare che il dolore fisico che percepisce sia influenzato “culturalmente”, significa “de-umanizzare” un altro essere umano. Significa vedere il mondo attraverso un prisma etnocentrico, per mezzo del quale tutto il mondo viene giudicato in ragione delle convenzioni e abitudini della propria cultura d’appartenenza. E’ ancor più significativo quando questo tipo di pensiero emerge in un ambiente, come quello delle famiglie accoglienti dei bambini slavi, che dovrebbe essere particolarmente curioso, sensibile, tollerante e, direi, competente nei confronti delle altre culture, capace, cioè, di valorizzare le differenze culturali, non di “accusarle” frettolosamente perché diverse dalle proprie in termini di usanze e costumi. La “nuova” generazione di ragazzi bielorussi, cresciuti fra Bielorussia e Italia, è il prodotto di un’esperienza unica nel suo genere, i cui vantaggi e positività potranno essere misurati con precisione solo nel futuro. La famiglia italiana che accoglie un bambino con l’umiltà che rende capaci di imparare da lui anche in termini culturali, fornirà a sua volta al ragazzo una base sicura su cui iniziare ad apprendere in modo consapevole e con emozioni positive tutto quello che c’e da imparare in Italia. Non soltanto la lingua italiana, ma una miriade di modalità di pensare, di valutare, di rispettare ecc. In questo modo non soltanto le famiglie italiane acquisiranno una nuova forma mentis, ma anche i ragazzi costruiranno un’Identità biculturale, come esito di un continuo processo di “mescolanze” delle culture con le quali sono venuti a contatto. Laddove, invece, l’accoglienza dei bambini bielorussi da parte delle famiglie italiane sarà caratterizzata esclusivamente dalla supremazia della dimensione affettiva (per le più svariate ragioni: la temporaneità dell’incontro, la storia così povera di affetti dei bambini provenienti dagli internat,) si intraprenderà la strada della generosità e dell’oblatività, che conduce in primo luogo a integrare, in ogni senso e prima possibile, il ragazzo nella nuova famiglia e nel nuovo Paese, insomma, ad italianizzarlo, occidentalizzarlo in modo precipitoso. L’affettività rappresenta senz’altro il filo conduttore principale del progetto affidatario, ma ha un suo prezzo. Questo percorso, in primo luogo, porta ad aspettarsi riconoscimento e gratitudine, ed impone una tendenza ad annullare a fin di bene la diversità culturale dei nuovi arrivati. Ma questi nuovi arrivati, anche se piccoli, sono comunque portatori di percezioni e segni, di modi di pensare, interpretare, esprimersi nati in una terra diversa, sono portatori di tradizioni, conoscenze, credenze proprie della loro cultura d’origine. Il rischio più grande è quello di considerarli soggetti quasi senza storia e, in secondo luogo, pensando al loro stato di abbandono, di abuso, di deprivazione, portatori di una storia da dimenticare. Dimenticando che proprio “la memoria è il vero segreto della vita, perché ci racconta che – comunque siano andate le cose – abbiamo vissuto, scritto la nostra storia nella nostra mente e per gli altri contiamo se abbiamo avuto un’esperienza”. (D.Demetrio)