Antigene Australia…ovvero, la diagnostica dell`Epatite B HBV

Antigene Australia…ovvero, la diagnostica dell’Epatite B
HBV - Particella di Dane
Il virus dell’epatite B (HBV) è una delle principali cause di insufficienza epatica e di carcinoma
epatico insieme al virus dell’epatite C: l’OMS stima che nel mondo 2 miliardi di persone abbiano
contratto l’infezione e che 360 milioni di persone siano cronicamente infette. Quando veniamo
sottoposti ad uno screening per questa infezione (per la quale esiste un vaccino, che nel nostro
Paese è obbligatorio per tutti i nati a partire dal 1991) otteniamo numerosi dati, che spesso non sono
facili da interpretare. Facciamo dunque un piccolo riassunto dei marcatori di questa infezione.
Partiamo col considerare il virus completo, costituito dalla cosiddetta particella di Dane: si tratta di
una particella sferica che presenta un core centrale (che contiene il DNA circolare, parzialmente a
doppia elica) circondato da un involucro proteico esterno la cui proteina principale è l’HBsAg,
ovvero il marker principale di infezione. Nel core è presente la proteina HBcAg (che per la sua
posizione all’interno della particella virale risulta difficile da rilevare nel sangue), mentre l’HbeAg
è una proteina che viene escreta ed è anche nota quale proteina del precore per la posizione del suo
gene corrispondente all’interno del DNA virale.
Andamento sierologico dell'infezione da HBV (fonte: www.cardiologiapertutti.org)
I primi marker di infezione sono rilevabili già poche settimane dopo l’infezione, prima della
comparsa della sintomatologia. Il primo a comparire è l’HbsAg, ovvero l’“Antigene Australia”
(scoperto nel 1965 da Blumberg), che è indice CERTO di infezione da HBV. Tale antigene rimane
in circolo fino alla comparsa degli anticorpi anti HBsAg ovvero fino alla sieroconversione, che si
verifica generalmente dopo alcuni mesi dall’infezione acuta. Se l’HBsAg permane nel sangue per
un periodo superiore ai 6 mesi, il paziente ha contratto un’infezione cronica. Se troviamo gli anti
HBsAg in assenza di tutti gli altri marker di infezione da HBV, significa che il paziente è stato
vaccinato.
Gli anticorpi anti HBcAg sono rilevabili poco dopo l’HBsAg e sono fondamentali per riconoscere
l’infezione acuta (classe IgM); di solito vengono dosati gli anti-HBc totali (lgM ed lgG), ma è
possibile anche far determinare separatamente IgG ed IgM.
Se nel sangue è presente l’HBeAg, ciò significa che il virus si sta replicando attivamente: di
conseguenza il paziente è contagioso. Inoltre, nell’ambito dei pazienti con infezione cronica, la
presenza di tale antigene è legata a un danno epatico continuo e quindi ad una prognosi
peggiore. C’è da dire che esiste un ceppo mutato dell’HBV che dà una sieronegativizzazione
dell’HBeAg (con anti HBeAg positivi) ma si caratterizza ugualmente per attiva replicazione del
virus e danno epatico continuo. Nell’infezione acuta la comparsa degli anti HBeAg indica l’inizio
della risoluzione dell’infezione ed è un indice di evoluzione favorevole della malattia.
Altro marker importante è il livello ematico di DNA del virus: si tratta di un indice estremamente
sensibile di replicazione virale attiva, che permette di valutare la carica virale in vista di un
trattamento antivirale o a trattamento iniziato (per valutarne l’efficacia). Ciò è importante
soprattutto nel soggetto cronicamente HBsAg positivo: se il soggetto presenta livelli di HBV DNA
>20.000UI/ml l’infezione è attiva e il paziente potrebbe sviluppare un’epatite cronica. Se i livelli
sono <20.000 UI/ml, il paziente è un portatore sano (il portatore sano, inoltre, non presenta
HBeAg ed ha gli anti-HBeAg).
Chiaramente, in tutti i casi è fondamentale valutare il danno d’organo dosando anche gli enzimi
epatici, in particolare i livelli di ALT (alanina amino transferasi).
Sierologia dell'HBV
Due parole sul destino del portatore sano: il 70% dei pazienti rimane tale, anche se talora si rilevano
occasionali aumenti delle transaminasi (ed eventualmente danno epatico cronico fino alla cirrosi); i
rimanenti possono andare incontro alla risoluzione dell’infezione (con scomparsa dell’HBsAg e
comparsa degli anti HBsAg) o alla sua riattivazione con comparsa di HBeAg.
Vi ricordo infine che l’HBsAg può oggi essere prodotto per mezzo della tecnica del DNA
ricombinante per essere utilizzato come vaccino per l’HBV: tale vaccino protegge anche
dall’infezione da virus dell’epatite D, dal momento che l’HDV, per potersi replicare, necessita che
l’epatocita sia infettato dall’HBV (in pratica, per poter produrre il virus maturo l’HDV necessita
dell’HBaAg per utilizzarlo come proprio involucro).
Analisi immunologiche
La VES e la forza delle idee
Alcuni lo considerano un test sorpassato, per altri continua a rappresentare un semplice ed utile
riferimento… ma di cosa stiamo parlando? Ma della VES ovviamente. VES sta per velocità di
eritrosedimentazione degli eritrociti, ed è sicuramente uno degli esami di laboratorio attualmente
più eseguiti, per capire “se qualcosa non va” e “quanto è grave il danno”.
VES - Metodo Westergren (fonte: https://m3e.meduniwien.ac.at)
Il metodo più usto è il Westergren: si pongono 2 ml di sangue reso incoagulabile in un tubicino
mantenuto in posizione verticale e si lasciano sedimentare gli eritrociti (i globuli rossi).
La sedimentazione avviene molto lentamente e dopo un’ora si misura una sedimentazione pari a 010 millimetri nell’uomo e 1-15 nella donna. Nel neonato non si superano i 2 mm/ora, mentre nei
soggetti anziani maschi si può arrivare a 38 mm/ora e a 63 mm/ora nelle femmine, anche se valori
superiori a 50 mm/ora nell’anziano sono spesso associati a malattia…. Per motivi “politici” molti
laboratori danno per scontato il valore dell’ adulto senza specificare che nell’anziano sono
accettabili anche valori più alti: l’interpretazione viene affidata alla cultura del medico.
La forza che spinge le emazie a sedimentare è il loro peso (il peso di una particella sferica aumenta
con il cubo del raggio), ma a questa si oppone la resistenza del plasma. Quando c’è qualcosa che
non va, in particolare in caso di infezioni, di malattie infiammatorie sistemiche, di neoplasie o di
danno tissutale esteso, all’interno del sangue aumenta il fibrinogeno, in quanto le reazioni
infiammatorie a questi processi provocano la liberazione di citochine che stimolano il fegato a
produrre delle proteine (dette per tale ragione “proteine di fase acuta”), che contribuiscono alla
risposta di difesa dell’organismo. Il fibrinogeno determina una aggregazione tra gli eritrociti, che ,
formando in questo modo particelle di massa maggiore, sedimentano più velocemente, producendo
in un’ora una sedimentazione maggiore (la VES aumenta, >10 mm).
Quindi la VES da quello che si è detto non è un test specifico, ma ci avverte che qualcosa non sta
filando per il verso giusto. Un risultato normale a volte non esclude l’assenza di malattia, come un
risultato aumentato a volte non ne indica la presenza, come nel caso della gravidanza, in cui il
fibrinogeno aumenta sempre. Anzi la VES fu scoperta proprio durante la gravidanza, mentre si era
alla ricerca di alterazioni ematologiche in questo particolare periodo della vita.
Il fenomeno dell’aumentata velocità di eritrosedimentazione è noto fin dall’ antichità, ed ha
sicuramente avuto un enorme impatto. Infatti era uso comune raccogliere il sangue in un recipiente
dopo aver effettuato un salasso, sangue che ovviamente dopo un po’ coagulava. Se il paziente aveva
la VES alta, i globuli rossi avevano il tempo di sedimentare di alcuni mm prima della coagulazione,
e dopo che questa era avvenuta il sangue risultava costituito da due parti: una porzione rossa in
basso costituita da eritrociti e una porzione in alto, gelatinosa e giallastra. Agli occhi degli antichi,
ciò era da considerarsi un evento anomalo, ed indicava che il sangue di quel paziente conteneva un
materiale anomalo, forse il pericolosissimo “flegma”…… Questo sangue “anomalo” venne
considerato troppo denso e lo strato di fibrina divenne noto come “crosta flogistica”. Secondo gli
antichi l’ unica soluzione era salassare di nuovo e ciò portava ad anemia, ma più si è anemici e più
si ha una VES alta (per l’emodiluizione che si ottiene in risposta alla perdita di sangue). Si entrava
quindi in un circolo vizioso. Fino al 1800, andava anche peggio alle donne incinte, che avendo una
VES aumentata fisiologicamente, venivano salassate di continuo. Nessuno sa quanti pazienti sono
morti a causa di questa terapia.
Antibiogramma
L’antibiogramma è un test di laboratorio che ha lo scopo di testare la sensibilità di un
microrganismo ai farmaci antimicrobici (antibiotici e antifungini). Questo esame, di semplice
esecuzione quando si ha un campione biologico su cui eseguirlo, è molto importante per indirizzare
la scelta del farmaco verso quello più efficace, evitando di sceglierlo sulla base dell’abitudine
(pratica che può facilitare la comparsa di farmacoresistenze).
Antibiogramma
Esistono diverse tecniche per eseguire l’antibiogramma, ma la più diffusa è il metodo Kirby
Bauer o della diffusione su piastra. Con questa tecnica, una volta isolato e identificato un
microrganismo da un campione biologico (mediante coltura su terreni particolari oppure con
colorazioni specifiche), se ne preleva una colonia con un tampone e lo si striscia su un terreno di
coltura adatto (tipicamente piastre Agar sterili) in modo uniforme di modo che lo sia anche la
crescita microbica. A questo punto si applicano sulla piastra alcuni dischi di carta bibula impregnati
di antimicrobici a concentrazioni note e si mette il tutto ad incubare per 18-24 ore a 35 gradi °C, per
consentire la crescita dei germi. Terminato il periodo dell’incubazione si va a misurare il diametro
degli aloni di inibizione della crescita che si sono formati attorno al disco per la diffusione del
farmaco nel terreno di coltura e le cui dimensioni sono proporzionali alla sensibilità del germe al
farmaco (più è sensibile, più sarà grande il diametro).
La diffusione fa si che il farmaco si trovi a concentrazioni via via inferiori allontanandosi dal disco.
Il diametro dell’alone vine quindi confrontato con tabelle standard, in cui ogni misura dà un indice
di sensibilità: il germe potrà quindi essere definito sensibile (S) o resistente (R), oppure a
sensibilità intermedia (I: in questi caso è meglio non scegliere il farmaco perchè potrebbe non
funzionare o funzionare solo ad alti dosaggi).
L’antibiogramma fornisce una indicazione sulla capacità batteriostatica del farmaco, ovvero la
MIC (Minimum Inhibiting Concentration – Minima Concentrazione Inibente ovvero la
concentrazione minima del farmaco in grado di inibire la crescita batterica).
L’antibiogramma può essere effettuato anche su terreno liquido: in questo caso si preparano delle
provette con uguale quantità di terreno a cui vengono aggiunte diluizioni scalari del farmaco da
saggiare. Quindi si inocula una quantità standard di microscorganismo e dopo 18-24 ore di
incubazione si valuta la presenza di crescita microbica. La provetta con più alta diluizione in cui
non si sono replicati i microbi (basta vedere la torbidità del liquido) dà il valore della MIC. Esistono
anche metodi automatizzati e semi automatizzati per eseguire questo test, con più file di pozzetti
con i diversi farmaci alle diverse diluizioni.
Di recente è stato introdotto anche l’E-Test, in cui si applicano sulle piastr Agar delle strisce
imbevute di farmaco: il principio è analogo a quello del metodo Kirky Bauer, e in questo caso la
MIC si legge sulla tacchetta relativa al punto di intersezione dell’alone sulla striscia.
La MIC calcolata con l’antibiogramma in vitro è una approssimazione di ciò che accade in vivo:
non dimentichiamo che la distribuzione dei farmaci nei vari distretti dell’organismo dipenda da
numerose variabili, pertanto l’antibiogramma deve essere ogni volta interpretato considerando il
tipo e la sede dell’infezione.